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Autore: Emeerery    11/04/2021    0 recensioni
"Se avesse dovuto stilare una lista dei peggiori criminali affrontati nel corso della sua carriera, Clorofilìa avrebbe scelto quello ad occhi chiusi. Diamine, anche la volta che aveva retto l’edificio pericolante sembrava una piccolezza al confronto!"
Genere: Azione, Comico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Iris aveva inanellato una sfiga dietro l’altra già dal primo mattino. Il caffè lento, estremamente lento (il capo aveva apprezzato), la doccia gelata (doveva ricordarsi di far controllare la caldaia), la stringa che l’aveva abbandonata al primo nodo, pendendo sfrontata dalle sue dita contratte (per colpa della doccia), come se la sfidasse a trovare da ridire. Sospirando, la ragazza cercò nei cassetti dell’ingresso un paio di lacci nuovi, appuntando quell’ultima incombenza alla sua lista mentale di doveri servitoriali da eseguire al termine della ronda (spesa colazione/spesa merceria/pagamento bollette/caldaista/invio moduli interventi eroici/preparazione cena/richiesta aumento/minaccia termine tirocinio/capitolazione preventiva).
 Avevano lasciato l’ufficio insieme, in silenzio come da rituale, dirigendosi verso l’ascensore. Il foglietto con su scritto ‘Fuori servizio’, che campeggiava ormai da un mese sulle porte sbarrate, diede ad entrambi l’impressione di volerli sbeffeggiare, nella nebbia mattutina che ingolfava i loro cervelli prima che la caffeina si decidesse a dar segni di vita (chiamare amministratore condominio, di nuovo). Scesero per le scale cercando di far meno rumore possibile, ad accompagnarli l’alba afosa di un indolente sabato di metà luglio.
 Si salutarono sul portone, le prime parole pronunciate dalla sera precedente. Non ci provavano neanche più a far conversazione appena svegli. I pochi neuroni già attivi a quell’ora erano troppo impegnati a coordinare i loro movimenti, evitando bruciature e contusioni, per interessarsi a mettere insieme più di due sillabe alla volta. Non riuscivano nemmeno a deviarli dalla strada verso l’ascensore, nonostante fosse guasto da quasi un mese intero (cinque sabati, quattro domeniche, quattro lunedì).
 Voltandosi le spalle, si incamminarono verso i percorsi concordati la sera, prima di andare a dormire, quando ancora riuscivano a considerarsi a vicenda esseri umani senzienti. Iris si era ritagliata una zona tranquilla del quartiere, sperando di limitare le proprie azioni a semplice servizio socialmente utile, come aiutare le scolaresche ad attraversare la strada o indicare ai passanti la via corretta per raggiungere la stazione. Dopo una settimana infuocata per la preparazione agli esami di fine trimestre, non aveva proprio voglia di compiere imprese più o meno eroiche. Anche i gattini avrebbero fatto meglio a non arrampicarsi sugli alberi, se ancora non avevano imparato a calarsene in autonomia.
 La malasorte sembrò dimenticarla per le successive tre ore. I gatti erano spariti (grazie), le scolaresche ordinate e tranquille (continuavano a sventolarle le manine da lontano, che teneri) e gli sperduti turisti erano tutti forniti di cartina, attrezzati come per una passeggiata nel labirinto della Regina di Cuori (le persone previdenti esistevano ancora, quindi). La ronda ormai era quasi una passeggiata, con la gente che la salutava calorosamente, rassicurata dalla sua presenza e dal sorriso smagliante che si era allenata ad indossare da quando aveva visto per la prima volta la faccia del suo attuale datore di lavoro.
 Di certo non aveva un’espressione che metteva a proprio agio, lui, ma come eroe era più che valevole. L’aveva opzionata al festival sportivo, scrivendole dove e come avesse sbagliato durante l’evento e la cosa, più che infastidirla, l’aveva interessata. In mezzo alle altre richieste, accompagnate da lodi sperticate sulle sue attuali capacità e sulle previsioni che il suo potenziale ancora inesplorato faceva presagire, quel messaggio duro e concreto l’aveva convinta che un eroe altrettanto duro e concreto potesse essere l’alternativa migliore per crescere e migliorarsi. In più, aveva già conosciuto il suddetto eroe anni prima, quando l’aveva tirata fuori da un pasticcio con un paio di bulletti più grandi, e sperava che la sua richiesta fosse fondata anche sul ricordo di quell’incidente. Certo, l’impressione quella volta era stata che non potesse sopportarla, se lo rammentava bene. Il volto incupito, gli occhi sfuggenti, quasi non l’aveva guardata in faccia, tanto che si era convinta che lui fosse solo l’ennesimo nazionalista infastidito dalla straniera invadente. Il suo compagno di ronda era stato molto più piacevole.
