Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ode To Joy    30/03/2021    1 recensioni
[Erwin x Levi]
[Kenny x Uri] [Jean x Eren]
”L’Umanità si divide in due categorie: quelli che vogliono cambiare il mondo e quelli con il potere di farlo.”
Paradis, 850.
Il Muro Maria è stato riconquistato ma a caro prezzo: solo otto soldati hanno fatto ritorno da Shiganshina.
Levi ed Eren non sono tra loro.
Erwin è sopravvissuto a costo della sua umanità e non si ritiene più degno di guidare le Ali della Libertà.
Marley.
Prigioniero sotto la custodia di Zeke Jeager, Levi cerca di tenere in vita se stesso ed Eren con la certezza che Erwin sia morto e che nessuno stia venendo a salvarli. Manipolare il fratello minore per renderlo suo complice, però, è solo una parte del piano di Zeke.
“Ora hai sia la volontà che il potere. Smettila di piangerti addosso, vinci questa guerra e riprenditi ciò che è tuo.”
Mytras, 819.
Catturato dopo aver cercato di uccidere il re, a Kenny Ackerman viene risparmiata la vita e promessa la libertà in cambio di qualcosa che lo legherà a doppio filo al principe Uri Reiss.
[Canon-Divergence] [Omegaverse]
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Erwin Smith, Jean Kirshtein, Kenny Ackerman, Levi Ackerman
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo partecipante al Cow-T 11 di Lande di fandom.
M1 Prompt: “Get out of my life"


SPOILER RIGUARDANTI L'ULTIMO ARCO







7
Guerrieri








-17 giorni dopo la battaglia di Shiganshina-



“Esci dalla mia vita…”
Non lo disse ad alta voce, ma anche se lo avesse fatto che cosa sarebbe cambiato? Era lui, Reiner, a non riuscire ad uscire dalla vita di Eren.
E come se non bastasse, sembrava essere l’unico afflitto da quel problema autodistruttivo.
Zeke era scomparso dalla circolazione.
Reiner non ricordava l’ultima volta che il sole era sorto senza che lui fosse già sveglio.
E se Eren aveva sonno, era molto - molto - bravo a non darlo a vedere. Talmente bravo che cantava sopra l’esaurimento nervoso del più grande senza nessun rispetto.
“Ti prego, smettila,” gemette Reiner, coprendosi il viso con entrambe le mani.
La testa di Eren - adornata da un fazzoletto bianco - spuntò da dietro la vasca. “Se a te e quell’altro piace vivere nello schifo, problema vostro.”
Quell’altro. Se a Zeke era mancato del dramma familiare per il quarto di secolo che aveva vissuto, aveva fatto in fretta a recuperare. Tradimenti e omicidi a parte, che per il suo superiore erano più facili da gestire di un normale fratello quindicenne perennemente incazzato.
“Ci renderà la vita un inferno.” Questo aveva detto Reiner prima che le Ali della Libertà volassero un’ultima volta su Shiganshina.
Zeke aveva sorriso. “Senza una battaglia non ci può essere né vittoria né sconfitta.” Era stato un modo saggio di dire loro che Eren sarebbe tornato a casa con loro, costasse quel che doveva costare.
Che fosse toccato a Berthold pagare il prezzo era stato solo un caso; ma che Zeke fosse battuto in ritirata dalla sua battaglia dopo due settimane, lasciando la prima linea solo a Reiner, era vigliaccheria nella sua forma più pura.
Ed ecco perché il Titano Corazzato se ne stava seduto sul pavimento di un bagno ad assecondare l’ultimo dei capricci di Eren Jeager - senza stivali ai piedi, perché non fosse mai che Reiner rovinasse le piastrelle perfettamente lucide.
“Come cazzo facevano a sopportarti?” Si domandò a bassa voce. Non abbastanza bassa.
“Che cosa hai detto?” Ringhiò Eren, comparando di nuovo dietro alla vasca da bagno.
Reiner lo guardò attraverso le dita. Il caratteraccio di Eren era proverbiale - a meno che il Capitano Levi non fosse nei paraggi - ma c’era stato un tempo in cui lo aveva trovato divertente o interessante, addirittura simile a lui. Lui e il Demonio che gli stava davanti erano stati amici e Reiner non lo avrebbe mai negato.
Tuttavia, l’odio che Eren aveva maturato di recente nei suoi riguardi, lo aveva fatto scivolare in quella categoria di persone che dalla sua vicinanza potevano solo guadagnare un esaurimento nervoso.
Mikasa e Armin si erano sempre dimostrati immuni a quel potere nocivo del membro più caotico del loro trio. Jean, invece, la testa l’aveva persa davvero e in tutti i sensi possibili.
Al tempo dell’addestramento, Reiner si era convinto che Eren fosse un carattere troppo difficile per Jean, che di problemi dalla vita ne voleva il minor numero possibile. Di conseguenza, aveva sempre trovato la colpa dei loro scontri nel mezzo.
Ora che Eren non nutriva più alcun sentimento positivo nei suoi confronti, ma erano comunque costretti a stare a meno di un metro di distanza l’uno dall’altro, Reiner aveva cambiato idea. Se avesse potuto, avrebbe chiesto scusa a Jean per la sua malafede e gli avrebbe stretto la mano per aver retto anni senza uccidere nessuno.
Anche il devoto fratello maggiore se l’era data a gambe.
Reiner ne era ormai certo: Eren non aveva bisogno di poteri antichi e demoniaci per far scoppiare guerre e cacciarsi nei guai. Gli bastava parlare.
“Dove hai preso il necessario per giocare alla donnina di casa?” Domandò, sperando di salvarsi dall’ennesima litigata su cose futili.
“L’ho chiesta,” rispose Eren, secco.
Reiner inarcò le sopracciglia. “A chi?”
“Alle guardie, mentre tu eri in cucina a mangiare.”
“Adesso ti parlano?”
Eren sbuffò. “Voi avrete il frigorifero, ma siete proprio delle capre!” Strillò - e Reiner non desiderò mai così tanto strapparsi le orecchie. “Ho chiesto gentilmente e Michael mi ha guardato come se mi fossero spuntate di colpo due teste!”
“Michael?”
“Michael Sheer. Ha vent’anni, una sorella maggiore sposata con tre figli e vive da solo con la madre. Non conosci nemmeno i nomi dei tuoi uomini?”
Reiner rimase senza parole: lui e Zeke si distraevano nello stesso momento ed ecco che Eren fraternizzava con i suoi secondini, mandando all’aria un secolo di storie sui Demoni di Paradis. “E mentre ti portava un secchio, una scopa e uno straccio ti ha anche raccontato tutta la storia della sua vita?”
“Cosa c’è?” Eren prese a strofinare il bordo della vasca. “Hai paura che la tua gente si renda conto che il Diavolo non fa poi così paura?”
Reiner si alzò in piedi. “Eren, non devi farlo più.”
Il più giovane lo trafisse con lo sguardo. “La prossima volta vuoi che lo minacci?”
“Sono persone innocenti!” Esclamò Reiner. “Credono a ciò che è stato raccontato loro per tutta la vita e se ora tu gli fai vedere qualcosa di diverso-“
“Potrebbero ribellarsi?” Concluse Eren, velenoso. Gettò lo straccio nel secchio al suo fianco. “Perché non lo fate?” Domandò, incrociando le braccia contro il petto. “I Titani sono in mano agli Eldian. Se solo lo voleste-“
“Chiudi la bocca!” Urlò Reiner. “Tu non hai idea di cosa sia Marley! Qui non si tratta di qualche migliaio di persone in una realtà circoscritta. Questo è il mondo, Eren! Non ci sono soltanto uomini e Titani, ma anche altre Nazioni, nemiche e alleate. Non c’è soltanto il mare fuori dalle Mura, o tutte quelle belle cose che hai letto nei libri di Armin. Esistono confini e molti non sono valicabili, non per noi!” Riprese fiato. “Tu non lo conosci il mondo, Eren. Non puoi capire.”
Nonostante gli avesse urlato addosso, Eren non lo guardava con rabbia. “Allora aiutami a capire,” disse, con sincero interesse. “Zeke non lo farà mai.”
“Perché ha paura che tu gli faccia discorsi del genere e non lo biasimo. Tu sputi veleno addosso a me e a lui, ma devi renderti conto che Zeke ti vuole bene e io non ti voglio morto. Se ti scappasse una parola di troppo di fronte agli altri, ti denuncerebbero e per te non ci sarebbe speranza!”
Eren sgranò gli occhi. “Davvero non mi vuoi morto?”
Reiner aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. “L’ho già detto…”
“No, lo hai fatto solo intendere.”
“E che differenza fa?”
“Che almeno la tua pietà nei miei riguardi non è solo qualcosa nella mia testa,” rispose Eren sarcastico, riprendendo a lucidare la vasca.
Reiner lo osservò e per la centesima volta da quando erano tornati a Marley, si chiese perché era ancora lì. Non trovò una risposta definitiva neanche quella volta.
“Non è per pietà,” disse e ne era certo.
“Allora è senso di colpa,” ribatté Eren, senza nemmeno guardarlo negli occhi. “Te l’ho già detto: stai male per il sangue che ti sporca le mani. Questo ti rende un assassino, non un mostro.”
“Quando hai maturato questo giudizio?” Aveva già fatto un discorso simile anche di fronte a Zeke, ma Reiner non trovava coerenza con quelle parole e con l’Eren che aveva giurato di ucciderlo nel modo più doloroso possibile.
Eren si fermò, fissando un punto qualunque nel vuoto. “Io ho ucciso delle persone innocenti, Reiner?”
Perché adesso suonava spaventato?
Reiner scrollò le spalle. “Che io ricordi, non sei mai riuscito ad abbattere nemmeno un Titan- E non guardami così, è la verità!”
“Perché io ricordo di averne uccise e anche tante,” aggiunse Eren, alzò gli occhi su di lui, disperato. “Perché ricordo una cosa del genere?”
A Reiner parve che l’aria nella stanza fosse divenuta di colpo più fredda. “Ehi…” S’inginocchiò vicino al più giovane e gli strinse la spalla. “Eren, guardami. Sono io, riesci a vedermi?”
Eren si tolse il fazzoletto bianco che gli copriva i capelli. Si accorse che il lavandino della vasca perdeva e il rumore delle gocce che s’infrangevano sulla superficie di marmo coprì il suono della voce di Reiner.
”Che cosa sei diventato, Eren?” Domandò la voce di suo padre in lontananza.
Sollevò lo sguardo e di fronte a sé vide lo scheletro mostruoso di quello che poteva essere un ragno gigante, ma aveva la spina dorsale di un essere umano. In fondo a essa, una testa di dimensioni normali era rivolta verso il pavimento, il viso coperto da lunghi capelli scuri.
Il mostro alzò lo guardò.
Ed Eren urlò.



