Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: StagTree    22/03/2021    3 recensioni
Doccia fredda: ricorda come Marco gli si era accalcato ballando, il colletto coreano della camicia gli si era scollato, gli si vedeva l'osso della clavicola, il trapezio scoperto, Jean, le lentiggini - ad un morso di distanza dalla pace dei sensi.
storia partecipante al contest “let’s cliché!” indetto da _vintage_ sul forum di efp con il prompt “ballo della scuola”
( unrequited jeanmarco / aruani + jeanarmin )
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Armin Arlart, Jean Kirshtein
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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non mi piace tanto ma è due settimane che riscrivo la stessa cosa quindi alla fine mi sono accontentata di quello che avevo di finito. qui il link del contest e della pagina dell’autrice su efp e la sua pagina giudice

 

*

 

 

things could be so different now / it used to be so civilized
you will always wonder how
it could have been if you’d only lied (x)

 

C'è una voce nella folla che grida, qualcuno ha messo le etichette del succo di frutta sulle bottiglie di birra, un gruppo di amici che ride, qualcuno che incappucciato versa la vodka nel punch. La palestra cadrà prima delle due con tutta 'sta gente che salta, urla qualcun altro; se non ci cade prima il tetto addosso, un altro ancora – e lento, sciolto,

 

Jean si fa strada tra la massa fremente (arriva il drop!, arriva il drop!) con un pacchetto di sigarette tra le dita, ignora l'odore di fumo dei bagni quando lo butta nel cesso; esce dalla porta sul retro e l'aria che respira non sa più di stagno. Doccia fredda: ricorda come Marco gli si era accalcato ballando, il colletto coreano della camicia gli si era scollato, gli si vedeva l'osso della clavicola, il trapezio scoperto, Jean, le lentiggini – ad un morso di distanza dalla pace dei sensi, ma forse dovrebbe essere più ubriaco per crearsi un alibi, dare la colpa ad una reazione connaturata che per i più sciocchi è un'azione giustificata dall’insania, il contagio del fumo verde che respira tutte le volte che deve andare a pisciaree con tutta la birra che ho bevuto, eh, sai com'è. Le sigarette erano già nella sua tasca, e non fuma perché fa male, pensa, perché le avrebbe fumate già tutte; mi bastava che allungassi la mano, Marco, mi bastava la mano, le dita callose sul mio fianco, l'odore del tuo sudore; un assaggio di pietà, l'orgasmo goliardico in sogni proibiti, e mi manca la lingua, Marco, mi manca la lingua. Nessuna fretta; è Mina a rubargli lo spot, se lo prende a braccetto, Marco, gli chiede di ballare quando tutto si ferma e la folla è più sobria mentre il DJ cambia la musica. Lo trascina via; Marco lo saluta con la mano e gli urla a più tardi!, sorride il sorriso dei secoli, e Jean,

 

Jean fugge. Attorno a lui riprendono a saltare e le luci si spengono e accendono, il mondo si muove a scatti, e lui finisce fuori. C'è gente con lui: ragazze in tacchi che fumano, parlano del niente. Jean gira l'angolo della palestra e si siede sul bordo del marciapiede sul retro, sotto un lampione, mette le mani nei capelli – doccia fredda, pensa; se respiri dal naso passa prima. Una figura nell'ombra lo chiama, seduta sullo stesso marciapiede, poco più distante – Jean, dice, Jean, è Armin Arlert, e Jean alza la testa, tiene le mani a mezz'aria. E ancora, Jean, meno entusiasta, mormorio, segretezza sbieca – e Jean gli si avvicina, si guardano per poco, fuori dalla luce dei lampioni, chiusi tra la palestra e l'edificio alto del liceo.