 Persa nelle sue elucubrazioni poco coerenti (altro caffè appena possibile), quasi non sentì lo scoppio e le grida che l’accompagnavano. La stradina in cui si trovava era poco frequentata ma sfociava su di una via principale più trafficata, da cui stavano giungendo i rumori allarmanti che l’avevano risvegliata.
 Affrettò il passo, le foglie che componevano il costume si allargavano dietro e intorno a lei. Sudava ma non se ne diede pensiero, limitandosi ad infittire l’intrico di radici sotto le protezioni in legno per catturare più umidità possibile. Quando ebbe svoltato l’angolo, provò a dare coerenza a quello che i suoi sensi le inviavano. Fumo, tanto, e polveri vaganti nell’aria, folla in fuga, urla a profusione. L’epicentro della confusione sembrava essere un edificio a qualche decina di metri sulla destra, sinistramente crepato in più punti. Si precipitò in quella direzione, cercando di capire cosa fosse successo, e per una volta la fortuna fu dalla sua (più o meno). Al suo fianco apparve Castle, l’eroe inespugnabile (ma non dalle donne), che con i suoi due metri e passa per oltre cento chili di muscoli assomigliava più ad una torre d’assedio che all’immagine di fortezza inattaccabile a cui si era ispirato. Le strinse il braccio in una morsa mentre si chinava pericolosamente vicino per sbraitarle in un orecchio, l’alito che sapeva di cipolla e gli occhi fuori dalle orbite già rossi per il fumo.
 “Sembra una fuga di gas.”
 Iris diede una nuova occhiata all’edificio. Sembrava un complesso di uffici ed appartamenti, tre piani, media grandezza. Stimò ad occhio trenta locali per livello, un centinaio di persone coinvolte (data l’ora le abitazioni sarebbero state semivuote, ma gli uffici gremiti all’inverosimile), escludendo i passanti. La nube nera si levava da una finestra del secondo piano. La struttura, non recentissima, recava segni di usura accanto a più recenti tracce dell’esplosione. Non avrebbe retto a lungo e loro non avevano il tempo materiale per evacuare i civili.
 Tossicchiò leggermente, i polmoni infastiditi dalla polvere, il naso irritato dalla puzza del gas (finalmente lo sentiva anche lei).
 “Cloro, reggi il palazzo mentre coordino lo sgombero.”
 Era il ‘prima le signore’, giusto? Iris sbuffò mentre armeggiava con i sacchetti appesi alla cintura, agguantando una manciata di quelle che sperava fossero le sue pasticche alla menta extraforte e non semi vari ed eventuali (riordinare cintura).
 “Va bene, ma sbrigati, non me lo posso incollare per sempre!” gridò in risposta, per poi infilarsi sotto la lingua la prima di una lunga teoria di caramelle. Si avvicinò in fretta al muro più vicino, la schiena curva e gli occhi socchiusi per cercare di contrastare il fumo che l’aggrediva. Arrivata al punto prescelto, allargò le braccia, i pugni stretti a proteggere la propria fonte di energia per la mezz’ora successiva. Immediatamente, dagli arti le spuntarono rami e fronde che si allungarono ad avvolgersi intorno al cemento, sfruttando ogni pertugio incontrato per penetrare e rinsaldare la struttura. Le terminazioni nervose le rimandavano le informazioni di cui necessitava per assicurarsi di dare priorità alle zone più deteriorate. Entro breve, si ritrovò a sostenere il palazzo quasi da sola, tre piani installati su rami di ciliegio e noce (ricontrollare ordine guaiaco ed ebano).
 Dava le spalle alla strada, quindi non poteva vedere quanto effettivamente i rinforzi sarebbero stati celeri, ma la consolavano le grida acute di Castle, impegnato a tenere alla larga i curiosi mentre contattava le altre agenzie, i mezzi di soccorso e la sventola di turno (“Giuro, viene giù tutto quanto! Dovresti vedere che casino stiamo cercando di gestire!” No, quest’ultima cosa non era affatto d’aiuto).
