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Autore: sacrogral    31/03/2021    6 recensioni
Terzo antefatto
in cui la trama ancora ristagna, alla Disperazione si fa il punto e non si conclude nulla, il poeta forse diventa serio ma forse no, il dottore si mostra uomo di scienza ma forse no, il frate si mostra uomo di Dio ma forse no, il pulcino è sempre fuori tempo, il boia non è solo un boia e la Morte accompagna tutti con la dovuta serietà.
Questa storia è il continuo di una storia, contiene riferimenti ad altre mie storie. Non so se può esser godibile a lettura secca.
Genere: Avventura, Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Terzo antefatto
 
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
 
In cui la trama ancora ristagna, alla Disperazione si fa il punto e non si conclude nulla, il poeta forse diventa serio ma forse no, il dottore si mostra uomo di scienza ma forse no, il frate si mostra uomo di Dio ma forse no, il pulcino è sempre fuori tempo, il boia non è solo un boia e la Morte accompagna tutti con la dovuta serietà.
 
Tirava un’aria da cospirazione. All’apparenza, tutto  come sempre. Di fatto, c’era chi aspettava che il posto si svuotasse per poter parlare in pace e tirare un po’ di somme. Il boia, imperturbabile, sedeva da solo al suo tavolo. Se qualcuno si fosse preso la briga – ma figuriamoci se – avrebbe notato che non aveva il consueto fiasco davanti – a monsieur Sanson il vino piaceva di più nel fiasco che nelle bottiglie. Joss se ne era procurati quattro da un italiano, una sera che non vale la pena di ricordare adesso – ma un boccale di birra di quelli che avrebbero dissetato un esercito.
Non si aspettava che l’oste gli rifilasse il Maudit, certo, ma un uomo come lui preferiva non correre rischi nemmeno minimi. Rabbrividiva al pensiero di perdere il controllo e sbagliare al lavoro. Detestava quei boia che davano spettacolo, perché volevano cinque minuti di gloria, perché erano dei gran cialtroni o perché semplicemente erano cattivi. Charles Henri Sanson lo sapeva che sarebbe finito all’Inferno – e dove vuoi andare, se sei il boia di Parigi? – ma non si considerava cattivo. Era questo il dramma della sua vita: voler essere una brava persona e essere quello che ammazza i criminali ma anche no, anche i disgraziati e basta, i disperati, era capitato. Tanto è così che funziona: ammazzi in battaglia e sei un eroe, ammazzi per strada e sei un assassino, ammazzi perché te lo dice lo Stato davanti al popolo imbestialito e sei un boia. La Morte sorrideva, gli leggeva dentro, quella cagna, non ci poteva far nulla: più lo vedeva tormentato e arrovellarsi coi pensieri neri, più lei era contenta. Non la guardava, la percepiva e basta. Gli faceva compagnia. Era lui che le dava da mangiare, con le sue mani. Quelle mani che talvolta vedeva sporche di sangue, e le lavava, ma il sangue non andava via, mai. E intanto Charles Henri Sanson, inespressivo, aspettava.
 
