La
canzone del
cuore
Amélie
asciugò l’ultimo bicchiere e lo
ripose nello scomparto in alto, poi sciacquò la superficie
del lavello e passò
lo straccio per asciugare. Si diresse velocemente verso la sua camera
per
prendere il canestro con le foglie di palma: dopo cena andava sempre
sulla
spiaggia per fare cestini di foglie intrecciate da vendere ai turisti.
Le
piaceva guardare il tramonto e vedere il sole sciogliersi nel cielo
come una
saponetta lasciata troppo nell’acqua.
Stava
uscendo dalla sua stanza quando,
dalla porta aperta sul corridoio vide il suo fratellino prepararsi per
andare a
letto. Jerome aveva dodici anni, ma non era come gli altri bambini: lui
viveva
in un mondo tutto suo, fatto di regole, misure e numeri.
Amélie si morse il
labbro quando lo vide piegare i calzini prima di metterli nella cesta
dei panni
sporchi. Chi piegava i calzini per metterli da lavare? Nessuno che lei
conoscesse, nessuno a parte Jerome.
Suo
padre le passò accanto e si fermò
a guardare oltre la porta anche lui. Amélie si
girò verso l’uomo che le sorrise,
triste; non aveva più visto suo padre sorridere da quando la
mamma li aveva
abbandonati, sei mesi prima.
“Vai
alla spiaggia?” le chiese e
Amélie annuì: era il posto in cui si rilassava,
in cui le piaceva stare da sola
a pensare. Le fece un cenno con il capo ed entrò in bagno.
Tante
volte si era ritrovata a pensare
a lui, al suo silenzio, al suo modo di stare in disparte. Era la mamma
quella
solare, di loro due. Sua madre si era trasferita sull’isola
perché amava suo
padre, ma era nata in Francia e non aveva mai perso del tutto il suo
accento,
tanto che qualcuno del villaggio la chiamava ‘la
straniera’ o ‘la francese’.
Lei rideva di questi soprannomi e non se la prendeva mai. Loro, invece,
da
quando erano rimasti soli facevano fatica anche a parlarsi.
Amélie
si girò e spostò di nuovo lo
sguardo verso il fratellino e lì si bloccò:
Jerome stava sorridendo. E se c’era
una cosa che faceva ben poche volte, era sorridere. Non
perché fosse un bambino
capriccioso o sempre arrabbiato: semplicemente rideva poco.
Così
rimase a fissarlo: i denti,
regolari e bianchissimi, erano mostrati appena nello spazio fra le
labbra, in
un sorriso quasi sognante. Poi, come era apparso, il sorriso
svanì. Amélie fece
appena in tempo a rendersene conto, ma era convinta di averlo visto
davvero.
Jerome aveva sorriso. Scosse le spalle e, velocemente, uscì
dalla porta della
cucina: doveva arrivare sulla spiaggia presto, altrimenti si sarebbe
fatto
subito buio.
Arrivata
in spiaggia, si sistemò sulla
sabbia, nel suo angolino preferito, vicino a una duna. Il mare era
mosso in
modo gentile, senza tempeste, ma con onde di media altezza.
Amélie lo continuò
a guardare, ipnotizzata: non era più entrata in acqua da quando la mamma se
n’era
andata.
Si
mise a intrecciare le foglie in un
gesto che conosceva da quando era bambina e continuò
così, lanciando ogni tanto
qualche occhiata al sole che si tingeva di fuoco e spariva
nell’oceano. Solo
un’altra persona era lì con lei: un ragazzo,
probabilmente più grande, che
stava facendo surf. Ed era bravo. Lo aveva visto anche nei giorni
precedenti,
ma doveva essere un turista, anche se non era alta stagione.
Quando
il ragazzo uscì dall’acqua e
lei alzò il viso dal suo intreccio, lui sollevò la
mano in un gesto di saluto.
Amélie si alzò di scatto, radunando velocemente
tutte le sue cose, e
dirigendosi verso casa, anche se di solito rimaneva sulla spiaggia
ancora un
po’, dopo che si era fatto buio.
Arrivò
a casa trafelata e si appoggiò
alla porta della cucina, una volta che l’ebbe chiusa alle sue
spalle. Quando il
cuore riprese regolarmente il suo battito, si diresse in camera sua nel
silenzio e si preparò per andare a letto.
***
Il
giorno dopo, Amélie guardava suo
fratello che faceva colazione: non c’era niente di diverso in
lui, infatti non
sorrise mai, per tutto il giorno.
Prima
di andare a letto, la ragazza si
appoggiò al muro del corridoio, proprio vicino alla stanza
di Jerome e lo spiò.
