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Autore: artemide88    07/04/2021    2 recensioni
Isabella Black frequenta la più importante scuola della Virginia e non solo ha ottimi voti, ma sta per diplomarsi con un anno di anticipo. Vuole andarsene, da quella scuola e quella città, il prima possibile perché odia i bulli che la perseguitano. Potrebbe però avere vita più facile se rivelasse un piccolo dettaglio sulla sua vita...
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Buona lettura.

CAPITOLO 18

“Vattene!” Edward non mi lasciò per andare ad aprire la porta, anzi. La sua stretta sul mio seno si fece più intensa e lo sguardo malizioso.
Bussarono ancora alla porta. “Forse è il caso che apri.” Sussurrai con il fiato corto. Lui non ne fu felice, ma si alzò, si ricompose e io feci lo stesso.
“Pronta a incontrare di nuovo il lupo cattivo?” Mi fece l’occhiolino, ma poi controllò l’orologio. “Non dovrebbe essere qui, è raro persino che rientri per cena.” Il nervosismo tremò nella sua voce. “Esme avrà fatto la spia e sarà venuto a controllare.” Dubitai fortemente che il dottore lasciasse il lavoro solo perché ci eravamo chiusi in camera o che la sua compagna si comportasse come una liceale lamentosa.
All’ennesima intimazione di aprire la porta, Edward si decise. Io cercai di sembrare rilassata e mi sedetti composta alla scrivania.
“Che stavate facendo?” Il dottor Cullen avanzò di un solo passo nella stanza osservandoci sospettoso. Il corpo muscoloso di Edward gli impediva di proseguire oltre: la sua presenza non era gradita in quella stanza.
“Guardavamo la tv.” Edward alzò le spalle con noncuranza. Per fortuna non avevamo spento L’incantesimo del lago.
“Fa niente. Devo parlarti, vai nel mio studio. Chiederò a Polson se può accompagnare la signorina Swan a casa.”
“E perché mai il tuo autista dovrebbe portare a casa Bella? Lei resta, dimmi quello che devi e poi io e lei usciamo a cena.”
“Perché sì. Tra cinque minuti nel mio studio.” Carlisle Cullen riportò l’attenzione sul figlio e il gelo calò nella stanza. Così come nei giorni precedenti io avevo sfidato il mio di padre, adesso Edward stava sfidando l’autorità del suo. Noi ragazzini volevamo farci valere con i nostri genitori e non potevo impedire a Edward di combattere le sue battaglie, quindi me ne restai zitta perché era giusto che non intervenissi, come aveva fatto lui dal preside.
Quando il padre se ne andò mi avvicinai a lui e gli dissi che non era un problema rimandare la nostra serata. Sussultò sentendo la mia mano sul suo braccio, lo conoscevo abbastanza da sapere che era arrabbiato, e forse preoccupato, per quell’inaspettata convocazione. Il rapporto con suo padre era molto più teso di quello che mi aveva fatto intendere. 
Portarmi qui, in casa sua, era davvero una grande prova per lui.
“Aspettami. Torno subito.” Mi diede un bacio veloce sulla guancia e si decise a scendere dal padre. 
Avrei voluto seguirlo e invece tornai a sedermi e iniziai a curiosare distrattamente tra i suoi libri. 
Stavo guardando uno spaccato della vita di Edward attraverso le sue letture, per lo più testi scolastici e qualche libro di chimica. Sotto una pila di traballanti libri vidi anche testi giuridici ed economici, molto più consumati dei precedenti.
Stavo per afferrane uno, quando mi sentii osservata: Esme era alla porta con il piccolo Seth in braccio che cercava di tirarle una ciocca di capelli.
“Carlisle mi ha chiesto di venirti a dire che Polson ti attende all’ingresso.” Era un congedo. Non potei ribattere nulla, mi stava tenendo la porta della stanza aperta, invitandomi gentilmente a uscire da quella casa. 
Cercai di sorridere, infilai il maglioncino, presi in mano il giubbino e mi avviai verso l’atrio. 
Ero a metà delle scale quando il silenzio fu interrotto da un urlo. Edward stava urlando qualsiasi tipo di insulto da qualche parte oltre le porte chiuse sulla destra. Immaginai che una fosse quella dello studio del dottore.