Gobemouche sedeva su una delle botti, da solo, silenzioso. Aveva la faccia che aveva quando voleva che la gente gli stesse lontano, e funzionava. Nel pomeriggio, sua sorella minore aveva avuto una crisi e aveva vomitato della roba verde, e poi dalla sua bocca erano uscite parole che avevano fatto piangere sua sorella maggiore.
“Perché hai bevuto quel vino? Da quando bevi vino?” le aveva urlato l’ennesima volta, scuotendola, lei con le pupille troppo alte nell’occhio, e un filo sottile di bava alla bocca.
Gobemouche si era sentito di colpo confuso: aveva paura per sua sorella, aveva paura di sua sorella, ma si era fatto anche paura da solo, perché la stava scrollando troppo forte e lei invece era debole, ma con un sorriso diverso, maligno – pensò. “E tu perché lo hai bevuto?” sembrava chiedergli, per smascherarlo. E Michel Gobemouche aveva fatto un balzo indietro.
Aveva guardato il dottor Lassone precipitatosi in fretta abbandonando alla levatrice una partoriente non troppo in salute, impaziente di tornare a sovrintendere, deciso però a vedere la ragazza e anche il fratello. Si riproponeva, quella notte, di aggiungere dati per lo studio di questo fenomeno, di questa peste che stava dilagando per Parigi, in chiunque avesse bevuto il vino di Joss.  La grande e recente opera di Diderot e D’Alambert – Diderot era quello con la moglie bella e l’amante bruttissima, contento lui, avrà i suoi buoni motivi – l’Encyclopédie, conteneva tavole splendide sulle scienze e le arti meccaniche, formulava la teoria della geometria descrittiva, introduceva il sistema metrico decimale. Due geni. Il dottor Lassone si riproponeva anche di far avere loro i suoi studi sulla malattia del Maudit. Adesso però, davanti alla jeunne fille ridotta pelle e ossa in tempi rapidi, e con un’espressione da esaltata, l’uomo dalle occhiaie perenni e dai molteplici pensieri non aveva in mente i signori D’Alambert e Diderot. Si chiedeva solo se il suo rifiuto di usare le salamandre su quella carne tenera fosse dato da una percezione sbagliata del problema, o dalla sua diffidenza verso il metodo. Anche al sovrano Luigi XIV, che Dio gli desse il Bene secondo il merito, erano state applicate come cura – peraltro inefficace, ricordò – contro il vaiolo. Si domandava poi se non stesse diventando credulo, lui, che magari aveva frequentato troppo fra Etienne ultimamente. Perché non vedeva l’impronta della malattia, su quel viso, vedeva l’impronta del demonio. E solo a pronunciare la parola gli venivano i sudori freddi, a lui, seguace dei Lumi, devoto di Descartes e Désargues. Cogito ergo sum, si ripeté.
“Deve solo decantare” affermò infine, risoluto, e poi si maledisse per aver usato un termine tipico del vino, a scoprire i suoi pensieri con ingenuità.
Gobemouche aggrottò le sopracciglia. Con uno sguardo, il dottor Lassone, già sulla porta, gli disse: “Dopo. Alla Disperazione”.
 
Fra Etienne entrò in quel luogo di peccato e perdizione con lo stesso cipiglio con cui entrava in chiesa, con lo stesso passo risoluto. A lungo era stato un prete di campagna e in campagna era nato e ancora non si sentiva parigino, si sentiva un ospite nella città. Gli spazi dietro la canonica gli avevano consentito ampiamente di ricavarne un orto, che lui chiamava l’Eden, e a lavorare nell’Eden lo si poteva trovare alla bisogna; ricavava il sostentamento per sé e per chiunque glielo chiedesse, ché lui non ci aveva mai creduto che Adamo ed Eva stessero davvero con le mani in mano, in quel Paradiso terrestre: la natura chiama, la terra vuol essere lavorata, per dare frutti richiede attenzioni e lui, contadino da generazioni e nell’animo, lo comprendeva. E le rare elemosine dei parrocchiani dovevano servire per i parrocchiani stessi, mica per il prete. Del tutto insensibile a denaro e beni materiali, una volta aveva avuto come vanto un calice d’argento, finemente cesellato, con cui celebrava messa. Un giorno poi aveva dato asilo a un giovane disgraziato, che per tre notti aveva visto dormire in terra e contendersi il pane raffermo coi cani.  