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Autore: artemide88    23/04/2021    2 recensioni
Isabella Black frequenta la più importante scuola della Virginia e non solo ha ottimi voti, ma sta per diplomarsi con un anno di anticipo. Vuole andarsene, da quella scuola e quella città, il prima possibile perché odia i bulli che la perseguitano. Potrebbe però avere vita più facile se rivelasse un piccolo dettaglio sulla sua vita...
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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CAPITOLO 20

Tre settimane.
Erano passate tre settimane dal mio rientro da New York e Edward era ancora in visita nella Grande Mela. Ogni giorno gli inviavo i compiti e gli appunti delle lezioni. Ogni giorno mi chiamava e parlavamo del più e del meno. Sembrava stare meglio e mi raccontava della Statua della Libertà, di Central Park o della tenuta della famiglia Masen negli Hamptons.
Tre settimane lunghissime. 
Non accennò mai, però, a quando avrebbe ripreso l’aereo. Nemmeno papà sapeva darmi indicazioni precise. Mi disse solo che il dottor Cullen aveva chiesto alla scuola un altro po’ di tolleranza. La situazione con la famiglia dell’ex moglie si era rivelata più complicata del previsto.
Pronta per un’altra giornata solitaria, chiusi l’armadietto e sussultai. Appostato dietro l’anta di metallo c’era, come ogni mattina, Jasper. Mi stupivo sempre di come comparisse senza far rumore e ogni volta venivo colta di sorpresa. 
“Ti spaventi proprio per poco.” Il mio sesto senso per i guai era andato in vacanza. O mi fidavo troppo di Jasper per considerarlo un pericolo. Alzai gli occhi al cielo e non commentai. 
“Pronta ad andare?” Ed ecco il comandante in seconda, Emmett, che sembrava aver fatto pace con il mio cognome. 
Io e le mie guardie del corpo ci avviammo lungo il corridoio. Mi scortavano ovunque, a qualsiasi lezione, Jasper alla mia destra, Emmett alla sinistra. Gli studenti si dividevano come il Mar Rosso al nostro passaggio, intimoriti dall’aura di potere che pervadeva ogni nostro passo. Ogni tanto si univano a noi anche Rosalie e Alice.
Davanti alla mia classe, mi fermai e li affrontai, contrariata, come ogni mattina.
“Questa è stata è l’ultima volta che voglio vedere il vostro brutto muso la mattina presto.” Sibilai a denti stretti. L’élite non poteva litigare apertamente.
“Swan, non fare la difficile.” Scoccai un’occhiataccia a Emmett che fece un passo indietro. Peccato che il generale non fosse altrettanto d’accordo a cedere terreno. 
“Queste vostre manie devono finire, so badare a me stessa.”
“Isabella.” Oh oh, tono da predica in arrivo. “Ti costa tanto lasciarci fare come vogliamo?” Annuii e feci notare che rischiavo sempre di arrivare in ritardo a lezione a causa loro. “Abbiamo perso il nostro quarterback.” Temporaneamente perso, avrei voluto precisare. Ma il groppo che sentivo in gola, mi fece tacere. 
“Il sostituto non è così male. Avete vinto la scorsa partita.”
Emmett e Jasper di scambiarono uno sguardo complice e sconsolato. Per essere la sorella del precedente quarterback e la ragazza dell’attuale, non capivo proprio nulla di football. Né andavo a vedere una sola partita. 
“Abbiamo vinto per il rotto della cuffia, perché gli avversari erano delle pippe e perché io e Jasper abbiamo preso in mano la partita. Ecco perché abbiamo vinto.”
“La prossima settimana perderemo sicuramente se non torna. Dobbiamo sfogare il nervosismo.” Gli mancava il loro amico. E io ero un buon diversivo. “Lasciaci fare quello che ci pare.” Sbuffai alle parole di Jasper. “Piuttosto. Fino a quando tollererai la sua assenza?”
