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Autore: Carlos Olivera    27/08/2009    3 recensioni
Erik è un ragazzo come tanti altri, ma non ha alcun ricordo del proprio passato, nulla che risalga a prima degli ultimi quattro mesi.
Vive a New York, coi suoi genitori adottivi, Hank e Betty, che lo hanno trovato e accolto, trattandolo come il figlio che non avevano mai potuto avere.
Lui è felice della sua vita, sente di poter ottenere qualsiasi cosa, ma alla vigila del compimento del suo più grande sogno una voce misteriosa lo chiama: è una voce sconosciuta, che porta con sè qualcosa, qualcosa di oscuro, e il miraggio di un'esistenza lontana, spesa al fianco di esseri senza patria e senza gloria, il cui solo destino è essere odiati da tutti l'universo.
I compagni di un tempo sono diventati nemici, e i vecchi rancori sono pronti ad esplodere nuovamente, distruggendo quella piccola parvenza di felicità.
Man mano che i ricordi riaffiorano, Erik si trova costretto a dover fare una scelta tra la vecchia e la nuova vita, tra l'accettazione di cio che possiede, ma soprattutto di ciò che è, il tutto legato ad una promessa fatta ad una persona cara, ma che comporterebbe l'addio, definitivo e inevitabile, di tutto ciò che lo ha reso felice.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Millennium War'
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EPILOGO

EPILOGO

 

 

Sette Anni Dopo

 

Kazumi Yoshida, da poco nominata direttore della filiale di New York delle Yoshida Industries, entrò nel suo ufficio alle otto e trenta precise con la sua solita puntualità, sedendosi immediatamente alla scrivania e accendendo il monitor olografico del suo computer.

  Aveva da poco iniziato a consultare alcuni grafici quando la segretaria la informò tramite l’interfono che un certo Will Smith era venuto a farle visita e chiedeva di verla.

  «Farlo pure entrare.» era stata la sua risposta e poco dopo nella stanza entrò un giovane di colore più o meno della sua stessa età vestito in modo molto elegante.

  «Will.» disse alzandosi dalla sua poltrona e andando a salutarlo con grande calore «Che gioia rivederti.»

  «È bello rivedere anche te, Kazumi. È passato molto tempo.»

  «Troppo, amico mio».

  Si sedettero, e per parecchi minuti entrambi si persero a rievocare i periodi dell’università, quando ciascuno dei due impegnava tutte le energie alla realizzazione ognuno del proprio sogno.

  Molte cose erano cambiate da allora, ed erano già tre anni che non si vedevano.

  Subito dopo essersi laureato Will si era trasferito a Washington, dove era riuscito, a forza di spiegazioni e dimostrazioni, a convincere le alte sfere dell’aeronautica a investire una gran quantità di tempo e di risorse alla realizzazione di un non meglio identificato progetto Skyarrow; questo nome era venuto alla luce già da qualche tempo assumendo velocemente un’incredibile, ma a parte la stessa Kazumi oltre al personale effettivamente coinvolto nessuno sapeva veramente di cosa si trattava.

  «Allora?» domandò ad un certo punto la ragazza «Come procede il lavoro? Hai risolto quel problema?»

  «Eh, magari.» rispose Will sollevando le spalle «Più cerco una soluzione più ritorno al punto di partenza. Credevo di aver trovato un alleato nell’alimentazione nucleare, ma si è rivelato un fiasco.»

  «Capisco. Beh, comunque vada, hai tutto il mio sostegno.»

  «Lieto di sentirtelo dire. E tu invece? Come te la passi?»

  «Non mi lamento. Qui è più o meno la solita routine, ma alla fine mi ci sono abituata.»

  «E sue notizie?» domandò Will facendosi improvvisamente molto più serio «Ne hai più avute?».

  A quella domanda la ragazza abbassò lo sguardo, facendosi triste e sconfortata.

  «Mi dispiace. Non dovevo chiedertelo.»

  «No, tranquillo.» rispose lei cercando di mostrarsi più tranquilla «Comunque, sono certa che in giorno ritornerà. È ciò che sento con tutta me stessa, e non smetterò di crederci.»

  «Se vuoi proprio saperlo, anche io credo che sarà così. Dopotutto, non è il tipo da lasciare le cose a metà».

