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Autore: Makieyo    25/04/2021    1 recensioni
Ogni fiocco di neve che cade dal cielo non è mai simile ad un suo fratello. Ogni fiocco è simile solo a se stesso. Ogni fiocco sceglie il suolo su cui vuole cadere e rimanere fino alla fine del suo tempo. Perché una volta che il fiocco cade nel suo posto, rimarrà lì fino alla morte. E Gojo Satoru era il mio fiocco di neve.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gojo Satoru
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Il rumore delle punte delle penne che premevano sui fogli era l’unico rumore udibile in tutta l’aula. Era l’ultima ora, verifica a sorpresa; un tema sulla situazione politica mondiale al giorno d’oggi. Fortunatamente da dire e da scrivere c’era molto e nessuno penso abbia lasciato il foglio in bianco. Ciononostante i miei occhi non riuscivano a rimanere fermi sul foglio e su ciò che stavo scrivendo, ma danzavano dal tema alle spalle della persona che avevo davanti più e più volte.
Larghe spalle ma mingherline della persona asciutta di fronte a me attiravano continuamente la mia attenzione. Erano passati ormai tre giorni dal momento in cui il peso dalle mie spalle era svanito. Avevo ripreso a studiare regolarmente, a dormire senza incubi e soprattutto a svolgere attività fisica che avevo abbandonato da mesi ormai. Tutto grazie a Gojo Satoru.
Da quel giorno non c’eravamo più rivolti parola se non qualche buongiorno di convenienza. Ero stata io a porre quel muro? O forse aveva capito anche lui di dover prendere le dovute distanze da me? Eppure da quel giorno non mi sentivo più tanto diversa da tutti gli altri.
L’ultima campanella della giornata suonò, con un cenno di mano il professore si lasciò ai nostri comodi e io, con fare veloce, iniziai a rifilare tutte le mie cose nella borsa blu. Ma il mio sguardo continuava ad osservare quelle spalle lontane un banco da me.
Prendi coraggio, Misaki, non aver paura. Continuava a dirmi la mia testa. E se fino a tre giorni fa c’era qualcosa che mi spingeva contro il banco, da quel momento l’unica spinta che sentivo era verso Gojo.  Eppure non sapevo come gestire la cosa. Niente di chissà cosa, dovevo solo instaurare una conversazione come qualsiasi essere umano riesce a fare ma non era tanto semplice per me che non ne avevo mai avuta l’opportunità.
Balzai in piedi, sentivo le guance arrossate per l’ansia e l’agitazione che correvano in ogni vena del mio corpo e mi parai di fronte al suo banco, mentre ancora rimetteva a posto i suoi quaderni.
-Satoru…- Sussurrai, con metà del mio viso nascosto dalla grande sciarpa bianca che avevo indossato pochi attimi prima. Sussurrai in un modo forse talmente basso che mi chiedo come abbia fatto ad alzare i suoi occhi verso di me.
Un grosso sorriso si stampò sul suo volto, senza alcun motivo, pensai. –Misaki!-
Tunf. Mi Sa Ki. Il mio nome. Per la prima volta tra le labbra di qualcuno che non sia la mia famiglia.
Sentii il viso colorarsi ancora di più di un rosso acceso come i papaveri d’estate. Abbassai ancora di più il viso nella sciarpa, lasciando uscire solo un po’ dei miei occhi neri –Io… Non so come tu ci sia riuscito, ma volevo ringraziarti…- Lasciai cadere le parole nel vuoto, mentre Gojo si alzò in piedi e mi sovrastò col suo metro e novanta. Se prima avevo la possibilità di tenere lo sguardo basso, ora per potergli guardare il viso, alzai la testa quasi del tutto.
-Ringraziarmi per cosa?- Con già la borsa in spalla, prese la sua sciarpa azzurra e se la mise al meglio intorno al collo per poi accennarmi di avvicinarci all’uscita.
Senza obiettare, iniziai a seguirlo cercando di tenere il passo delle sue lunghe gambe –Non so come tu abbia fatto, ma io… Mi sento molto meglio dal nostro primo incontro- Dovetti alzare di un po’ la voce per fargli sentire ciò che stavo dicendo dal momento in cui molti altri studenti riempivano il corridoio con il loro vociferare.
-Misa-chan non credo di aver fatto altro che presentarmi- Si voltò dietro per potermi guardare negli occhi e sorridermi –E’ per caso una dichiarazione questa?-
-No! Assolutamente!- Affrettai a dire, alzando le mani per scalfire ancora di più la negazione.