Già, mancava anche a me. Mi aveva fatto provare qualcosa che nemmeno comprendevo bene e il mio cuore soffriva per la lontananza. 
“Aspetto i vostri appunti a fine giornata.” E me ne andai in classe.

Respiro e concentrazione. Piedi ben piantati a terra. Braccia tese, corda tesa.
Scoccai l’ennesima freccia in un centro perfetto.
Mossi il collo a destra e sinistra. Erano mesi, dalla fine della scuola, a giugno, per l’esattezza, che non venivo al poligono per tirare con l’arco. Usavo l’arco come valvola di sfogo per sopportare le angherie a scuola e da quando...da quando Edward era entrato nella mia vita, cambiando da carnefice a...qualunque cosa fosse, non avevo più sentito la necessità di sfogarmi. Quel sabato mattina, invece, avevo ripreso quella sana pratica, e mi sarei dedicata solo a tirare, tirare e tirare, finché non mi avessero fatto male le braccia.
I miei muscoli protestarono, indolenziti dallo sforzo. 
La quadra di football aveva perso. Una sonora batosta, a quanto aveva detto papà.
Presi un’altra freccia e la incoccai. 
Un respiro, due respiri. Lasciai andare la corda, ma sbagliai completamente il bersaglio perché venni distratta dal cellulare che suonava.
“Merda.” Risposi mentre andavo a prendere le frecce e cambiare il bersaglio, ormai forato.
“Ehi, bell’Anatroccolo, che fai?”
Edward. Il mio cuore mancò un battito. 
“Esercizio fisico.” Rise.
“È così impossibile pensare che mi stia allenando?” Ribattei più acida del voluto.
“Sei arrabbiata.” Era una constatazione. Sì, ero arrabbiata perché non tornava. Ero arrabbiata perché mi sentivo una sciocca innamorata e abbandonata. Ero arrabbiata perché non era qui con me.
Addolcii il tono perché sapevo che se restava a New York era per stare vicino ai parenti della madre e per cercare il più possibile di ricordarsi di lei.
“Scusa. È stata una settimana pesante.”
“Quante cose non so di te, Bella. Che sport pratichi?”
“Tiro con l’arco.”
Rise di nuovo e quasi mi unii a lui perché pensare a me con in mano una freccia, con i miei problemi di equilibrio era davvero divertente. Ovviamente era stata zia Sue a spingermi a praticarlo. Pensava che avrebbe migliorato il mio portamento goffo e stabilizzato il mio equilibrio. Peccato che solo quando ero concentrata al massimo non mi facessi male con la corda tesa e centrassi il bersaglio.
“Vorrei proprio vederti.”
“Torna e ti mostro quanto sono brava.”
“Bella...” Ormai accennavo al suo ritorno a ogni conversazione. E ogni volta mi rispondeva triste che non era ancora il momento.
“Sì, sì lo so.” Tagliai corto. Non mi andava di sentirmi in colpa perché mi mancava.
“Vorrei essere lì con te.”
Guardai il bersaglio. In qualche modo era lì con me. 
“Sappi che passavo molto tempo al poligono l’anno scorso. Mi ha sempre aiutato a sfogarmi. Invece i tuoi amici si stanno disperando. Avete perso malamente.”
Ammise di aver parlato con Jasper.
“Potrei proporre anche a loro di scoccare qualche freccia. Di tue fotografie ne ho ancora parecchie.”
Presi la sua fotografia dell’annuario che avevo ingrandito e la posizionai sul bersaglio. 
“Vado, Edward. Fatti sentire.” 
Chiusi la chiamata perché stavo troppo male a parlare con lui, con il suo bel viso davanti agli occhi e una voglia matta di bucherellargli di nuovo la faccia.

Le mani mi tremavano, oltre ad essere sudaticce.
Vai a riprendertelo, tesoro.
Erano le uniche parole che mi aveva detto mamma quando come una furia ero entrata in casa. A lei era bastata un’occhiata per leggere sul mio volto che intenzioni avessi. 