La gabbia che Zeke Jeager aveva scelto per Levi Ackerman era una grotta naturale posta ai piedi del promontorio. In principio, non era stata pensata nessuna porta che collegasse il castello a quel luogo. Tutti i condannati venivano spinti dentro il grande buco sul soffitto e se la caduta non li uccideva sul colpo, ci pensava il freddo pungente, il caldo torrido o la fame.
Zeke non aveva pianificato di spingere un Ackerman verso il ciglio del baratro, ma quando si era ritrovato Levi tra le mani, non era riuscito a resistere alla tentazione.
A più di due settimane dalla battaglia di Shiganshina, il Capitano delle Ali della Libertà era ancora vivo, lucido e desideroso di farlo a pezzi. Zeke si era stufato presto di fare da semplice spettatore.
Far morire Levi Ackerman in un buco in riva al mare era uno spreco che non poteva perdonare se stesso. Per tanto, mentre Eren si rivelava un vicolo cieco per lui, Zeke aveva ancora qualche carta da giocare col Capitano che lo aveva quasi ucciso.
Quasi.
Che lo avesse sconfitto era impossibile da negare.
“Non hai una cazzo di camera in cui dormire?” Domandò Levi, vagando dalla parte opposta della cella.
Zeke era seduto sul pavimento umido di condensa, la schiena appoggiata alla porta della cella. Non si era mosso di lì da quando Eren gli aveva sferrato quel colpo fatale nella sala da bagno.
“Levi, se ti chiedessi di-“
“No.”
“Non ho ancora detto nulla.”
“Non m’interessa, barbetta. Non ti racconterò nulla di me o delle persone che hanno fatto parte della mia vita. Tira fuori quella tua fottuta siringa e drogami, se proprio ci tieni a sentirsi parlare. Non avrai altro che i miei cazzo di deliri.”
Da un paio di giorni, Zeke si era ritrovato spesso a chiedersi se Levi ed Eren comunicassero attraverso qualche strana forma di telepatia: erano molto bravi a fargli muro nello stesso identico modo.
Zeke era seriamente preoccupato dall’eventualità che uno dei due scoprisse della presenza dell’altro all’interno della stessa gabbia. Non osava immaginare quanto sarebbe divenuto difficile il suo lavoro nel tragico caso in cui quei due fossero riusciti a opporre resistenza insieme.
“Me lo hanno portato via in fretta, te l’ho raccontato?” Zeke simulò la voce più triste del suo repertorio.
Levi gli diede le spalle, sprezzante. “Non voglio ascoltarti.”
“Penso a lui ogni giorno,” aggiunse. “Ogni volta che chiudo gli occhi, vedo i suoi. Erano bellissimi, non lo pensi anche tu?”
Levi si ostinò a fissare la parete di pietra di fronte a sé in totale silenzio. Guardandolo di schiena, con la luce del sole che entrava dal buco sul soffitto, Zeke notò che i vestiti che indossava non gli sarebbero serviti più di lì a poco. I pantaloni erano sporchi,  niente di più. La giacca stava per perdere una manica e lo stesso valeva per le suole degli stivali. Il mantello verde era stato accantonato su quella sorta di materasso che Zeke gli aveva concesso per dormire, e della cravatta aveva perso le tracce durante i primi giorni di prigionia.
I capelli rasati sulla nuca erano cresciuti, ma non abbastanza per fargli perdere un vago senso di ordine. Era sporco, maleodorante e il colorito grigiastro della sua pelle era sintomo delle droghe che Zeke continuava a iniettargli per farlo stare tranquillo.
Era un’arma che doveva usare con parsimonia. Una dose di troppo, e nessun medico sarebbe arrivato abbastanza in tempo col necessario per tenere il prigioniero in vita.
Senza contare che Levi non era nemmeno affare del Governo. Non del tutto.
Zeke non aveva parlato di un Ackerman - se lo avesse fatto, Levi sarebbe finito a Liberio in tutt’altre mani - ma di un soldato di alto grado, un prigioniero utile per estrapolare informazioni.
Ma Zeke Jeager aveva tutt’altri progetti per Levi Ackerman.
Non appena avesse plasmato quella macchina da guerra come meglio credeva, anche Marley sarebbe venuta a conoscenza del ritorno dell’eroe.
“Non mi chiedi mai di lui,” notò Zeke.
“È morto,” fu la risposta secca di Levi. “Non mi serve sapere altro.”
“Valeva così poco per te?” Domandò Zeke.
Levi si voltò a trafiggerlo con lo sguardo.
“So che eri sempre con lui perché eri il solo che potesse abbatterlo. Ma era un tuo soldato, eri tu a forgiarlo ed educarlo. La sua vita era comunque una tua responsabilità. Mi vuoi far credere che non ci tenevi neanche un po’-“ Il calcio che gli arrivò in faccia fu del tutto inaspettato.
Zeke atterrò a un paio di metri dalla porta con la spiacevole sensazione che la mandibola non fosse più al suo posto.
“Parli un po’ troppo per i miei gusti, stronzo,” sibilò Levi, piantando il tacco dello stivale contro la tempia del più giovane. “Posso essere a un passo dalla morte, ma quel poco di forza che ho mi è più che sufficiente per spaccarti questa faccia di merda che ti ritrovi. Perciò, non osare parlare più di Eren in mia presenza o provare a fare supposizioni su quanto valesse la sua vita per me!”
Ancora un po’ di pressione e Zeke avrebbe sentito il cervello uscirgli dalle orecchie.
L’eco di un urlo rimbalzo contro le pareti dei sotterranei. Levi lo lasciò andare.
“E falli stare zitti quelli del piano di sopra,” aggiunse Levi, stancamente.
Quando Zeke riuscì a tirarsi in piedi, il prigioniero si era ritirato sul materasso con le ginocchia strette al petto.
“Tutto questo schiamazzo mi ricorda i mocciosi a casa, e non riesco mai a capire se sono sveglio o si tratta di un altro fottuto incubo.”
Zeke non poteva dirle che si trattava di entrambe le cose. “Tornerò più tardi…” Gli promise.
Non ottenne risposta.