  In quella Kazumi, forse per dimenticare l’argomento, prese il bigliettino che la segretaria le aveva portato qualche minuto prima dicendo che era stato portato da una persona che aveva fatto specifica richiesta di consegnarlo al direttore. Lo aprì: tre righe scritte a mano, probabilmente di getto, e due sole frasi, che però furono più che sufficienti a farla quasi svenire.

 

Nessuno di noi sa cosa gli riserva il futuro, ma non puoi neanche far finta di niente e continuare a vivere nel terrore. Se hai paura che il futuro sia fosco e minaccioso puoi sempre impegnarti per cambiarlo.

 

Sentendo con le proprie orecchie il contenuto di quel biglietto Will ebbe la medesima reazione, ed entrambi, dopo essersi guardati un momento, corsero fuori dall’ufficio.

  «Martha!» disse Kazumi come fuori di sé rivolgendosi alla segretaria «Chi ha portato questo biglietto?»

  «Un giovane.» rispose la donna visibilmente sorpresa «Avrà avuto sui venticinque anni. Non l’ho visto bene in viso. Indossava un impermeabile e aveva un cappuccio sulla testa».

  Prima ancora di sentire la fine della descrizione Will e Kazumi si lanciarono verso gli ascensori, e raggiunto l’atrio del palazzo uscirono all’esterno quasi sfondando la porta, prendendo a guardarsi attorno; i marciapiedi di New York erano affollati come al solito di gente che andava e veniva dai luoghi più disparati, e quella marea di persone unita al traffico, congestionato come sempre, riempiva l’aria di una miriade di voci e di suoni.

  Will guardò di nuovo il biglietto, come se non credesse a ciò che stava succedendo, poi guardò Kazumi, che osservava smarrita tutto intorno a sé.

  «Kazumi…».

  Qualche istante dopo la ragazza abbassò lo sguardo, accennando un sorriso.

  «Lui è qui. Ha voluto farmi sapere che sta bene e che non mi ha dimenticata, e per ora mi basta.

  Continuerò ad aspettarlo, proprio come Nadeshiko sta aspettando Toshio. Sono certa che, in un modo o nell’altro, alla fine tutto andrà bene».

 

La Via Mariana, chiamata dalla maggior parte del popolo Via della Liberazione, collegava la città di Qerin, capitale del regno di Fiya, con le fertili pianure dell’est, in particolare con la città di Selyras, e percorrendola tutta verso nord si poteva arrivare fino al lontano Regno di Remynius, uno degli ultimi baluardi della società umana a sud del fiume Danus, oltre il quale si estendeva il territorio degli elfi.

  Il nome Via della Liberazione era dovuto al fatto che parte del suo tracciato percorreva una regione che fino a pochi decenni prima aveva fatto parte del vicino Impero di Caldesia ma che alla fine si era ribellata, ottenendo da Fiya l’appoggio necessario a distaccarsi dall’oppressione caldesiana per passare sotto l’amministrazione ben più giusta e saggia dei sovrani di Qerin.

  Essendo una strada molto larga e comoda, asfaltata con solidi blocchi di selce e provvista di canali di scolo per le acque piovane, era sempre affollata di viaggiatori, e dal momento che toccava alcune delle città più grandi e prospere della regione orientale del regno era usata spessissimo anche dalle carovane mercantili.

  Incamminandosi lungo il suo percorso era molto facile imbattersi in lunghe file di carri stracolmi di ogni ben di dio, tutte merci destinate sia ai floridi mercati cittadini sia alle piccole comunità agricole di campagna.

  Di tutti i regni del Continente, Fiya era sicuramente il più prospero.

  Governato da una famiglia potente e dalla storia secolare, nel corso dei secoli aveva espanto enormemente i suoi domini, diventando, dopo il regno elfico di Normar, il Paese più vasto del Continente.

  Purtroppo, anche un regno florido e pacifico come Fiya non era immune a cose quali il brigantaggio, e anche se l’intera rete stradale era percorsa senza sosta da pattuglie di due o tre soldati a cavallo e presentava a distanze regolari delle stazioni di posta con tanto di presidio militare capitava spesso che le grandi carovane cadessero vittime di assalti furiosi che spesso, troppo spesso, finivano in un bagno di sangue.