Era sabato e avevo prenotato il volo di ritorno per la domenica mattina. Meno di ventiquattro ore per convincere Edward a tornare con me, ma non mi sarei mai umiliata a implorarlo, farlo sarebbe stata solo una perdita di tempo. Se avesse scelto di restare ancora a New York, per me sarebbe potuto anche restarci tutta la vita e non farsi più vedere.
Approfittai della distrazione del portiere ed entrai nell’atrio del bel palazzo dell’Upper East Side, fiondandomi verso gli ascensori. Temevo che la mia presenza non fosse gradita e allo stesso tempo volevo cogliere di sorpresa Edward.
L’ascensore impiegò solo due minuti a raggiungere i tre piani dedicati all’appartamento di nonna Masen. 
Suonai il campanello, le mani sempre più sudate e tremanti. Mi aprii il lacchè dei Masen, lo sguardo arcigno. Non mi piaceva Mike Newton, lo trovavo troppo pomposo. Anche Edward sembrava sopportarlo poco, forse perché gli faceva da babysitter ogni estate e così sua madre finiva per sapere sempre esattamente tutti i guai che combinava.
“Desidera?” Mi guardò come se fossi un insetto e un’estranea. Ci eravamo conosciuti al funerale, eppure voleva ignorare a tutti i costi la mia esistenza.
“Devo vedere il signor Cullen.” Inarcò le sopracciglia. Non mi avrebbe fatto entrare, glielo leggevo in faccia.
Vai a riprendertelo, tesoro.
“Spiacente, non è in casa.” Fece per chiudere la porta, ma inserii, senza nemmeno sapere io come, un piede nella fessura e lo costrinsi a riaprire la porta. Avevo sopportato abbastanza bastardi nella mia vita per non perdermi d’animo. Mi resi conto, con un certo stupore, che sapevo combattere. E per riavere Edward a casa avrei combattuto con le unghie e con i denti.
“Lo aspetterò all’interno, se non le spiace.” Il disprezzo gli si leggeva in faccia. Oh, mio caro lacchè, non hai ancora visto che cosa può fare una donna del sud se vuole il suo uomo, pensai.
“Mike?” 
Vedevo nello spiraglio rimasto aperto, la nonna di Edward che ci osservava.
“Falla entrare. Portaci un caffè nel salottino.”
Perfetto, voleva giocare con le buone maniere: ero una campionessa, grazie a zia Sue.
“Non si disturbi, signora Masen, voglio solo parlare con Edward.” Lei mi ignorò e aprì una porta in un chiaro invito a entrare. “Preferirei del tè, se non le spiace.”
Ovviamente arrivò solo il caffè. Ne presi lo stesso una tazza, per non essere scortese.
“Esattamente, cosa ti porta qui?”
“Voglio vedere Edward, signora.”
Vai a riprendertelo, tesoro.
Sollevò il sopracciglio, scettica.
“Voglio vedere Edward, devo parlargli.” Posai la tazza. Inutile fingere di essere interessata al caffè. Era sabato pomeriggio inoltrato, il mio volo sarebbe partito alle quattro della domenica mattina, non avevo tempo da perdere.
“E di cosa esattamente?”
“Credo che questi siano affari miei.” Riposi secca. Non avevo nemmeno tempo da perdere con inutili interrogatori.
“Voi ragazze del sud...” Disse sprezzante.
“Ne fa davvero una questione di provenienza? Non mi piace essere giudicata solo perché sono nata e cresciuta in Virginia.”
“Mia figlia voleva a tutti i costi essere una di voi e ha solo sofferto.” Già, il matrimonio di Elisabeth e Carlisle Cullen era naufragato nel rancore e nel dolore. “Non permetterò che mio nipote si invaghisca di una ragazzetta qualunque, moscia e senza spina dorsale.”
Avrei voluto stringere ancora tra le mani la tazza di caffè per non far vedere il tremore della rabbia che mi scuoteva. Cercai di mantenere salda la voce.
“Che problema ha, signora Masen?”