“Meglio se ti sbrighi.” Esme mi fece segno di continuare a scendere, chiaramente nervosa per le urla. 
“E tu saresti un medico? Sei solo un figlio di puttana!” Rimasi bloccata sul gradino per la rabbia di Edward. 
Comparve schiumante di rabbia e il volto stralunato, seguito dal padre che lo chiamava e lo implorava di ascoltarlo.
“Non me ne frega un cazzo! Sei uno stronzo!”
“Ascoltami per favore!”
Edward si girò verso di me. “Andiamo.” Un ordine secco che mi fece tremare. Dove era finito il ragazzo che amavo? Quello dolce e spensierato che mi prendeva in giro facendomi sentire speciale? Quello che guardava i catoni con il fratellino? 
Cosa era successo?
Mi riscossi dal mio stato di shock e scesi di corsa gli ultimi gradini, andando verso la porta principale. Edward la stava già oltrepassando a passo di carica, forse diretto alla sua auto. 
La mano del dottor Cullen mi afferrò un braccio mentre passavo vicino a lui. “Stagli vicino, per favore.” Annuii confusa anche se non sapevo bene che stesse succedendo.
La Maserati mi aspettava proprio di fronte al portone. Entrai senza dire una parola e Edward partì all’istante, lo sguardo indurito, fisso oltre il parabrezza.
Non tentai nemmeno di dirgli qualcosa, avrei lasciato a lui la prima mossa.
Guidò per ore, il buio avvolse ogni cosa attorno a noi, l’autoradio stranamente spenta. L’unica luce che a tratti illuminava l’abitacolo era quella dei lampioni che scorrevano veloci accanto a noi. Non sapevo dove stessimo andando e cercavo di non guardare il tachimetro: segnava velocità ben oltre il limite consentito. 
Edward era immerso in una bolla di rabbia e dolore. 
Erano quasi le dieci di sera, quando finalmente Edward rallentò e parcheggiò in riva a un fiume. Non sapevo dove fossimo, ma immaginai che viste le dimensioni fosse il Potomac, forse verso il suo estuario. L’altra sponda non era visibile, nonostante fossimo in un punto panoramico illuminato dalla luce gialla dei lampioni. La città alle nostre spalle era in pieno fermento.
Edward scese senza aspettare che lo seguissi. Feci appena in tempo a vedere che armeggiava con il bagagliaio, che ne estrasse qualcosa e si diresse al parapetto.
“Edward...” Sussurrai il suo nome mentre con un grido di dolore lanciava la valigia che portava con sé nel fiume. Lanciò un secondo urlo e si appoggiò alla staccionata in legno e si prese la testa tra le mani, come se si fosse svuotato di quello che lo tormentava. Mi avvicinai a lui, tremando per il freddo e per la sua disarmante vulnerabilità.
“Edward.” Ripetei toccandolo appena. Si voltò verso di me, gli occhi pieni di lacrime.
“È...è morta, Bella. Mia madre è morta.”
Mi si bloccò il respiro. Non feci altro che appoggiare la testa sulla sua schiena, sotto la sua spalla destra, abbracciando il suo fianco. La sua schiena era scossa dai tremiti del pianto e cercai di stringerlo il più forte possibile come se potessi impedirgli di andare in mille pezzi per il dolore. Mi afferrò le braccia come se fossero la sua ancora di salvezza.
Restammo lì per ore, affinché sfogasse tutto il suo dolore. Non sentivo il freddo o i muscoli delle braccia che mi dolevano per lo sforzo di stringerlo. Il fiume sotto di noi portò al mare tutto il suo dolore, in silenzio.

“Davvero, sto meglio.” Lo squadrai scettica. Sua madre era morta, aveva passato ore a piangere e continuava a sostenere di stare bene. Senza considerare che le ultime parole della madre erano state d’odio e aveva gettato nel fiume la valigia che aveva preparato per andare a trovarla. 
Lasciò cadere la forchetta nel piattino di torta al cioccolato che avevo ordinato per lui alla tavola calda sulla strada del ritorno. “Che schifo di appuntamento. Dovrò farmi perdonare.”