 Passati quelli che oggettivamente sarebbero stati cinque minuti, in un mondo normale in cui ci si limita a fare del semplice servizio socialmente utile (anche i gattini sarebbero andati bene, ormai), ma che in quella specifica situazione sembravano altrettante ore, Iris aveva sulle spalle, metaforicamente parlando, l’intera struttura. Si era impegnata a lungo nel corso degli ultimi anni, in particolare da quando aveva conseguito la licenza provvisoria e si era ritrovata a fare i conti con interventi sempre più frequenti in un quartiere che, per numero di abitanti, avrebbe dovuto essere pacifico come la Svizzera moderna e invece sembrava più guerrafondaio della Francia napoleonica. Le rapine si sprecavano, le aggressioni erano all’ordine del giorno. I commerci illegali erano tenuti sott’occhio dalle forze di polizia, ma spuntavano sempre nuovi piazzisti con cui confrontarsi, e anche gli eroi avevano i propri limiti. In aggiunta, incidenti e disastri naturali (o fughe di gas estemporanee) non mancavano di ricordare loro che non c’era solo ‘l’uomo cattivo’ a creare situazioni spiacevoli. Da quando aveva cominciato il tirocinio si era ritrovata a gestire due scontri automobilistici, un albero caduto su di una villa e tre nubifragi, l’ultimo dei quali le aveva regalato un raffreddore, tormento di un mese condito dall’odiosa mascherina e dalle occhiate di riprovazione del capo ogni volta che starnutiva.
 Ma tutto questo non l’aveva preparata alla pressione assurda di reggere un intero edificio, decine di civili terrorizzati e le forze speciali finalmente giunte a risolvere il problema. Le spalle le tremavano mentre lentamente, senza perdere la concentrazione sul compito assegnatole, si portava il pugno alla bocca e sistemava l’ennesima pasticca sotto la lingua. La riserva di zuccheri di cui il fegato era ben provvisto evaporava più in fretta dell’alcool, a costruire cellula su cellula quello che ormai era l’unico motivo per cui il palazzo non stesse ancora collassando.
 Un calcinaccio (dimensioni e peso di un libro, uno a caso, tipo ‘Guerra e pace’) sfuggì alla sua presa e si andò a schiantare contro un ramo di ciliegio, da qualche parte al secondo piano. In quella zona doveva fare i conti anche col principio d’incendio che stava devastando uno degli appartamenti, quello da cui era partito tutto. Lì i suoi tralci erano più verdi e fronzuti, per resistere al calore ed alle fiamme, ma anche più duttili, più sensibili al peso delle macerie che via via si sgretolavano e gravavano sulle sue propaggini. Fortunatamente il fuoco era ancora molto contenuto, si poteva sperare che sarebbe giunto un eroe a domarlo prima che andasse ad oltrepassare i confini del locale.
 La folla alle sue spalle strepitava incomprensibile, le parole coperte dal battito insistente che le martellava i timpani. Iris poteva avvertire i movimenti all’interno del palazzo tramite le vibrazioni che le trasmettevano i rami. Ancora così tante vite da salvare, ancora così tanto lavoro da fare. Inspirò profondamente il fumo che ingombrava l’aria, rilasciandolo a singhiozzi. I polmoni non ne risentivano, gli organi interni erano modificati e resistevano egregiamente all’inquinamento, ma la polvere le dava parecchio fastidio.
 I soccorsi si affaccendavano dietro di lei, diretti da qualcuno più competente di Castle (piano terra, zona interna, almeno le aveva risparmiato il carico aggiuntivo). Sentiva le sirene delle ambulanze, vicine ma ovattate. Un’altra caramella, mentre il pavimento del terzo piano, giusto sopra l’incendio, veniva sgomberato. Il secondo piano era quasi libero, ma le fiamme non le davano tregua.
 Dieci minuti più tardi, a soli cinque dal termine della sua autonomia, le comunicarono la fine dell’operazione. Si accertò che veramente non fosse rimasto nessuno poi, intimando alla folla di tenersi a distanza, incominciò l’opera di crollo controllato. Ritirava con estrema cautela i rami, evitando bruschi cedimenti, mentre ordinava agli eroi con controllo dell’acqua (sempre benedetti!) di continuare ad innaffiare la struttura. L’accumulo di zuccheri nel sangue le causò un tremito in tutto il corpo, propagato alle fronde, ma lei mantenne la presa il più saldamente possibile, lasciando andare i calcinacci solo quando era assolutamente certa di non provocare cascate ingestibili.
 Impiegò altri venti minuti, ma ne valse assolutamente la pena. Lì dove si ergeva un edificio pericolante, prossimo a riversarsi sulla strada causando danni incalcolabili, c’era una montagna di detriti che non avevano intaccato nemmeno i palazzi contigui. La testa le girava paurosamente, l’iperglicemia la faceva sentire leggera ed inconsistente, ma si riafferrò prima di cadere, piantando per terra solide radici, mentre dalla cintura strattonava la borraccia col caffè. Quello, almeno, era forte e già a contatto con la lingua le diede la sferzata di consapevolezza che le occorreva per girarsi, fronteggiare la fiumana di gente materializzatasi per ammirare gli eroi al lavoro, e sorridere. Gli spettatori si ersero in acclamazioni e festeggiamenti (filtrati dalle orecchie ancora fuori uso).