Il mattino successivo, all’alba, prima ancora che se ne fosse accorto, bussarono alla porta due guardie, e tenevano fermo in mezzo il ragazzo, e quello di destra teneva il suo calice nell’altra mano.
“Sporgete denuncia, prete, e questo dalla galera non esce più” gli aveva detto quello più grasso.
“Se non per finire fra le grinfie di monsieur Sanson, s’intende!” completò il discorso quello più alto, con una risata e facendo le corna con la mancina libera, visto che aveva rammentato il boia.
Fra Etienne non aveva intercettato gli occhi abbassati di quel piccolo bastardo d’un ladro, mariuolo, tagliaborse, disonesto e ingrato, cui lui aveva dato la cena e un letto e per il quale aveva pregato prima di addormentarsi. Poi aveva preso fiato:
“C’è un equivoco, giovanotti” si era sentito pronunciare “Io questo calice gliel’ho regalato, al signore. Anzi” aggiunse con sforzo “mi fa piacere che lo abbiate portato indietro, perché ha dimenticato il candelabro d’argento. Gli avevo fatto dono pure di quello”.
Davanti a tre facce smarrite, un dignitosissimo fra Etienne, magro come un Cristo in croce, aveva preso l’unico candelabro che possedeva e lo aveva porto al giovane, che lo aveva preso un po’ tremando, lasciato libero dalle guardie, incredulo.
“Ti benedico, fratello” gli si era avvicinato fra Etienne, e ad un orecchio gli aveva detto: “Figlio d’un cane, se non scegli la via del bene dopo questa ti ritrovo e ti mando all’Inferno a calci in culo”. Con le lacrime agli occhi, il ragazzo aveva sorriso. (1)
Non se ne era mai pentito: ogni anima strappata al demonio ne valeva mille, di quei bei calici, e poi san Giuseppe era un falegname – sia lodato sempre – e allora tanto valeva officiare con un calice di legno.
Come sempre rivolse un’occhiata all’affresco con la Morte che rideva e che, peggio del pifferaio magico, attirava a sé giovani e vecchi, ricchi e poveri, uomini e donne.
Roba di Belzebù, senza dubbio, ma Joss da quell’orecchio non ci sentiva e non voleva saperne di coprirlo, come se non ci fosse già abbastanza disperazione, alla Disperazione e ti si dovesse ricordare a ogni piè sospinto che devi morire – e bravo avrebbe voluto dire il frate all’artista – e ora che lo hai fatto, che credi di aver fatto?
Il prete e la sua sottana erano talmente di casa che nessuno degli avventori abituali si scompose, e dato che nessuno si scomponeva non lo fecero nemmeno i capitati lì per caso, o per affari.
Foret, appena lo vide, gli versò da bere – Non è Maudit, gli disse con le guance all’insù – nel suo bicchiere, Armand Coppel – abate, giustiziato per aver dato le ostie benedette in pasto ai maiali.
Chissà poi se è vero – si domandava sempre fra Etienne – e poi, anche se fosse, porco cane, anche i maiali devono mangiare! e beveva alla salute dell’anima nera dell’abate Coppel.
E si mise ad aspettare e a pregare, osservando in tralice il boia, inespressivo, e Gobemouche, con la sua faccia da tagliagole, e ogni tanto alzava gli occhi su Joss, i cui occhi però non riusciva  fermare.
 