“Eren, sei sveglio! Qualsiasi cosa tu stia vedendo non è reale! Non è reale!”
Eren smise di respirare. Spalancò gli occhi - o forse gli aveva già aperti, ma affacciati su un mondo visibile solo a lui - Reiner gli era sopra e lo teneva fermo contro il pavimento. La presa salda delle sue mani sui suoi polsi non gli faceva male. Al contrario, lo confortava perché era qualcosa di vivo, reale.
“Ho ucciso tante persone,” mormorò con voce rotta dal pianto.
Reiner scosse la testa, tirandogli i capelli all’indietro. “No,” lo rassicurò. “Non eri tu, era il ricordo di qualcun altro. Tu sei un guerriero, Eren, non sei un assassino.”
Eren voltò lo sguardo in direzione della vasca: il rubinetto non gocciolava più e del mostro col viso da uomo non c’era più alcuna traccia. Non fece nulla per alzarsi, si concentrò sulle dita di Reiner tra i suoi capelli e cercò di svuotare la mente, mettere a tacere tutte le voci che gli sussurravano parole che non riusciva a comprendere.
Voleva solo che tacessero tutti.
“Che cosa state facendo?” Zeke era sulla porta, ma Eren non lo aveva visto arrivare.
Rendendosi conto della posizione poco opportuna in cui si trovavano, Reiner si sollevò in fretta e aiutò Eren a fare lo stesso.
“Lucidavamo i pavimenti,” disse Reiner. Si sentì un completo idiota.
Zeke guardò il fratello minore in cerca di qualcosa che potesse confermargli la natura innocente di quella scena. Ancora incapace di parlare, Eren sollevò lo straccio che ancora stringeva in pugno e il fratello maggiore si ritenne soddisfatto.
“In camera tua troverai dei vestiti nuovi da mettere,” gli disse. “Se devi incontrare gli altri Guerrieri, devi farlo come si deve. Ti ho fatto preparare una divisa.”
Eren non fece nemmeno un cenno di assenso. Si limitò a uscire dal bagno per chiudersi in camera sua.
“Porko e Pieck saranno qui a momenti, sarà Colt ad accompagnarli. Io resto qui ad aiutarlo con la divisa,” disse Zeke, “tu aspettaci in cortile… Non saltare dalla gioia, mi raccomando,” aggiunse, sarcastico.
Reiner si limitò a un neutro: “sì, signore.”
Quando però passò accanto al suo superiore, Zeke gli afferrò il braccio con forza e tanto bastò a far capire a Reiner che non gli era piaciuto molto trovarlo sul pavimento con le mani addosso al fratello.
“Sei sicuro di avermi raccontato tutto quello che c’era da sapere, Reiner?”
Il più giovane si lasciò sfuggire un sospiro stanco. “Con tutto il rispetto, Zeke, ma tuo fratello piange un ragazzo che non sono io,” gli rese noto.
Il suo superiore gli rispose senza rancore: “e questo t’infastidisce?”
Era una domanda a cui Reiner non poteva rispondere. Zeke lo comprese, ebbe pietà di lui, e lo lasciò andare.



Non aveva mai avuto fratelli - sebbene suo padre avesse un’altra famiglia con un’altra donna.
Eppure, il ragazzo troppo alto che gli camminava sempre al fianco un po’ lo era.
Nessuno gli aveva insegnato a essere gentile.
La ragazza che era partita con lui lo aveva preso a calci e pugni, ma lo aveva rimesso in piedi.
Non poteva permettersi degli amici.
Non poteva sopportare che qualcun altro morisse per lui.
“Io farò ritorno alla mia terra. Dentro di me, non desidero altro.”
Ma non aveva mai avuto una terra a cui tornare, solo una gabbia.
“Eren Jeager. Ti chiami così, vero?”
“Sì, esatto. Rainer Braun.”
E lui?
Lui che cos’era?
Non l’avrebbe saputo dire nemmeno allora, ma era certo che non fosse per lui.