 Castle la raggiunse, euforico, pavoneggiandosi nella ritrovata popolarità di aver condotto le prime fasi del salvataggio, orchestrando sapientemente le forze a sua disposizione. O almeno era quello che Iris immaginava stesse dicendo. Di fatto le diede appena il tempo di riassorbire le radici prima di caricarsela in spalla e portarla in trionfo verso il mare di fan.
 In meno di un’ora erano riusciti a risolvere un’emergenza di tutto rispetto, affidando il resto alle forze ordinarie di soccorso. Iris avrebbe voluto fermarsi a riposare da qualche parte, per riprendere fiato e dare tempo al suo fegato di re-immagazzinare gli zuccheri, ma tutte quelle persone pretendevano attenzioni che lei non era disposta a concedere così, esibendo come scusa la ronda, si defilò il più velocemente che le fu possibile senza rischiare di offendere nessuno.
 Il resto del tempo trascorse più pacificamente, dovette effettuare solo un arresto per uso improprio di quirk, ma la cosa era talmente ridicola (il tipo in questione era di fretta e aveva cercato di fare prima rendendo il marciapiede scivoloso col suo potere saponificante, provocando una serie di cadute di innocenti pedoni) che Iris quasi non ebbe il cuore di affidarlo alla polizia. Quasi.
 Rientrando, ripassò nuovamente la lista di cose da fare, cercando di non saltarne nessuna. Comprare la colazione (il caffè, era quasi finito il caffè!), passare dalla merceria (stringhe verdi, per carità), chiamare l’amministratore (“In settimana passa il tecnico”, come per le altre tre chiamate in altrettante settimane), controllare l’acquisto online (i semi di guaiaco sarebbero arrivati nel giro di tre giorni, l’ebano invece stava avendo problemi alla dogana). Per la cena, stanca com’era, avrebbe evitato di cucinare. Se per una volta avessero ordinato a domicilio l’agenzia non ne avrebbe sofferto. La cintura sembrava ok, i sacchetti di semi e caramelle ben distinti. Si concesse anche una sosta in una caffetteria dove sapeva che non le avrebbero rifilato una schifezza allungata e fredda.
 Mentre, tremante, risaliva le scale per raggiungere l’ufficio, un glorioso tramonto a chiudere una giornata cominciata sotto i peggiori auspici ma conclusa in trionfo, pensava che in fondo non era una vita malvagia quella che stava conducendo. Un po’ confusionaria, sì, forse frenetica a tratti, triste e cupa la mattina senza nessuno a porgerti una tazza di caffè fumante, decisamente sfibrante durante il periodo degli esami, ma in fondo era bella anche così. Stimolante. Piena di momenti ricchi di significato e degni di essere ricordati, come un bagno di folla al termine di un salvataggio. Col capo che l’aspettava seduto in ufficio, il pc acceso, e le ricordava che avrebbe potuto evitare tutto quello spargimento di detriti per strada se avesse esercitato un maggior controllo sui calcinacci in caduta libera, fresco e riposato come se non si fosse neanche mosso da lì. Non gli permise di scoraggiarla, un sorriso istupidito ad aleggiare ribelle sulle labbra al ricordo delle acclamazioni della mattina.
 Si appropriò del computer, verificò al cellulare gli appunti dei propri interventi mentre l’altro le inviava i suoi. Bella mattinata, tre arresti ed un salvataggio (vecchia in tombino dimenticato aperto, chiamata ambulanza e recuperata l’anziana, apparentemente solo una gamba rotta, chiuso tombino). Compilò i moduli relativi alle diverse attività e li inviò al sistema di controllo degli interventi. Fine, nient’altro da dichiarare.
 Si stiracchiò pigramente, mentre già pregustava il post cena, quel soddisfacente torpore da sazietà che, unito alla stanchezza accumulata, l’avrebbe cullata serenamente verso una notte di meritato riposo. Affidò al capo l’incombenza di ordinare per la cena e si diresse con calma in bagno, raccattando per strada l’occorrente per una doccia degna di essere chiamata tale, bollente al punto da ustionarla e scioglierle i muscoli. Spazzolò i capelli per eliminare nodi e sporcizia, entrò nella cabina e girò del tutto la manopola dell’acqua calda.
 Giusto in tempo per ricordare di non aver chiamato il caldaista.
   
 
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