Con un finto broncio, si fermo a poco dagli armadietti dell’uscita –Oh, così mi offendi- ma il suo sorriso non tardò a tornare sul suo viso pallido anche più del mio –Scusami se scappo, ma devo proprio andare. E accetto il tuo ringraziamento- E prima che me ne rendessi conto, aveva già le sue scarpe al piede, dei piccoli occhiali da sole forse anche un po’ troppo scuri che coprirono i suoi occhi azzurri e andò via.
Rimasi lì, ferma a guardare nuovamente le sue spalle che questa volta si allontanavano velocemente.
 
Gocce e gocce di sudore impregnavano la mia fronte, col braccio coperto dalla felpa nera, cercai di asciugarne almeno un po’ ma come biasimare la fatica che stavo facendo? Erano mesi che non correvo, mesi che non riuscivo nemmeno più ad avere un passo veloce. Quel peso era diventato parte stessa della mia quotidianità, aveva cambiato le regole e le mie abitudini in non so quanto tempo. Ma finalmente potevo riprendere la mia vita tra le mani, così mi sentivo da cinque giorni.
Passo dopo passo, sentivo il vento spostarmi indietro la frangia nera e seccare il sudore sul mio viso. Con lo sguardo fisso davanti a me e le cuffiette al volume massimo, avevo già percorso ben sette chilometri concedendomi una pausa ogni tanto. Era domenica, il sole era quasi calato del tutto, ed ero arrivata quasi al capolinea. Ero sfinita, stanca ma non mi bastava mai.
Poi un tonfo fece tremare la terra, una grossa nube di polvere si innalzò da lì a pochi metri tanto che riuscii chiaramente a vedere un palazzo intero cadere miseramente e le sue macerie arrivare fino alla strada dove pochi pedoni stavano passeggiando, ferendone alcuni. Chiusi gli occhi per evitare che la polvere e le brecce potessero entrare all’interno, e mi voltai dando le spalle a quel casino.
All’improvviso non sentii più il terreno sotto i piedi, un piccolo urlò uscii dalle mie labbra che vennero tappate poco dopo –Tranquilla! Dobbiamo solo andare via di qui!- Nonostante la voce sembrasse affaticata e forse anche preoccupata, aprendo gli occhi mi ritrovai a pochi centimetri dal viso di Gojo che prestava attenzione a  dove stesse mettendo i piedi.
-Cosa sta succedendo?- Mi aggrappai alle sue spalle, dimenandomi leggermente per poter toccare nuovamente terra ma mi venne vietato.
Con le sue lunghe gambe, ammetto, che il tratto di strada che mi separava da casa non sembrò nemmeno così tanto lungo –Semplicemente un piccolo terremoto. Mi raccomando, non uscire di casa!-
Nemmeno il tempo di poterci capire qualcosa, mi rimise in piedi e con un sorriso largo quanto il suo volto, corse nella direzione del “piccolo terremoto”. E ancora di più, Gojo Satoru diventava un’incognita più marcata.
Con tante domande, e ancora la polvere del palazzo che galleggiava nel cielo, decisi di seguirlo con scarsi risultati, era troppo veloce per me.
 
Quella notte sarebbe stato impossibile chiudere occhio.
Come faceva a sapere dove abitavo? Come sapeva dove mi trovassi? Perché lui era lì? Perché mi ha riportata a casa? E perché non voleva che lo seguissi?
Seduta al centro del mio letto, con luce spenta, presi il cellulare staccandolo dalla carica. Nessun telegiornale parlava di quel terremoto, nessuna notizia a merito. Cosa era successo realmente?
Ma la domanda più importante era; perché ero così interessata a Gojo Satoru?
Con ancora il pigiama indosso, corsi alla porta, infilai le mie converse e il cappotto nero e quasi scappai da quell'appartamento di pensieri e quesiti. Il freddo gelido di quella notte di aprile mi sembrò un piccolo spiraglio di liberta da quelle catene che mi stavano stringendo il cervello.
Non mi allontanai di molto, arrivai solo ad un piccolo parchetto abbandonato a pochi minuti da casa. Da piccola era molto frequentato, soprattutto da me e i miei genitori. Ogni mattina, prima di scuola, era una sosta obbligatoria. Ma di tutto uno spazio verde pieno di giostrine, ne rimane solo un’altalena usurata e pericolosa in alcuni punti. Era impossibile anche sedersi.