 

Armin non stava piangendo; ha i capelli sfusi e la cravatta storta, blu come l'oceano, hai degli occhi stupendi, Armin Arlert – è mosso da un'adrenalina tremole e indignitosa, si toccano le braccia con un'esasperazione mutuale - Jean gli dice, ho bevuto, naso contro naso, e Armin scuote la testa, non fa nulla, sussurra, anche io, e si baciano, lenti, sciolti,

 

e c'è un disgusto che li tiene seduti a terra, si respirano addosso, gemiti strozzati dall'imbarazzo d'esser visti – d'esser vivi, colti in flagrante, beccati ad annegare nella loro vergogna, abbracciare l'unico salvagente rimasto a galla; prendono fiato solo quando sentono la testa girare, e Jean, dice Armin, ha le mani infilate sotto la sua giacca, Annie mi ha detto che avrebbe dormito da Bertholdt questa sera. Ovviamente; sono una magra consolazione, gli risponde, Jean, e Armin chiude gli occhi – mi dispiace, dice, ho bevuto. Lo so, pensa Jean, e lo so, dice, anche io; ascoltano i muri della palestra tremare di musica nel silenzio, si tengono l’un l’altro. Marco - inizia, Jean, guarda per terra, gli stringe le braccia - Marco è andato a ballare con Mina. E allora c'è una comprensione reciproca, un'intesa triste, triste impresa, fallite imprese – calde, ferventi, scaglie di carbone che fuggono dal fuoco. Si scambiano sguardi come gemme preziosissime, tesori di indicibili menzogne; dovremmo tornare dentro, dice Armin, filantropia vigliacca – dovremmo parlarci, continua, ben consapevole che sarebbe rimasta una teoria impraticabile – ma dentro tornano, pietosi, lenti, sciolti,

 

inasprendo il loro spicchio allegro di mondo; Ymir e Historia stanno salutando dal palco una folla acclamante, e quando scendono – e Historia alza la gonna lunga per non inciampare sugli scalini, graziosa, gentile – vengono accolte con un entusiasmo spensierato, chiamano il loro nome in coppia; Historia, piccola, bellissima, viene lanciata per aria con adatto accompagnamento musicale, la corona di plastica non si sfila dalla sua testa, agganci e mollette – e Ymir la bacia, la prende al volo, cambia la musica, scoppia un applauso e pure Armin applaude, pure Jean applaude, e Armin sorride, malgrado tutto, slegati entrambi dal tepore confortante di un bacio che tappa le crepe, finge che non esistano. Jean cerca Marco nella folla dei ballerini lenti, coppie lente, sciolte,

 

si immagina di ballare il lento con Marco tra le mani, il mondo tra le mani, naturalmente incastonate come pezzi di un puzzle – al centro della palestra dove tutti vedono, girano su se stessi senza un senso preciso, si lamentano quando si schiacciano i piedi a vicenda, si prendono in giro e godono della loro intimità pulita e riservata; si immagina Marco con una corona di plastica tra i capelli, che gli sorride, caldo, accogliente, che appoggia la fronte alla sua mentre si muovono languidi sul parquet – che saluta vecchi amici sul palco, al suo fianco, acclamato da tutti, amato da tutti, amato,

 

ma Jean apre gli occhi, e Marco sta ballando con Mina, tra le coppie più in secondo piano, nella schiera di pedoni; vuole chiedere ad Armin di uscire, ma Armin non è più al suo fianco – debole; è un debole, pensa, entrambi lo siamo, siamo deboli, pensa – e si rincuora, disilluso, di non aver nemmeno dovuto provare.

 

Si tocca le tasche dei pantaloni, Jean, controlla di avere ancora le chiavi dell'auto e con il passo fitto si fa strada tra la folla, in fretta, vincolato,

 

da una lunga serie di sentimenti altalenanti e patetici; non ha le lacrime agli occhi, lucidi, vulnerabili, ma come Armin, Jean non piange – come Armin, Jean non respira, non si dà voce. Sale in auto e tiene la radio spenta; dà un pugno sul volante, urla chiuso tra i finestrini scuri, gabbia di metallo – Jean soffoca nel silenzio, disfa i capelli unti di gel, e torna a casa.

  
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