“I tuoi modi così falsamente gentili non mi piacciono, ragazza. Sei una serpe pronta a colpire, come ogni ragazza del sud. Fingeresti di svenire se ne avessi un tornaconto, a voi importa solo dei soldi e dello status sociale.”
“Ebbene, signora Masen, si dimentichi quello che sa delle ragazze del sud. Perché io non sono una ragazza del sud molto convenzionale.”
“No, tu sei una Yankee mancata.” A me mancarono fiato e parole quando mi voltai verso la porta che avevo appena varcato. Edward mi stava osservando, la testa inclinata, il corpo mollemente appoggiato allo stipite. “Forse un giorno, nonna, ti dirò un paio di cosette su Isabella Swan che ti faranno cambiare idea.”
Scattai in piedi mentre lui mi raggiungeva con passo fluido. I nostri occhi si incatenarono e non ci fu altro oltre al suo volto per me. Edward si sporse verso di me e mi baciò, così davanti alla nonna che emise un singulto.
“Mi sei mancata.”
Edward mi prese la mano per andare nella sua stanza. Alla soglia mi voltai verso l’anziana signora.
“Di una cosa può star certa, signora Masen. Io non sono fatta per piegarmi o rinunciare. Buona giornata.”
Edward non mi lasciò il tempo di chiudere la porta alle mie spalle perché iniziò subito a baciarmi.
“Mi sei mancata.” Ripeté.
“Beh, potevi sempre tornare.” Non gli diedi il tempo di aprire la bocca, questa volta mi avventai io su di lui. Mi era mancato più di quanto osassi ammettere.
Quando ci staccammo avevamo il fiatone.
“Mia nonna mi sta facendo pressioni perché finisca il liceo qui. Sono l’unico nipote e l’unico legame con la figlia. Mio zio,” Uno stronzo, aggiunsi io mentalmente. E la moglie era anche peggio. “É deciso a tenermi sotto controllo, forse teme che gli rubi i soldi da sotto il naso.” Aspettai che continuasse, poi avrei parlato io. “Mia zia vorrebbe l’anello di famiglia.” Quello che Elisabeth aveva lasciato al figlio? Una richiesta di pessimo gusto. Lo avevo detto che quella donna era anche peggiore.
“Hanno la tendenza a volerti controllare, sbaglio?” Fece un piccolo cenno del capo. Mi accarezzava i capelli, le guance, il collo, il seno, facendomi perdere il mordente. “Smettila.” Mi allontanai dalle sue mani tentatrici e mi spostai verso la finestra, oltre il letto.
“Sono venuta a dirti solo una cosa, Edward. Non me ne frega niente di essere giudicata male dai tuoi parenti, anche se non capisco bene come tu faccia a sopportarli. Io sono qui per te. Sono venuta per riportarti a casa, anche a calci in culo se serve. Ti ho lasciato i tuoi tempi, il tuo spazio, ma anche io ho bisogno di te, a casa. Perché non è giusto. Non è giusto che prima mi fai innamorare perdutamente di te e poi sparisci così.”
Mi portai le mani alla bocca, ma ormai lo avevo detto. La mia cotta adolescenziale si era trasformata in amore e ormai ero innamorata persa di Edward Cullen. 
Lui aggirò il letto, venne a un soffio da me.
“Anche io sono innamorato di te, Isabella Swan.” Mi fece voltare verso la scrivania, dove c’era la sua valigia. Pronta. “Stavo per tornare. Perché anche io ho bisogno di te.”




p.s. dell'autrice: ecco la nota (dolente) finale. Per il mese di maggio mi sarà molto difficile pubblicare per impegni ultra mega importanti. Spero di potervi dare qualche capitolo qua e là, ma non garantisco la regolarità settimanale. perdonatemi, ma non posso davvero far altro.
pero continuerete a seguire la storia (non manca molto, davvero).
grazie per l'affetto dimostrato finora. 
a presto (spero)
Sara



   
 
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