E finalmente, in quella sentina maleodorante di disperati, entrò il dottor Lassone, portandosi dietro la borsa coi ferri del mestiere e la sua stanchezza di secoli sulle spalle. E gli bastò uno sguardo a Joss per capire che sì, era l’ultimo, e perché Joss ordinasse a Foret con gli occhi di rimando, quasi fosse lo sguardo stesso del dottore rifranto, di suonare d’improvviso la campana della Disperazione, che stava lì a invitare con cortesia, e con un fracasso d’inferno, tutti a uscire. Qualcuno grugnì, qualcuno sacramentò, nessuno protestò direttamente. Perché tanto si sa come va: alla Disperazione si fa sempre quello che deve esser fatto, sennò tanto vale andare in un posto qualunque, per dire.
 
“E quindi vi ha dato ascolto” disse monsieur Sanson, con un accenno di soddisfazione, alla fine del resoconto di Gobemouche.
“Ci ha dato ascolto, avevate ragione” confermò il poeta dei cenci e dei trucioli “E aveva ragione anche Foret, è molto bella” aggiunse, senza motivo, e poi: “Mia sorella sta ancora male, il dottore rifiuta di applicarle le sanguisughe, ma il suo sangue è malato”.
Il dottor Lassone tolse gli occhiali e li pulì con lentezza:
“Le salamandre tolgono linfa, indeboliscono il corpo già debilitato. Tua sorella avrebbe bisogno di una trasfusione di sangue fresco, ma siamo solo agli albori. Non tutto il sangue va bene e non è chiaro il motivo. Gli studi del grande medico italiano Marcello Malpighi e dell’illustre mister William Harvey – ah, l’Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis - sono pietra miliare e ottimi nella teoria, ma mai mi prenderei la responsabilità di introdurre spiriti vitali  estranei nel corpo di tua sorella. Deve spurgare il veleno e combattere la sua battaglia” (2).
“È il demonio, boia d’un mondo – abbiate pazienza, monsieur Sanson, è l’abitudine – ma ci vuol tanto a capirlo? Altro che motus cordis et sanguinis! Il Generale di brigata, bella o brutta che sia, deve risalire alla fonte, prendere quel demonio incarnato e farne strame, così da annullarne il maleficio!” si inalberò fra Etienne, che non aveva pensato ad altro tutto il giorno.
“Il comandante Jarjayes infatti andrà alla fonte” confermò Joss, che si sentiva in colpa per la sorella di Gobemouche e non sapeva come dirlo, né come fare “Ha già incontrato il demonio e non mi pare che le abbia preso l’anima. E nemmeno a me!” affermò fiero l’oste. Credeva che il dipinto sulla parete lo mettesse al sicuro da ogni forma di influenza maligna, e nessuno se la sentiva di contraddire le certezze di Joss, che lavava i bicchieri alla Disperazione da quando era nato; nemmeno fra Etienne.
Gobemouche, una mano a scompigliare i capelli di Foret, domandò cupo: “Per andare alla fonte devo intendere quello che ho capito? Lo vanno a cercare?”
Parlò al plurale, sicuro anche di chi sarebbe andato con lei. E non era un male.
“Mi par di aver compreso con certezza, dal resoconto fattoci, che madamigella Oscar abbia intenzione di andare di persona ad accertarsi della parte sostenuta in causa da monsieur le marquis, il divin marchese, il cui nome è abominio per ogni persona di onesti costumi. Certo non andrà sola e certo non si porterà dietro un reggimento. Lei e il giovane André, azzarderei, in missione esplorativa, senza bisogno di far tanto chiasso coi superiori. E loro due – sorrise, il dottore, ricordandoli bambini prima e ragazzi poi – hanno già fatto fronte a situazioni complesse”.
“Il tempo” ribatté Michel Gobemouche “Ce l’ha il tempo mia sorella, dottor Lassone?”
“Il tempo” riprese quello “è alleato nostro. Ti dico che tua sorella deve decantare il veleno, o qualsiasi cosa le abbia sporcato il sangue”
“A sua sorella serve un esorcismo!” sbottò fra Etienne, impaziente, e guardò storto il Trionfo della Morte, quasi sperando di incenerirlo con lo sguardo.
“Madamigella la salverà. Salverà tutta Parigi! E sconfiggerà il Male!” esplose Foret, col suo sguardo vacuo che forse vedeva tutto.
“E va bene!” gridò allora Gobemouche “Niente esorcismi in casa mia, niente sanguisughe, solo attesa. Ma se fra tre giorni non ho notizie, se madamigella Oscar ci ha preso per i fondelli, allora prima chiamo il prete e bacio pure la Croce e faccio tutto quel che mi dicono di fare i servi di Cristo, e poi taglio quel collo di cigno che quella donna si ritrova da parte a parte!”
“Michel!” gridò Foret, sull’orlo del pianto.
“Lascialo fare” gli disse Sanson senza toccarlo – il boia non tocca mai nessuno, men che meno i ragazzini – “Non dice sul serio. Ha solo bisogno di dirlo”.
E Gobemouche, d’improvviso, prese due pezzi di carbone dal secchio, si avvicinò al muro dov’era pulito e cominciò a imbrattarlo.
“Joss” chiese Foret ancora “Cosa fa?”
Joss sorrise con tristezza.