Sì, lo stava spiando, non c’era un altro modo per
descrivere ciò che stava
facendo, ma Amélie voleva proprio sapere cosa aveva
scatenato il sorriso sul
volto del ragazzino il giorno prima.
Riuscì
a osservarlo per ben venti
minuti, in tutte le sue piccole manie, i gesti ripetuti, le cose
spostate e
rimesse a posto, fino a quando la ragazza non vide, sul comodino di
Jerome, una
conchiglia. Era una di quelle grosse conchiglie con le striature,
quelle che in
paesi dove il mare non c’era le fabbriche realizzavano con la
plastica, ma lì
da loro, si trovavano praticamente ovunque.
Era
una bella conchiglia, chiara, con
delle linee dalle sfumature rosa e blu che scivolano sulle coste
rigide. Il
ragazzino la prese e la portò all’orecchio. In
quel momento il suo viso si
distese: gli occhi chiusi, il mezzo sorriso sulle labbra e il volto in
estasi,
come se fosse cullato dal mare.
Poco
dopo, Jerome appoggiò di nuovo la
conchiglia sul comodino e radunò le cose per andare in bagno
a prepararsi per
dormire. Amélie si spostò dal corridoio e
aspettò che lui lasciasse la stanza
per precipitarsi dentro.
Una
volta davanti al comodino del
fratello, allungò la mano e prese la conchiglia,
soppesandola: era spessa,
infatti era più pesante dalle solite conchiglie, ma per il
resto non aveva
niente di particolare. La portò all’orecchio,
lanciando allo stesso tempo
occhiate alla porta, ma non sentì niente. La
portò davanti agli occhi, era
normale che non si sentisse niente: solo nelle storie e nei film, dalle
conchiglie si sentiva il rumore del mare.
Jerome
tornò in quel momento e la
trovò lì. “Che fai?”
Amélie
scosse la testa e le spalle, in
un gesto noncurante. Si avviò verso la porta per uscire e
andare in spiaggia ma
poi, troppo curiosa, sull’uscio si fermò e si
girò verso il fratello. “Cosa
senti nella conchiglia?”
Jerome,
un bambino che sua madre
chiamava ‘il mio ometto speciale’,
inclinò la testa e le disse: “Sento la mamma
che canta la sua canzone”.
Amélie
spalancò gli occhi: la mamma
cantava prima di andare a letto. Era un suono che lei ricordava ancora
e doveva
essere la stessa cosa per Jerome. Nell’imbarazzo di non poter
dire di sentirla
anche lei, annuì e uscì dalla stanza velocemente,
scontrandosi con suo padre
sull’uscio. Dal suo sguardo triste la ragazza capì
che aveva sentito la
conversazione, così si affrettò a raggiungere la
spiaggia.
Mentre
intrecciava le foglie
nervosamente, Amélie ripensò a sua madre: sei
mesi prima era morta a causa di
un brutto male. Aveva passato l’ultimo mese di vita a letto
ed era spirata come
una foglia di palma dimenticata al sole.
Un
mese dopo la sua morte, Amélie
aveva scoperto che sua madre non aveva voluto curarsi, ma aveva
preferito
lasciarsi morire. Era una cosa che l’aveva fatta arrabbiare:
se si fosse
curata, ora sarebbe stata lì con loro. Aveva sentito il
dottore dire a suo
padre che lei ‘aveva fatto una scelta’, ma secondo
Amélie, sua madre aveva
semplicemente deciso di non combattere e così aveva perso.
Aveva perso loro e
loro avevano perso lei. Era una cosa che la riempiva di rabbia.
“Ciao,
Amélie.”
La
ragazza sobbalzò al suono di quella
voce. Alzò gli occhi e guardò il ragazzo con la
tavola da surf, in piedi lì
vicino a lei, mentre i suoi capelli scuri gocciolavano acqua salata e
il suo
sorriso sfrontato la faceva sentire più piccola dei suoi
sedici anni.
“Ci
conosciamo?” chiese, quasi
balbettando. Si guardò intorno per vedere se ci fosse
qualcun altro a parte
loro sulla spiaggia e si rese conto che si stava facendo buio. Presa
com’era
dai pensieri di sua madre non si era accorta del tramonto.
“Sono
Hiapo, non ti ricordi di me?” Il
sorriso del ragazzo si spense, ma sul viso di
Amélie se ne dipinse uno spontaneo, mentre
realizzava le sue parole.
“Hiapo!
Non ti avevo riconosciuto!”
Hiapo era un ragazzo dell’isola, prima che se ne andasse in
un college del
continente, e abitava in fondo al paese; loro erano cresciuti insieme.