Se non fosse stato per il mare, quel castello sarebbe stato simile a casa.
Appoggiato alla parete di pietra del cortile esterno, Reiner si massaggiò gli occhi stanchi e ricordò a se stesso che Marley era casa sua e non Paradis. Quel mondo in gabbia fatto di piccole città, villaggi sperduti tra i boschi e castelli nascosti alla fine di tortuosi sentieri.
Da bambino, Reiner non aveva mai saputo cosa volesse dire correre a perdifiato su di un prato di fiori, arrampicarsi sugli alberi o andare a pesca nei fiumi.
C’era un corso d’acqua anche a Liberio: il confine naturale che divideva il ghetto dai quartieri per bene. E gli unici campi su cui aveva corso a perdifiato erano quelli, a tratti polverosi e a tratti sabbiosi, dei campi di battaglia. C’erano state solo strade e case tutte uguali nell’infanzia di Reiner. Il primo colore in tutto quel grigiore se lo era ritrovato al braccio, quando era entrato a far parte della Squadra Speciale dei Guerrieri. La prima volta che aveva visto una distesa verde, incontaminata, era stato con Annie, Berthold e Marcel, durante il loro viaggio verso le Mura.
In quel castello isolato da tutto e tutti, Reiner poteva ritrovare parte di quella libertà. Forse per questo non tornava a casa da qualche giorno, anche solo per recuperare qualche ora di sonno. I rumori e gli odori della città lo avrebbero tenuto sveglio più dei capricci di Eren.
Zeke comparve al suo fianco con aria sconfitta, da solo. Con un sospiro, si appoggiò alla parete di pietra come lui.
“Ti ha tirato addosso qualcosa?” Domandò Reiner. Non era una battuta: Eren era sia manesco che un buon tiratore. Negli anni, molti oggetti volanti avevano colpito la testa del povero Jean.
“Se si calma, gli insegno a giocare a baseball,” disse Zeke. “Ha un buon braccio.”
Loro malgrado, risero entrambi.
“Giochi ancora?” Domandò Reiner. Qualunque cosa pur di non pensare a Eren per cinque minuti. “Quando eravamo bambini, al centro di addestramento, ci prendevi uno alla volta e c’insegnavi a lanciare.”
“Tu non eri male,” ricordò Zeke.
“Ma lo consideravo una perdita di tempo rispetto al nostro obiettivo.”
“Sei sempre stato il più devoto, Reiner.”
“E mi sono dimostrato il più debole.”
Zeke osservò il suo profilo. “Sei sopravvissuto, gli altri no. Non lasciare che il senso di colpa distorca la realtà dei fatti.”
Quello slancio di gentilezza da parte di Zeke lo prese di sorpresa. Reiner non era del tutto certo che fossero parole sue. “Levi ti parla?”
Zeke scrollò le spalle. “Ormai è completamente padrone di sé. Non posso rischiare di stordirlo ancora, l’ultima volta c’è mancato poco che-“
“Lo so.”
“Sarò sincero, Reiner: non ho mai creduto che sarebbero bastate due settimane per farli crollare,” ammise, “ma in questo tempo mi ero aspettato di trovare una breccia in uno dei due. Invece, ogni volta che Eren sembra sul punto di crollare, l’istante dopo riesce a barricarsi dietro una fortezza più alta e solida della precedente. E Levi…”
La frase rimase così, sospesa a mezz’aria.
Reiner dedusse il resto. Su Eren aveva fornito tutte le informazioni necessarie - tranne Jean, ma anche lui era entrato a far parte dell’equazione alla fine - su Levi aveva potuto dire solo quello che sapevano tutti.
Ma non serviva essere particolarmente intuitivi per sapere che il Capitano delle Ali della Libertà era molto, molto di più di quello che mostrava. Il piano di Zeke era arrivare più a fondo di chiunque altro e usare quella conoscenza per rendere Levi quel che a Marley era sempre mancato: un uomo immune al fiele di Ymir, ma reso potente dallo stesso.
Levi era un eroe per la sua gente, ma per Marley sarebbe divenuto l’incarnazione della leggenda. La storia del famoso Helos, che tanto piaceva alle masse e che contribuiva alla grandezza della famiglia Tybur, si sarebbe tramutata in una favoletta da bambini di fronte al potere prodigioso di un Ackerman.
Persino le perdite di Annie e Berthold sarebbero impallidite in confronto a quanto avevano ottenuto.
Udirono l’auto prima di vederla.
Reiner contò fino a sette, poi il veicolo col tettuccio abbassato comparve all’inizio della strada e si fermò davanti a loro disegnando un semicerchio. Porko era volante, Pieck era seduta accanto a lui e il povero Colt era sui sedili posteriori reggendosi come poteva. Dalla sua faccia, Reiner dedusse che il viaggio non fosse stato dei più rilassanti.
“Che ci fa Colt qui?” Domandò a bassa voce.
“Doveva essere quello alla guida,” rispose Zeke.
Certo, non si poteva chiedere a Porko Galliard di restare al suo posto e perdere l’occasione di brillare.
“Capitano!” Salutò, ma non guardò Zeke negli occhi nemmeno per un istante.
A Reiner non spettò alcun saluto, solo uno sguardo colmo d’astio - in confronto, avrebbe potuto definire gentili persino gli occhi di Eren.
Che fossero più belli era fuor d'ogni dubbio.
Reiner si accorse in fretta dell’inutilità di quel pensiero e lo scansò con un cenno del capo.
“Reiner!” A differenza del compagno, Pieck salutò prima lui. “Sappiamo che sei sceso in città per salutare tua madre. Potevi passare al quartier generale e salutare anche Porko.” Aprì lo sportello ma non fece nulla per alzarsi. “Io e te, in fin dei conti, ci siamo visti di recente.” Gli fece l’occhiolino.
Reiner comprese la difficoltà in cui si trovava e si fece più vicino. “Sono felice di rivederti, Pieck,” disse. Era l’unica dei presenti, oltre a lui e Zeke, ad aver partecipato alla battaglia di Shiganshina. Su quel campo di battaglia, nessuno l’aveva vista sotto forma umana, e Reiner sapeva che l’avevano mandata in missione altrove già dal giorno successivo al ritorno in patria.
Quella doveva essere la prima volta che si mostrava in pubblico su due gambe da molto tempo.
Reiner le offrì il braccio e Pieck lo accettò senza vergogna.
“Colt, serve una mano?” Domandò Zeke, dato che il biondo sul sedile posteriore non dava cenno a voler parlare o alzarsi.
“Sì, Capitano,” rispose Colt con voce tremante. “Mi serve un attimo.”
Porko sospirò e aprì la portiera per lui. “Non vomitare in macchina. Chi li vuole sentire quelli del Governo?”
“Se è per questo, sarebbe stato opportuno guidare in modo più cauto,” intervenne Reiner. “Se vi foste fatti male, Colt ne avrebbe pagato le conseguenze.”
Il Governo era già abbastanza innervosito dalla presenza del Fondatore e di un soldato nemico di alto rango sotto lo stesso tetto, senza che Porko se ne andasse in giro a distruggere auto e ammazzando l’erede del Titano Bestia nel processo.