D’un tratto il vento si fermò. I miei capelli, che un attimo prima volavano in ogni direzione, adesso si erano adagiati sulle mie spalle ma a muoversi fu l’altalena, quasi come se qualcuno ci si fosse seduto sopra. Scossi la testa, ormai i pensieri erano diventati qualcosa di assurdo. Girai le spalle per poter tornare a casa ma all’improvviso sentii nuovamente quel peso agonizzante sulle mie spalle. No, non di nuovo…
Mi abbassai sulle mie ginocchia, nascondendo il viso tra le mani. Lo sentivo, di nuovo, premeva contro il terreno, quasi come se volesse che mi scavassi una fossa per rimanerci per la vita.
-Oh, Misa-chan… Proprio non la vuoi smettere di prestare vitto e alloggio a queste schifezze- La sua voce risuonò come una campana, forte, chiara. Alzai lo sguardo e Gojo, con gli occhi più chiari che mai, non guardava me… Ma qualcosa alle mie spalle. Anzi, proprio sulle mie spalle.
Con una mano, mi attirò a se, ritrovandomi con la schiena contro al suo petto. Le sue dita affusolate e fredde mi coprirono gli occhi, e un vento, gelido, come quello di pochi giorni prima che aveva portato via quel peso delle mie spalle, si fece risentire. E di nuovo, la leggerezza. Niente più mi spingeva al suolo.
Sentii il suo respiro sulla mia testa, lo sentivo che sorrideva e da un lato mi innervosiva. Scostai la sua mano dai miei occhi e guardai dinanzi a me cercando ciò che lui stava guardando. Ma c’era solo quell’altalena.
-Devi dirmi cosa sta accadendo!- Mi voltai verso di lui, attenta ad allontanarmi tanto quel che bastava per guardarlo in volto –Non ci sto capendo più niente, Satoru. Devi spiegarmi cosa sta succedendo-
-Piccoli incidenti di percorso, tranquilla- Mi sorrise, come se non fosse accaduto nulla –Andiamo, ti riaccompagno-
-Cosa sono quelle schifezze di cui parlavi?- Non mi mossi da dov’ero. Cercai di tenere fermo lo sguardo nel suo, mentre il suo viso si colorava di divertimento.
-Niente di importante- Cercò di avvicinarsi a me, ma arretrai di pochi passi quanti ne aveva fatti lui ma poi si arrestò, mantenendo quella distanza iniziale –Non ti fidi di me?-
-Per niente-
-E’ un peccato- Fece spallucce, come se la cosa non lo toccasse più di tanto. Scosse la testa, come per rispondere ad una domanda nella sua mente e riportò lo sguardo a me –Non c’è niente altro che devi sapere se non che non si cammina da sole in piena notte in un parco abbandonato, nessuno te l’ha mai detto?-
-Credo di poter badare a me stessa-
-Certo, come no- Questa volta rise di gusto.
E se fino a quel pomeriggio ero così interessata dal sapere chi fosse questo ragazzo dai capelli bianchi seduto ad un banco di distanza da me, quella notte mi ricredetti. Io non sopportavo Gojo Satoru. Di segreti ne avevo avuto abbastanza e ne avevo digeriti molti.
Velocemente lo superai per andarmene ma lui non ci mise molto a recuperare il mio passo.
-Ti ho offesa, Misaki?- Lo sentivo il suo tono divertito e provocatorio.
Ormai ero tutta rossa dalla rabbia –Non necessito di sentire la tua voce o ciò che credi, Satoru. Ti pregherei di smetterla di stalkerarmi- Dissi a voce abbastanza alta, forse anche troppo per l’orario.
-Stalkerarti?- Rise di gusto –Viviamo solo molto vicini-
-E vuoi che ti creda?- Accelerai il passo arrivando al palazzo dove c’era il mio appartamento. Entrai nel palazzo, velocemente entrai nell’ascensore che già era al piano terra e prima che Gojo potesse avvicinarsi, chiusi le porte premendo il tasto adibito.
Quando finalmente arrivai al mio piano e l’ascensore l’annunciò, le porte si aprirono facendomi vedere la figura slanciata di Gojo attendermi, ancora più divertito di qualche minuto prima. Poi girò le spalle e camminò verso il mio appartamento. Lo seguii, pronta a dirgliene quattro ma prima che potessi fare altro, cacciò dalla tasca dei suoi jeans un mazzo di chiavi con un portachiavi con su scritto C43. Impossibile.
Guardai la porta di fronte al mio appartamento, con l’inserzione C43.
Sorrise ancora di più se fosse stato possibile ed entrò in casa sua, lasciandomi esterrefatta in quel corridoio poco illuminato.
Gojo Satoru era il mio vicino di banco e ora anche di casa. Ma ancora non riuscivo a capire chi effettivamente fosse.
   
 
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