Amélie
continuò a guardarlo, cercando di memorizzare tutti i suoi
cambiamenti: non lo
vedeva da due anni.
“Mi
hanno detto che sono cambiato
molto… neanche mia nonna mi ha riconosciuto”
esordì, quasi imbarazzato. “Vieni
ancora tutte le sere. Ma non hai mai fatto il bagno: una
volta…” disse, mentre
si asciugava i capelli con un asciugamano.
Amélie
lo interruppe prima che lui
raccontasse di quando passavano tutta l’estate
nell’acqua. “Non nuoto più…
da
dicembre…”
Lui
annuì e lei lo vide un po’ in
imbarazzo. Amélie immaginò che sapesse
già tutto. “Mi spiace di non essere
tornato per il funerale…” disse, infatti. La
ragazza scosse le spalle e lui le
si sedette accanto.
“Mio
padre dice che sei arrabbiata.”
Amélie
sbuffò: il padre di Hiapo era
il dottore che aveva curato sua madre e le loro famiglie si conoscevano
da
tutta la vita.
“Ma
che ne sa tuo padre? Io non sono
arrabbiata per niente!” La voce stridula e nervosa
contrastava con le sue
parole, mentre lei si rendeva conto quanto fosse vero: era arrabbiata
con sua
madre. Ce l’aveva con lei per quello che le aveva nascosto,
per essersi
lasciata morire invece che tentare di restare in vita per lei. Ma
soprattutto
perché Amélie sentiva la sua mancanza ogni giorno.
Hiapo
le bloccò un braccio mentre lei
stava per scappare e quando Amélie, trattenendo le lacrime
scosse il capo, lui
continuò: “Non volevo… “
“Io…
È vero, sono arrabbiata” ammise e
si sgonfiò come se avesse trattenuto quel segreto da troppo
tempo e si sfogasse
solo in quel momento. Chissà, forse era proprio
così. “Sono arrabbiata con mia
madre perché se si fosse fatta aiutare, se avesse lasciato
che i dottori la
curassero, ora sarebbe qui. Con noi. Con me”.
Raccontò
a Hiapo, l’amico d’infanzia,
quello che aveva passato e di come avesse saputo che sua madre non
aveva voluto
cure finché non era stato troppo tardi e lei lo aveva
sentito come un
tradimento.
Dopo
un’ora, passata seduti sulla
sabbia, alla sola luce delle stelle, dopo mille aneddoti e ricordi,
Hiapo
l’accompagnò a casa e le disse, davanti alla
porta: “Non tenerti dentro questa
rabbia”. Amélie annuì e non disse che
parlare con lui era già stata una
medicina, che aver pianto e riso in riva al mare le aveva risollevato
l’animo.
Erano due anni che non vedeva Hiapo e solo in quel momento aveva
scoperto
quanto le fosse mancato.
Amélie
entrò in casa e, quando aprì la
porta della sua stanza, vide sul letto un libro con sopra un biglietto
adesivo,
di quelli gialli. Si avvicinò e lo prese in mano. Sul
biglietto, la calligrafia
di suo padre diceva: ‘Questo è il diario di tua
madre. Forse può aiutarti’.
Si
sedette sul letto e iniziò a
sfogliare il diario: la scrittura fine ed elegante della madre le
riempì gli
occhi, mentre il suo cuore si colmava delle emozioni descritte. Quando,
dopo
svariate ore, Amélie chiuse il diario, aveva fatto una
grande scoperta: sua
madre non aveva rifiutato le cure, ma aveva rinunciato una terapia
lunga e
dolorosa che l’avrebbe portata via da casa e le avrebbe
impedito di stare
vicino ai suoi figli. Sarebbe vissuta più a lungo,
sì, ma senza di loro.
Sua
madre non aveva scelto di non
lottare, aveva scelto la famiglia. Aveva scelto lei.
Era
l’alba quando Amélie mise piede in
camera del fratello e, senza una ragione particolare o un buon motivo,
si
avvicinò al comodino e prese la conchiglia.
Se
la portò all'orecchio e chiuse gli
occhi; quando li riaprì Jerome la stava guardando e le
chiese, come se avesse
capito tutto: “L’hai sentita, vero? Hai sentito la
canzone del cuore?”
Lei
annuì e una lacrima le scivolò sul
viso. Era proprio la canzone del cuore, quella che cantava la mamma.
Dopo
un’ora Amélie bussava alla porta
di Hiapo.
“Andiamo
in spiaggia. Voglio fare il
bagno con te” disse, appena lui aprì la porta.
Hiapo
sorrise e lei si sentì la
ragazza più felice del mondo.
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