“Edward. Smettila.” Non poteva davvero scusarsi per l’ennesima volta per gli occhi gonfi e rossi o perché era saltata la nostra cena. Fece per protestare ma alzai la mano.
“Sembri tua zia.” Una risatina sincera, mentre io mi imbronciavo, ma ero segretamente lieta di averlo fatto sorridere. “Vuoi finirla tu?” Aveva mangiato sì e no due forchettate. 
“Il cioccolato fa bene.” Prese un altro boccone per farmi contenta. “Vuoi parlarmi di lei?”
Scrollò le spalle. “Magari domani.” 
Domani...era già domani. I miei mi avrebbero scuoiata viva per un ritardo del genere. Presi il cellulare per avvertirli che avrei fatto tardi, ma trovai un messaggio di mio padre: Mi fido di te.
“I tuoi saranno preoccupati. Ti porto a casa.” Gli sottrassi le chiavi dalle mani. Non poteva guidare per ore, non in quelle condizioni. “Bella...” 
“Sei uno di quegli uomini che non fanno toccare la propria macchina nemmeno alla loro donna?” Alzò le mani, in segno di resa. Era di poche parole, ma almeno sembrava che stesse reagendo. Tuttavia, il fatto che fui io a pagare il conto, fu indicativo di come stava.
“Dovrai dirmi che strada prendere.” Edward ammise che aveva solo seguito la strada, senza sapere nemmeno lui dove stava andando. Trovammo, per fortuna, alcune indicazioni per cittadine vicino alla nostra e le seguimmo.
“Mamma è una bella donna...era una bella donna. Il suo punto di forza erano i capelli, simili ai miei per il colore, ma ricci, tanto ricci. La pelle era chiarissima, con qualche lentiggine. Sembrava una bambina quando si imbronciava.” Nel silenzio della macchina, Edward iniziò a parlare a ruota libera. Mi tenne compagnia fino a casa con piccoli aneddoti sulla sua vita con sua madre. Lei gli aveva insegnato a nuotare, a cavalcare, a suonare il piano. Era da lei che aveva preso la sua parte più artistica e passionale. Quella parte che lo faceva andare in canoa o in campeggio solo per sfidare la natura o restare sveglio la notte per vedere le stelle. 
Sentivo le lacrime premere per uscire. Parlava di sua madre con una tale dolcezza...e lei non aveva minimamente capito quanto suo figlio l’amasse.
“Tutto è precipitato alcuni anni fa. Mamma era cambiata, tanto cambiata. Carlisle la voleva solo come bella bambolina al suo fianco, non come compagna. La trascurava e lei era sempre più infelice. Ma non lo lasciò. Continuò a fingere che il loro matrimonio andasse a gonfie vele, perché era una Yankee ma aspirava a essere una donna del sud.” Anche Edward era stato infelice per il comportamento dei genitori, ma qualcuno lo aveva capito? “Sarebbe stato meglio se se ne fosse andata prima, magari sarebbe ancora viva.”
Osai togliere la mano dal volante e accarezzagli il braccio. Avevo paura di rovinargli la macchina, e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la macchina sfasciata per colpa mia.
“Non è colpa tua.”
“No, è colpa di mio padre.” Ecco la rabbia che sostituì il dolore e la dolce malinconia. “Non ha mai fatto nulla. Anzi...la relazione con Esme andava avanti da anni. Solo quando lei è rimasta incinta ha chiesto il divorzio.”
“Non è comunque colpa tua.” Gli dissi ancora.
“Mi ha detto...” La voce gli si spense.
“Ti ha detto cose terribili, che nessuna madre dovrebbe dire. Eppure tu le vuoi bene, le hai sempre voluto bene. Non è colpa tua se è tornata a New York o se è morta. Non è colpa tua se sei rimasto a vivere qui e non l’hai seguita. Non è colpa tua se non sei andato da lei.”
Edward rimase in silenzio, ma mi strinse la mano sul suo braccio.
Il silenzio durò finché non parcheggiai davanti a casa, slacciai la cintura di sicurezza, ma non scesi dalla macchina.
“Resta ancora un po’ con me.”
Stagli vicino per favore.