Come di consueto, Porko se ne uscì subito con la risposta pronta: “se è per questo, qualcuno poteva uscire dal buco in cui si è rintanato e venirci a prendere di persona!” Sbottò, aiutando il povero Colt ad alzarsi in piedi. “Questa è la tua missione, non la nostra.”
“Porko Galliard,” Zeke lo richiamò all’ordine. “Erano stati dati degli ordini e sono stati ignorati.”
Il ragazzo irrigidì le spalle. “Sì, signore.”
“Inoltre, Eren ora è uno di noi,” aggiunse Pieck. “La missione non è solo di Reiner o del Capitano.”
Reiner lesse sul viso di Porko tutto il suo disaccordo, ma si guardò bene dal dirlo di fronte a Zeke.
Distratti da quel botta e risposta, nessuno di loro vide Eren uscire dal castello, superarli come se fossero invisibili, e piantarsi di fronte all’automobile.
“E questa cosa sarebbe?”
Reiner saltò in modo esagerato e per poco non fece cadere Pieck. Porko ne approfittò subito per prenderla in custodia, allontanarla da lui e insultarlo a bassa voce.
“Eren…” Zeke raggiunse il fratello minore con tre ampi passi. “Lascia che ti presenti i tuoi nuovi compagni, i Guerrieri di Marley, possessori dei-“
“Che cos’è?” Insistette Eren, posando il palmo aperto sul cofano dell’auto. Lo allontanò velocemente. “Brucia!”
Sentendosi privato del diritto di parola, Zeke richiese l’intervento di Reiner con uno sguardo. Il più giovane però non si dimostrò abbastanza pronto per aiutarlo, non quella volta.
Tutto quello che Reiner riusciva a registrare era Eren.
Eren con la divisa dai colori smorti di Marley.
Eren con la fascia rossa e la stella bianca dei Guerrieri - la sua, quella di Berthold e di Annie.
Quell’immagine era così sbagliata che a Reiner fece venire la nausea: era la morte della libertà come non avrebbe mai voluto vederla.
Eren passò lo sguardo dal fratello maggiore a lui. “Qualcuno mi vuole rispondere?”
Porko decise che quello fosse il momento giusto per presentarsi. “È un’auto, idiota, non lo vedi da solo?”
Eren reclinò la testa da un lato, come se si fosse accorto solo in quel momento della presenza di facce nuove.
“Su, Porko, non essere scortese,” lo rimproverò Pieck bonariamente. “La gente su Paradis vive in modo diverso da noi. Non puoi trattarlo in questo modo.”
Nel momento in cui Eren incrociò lo sguardo di Porko, qualcosa cambiò nella sua espressione. A Reiner non piacque: ora sembrava lui quello invisibile.
Zeke simulò un colpo di tosse. “Come stavo dicendo, Eren-“
“Tu hai divorato Ymir.” Eren parlò con tono calmo, quasi incolore, ma le sue parole ottennero lo stesso effetto di un colpo di cannone.
Calò un silenzio inquietante tra i presenti.
Reiner non si voltò a guardare in che stato versava Porko. Primo, non gli interessava; secondo, non c’era nulla sul viso di Eren che potesse anticipare la sua prossima mossa.
Il quindicenne fece un passo in avanti, nulla di più. Reiner gli afferrò il braccio nello stesso momento in cui Zeke gli strinse la spalla.
Fu allora che la tensione si spezzò per mano di Eren stesso. Fissò l’ex compagno di squadra con un cipiglio offeso. “Mi hai fatto vedere il frigorifero, ma non hai detto nulla sulle auto,” lo accusò.
Porko scoppiò a ridere e persino Pieck emise un verso divertito. Reiner non si azzardò a guardare Zeke in faccia, ma pensò che sarebbe stato più dignitoso per tutti se Eren avesse deciso di trasformarsi per radere al suolo l’intero promontorio.
Se Zeke aveva pensato di spezzare il ghiaccio con una presentazione formale, Eren aveva fatto le cose a modo suo: mandando tutti al diavolo e giocando la carta della spontaneità.
Porko si fece avanti, portando Pieck con sé e scansando - volutamente - Reiner per poter dare una vera occhiata al nuovo arrivato. “Almeno non hai la faccia brutta come quella di Reiner.”
Eren non diede segno di voler dire alcunché, così Zeke gli circondò le spalle e parlò per lui. “Non si è ancora ambientato, abbiate pazienza con lui.”
Reiner fu lieto di non udire Eren ribadire che non aveva alcuna intenzione di adattarsi, che li avrebbe ammazzati tutti e altre diavolerie che lo avrebbero condannato a morte prima di subito.
“Io sono Pieck,” si presentò la ragazza dai lunghi capelli arruffati. “Titano Carro. Ci siamo già visti ma tu non puoi ricordarlo.”
Eren assottigliò gli occhi e cercò di mettere insieme i pezzi. “Mi hai rapito… Credo.” Le immaggini della battaglia erano veloci e confuse nella sua mente.
“Ho aiutato Reiner e il Capitano a portarti qui,” confermò Pieck. “Stai molto meglio, vedo. O meglio, sei più bravo a fingerlo.”
Suo malgrado, Eren sorrise e decise che quella ragazza - seppur nemica - gli piaceva. Le porse la mano. “Eren Jeager, anche se lo sai già.”
Pieck gliela strinse. “Piacere di conoscerti per davvero.”
Zeke lanciò a Reiner un’occhiata vittoriosa, ma era un altro confronto che il più giovane aspettava.
Porko non si presentò con un atteggiamento altrettanto amichevole. Lo smarrimento di Eren nei confronti della loro auto lo divertiva, certo, ma non era sufficiente a cancellare le prime parole che gli aveva rivolto. “Non credo serva che mi presenti,” disse con tono grave. “Ho divorato una tua amica. Perché dovrebbe interessarti il mio nome?”
Era una provocazione. Anche quello faceva parte del piano di rieducazione di Zeke. Reiner lo comprese al volo: il Porko che conosceva non avrebbe mai parlato in quel modo.
“Credo che tu le abbia fatto un piacere,” rispose Eren. Era triste ma comprensivo al contempo. “Ciò che l’ha resa felice in una vita di torture era ormai fuori dalla sua portata. Immagino che Reiner te lo abbia raccontato.”
Porko guardò il compagno di squadra. “Quando è accaduto, non era qui. Prima non c’era stato tempo di dare molte spiegazioni.”
Eren annuì, poi si rivolse al fratello maggiore. “Voglio tornare nella mia stanza.”
Zeke inarcò le sopracciglia. “Non ti senti bene?”
“Mi gira la testa.”
Zeke annuì comprensivo. “Il Fondatore reagisce alla presenza degli altri. Non sei abituato a stare in mezzo alla tua gente, Eren. È normale.”
“Intendi la stessa gente che è cresciuta con me, dopo aver distrutto il mio mondo e prima di tradirmi?” Domandò Eren, velenoso.
Reiner ingoiò a vuoto. Quelle parole erano un avvertimento: collaboro ma non mi arrendo.
Decise d’intervenire. “Ti accompagno in-“
“Non sarà necessario, mi porta Michael,” disse Eren, allontanandosi sia da lui che dal fratello maggiore.
Zeke si avvicinò a Reiner. “Chi è Michael?”
“Una delle guardie.”
“Ora le chiama per nome?”
“Si adatta in fretta.”
“Ma dov’è Colt?” Domandò Porko ad alta voce, mettendo l’accento sulla totale assenza del futuro Guerriero in quel dialogo.
L’inconfondibile rumore di un conato di vomito fu l’unica risposta che ricevette.