  Era una fresca giornata di primavera sulle alture verdi e scintillanti dell’altopiano di Gavos e lungo la Via Mariana camminava, in direzione nord, quello che aveva tutta l’aria di essere uno straniero; nascosto completamente in un mantello da viaggio, indossava anche un largo cappello di tessuto dalla visiera estremamente larga che ne copriva il viso e dietro la schiena aveva uno stupendo arco a scaglie che sembrava fatto quasi di diamante, tanto forte e vigorosamente risplendeva al sole.

  Procedeva lentamente, senza fretta, guardandosi attorno, ma a parte lui in quel momento non vi erano altri viaggiatori, ma essendo molto presto era probabile che molti di essi stessero ancora dormendo nelle stazioni di posta, per non parlare del fatto che in questione sorgeva piuttosto lontano dalle grandi città, quindi era molto più facile imbattersi in diligenze piuttosto che in viandanti.

  Proprio per questo motivo era ipotizzabile il fatto che quell’uomo così composto nella camminata potesse essere uno straniero; solo stranieri, mendicanti e briganti, oltre naturalmente alle carovane mercantili, frequentavano le strada in ore tanto insolite, e bastava guardare la foggia elegante del mantello per capire che quel tipo un ladro non lo era sicuramente.

  Ad un certo punto la sua attenzione, prima rivolta alla strada su cui stava camminando, fu attirata da urla e rumori concitati; poche centinaia di metri più in là una carovana proveniente dalla Repubblica di Silfyn aveva subito l’assalto di una delle più temibili bande di briganti che avevano il loro covo lungo il tracciato della Via Mariana, le famigerate Lucertole Nere.

  Tutti gli occupanti, soprattutto donne e bambini, erano stati ammassati in un unico posto e venivano tenuti sotto la minaccia delle armi da tre briganti, tra cui il capo di quella marmaglia, un tipo alto e smilzo con un paio di baffi incolti e capelli sporchissimi di nome Burai, e intanto i suoi uomini caricavano su di un unico carro tutta la merce più preziosa.

  «Allora, volete darvi una mossa?» disse con quella sua voce gracchiante vedendo che il furto stava durando più del previsto «La pattuglia potrebbe passare da un momento all’altro!»

  «Scusaci capo, ma qui c’è un sacco di roba!».

  Qualche minuto dopo venne finalmente il momento della fuga, ma Burai, come faceva sempre dopo uno dei furti della sua banda, volle tutelarsi da eventuali colpi di mano portandosi dietro un ostaggio, in modo tale da evitare anche che i derubati potessero sporgere denuncia nei suoi confronti, dando il via ad una caccia serrata da parte dei militari.

  La scelta questa volta ricadde sulla figlia dodicenne del capo della comitiva; il padre cercò di difenderla, ma fu steso con un pauroso colpo alla nuca inflittogli col pomo di una spada, la madre invece fu tenuta indietro puntandole contro le armi.

  «Fermi!» gridò improvvisamente qualcuno.

  Tutti volsero lo sguardo verso una sola direzione e incrociarono il misterioso forestiero col mantello nero il quale, piazzatosi al centro della strada, sembrava quasi voler bloccare ai banditi la via di fuga.

  «Lasciate andare subito quella ragazzina.» disse con voce calma e risoluta

  «Chi accidenti ti credi di essere?» domandò Burai dalla cima del suo cavallo dove aveva caricato anche il suo ostaggio dopo averla legata mani e piedi «Fatti da parte se non vuoi farti male.»

  «Vi ho detto di liberare quella ragazzina. Non lo ripeterò un’altra volta».

  Di fronte ad una fermezza tanto sfacciata i briganti risero sguaiatamente, e a quel punto Burai perse la pazienza.

  «Ne ho abbastanza di te. Avresti dovuto pensare agli affare tuoi. Fatelo fuori e andiamocene».

  Uno dei suoi uomini gli si avvicinò mulinando la spada, ma nonostante ciò lo straniero continuò a rimanere immobile; poi, nell’istante in cui stava per essere colpito, rivolse un’occhiata di fuoco al suo aggressore, e questi immediatamente fu scaraventato in aria come una foglia secca, precipitando successivamente a terra e perdendo i sensi.