“Non vuoi andare a casa? Magari se parli con tuo padre...” Non voleva parlare con lui, ma stare con me. Non potevo lasciarlo andare in quelle condizioni, anche a costo di rovinare definitivamente il rapporto con mio padre. “Dai, vieni.” 
Entrammo nel silenzio opprimente e soffocante dell’atrio mano nella mano. I miei stavano dormendo e potevamo sgattaiolare in silenzio nella mia camera. Il letto non era grande come il suo ma ce lo saremmo fatti andare bene.
La porta dello studio di papà si aprì e uscirono entrambi i miei genitori, in vestaglia.
“Isabella!” Sembravano sollevati di vedere che ero tornata.
“Mamma...papà...” Mi avvicinai a loro e li abbracciai. “Mi dispiace aver fatto tardi...io...”
“Il dottor Cullen mi ha chiamato, tesoro.” Papà mi guardò comprensivo. “Voleva sapere se foste rientrati. Dov’è Edward?” Voltai solo un po’ il viso per indicare la porta. Era rimasto in disparte, nel buio, mentre affrontavo i miei. Anche da quella distanza potevo vedere le spalle ingobbite, la testa china, gli occhi spenti. 
“Ci dispiace per tua madre, Edward.” Il mio ragazzo si avvicinò e ringraziò mio padre. Cercò di prendermi le chiavi della macchina.
“Oh, caro. Ho preparato una stanza per te, se vuoi restare qui stanotte.” Edward rimase spiazzato dalla gentilezza di mamma. Io gliene fui grata soprattutto perché nella sua voce si leggeva solo dispiacere e non pietà.

Dormii sì e no tre ore e quando mi svegliai il sole non aveva ancora bucato la coltre di nubi. Non riuscivo a riprendere sonno, né a stare nel letto a rigirarmi continuamente. Non sapendo che Edward era a due piani sotto di me, in una delle stanze per gli ospiti e che gli era appena morta la madre. Avrei voluto stringerlo a me per tutto quel che restava della notte e consolarlo, ma i miei erano stati fin troppo compresivi e disponibili.
Avevo solo potuto stringerlo a me e coccolarlo finché non si era addormentato, poi ero andata nella mia stanza, dove ero rimasta in uno stato di dormiveglia preoccupata per lui.
Scostai le lenzuola e andai in cucina. Avrei preparato la colazione, così da non pensare.
“Ti facevo più tipa da pigiamone di flanella. Magari a quadretti.”
“Quello è nell’armadio.” Avevo indossato la sua maglietta da quarterback e un paio di short per dormire, abbandonando i quadretti sulla sedia. Per ripararmi dal freddo mattutino avevo scelto una delle mie maxi felpe. Con abile mossa girai il pancake che rischiava di bruciare. Per Edward avevo deciso di mettere da parte ogni mia ritrosia verso lo sciroppo d’acero.
“Se Jake sapesse che ti sto facendo i pancake...non te ne lascerebbe nemmeno uno.”
“Allora ne devo proprio approfittare.” Si sedette alla panca del tavolo, vicino alla finestra. Mi accoccolai al suo fianco. “Io...grazie per ieri.”
Annuii senza aggiungere altro. Se lo faceva stare bene ringraziare e scusarsi, glielo avrei permesso. 
“Ha ragione Jacob. I tuoi pancake sono fantastici.”
“Pensare che qualcuno ha anche tentato di farmi odiare lo sciroppo d’acero.” La sua risata bassa e melodiosa riempì la cucina e io sospirai di sollievo. Non mi illudevo certo. Il dolore doveva essere lì, sotto la superficie, pronto a ritornare con la forza di un uragano a spazzare via questa tranquillità.
Restammo in silenzio, solo il rumore delle posate sui piatti. Ma non sentivamo la necessità di riempirlo in alcun modo.
Sobbalzammo entrambi quando il campanello suonò, un rumore esageratamente acuto in quel silenzio mattutino.
Andai subito ad aprire, immaginando benissimo chi potesse essere. Il padre di Edward mi squadrò da capo a piedi, la mia mise non proprio decorosa. Ma erano anche le sette del mattino e decisi di non farmi intimorire da lui. Lo condussi in cucina, senza una parola di saluto. 
Edward ci aspettava, lo sguardo nel piatto e le posate strette nelle mani, come se potesse usarle come armi.