Che diavolo ci facesse una stanza della musica in un castello adibito a prigione, Reiner proprio non riusciva a capirlo, ma al pianoforte dalla lucida superficie nera non importava nulla di essere fuori posto. Se ne stava lì, probabilmente inutilizzato da anni, a riflettere la luce che entrava dalle grandi finestre.
E Reiner non poteva fare a meno di guardarlo.
“Mi dispiace, Capitano,” disse Colt, tra un colpo di tosse e l’altro. “Ho provato a ricompormi e presentarmi a suo fratello, ma-“
“Non credo che suo fratello si sia minimamente accorto di te,” disse Porko, lasciandosi cadere su una delle poltrone.
“Prendi, bevi questo.” Zeke passò un bicchiere d’acqua al giovane che in pochi anni avrebbe preso il suo posto. Colt accettò di buon grado ma il suo sguardo rimase fisso sul pavimento, imbarazzato.
“È carino,” commentò Pieck, distesa su uno dei divani di pelle come un grosso, pigro gatto arruffato. “Non ti assomiglia per nulla, Capitano.”
“Per fortuna,” disse Zeke, accomodandosi in modo da poterli guardare tutti in faccia.
Compreso Reiner, che se ne stava lontano da loro, di fronte a quel vecchio pianoforte, quasi a voler sottolineare che anche lui era fuori posto in quel contesto.
Si sarebbe sentito più a suo agio di sopra, con Eren che lucidava i pavimenti e lo incolpava di tutte le sue disgrazie.
“Quindi quello sarebbe il Fondatore,” disse Porko, sprezzante.
“E il Gigante d’Attacco,” aggiunse Pieck.
“Il suo livello di pericolosità mi è parso assai ridicolo,” commentò il Titano Mascella. “Senza offesa, Capitano,” aggiunse in fretta.
Zeke gli rivolse un sorriso indulgente. “Ha quindici anni e un carattere… Complicato.”
A Reiner venne da ridere - senza allegria - ma strinse le labbra e si trattenne.
Complicato è pericoloso nella nostra posizione,” disse Pieck, senza alcun intento malevolo. “Porko è il massimo della complicatezza che ci possiamo permettere.”
Il compagno la guardò offeso. “Io onoro la mia missione come tutti voi!”
“Non l’ho mai negato,” replicò Pieck gentilmente.
Reiner li guardò: avevano passato insieme ogni minuto di ogni giorno da quando erano bambini. Quando lui, Marcel, Annie e Berthold erano partiti, solo loro due e Zeke erano rimasti in patria, ma quest’ultimo non si era mai davvero legato a nessuno dei tanti.
Pieck e Porko erano rimasti soli a Marley, un mondo che li odiava ma che non si faceva scrupoli a sfruttarli in nome della patria, di una vita migliore per le loro famiglie e un sacco di altre stronzate. Come loro, Reiner aveva onorato la sua missione con ogni fibra del suo essere puntando agli stessi obiettivi: il ritorno di suo padre, la felicità di sua madre, la libertà.
Fino al giorno in cui la sua mente aveva dimenticato tutto in favore di qualcosa di nuovo.
Eren aveva tutte le ragioni di deriderli. Mentre a Marley, gli Eldian del ghetto maledicevano qualcosa che non conoscevano per la loro posizione da vermi, il popolo di Paradis lottava. Sì, lottava.
Ora che Reiner li vedeva tutti di fronte a sè, si rese conto di quanto inutili erano state le morti di Marcel e Berthold. Di come il sacrificio di Annie non fosse servito assolutamente a niente.
C’era davvero qualcosa che ancora legava Reiner a quelle persone? Aveva avuto un’infanzia in comune con Pieck e Porko - e aveva un gran senso di colpa nei confronti di quest’ultimo per il modo in cui era morto suo fratello - ma non aveva più idea di chi fossero. Quali battaglie avevano combattuto? In che modo crescere li aveva cambiati? Reiner non lo sapeva e, ancor peggio, non aveva alcun interesse a scoprirlo.
Sapeva, invece, quando erano spuntati i primi peli in faccia a Jean, quando Connie e Armin si erano ufficialmente giocati il titolo di nano dello squadrone, ed era rimasto a guardare mentre Eren usciva incolume dalla pubertà. Berthold era stato pieno di foruncoli per un anno e Marco con lui. Per un’estate, Jean aveva avuto un tono di voce che non era né da bambino né da adulto. Connie non era mai stata una gran bellezza e il povero Armin non era mai riuscito a liberarsi del tutto dei lineamenti delicati dell’infanzia.
Per Eren, quella metamorfosi era stata tutta in discesa - un po’ come era accaduto per Mikasa, ma lei lo aveva fatto sotto gli sguardi incantati di tutti. Quel dodicenne carino e dal carattere terribile era divenuto un bello e insopportabile fanciullo di quindici anni.
Poi il campo di battaglia lo aveva forgiato e allora era divenuto bellissimo.
“Reiner, sei con noi?” La voce di Zeke lo riportò alla realtà.
“Sì,” rispose, avvicinandosi a quelli che erano ufficialmente i suoi compagni. “Stavo pensando ad altro.”
Porko sbuffò. “Le informazioni che hai fornito su Eren non sembrano essersi rivelate così utili per la sua rieducazione.”
Che lo insultasse più o meno direttamente quanto voleva, Reiner non riusciva a dare peso alle sue parole, non quando Eren lo accusava - a ragione - di avergli portato via tutto ciò che amava.
“Eren è un mina vagante,” disse, rivolgendosi al suo superiore. “Te lo dissi a Shiganshina e lo ribadisco oggi, ma penso che anche tu lo abbia capito.”
“Non è stato difficile fargli portare alla luce le sue fragilità,” raccontò Zeke agli altri tre. “Pensavo che facendo pressione dove la sua corazza era già crepata avrei ottenuto qualcosa, ma-“
“Ma Eren è il tipo che piange disperato perché lo hai tradito, mentre tenta di ucciderti a mani nude,” concluse Reiner. Fu poco rispettoso nei confronti del Capitano, ma Zeke decise di essere paziente con lui. “Non sottovalutate la sua emotività,” aggiunse. “Noi siamo stati addestrati per essere quelli che siamo. Ognuno di noi ha un Titano in base alle sue potenzialità. Se siamo qui, è grazie a una selezione ben precisa.”
“Eren lo è senza alcuna preparazione,” concluse Pieck. “Sta imparando… O ha già imparato, non posso saperlo, ma lo ha fatto da solo.”
Porko aggrottò la fronte. “E questo dovrebbe renderlo temibile? Lo avete definito mina vagante e impreparato, che cosa lo renderebbe tanto speciale?”
“È ancora vivo,” rispose Zeke. “Quanti dei Guerrieri addestrati e selezionati di questa generazione possono dire lo stesso?”
Per Porko era un colpo diretto alla memoria del fratello caduto in missione. Fosse stato Reiner a parlare, la discussione sarebbe finita in una rissa, ma nemmeno Porko era così testa calda da lanciarsi contro un superiore come Zeke Jeager.
“E vi spiego perché lo è,” intervenne Reiner. “È talmente inadatto a essere un Guerriero, che lo rende il nemico naturale di ognuno di noi. Non si tratta del Fondatore, non può nemmeno usarlo in circostanze normali. La vera differenza tra noi e lui è che noi stiamo giocando una staffetta: oggi interpretiamo il ruolo del Titano che ci è stato assegnato, con la rassegnazione che qualcuno verrà dopo di noi. Eren è un guerriero ma non per titolo. Eren è un predatore per natura. Eren è un Titano.”
Non c’era nessun reale predecessore, non nel suo caso, e non ci sarebbe mai stato nessun altro come lui.
Pieck si mise seduta composta, reclinando la testa quel tanto che bastava per guardare il compagno. “Non per sminuire il potenziale di Eren, ma ho come l’impressione che tu stia descrivendo una bestia a cui serve un padrone.”
“Stavo per dirlo anche io!” Esclamò Porko dal nulla.
“È per questo che il Capitano Zeke è qui.” Colt intervenne per la prima volta dall’inizio della conversazione. “Il ragazzo è sotto la sua responsabilità. Sta a lui addestrarlo e addomesticarlo... Se mi posso permettere.”
“Puoi,” gli concesse Zeke. “Hai ragione Colt, ma su di un dettaglio ti sei sbagliato: non sarò io il padrone di Eren. Per avere controllo su di lui servono due elementi fondamentali: fiducia e rispetto. Per quanto la cosa mi addolori, non riuscirò mai a fargli provare questo per me.”
Reiner incrociò il suo sguardo: aveva tramutato la sua sconfitta personale in una tattica finita male, e si era portato di fronte alla sua squadra con un piano B preparato a tavolino.
Per un giorno ancora, Zeke Jeager si sarebbe dimostrato all’altezza del suo ruolo.
“Levi Ackerman.”
Quel nome uscì dalla bocca del loro Capitano con naturalezza, ma quando arrivò alle orecchie di tutti fu come se avesse detto ad alta voce qualcosa di proibito. Di pericoloso.
“Sarà Levi Ackerman a tenere buono Eren,” concluse Zeke.
“Aspetta un momento,” intervenne Reiner. “Il piano era rieducarli e valutare cosa farne solo a quel punto.”
Porko guardò tutti con gli occhi sgranati: “abbiamo un Ackerman?”
Pieck e Colt non gli risposero: lei era stata presente al momento del rapimento e lui doveva essere stato informato in anticipo.
“Il piano è cambiato.” Zeke Jeager si alzò in piedi per sottolineare con garbo chi era a comandare. “Avevi ragione: non si piegheranno nemmeno di fronte al dolore. Errore mio non averti creduto.”
“Insieme ci distruggeranno,” sibilò Reiner.
“Non se facciamo pressione nei punti giusti.”
“Ancora con questa storia?”
“Avevamo poche informazioni su Eren, figurarsi sull’Ackerman,” disse Porko, sollevando la mano per chiedere la parola.
“Non vi servono informazioni,” disse Zeke, dando volutamente le spalle a Reiner. “Tutto ciò che dovete fare è mettere Eren a suo agio.”
Dimentico di ogni rispetto verso il suo superiore, Reiner sbuffò. “Zeke è un’assurdità!”
Zeke lo trafisse con lo sguardo. “Odia me,” affermò. “Odia te. Di loro non sa niente e sono gli unici che possono fare qualcosa per la sua solitudine. Eren non sa cosa voglia dire vivere insieme alla sua gente. Lo hai detto tu stesso: era la loro arma, erano pronti ad abbatterlo.”
“Stai semplificando di molto le cose a tuo comodo. Cosa possono offrirgli Pieck e Porko? Anche noi siamo schiavi pronti a essere sostituiti!”
Calò un silenzio molto pesante. Solo Pieck parve mantenere la calma, mentre Colt lo guardò come se avesse appena inneggiato alla rivoluzione armata e Porko si alzò in piedi, pronto a passare alle mani. “Chi sarebbe lo schiavo?”
“Eren non conosce questo mondo, Reiner,” insistette Zeke. “E non lascerà che noi glielo mostriamo.”
Reiner non poteva credere alle sue orecchie. “Vuoi che Pieck e Porko lo portino al ghetto? Fai pure! Liberio diverrà il centro dell’inferno prima del tramonto.”
“Eren non è indifferente alla sofferenza delle persone.”
“Questo lo so bene, Zeke!”
“Quelle che voleva proteggere sono morte, ma se lo convinciamo che il suo potere può ancora salvare degli innocenti…” Zeke lasciò la frase sospesa, lasciò che fosse il più giovane ad anticiparlo.
“Eren si sente in colpa per essere vivo,” disse Reiner. “Salvare vite innocenti gli farebbe espiare un simile peccato.”
“Prima deve vedere Marley con i suoi occhi.” Zeke si rivolse al Titano Mascella.
Porko sbatté le palpebre un paio di volte, poi incrociò le braccia contro il petto come un bambino offeso. “Io non faccio da balia al Diavolo moccioso o quel che è!”
“Oh, suvvia, Porko,” disse Pieck con uno dei suoi sorrisi enigmatici. “Eren è così carino. Sarà divertente.”
“Non è un cucciolo da portare a spasso, Pieck!”
“E con Levi che intendi fare?” Domandò Reiner. “Eren potrebbe anche accettare di salvare delle vite, ma non si piegherà a nessuno gioco politico. Sì, è vivo, ma non è bravo a mantenersi tale.”
Zeke accennò un sorriso. “Eren non è l’unico a non essere riuscito a salvare chi amava,” disse. “Farò della salvezza degli Eldian lo scopo di Eren e nel momento in cui saprà che è vivo, Levi non potrà permettersi di lasciar morire anche lui. Se sottostare a Marley gli permetterà di tenere Eren in vita, Levi saprà ingoiare l’orgoglio e tenere il suo cucciolo al guinzaglio.”
Reiner era dubbioso. “Tu non hai idea di chi hai ucciso a Shiganshina, Zeke.”
“Lo so molto bene, invece, Reiner,” ribatté il Capitano. “Per questo sono certo che quando i tempi saranno maturi, Levi ed Eren si aggrapperanno talmente tanto l’uno all’altro che qualsiasi risentimento nei nostri confronti passerà in secondo piano. Tuttavia, perché questo avvenga, dobbiamo prepararli e preparare le circostanze.” Si voltò verso gli altri tre. “Voi e Reiner occupatevi di Eren. A Levi penso io.”