  I suoi compagni restarono senza parole, ma poi Burai ne uscì più infuriato di prima.

  «Maledetto! Sei uno stregone! Ammazzatelo!».

  A quel punto i briganti si lanciarono all’attacco tutti insieme, chi a piedi chi a cavallo, ma questo non servì ad intimorire lo straniero, che con una calma e una facilità disarmanti prese a farne scempio, usando un misto di magia e arti marziali per metterli fuori combattimento senza però ucciderli.

  «Ma tu…» disse terrorizzato Burai vedendo i suoi uomini cadere uno ad uno «Tu chi diavolo sei?».

  A quella domanda, e per rispondere all’attacco di un brigante, lo straniero affondò una mano nel mantello prendendone fuori una spada assolutamente magnifica; la lama era lunga e stretta e rifletteva il sole, l’impugnatura invece era di avorio bianchissimo, con il pomo a forma di testa d’aquila.

  Già solo quell’arma fu sufficiente a mandare in brodo il sangue di Burai, ma quando un soffio di vento fece volare via il cappello dello straniero mettendone a nudo il volto il suo divenne puro terrore: doveva avere tra i venticinque e i ventotto anni, viso pulito ma temprato a dovere, occhi neri scintillanti e capelli corvini corti a spazzola ma con una lunghissima coda che partendo da dietro la nuca arrivava alla base della schiena.

  «No… non può essere!» disse vedendolo mettere fuori combattimento l’ultimo dei suoi prima che potesse scappare «Tu sei Regis!».

  Terrorizzato dal vedersi puntare addosso quegli occhi che, si diceva, potessero spaventare persino i draghi mollò il suo ostaggio e cercò di darsi alla fuga ma il ragazzo, con una calma sovrumana, sfoderò il proprio arco, tendendo la corda e materializzando dal nulla una freccia di luce che, scoccata, centrò in pieno il bandito, disarcionandolo e lasciandolo a terra svenuto.

  Mentre i mercanti cercavano ancora di capacitarsi di quanto era accaduto Regis riprese tutto il suo contegno, e raccolto da terra il suo cappello fece per andarsene.

  «Aspettate!» disse il capo della comitiva correndogli incontro e porgendogli, inginocchiatosi davanti a lui, un piccolo forziere pieno di monete d’oro «Vi prego, accettate questo come segno di ringraziamento».

  Il giovane lo guardò un momento, poi, senza spiccicare parola, gli girò intorno e riprese la propria camminata da dove era stata interrotta mentre, finalmente, un manipolo di soldati giungeva sul posto per arrestare i briganti.

  «Mamma, chi è quello?» domandò la ragazzina appena salvata

  «Quello è Regis.»

  «Regis?»

  «È l’eroe di questo regno, ma è conosciuto in tutto il Continente. È comparso dal nulla sette anni fa, e da allora vaga in lungo e in largo senza fermarsi mai.

  Ogni tanto appare dal nulla, proprio come accaduto oggi, per aiutare le persone in difficoltà, ed esaurito il proprio compito scompare come è venuto, senza mai pretendere nulla per i propri sforzi.

  Per questo, la gente di Fiya lo ha soprannominato l’Angelo Bianco».

  Incredula e meravigliata, la ragazzina continuò a seguire il misterioso giovane mentre si allontanava, e per un istante le parve di vedere due grandi ali bianche materializzarsi dietro la sua schiena.

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua!^_^

E così, siamo giunti alla fine di questa seconda storia.

Come ho detto e ripetuto più volte Millennium War – Threeten Days ha avuto come scopo primo la creazione di un episodio ponte che chiarisse gli eventi intercorsi tra la prima e la seconda storia, ma non nego che tale scelta è dettata anche dal desiderio di fare un piccolo regato ai fan di Erik (chi ha orecchie per intendere intenda^_^).

A partire da domani ricomincerò a narrare gli eventi di Millennium War – Rebirth e questa volta giuro solennemente che andrò avanti imperterrito fino ad arrivare alla fine.

Ringrazio i miei recensori appassionati, Akita, Selly, Cleo e Rahizel, inoltre ringrazio Kalhed e Targul per averla inserita tra i preferiti e Saphira e Verelia per averla seguita.

A presto, e grazie!^_^

Carlos Olivera

  
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