Chiesi al dottore se volesse del caffè. Anche lui sembrava aver dormito poco quella notte. Per un po’ gli unici rumori furono quelli della macchinetta del caffè e di me che ne servivo una tazza a entrambi i Cullen. Presi la mia e mi congedai.
“No, resta.” Il dottor Cullen non ne era per niente felice. “Se lei non resta, tu puoi anche andartene.” L’uomo non si azzardò a dire alcunché e io tornai a sedermi vicino a Edward. Una sua mano scattò sotto il tavolo, aperta, in un chiaro invito a stringergliela. Potevo sentire la vena del polso pulsare furiosa, immaginai che anche il suo cuore pompasse a tutta potenza. Eppure non mostrava alcuna emozione, tranne una maschera di fredda pietra.
Il dottor Cullen non distolse mai lo sguardo dal figlio e bevve solo un sorso del suo caffè.
“Avrei dovuto dirti prima che Elisabeth era malata.”
“Già, avresti dovuto.” Edward non sembrava intenzionato a essere minimamente disponibile con il padre.
“Era già malata quando ti disse che...che ti odiava.” 
“E quindi mi hai fatto un favore a sbatterla fuori di casa, giusto?” Gli strinsi la mano.
“Non lo sapevo allora, né lo sapeva lei. Mi ha chiamato sei mesi fa.”
Edward sussultò. “Perché non...” La voce di Edward si spezzò e la sua stretta mi fece dolere la mano, ma non dissi nulla. Gli accarezzai il braccio come conforto.
“Prima che io iniziassi la relazione con Esme, Elisabeth era solita tradirmi e provava una certa soddisfazione a farmelo sapere. Avrei dovuto fare qualcosa, ma il suo cambiamento mi aveva spiazzato. Pensavo che fosse infelice e le permisi di comportarsi in quel modo anche se mi feriva e mi allontanava.” Edward ascoltava ed ero certa che presto sarebbe scoppiato. “Ma andava bene perché era tua madre e ti voleva bene.” Il dottore fece una pausa, bevve un sorso di caffè e mi chiese del latte. Lasciai la mano di Edward per alzarmi, controvoglia. Mi sembrava di abbandonarlo, mentre suo padre gli rivelava qualcosa che lui nemmeno aveva sospettato. 
Così l’imperturbabile Carlisle Cullen si era innamorato di Esme, ma aveva continuato a restare sotto le mentite spoglie di devoto marito di Elisabeth solo per il bene del figlio. Ma quando i figli si erano fatti due, aveva fatto una scelta egoistica e aveva chiesto il divorzio. 
“Tua madre era arrabbiata con me, non con te. Non sono stato un gentiluomo a cacciarla quella sera, ma non sopportavo oltre il suo comportamento. Sono stato da lei sei mesi fa e mi ha detto che aveva un tumore al cervello inoperabile. La chemio non stava funzionando.”
La conversazione si faceva sempre più difficile e il pallore di Edward aumentava.
“Mi fece promettere di non dirtelo, mi lasciò solo una lettera per te. Probabilmente i suoi comportamenti così strani erano dettati dalla malattia e io non me ne ero accorto.”
“Sei tu il medico in famiglia.” Edward sembrava sul punto di vomitare. “Dovevi...”
“Dovevo. Ma così non è stato.”
Edward si alzò dal tavolo e se ne andò, incapace di sostenere altri segreti.
“Una lettera, dottor Cullen?” Il silenzio era troppo opprimente e sentii il bisogno di riempirlo. Ero rimasta sola con il padre del mio ragazzo al tavolo della mia cucina, la colazione abbandonata a metà.
L’uomo mi porse una pesante busta bianca, sul retro, in bella scrittura il nome
Edward.
“Dagliela quando deciderà che, forse, non sono un mostro.”



p.s. dell'autrice: questo è IL capitolo. quello in cui succede di tutto all'improvviso. come reagiranno i nostri eroi? 
Purtroppo non sono riuscita a postare prima di Pasqua, ma spero abbiate passato una bella giornata =) 
Vado a nascondermi nel mio angolino mentre voi leggete e mi fate sapere che ne pensate...
a presto.
Sara

 
   
 
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