Sapeva cosa era quella fanciulla dagli occhi neri e dai capelli corvini.
Sapeva perché tutti cercavano di eguagliarla, fallendo.
Non potevano. Era nella natura di lei avere qualcosa di più.
Ma chi fosse quel giovane dagli occhi di ghiaccio, proprio non ne aveva idea.
Era forte, certo. Lo era più di tutti, dicevano.
Aveva solo un nome con un presentarsi.
Nessun passato che valesse la pena raccontare, solo le gesta di un uomo nato dal nulla che poi così comune non era.
Ackerman.
Anche su quel nome si erano raccontate storie tra la sua gente.
Nessuna di esse si era avvicinata alla verità.
E poi c’era lui… Lui che di cognome faceva Jeager, e questo avrebbe già dovuto dirgli qualcosa.
Eppure non era nessuno. Era niente.
Il niente che gli aveva fatto dimenticare chi era, e che lo aveva spinto a chiedersi cosa voleva diventare.




“Liberio,” ripeté Eren. “La vostra capitale si chiama Liberio.” Lo trovava divertente, anche se non lo disse apertamente.
Reiner non lo biasimava: se aveva imparato a dare un significato alla parola libertà non erano state certo le grigie strada di Liberio a suggerirglielo.
Alla fine della riunione con gli altri Guerrieri - in cui Zeke aveva preso le decisioni per tutti, Reiner si era azzardato ad avanzare qualche dubbio e gli altri avevano annuito e basta - il sedicenne era salito in camera del prigioniero con un vecchia valigia. Era stato il suo stesso superiore a procurargliela.
“Non è un granché,” aveva ammesso Zeke. “Ma ha solo i vestiti che gli abbiamo dato noi.”
Da parte sua, Reiner avrebbe anche speso il resto dei suoi giorni a imparare a cucire pur di rivedere le Ali della Libertà adornare il braccio e le schiena di Eren. Quella stella bianca su sfondo rosso non riusciva proprio a soffrirla addosso a lui.
“Quindi mi porti fuori di qui?” Domandò Eren, incredulo. “Due settimane in cui non siete riusciti a ottenere nulla da me e ora posso uscire?”
“Non proprio.” Reiner aprì la valigia sul letto perfettamente in ordine - un altra eco dell’educazione di Levi rimasta addosso al più giovane. “Tuo fratello pensa che sia costruttivo per te passare del tempo con persone della tua età.”
Eren lo guardò come se avesse detto la più folle delle stronzate. “Nemici della mia età.”
“Sembrava che Pieck ti piacesse.”
“Lei non mi ha fatto niente.”
“Nemmeno Porko.”
“Ma lui mi fa incazzare solo guardandolo in faccia.”
Suo malgrado, mentre tirava fuori dall’armadio quei pochi vestiti che il prigioniero possedeva, Reiner scoppiò a ridere.
“Che cosa c’è di così divertente?” Domandò Eren, ma quella risata stava contagiando anche lui.
Reiner scrollò le spalle. “Era una cosa che pensavo anche io,” raccontò. “Quando eravamo bambini, Marcel glielo diceva sempre: Porko, dovresti avere un’espressione più gentile, o le altre persone non lo saranno mai con te.
Eren si sedette sul letto. “Marcel era il quarto, vero? Intendo, dopo te, Berthold e Annie…”
L’allegria che per breve tempo era comparsa negli occhi di Reiner scomparve. “Se non fosse stato per lui, non sarei mai diventato il Titano Corazzato. Gli devo molto.” Non stava mentendo: quelli erano i fatti, erano le sfumature e i contorni di quella storia a essere più complessi di come li presentava. Eren non aveva bisogno di sapere tutto: Marcel era stato divorato da Ymir e il resto della storia era in parte anche sua.
“Tu ti senti in colpa,” disse Eren, come se stesse pensando ad alta voce. “È morto per salvarti? Ymir stava per divorare te o qualcosa del genere?”
Reiner chiuse la valigia facendo più rumore possibile. “Sapevo che in fondo non ti serviva Armin per intuire le cose, ma che fossi tanto stronzo-“
“Almeno non sono un traditore,” lo interruppe Eren, gelido.
Reiner inspirò col naso. “Lo sono?” Domandò. “Facciamone una questione di logica - parola che a te è completamente estranea - se ho finto fin dal primo giorno, posso essere considerato un traditore?”
Eren s’imbronciò, il labbro inferiore sporgente, come se stesse per mettersi a piangere. “No, saresti solo il più vile dei bastardi...” Si alzò in piedi e uscì dalla camera da letto.
Reiner odiò il momento in cui aveva aperto bocca per dar voce al crudo buon senso. “Eren!” Chiamò, afferrando la valigia e andandogli dietro. Fuori dalla porta della cella, un giovane dai capelli biondo fragola - probabilmente Michael - gli indicò le scale che portavano al piano di sotto.
Reiner non aveva idea dell’inferno in cui si era chiuso Zeke in quei sotterranei, in sola compagnia di Levi Ackerman, ma cazzo se avrebbe fatto volentieri a cambio.
“Eren!”
Quando arrivò fuori dalle mura del castello, Eren era immobile a una decina di metri dall’auto a osservare una scena che non poteva capire. Pieck era seduta sui sedili dietro e assisteva al tutto in silenzio.
Colt e Porko erano in piedi accanto alla vettura, uno con le braccia conserte e l’altro sui fianchi. Di fronte a loro, due bambini fissava il terreno con ostinazione, ma avevano le guance rigate di lacrime.
“Capite che potreste avere un richiamo ufficiale?” Colt era fuori di sé dalla rabbia. “Questo non è un gioco, Falco!” Esclamò, dando un ceffone sul retro del collo del bambino dai capelli biondi. Reiner lo riconobbe subito ma non prestò a lui nemmeno la metà dell’attenzione che rivolse all’amica con cui era finita nei guai.
Porko diede un pugnetto innocuo sulla testa della brunetta. “E tu, Gabi, togliti quell’espressione arrogante dalla facc-“
“Che sta succedendo qui?” Reiner si fece avanti, lasciò cadere la valigia accanto a Eren ed esaurì la distanza che lo divideva dalla cugina.
Gabi sollevò gli occhi scuri, colmi di lacrime, in cerca di un aiuto. Nessuno l’aveva toccata, ma era brava a drammazzatizare.
“Da dove spuntano fuori?” Reiner non riusciva a capire.
“Dal bagagliaio!” Colt non si era ancora calmato. “Sono venuti con noi da Liberio, di nascosto!”
Porko alzò entrambe le mani. “Colt, respira,” gli disse. “Sì, hanno fatto una stronzata ma ci siamo solo noi qui. Non accadrà nulla a tuo fratello.”
“Nessuno di noi farà rapporto,” lo rassicurò Pieck. “Ci facciamo più stretti e li lasciamo vicino al ghetto, nessuno dirà nulla.”
Reiner non dubitava che non ci sarebbe stata alcuna conseguenza per quella ragazzata, ma chiudere un occhio e andare avanti non avrebbe impedito ai due bambini di farlo di nuovo. Per quel che conosceva Falco, lui non sarebbe mai voluto essere lì, ma Gabi…
“Mi dispiace, Reiner,” disse sua cugina, prima che potesse sgridarla come meritava. Era furba: pensava che facendogli tenerezza, la sua reazione sarebbe stata più quieta. La stagione dell’infanzia non l’aveva ancora del tutto abbandonata e ne era grato.
“Io ti conosco,” intervenne Eren con voce squillante, indicando la bambina.
Reiner lo fulminò con lo sguardo, ma l’altro non ne fu affatto intimorito.
“Penso di conoscervi tutti e due,” ammise il giovane prigioniero. “Ma la voce di lei la riconoscerei tra mille, lui parlava sempre troppo piano quando l’accompagnava.”
Colt divenne paonazzo, come se stesse per esplodere da un momento all’altro. “Non è la prima volta che venite quassù?” Domandò esterrefatto.
Falco chinò tanto la testa che Reiner pensò che a breve l’avrebbe nascosta sotto la terra. Gabi no, troppo orgogliosa per mostrare cedimenti.
“Vi siete fatti da Liberio a qui a piedi?” Porko non riusciva a credere alla sue orecchie.
Pieck rise. “Possiamo anche rimproverarli, ma non possiamo negare che abbiano resistenza fisica!”
Reiner li aveva beccati solo un paio di volte e solo perché Eren lo aveva informato. Non si era mai disturbato a prendere provvedimenti, ma se ora il prigioniero decideva di far saltare fuori tutta la storia, calmare Colt sarebbe stata un’impresa.
Eren dovette intuire quanto a fatica Reiner stesse camminando sul filo di lana, perché lo guardò con un sorrisetto che chiedeva di essere cancellato a schiaffi. Tuttavia, non accadde nulla di quello che si era aspettato.
“Immagino che delle presentazioni siano necessarie,” disse Eren, poggiando un ginocchio a terra per guardare i due bambini negli occhi. “Ecco a voi il mostruoso Diavolo dell’Isola di Paradis, contenti ora?”
Falco sollevò la testa tanto velocemente che Reiner credette di sentire le sue ossa fare crick. Gabi rimase con lo sguardo fisso, gli occhi enormi.
Qualunque fantasia si fossero fatti i due bambini era appena andata in mille pezzi di fronte alla semplice e deludente realtà.
Questo però non impedì a Eren di essere il piccolo stronzo che era. “Boo!” Esclamò di colpo.
I due bambini trasalirono, cadendo seduti e il prigioniero si alzò in piedi ridendo. “Io voglio stare seduto davanti!” Esclamò, aprendo la portiera e sistemandosi sul sedile accanto all’autista. “Reiner!” Lo chiamò, lanciandogli un’occhiata da sopra la spalla. “Guida tu, voglio vedere come si fa!”
E mentre Colt faceva salire i bambini sull’auto continuando a borbottare quanto fosse pericolosa la loro condotta, Pieck si voltò verso i due compagni di squadra. “Ripeto: è molto carino.”
Porko non condivideva il suo entusiasmo, piuttosto sembrava sempre più sconcertato dalle scene che si susseguivano l’una dopo l’altra. “Ma si può sapere dove lo hai trovato questo moccioso petulante?”
Reiner rispose gettando la valigia di Eren nel portabagagli e chiudendo il portellone con eccessiva violenza.