“Gobemouche non nasce imbrattacarte e poeta, pulcino, Gobemouche nasce imbrattatele e pittore. È una storia lunga da raccontare, ma lui e il giovane Marcel un suo amico fraterno –  Michel e Marcel , sempre insiem –  dopo aver seguito studi, essere stati allievi di maestri –  non chiedermi come, è una storia lunga da raccontare –  riuscirono a esporre al Salon de Paris, un quadro a testa. Gobemouche non pensò ad altro per mesi, tutte le sere stava due ore a guardare il tramonto sulla Senna, imbambolato, come dimentico di tutto, e alla fine espose un quadro che io non capii. Ma questo non conta. Non lo capì nessuno. Sembrava fatto a macchie di luce, non c’era un disegno chiaro, sembrava avesse gettato il colore su quelle tela con rabbia – io non lo so dire”
“Me lo ricordo. Sembrava aver fatto la guerra con la luce” precisò Lassone.
“E fu uno scandalo. Volevano linciare il pittore. Fu giudicato offensivo, Foret, cioè una cosa che manca di rispetto a chi merita rispetto”.
“Si gridò all’eresia, boia d’un Giuda – perdonate, monsieur Sanson, è solo un modo di dire –  Blasfemi! Come se Dio si occupasse dei pennelli e dei colori!”
“E la gente non parlava d’altro, Gobemouche dovette sparire per un po’ dalla circolazione. Una debaclé senza precedenti. Il suo amico invece aveva portato un quadro molto più canonico, che vuol dire che rispetta quel che va rispettato”
“Bene!” esclamò Foret, incantato.
“No, invece. Perché il quadro di Marcel passò inosservato. E lui andava tranquillo tutti i giorni al Salon e nessuno lo riconosceva, nessuno gli diceva niente e nessuno guardava il suo quadro. E la gente si accalcava davanti al quadro di Gobemouche per insultarlo, per deriderlo e per non parlare d’altro che dell’artista delle macchie. E alla fine quello che era stato il pittore attento alle regole capì che la debaclé era stata la sua, di cui nessuno si era accorto, e si riempì le tasche di sassi e si buttò nella Senna. E Michel il giorno dopo andò al Salon e aveva la faccia che ha quando nessuno gli si deve avvicinare, staccò il suo quadro e fuori, davanti a tutti quelli che l’avevano seguito, gli diede fuoco e lo bruciò. Per mesi fu cercato dappertutto, lo volevano tutti, nobili e borghesi, ma non ha più dipinto, Gobemouche”.
Foret li guardò tutti, triste.
“Dite che si sentiva in colpa?”
Il boia era stato raggiunto dalla Morte, che nessuno vedeva tranne lui e Foret e che ascoltava Joss seria, sorridendo. Sanson non la guardò, guardò il ragazzo: “Sì, Foret, bravo. Non c’era motivo, ma si sentì in colpa. A volte succede”.
“Guardate, ora, banda di strozzapreti e invasati” gridò Gobemouche.
Si spostò con un salto e sul muro, dal nulla, era apparsa madamigella Oscar, nera di carbone su sfondo bianco sporco. La Morte sorrise di nuovo, mentre tutti i presenti avevano l’illusione di vedere i colori che mancavano, e con chiarezza percepivano il bianco carnoso delle rose da cui era circondata, quello più tenue dei petali di rosa selvatica che le cadevano sui capelli, e percepivano il movimento elastico del corpo giovane, con le mani tese in avanti, a offrire un abbraccio o solo le mani, e vedevano il contrasto leggero che non c’era fra il rosa delle labbra diverso da quello della pelle, e il bianco dei denti nel sorriso era bianco dell’alba e il collo era quello di un cigno senza età, mentre lei profumava come una rosa e tripudiava nell’oro che non c’era dei capelli che la rivestivano come una tenda aurea e della luce che la investiva tutta, e che illuminò la Disperazione.
“Per tutti i santi del Paradiso” balbettò fra Etienne.
Gobemouche lasciò cadere i pezzi residui di carbone, le mani nere e sporche, il volto sudato.
“Mi fido. E brindo a madamigella Oscar. Mi fido. E brindo ai Buoni, che siamo noi, e a voi che siete i soli al mondo di cui mi fido!”
Joss aprì una bottiglia nobile con aria trasognata. Il boia sentì la nostalgia di ciò che non aveva mai avuto. Il dottor Lassone sorrideva spento sotto le occhiaie. Fra Etienne borbottava una litania. Foret si dava da fare. Ciascuno si ritrovò un bicchiere davanti, come per magia.
“A madamigella Oscar de Jarjayes”  alzarono insieme, rivolti alla donna che risplendeva nel buio della Disperazione fetida, a un passo dalla Morte.
 
  1. Questo episodio è un omaggio ai Miserabili di Victor Hugo. L’ho riassunto e riscritto a ricordo, il confronto è ovviamente improponibile, ma rammento che, leggendo il romanzo, mi aveva colpito, perfino commosso. Pago il mio debito.
  2. Non si prendano per oro colato le parole del dottore che ignoro se rispecchino davvero le conoscenze anatomiche e in particolare sul sistema cardiocircolatorio che un buon medico dell’epoca poteva avere.
  
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