In qualche modo, entrarono tutti.
Pieck seduta sulle gambe di Porko, i due bambini compressi nel mezzo e Colt premuto contro la portiera opposta, il braccio a penzoloni di fuori perché non sapeva dove metterlo.
Reiner era al volante, rigido come un pezzo di legno mentre cercava di mantenere una velocità moderata, ma non troppo d’alimentare le battute poco gentili di Porko.
L’unico felice di quel viaggio era Eren: un momento osservava curioso le mani dell’autista che si adoperavano per muovere il veicolo, e quello dopo si guardava intorno incantato.
Reiner l’osservava con la coda dell’occhio, sorpreso dal sorriso che gli adornava le labbra. Forse era la novità dell’automobile o la bellezza di un orizzonte senza mura, ma ogni ombra sembrava essersi diradata da quegli occhi verdi dalle sfumature bluastre. Era come se la battaglia di Shiganshina non fosse mai avvenuta, come se il bambino pronto a divorare il mondo con uno sguardo avesse preso il posto del fanciullo dal cuore spezzato che aveva perso tutto.
Eren sollevò la mano oltre la portiera, fece volteggiare le dita in aria come piccole ali che saggiavano una libertà del tutto nuova per la prima volta. Fu allora che Reiner ne fu certo: non aveva importanza quanto fosse rossa la fascia sul braccio di Eren, quella stella non poteva segnarlo. Non sarebbe mai stato uno di loro.
E allora realizzò che c’era ancora una speranza.
Eren era speranza.
Lo era sempre stato.
“Ohi, Reiner!” Porko gli afferrò il retro del colletto e il sedicenne ritornò in sé appena in tempo per evitare di finire fuori strada.
Sui sedili posteriori, stretti com’erano, non successe nulla. Eren andò a sbattere contro la portiera, poi rimbalzò addosso a lui.
“Stai bene?” Domandò Reiner.
Eren non rispose, ma fece una cosa che li destabilizzò tutti più dell’incidente appena sfiorato: si fece leva sul parabrezza e si alzò in piedi.
“Eren!” Sbottò Reiner, afferrandolo per la cintura senza lasciare andare il volante.
Alle sue spalle, Colt andò in panico. “Che fa?” Domandò. “Che vuole fare?”
“E stiamo a guardare,” rispose Pieck, tranquilla.
“Eren, mettiti a sedere!” Tuonò Reiner. C’erano solo campi intorno a loro, ma vista la sua fortuna non si sarebbe sorpreso di finire dentro un canale d’irrigazione o qualcosa genere. Se poi un posto di blocco li avesse avvistati, nessuno li avrebbe salvati da un viaggetto al manicomio.
Eren abbassò lo sguardo, i capelli spettinati dal vento: “Reiner, vai più veloce!”
“Reiner, rimetti a sedere questo Diavolo demente!” Urlò Porko, come se Eren fosse cosa sua e gli ubbidisse ciecamente.
“Vai più veloce, Reiner!” Ripeté Eren.
Sorrideva.
Non se ne era accorto, ma lo faceva anche Reiner.
Premette il piede sull'acceleratore, tra le bestemmie di Porko, le risate di Pieck e Colt che urlava al mondo la sua convinzione: “moriremo tutti!”
Anche i bambini urlavano, un po’ per paura e un po’ per gioco.
Dalle labbra di Eren usciva un suono che non era una risata, né un grido. Allargò le braccia come se stesse volando.
Reiner lo lasciò vivere quell’illusione, incapace di staccargli di gli occhi di dosso.
La perfezione del momento si spezzò quando lo sguardo gli cadde sullo specchietto retrovisore, sul sorriso che era comparso anche sulle labbra di Porko. Era rapito da quel Demone di Paradis che fingeva di prendere il volo, forse derideva la sua follia ma ne era anche affascinato.
Pieck se ne accorse, gli diede un buffetto sulla guancia come una sorella che sa molto più di quel che dice. Porko riacquistò subito il suo cipiglio scontroso. Per un attimo, i suoi occhi incontrarono quelli di Reiner nello specchietto retrovisore.
Poi l’auto prese una buca in pieno.
Eren cadde seduto, battendo il retro del collo sul sedile.
Il motore si spense.
“Basta così!” Sbottò Porko. “Pieck, scendi per cortesia. Reiner, togli il culo da lì. Di questo passo, il novellino ci rimetterà la testa ancor prima di arrivare a Liberio.”
Reiner guardò Eren per assicurarsi che stesse bene, ma l’altro si limitò a massaggiarsi la nuca come se lui non fosse nemmeno lì.
Fu Porko ad aprirgli la portiera e Reiner decise di non creare drammi inutili.
Sul sedile posteriore, prese Pieck sulla sue gambe e osservò i due seduti davanti.
Eren e Porko si lanciarono un’occhiata.
Fu il primo a decidere che non avevano nulla da dirsi e voltò lo sguardo verso il paesaggio.
Porko sbuffò e rimise in moto il veicolo.
Tutto andò bene per cinque minuti di seguito… Fino a che, scosso dalla guida poco cauta di Reiner, Colt non vomitò sul retro del collo del Titano Mascella.
Alla fine, nel fosso d’irrigazione ci finirono davvero.
Nessuno si fece male.



Quel che davvero voleva ma non poteva avere, non era tornare a casa.
Il ricordo di quella terra era divenuto più confuso giorno dopo giorno.
La fanciulla dai capelli dorati era un desiderio, certo, ma superficiale come la voglia di bere della buona birra. Fece in fretta a dimenticarla.
Ciò che il suo cuore anelava era essere al posto di quel suo amico dai capelli rossicci.
Quel che mai e poi mai avrebbe potuto avere era il fanciullo dai grandi occhi dal colore impossibile che lo spingeva via, poi si faceva prendere.
Aveva scelto la strada di un Guerriero.
Il giorno in cui lo era divenuto era stato condannato a morte.




Mentre sorrideva, sarcastico, con le mani di Jean addosso, Eren era più vivo di quanto lui sarebbe mai stato.
Non era per lui, non poteva esserlo.
Si erano incontrati da condannati, ma solo Reiner era già morto.
   
 
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