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Autore: Adeia Di Elferas    08/05/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Michelotto aveva notato subito il francese che era entrato in chiesa poco dopo di lui e così aveva perseverato nella sua recita, chinando ancora di più il capo, fingendosi immerso nella più solenne delle preghiere.

Di fatto, aveva aspettato addirittura che gli si addormentassero le gambe, pur di far sì che il soldato si stancasse di aspettarlo e si levasse di torno. A sera ormai scesa, il Corella si era rimesso in piedi, cercando di scacciare come meglio poteva il formicolio che gli intorpidiva i polpacci e, finalmente, era uscito di nuovo in strada.

I suoi polmoni, messi a dura prova da ore di odore di incenso, dovettero fare di nuovo i conti con il tanfo scomposto e variegato che si annusava in giro per Napoli. Fu un vero sollievo, alla fine, arrivare al palazzo in cui alloggiava Cesare e sentire nelle narici il confortante odore di candele accese e degli oli medicamentosi con cui il Valentino si stava curando le cicatrici luetiche in quel periodo.

Senza farsi annunciare, arrivò fino alla camera del Duca, e aprì la porta risparmiandosi la fatica di bussare prima. Il suo tempismo sembrava non essere dei migliori, almeno per Cesare, mentre pareva essere stato perfetto per il paggio che era dinnanzi a lui.

Questi, anzi, approfittando di quell'imprevisto, raccolse in fretta il proprio giubbone dal letto e, farfugliando una scusa, sgusciò alle spalle di Miguel e sparì dalla circolazione.

Per via delle guance rosse che aveva il ragazzino e dell'espressione scocciata del Borja, il valenciano non ebbe bisogno di chiedere che cosa avesse interrotto e, cercando di non pensarci troppo, riferì al Valentino quello che era successo quel giorno per le vie di Napoli.

Cesare, ancora visibilmente contrariato, si era seduto sul materasso e lo fissava in silenzio. Era in abiti da camera, quasi annoiato, e il Corella ebbe la netta impressione che lo stesse ascoltando solo con un orecchio.

“Quell'uomo ucciderti – gli fece presente – e i francesi mi hanno costretto a non metterlo nemmeno ai ceppi.”

“Se avessi insistito – sbuffò il Duca di Valentinois, alzandosi e incrociando le braccia sul petto lasciato nudo dalla scollatura slacciata del camicione bianco – te l'avrebbero lasciato fare.”

Michelotto strinse il morso, guardando il figlio del papa avvicinarsi ancora un po', e aggiunse, ancor più serio: “Dobbiamo andarcene da qui, il prima possibile...”

“Hanno avuto mille occasioni, per uccidermi...” soppesò il Borja, decidendo deliberatamente di dileggiare un po' il suo amico, verso cui esercitava un ascendente che a volte lo sorprendeva, per quanto era forte: “Eppure non l'hanno mai fatto...”

Miguel rimase immobile, mentre l'amico, con un gesto lascivo, gli sfiorava la spalla con una mano e poi avvicinava il suo viso, dal profilo peculiare, quasi serpentino, sussurrando. Sapeva che stava giocando con lui, sapeva che lo faceva apposta, eppure, come ogni volta, non si trattenne dallo sperare in qualcosa di più.

“Lucrecia lascerà Roma presto.” disse, quasi a tradimento, al solo scopo di tastare le reali intenzioni di Cesare: “Dicono che potrebbe andarsene anche in settembre...”

Quelle parole ebbero l'effetto della fiamma viva, sul Valentino. Ritraendosi come se si fosse scottato, l'uomo strinse le palpebre e chiese a Michelotto se ne fosse sicuro.

“Dicono che nemmeno gli Este vogliano aspettare – spiegò il Corella, addolorato nel vedere come Lucrecia avesse sempre la precedenza, perfino su di lui – e quindi tuo padre sta già organizzando tutto quanto, in modo che tua sorella possa partire per Ferrara il prima possibile.”

Il Duce guardò altrove, si morse il labbro, fece due passi, si allacciò le mani dietro la schiena, poi guardò di nuovo l'amico e infine aprì la bocca, ma senza dire nulla. Riuscì solo a battere il piede in terra, in segno di massima frustrazione.

“Allora ce ne andiamo presto?” chiese Miguel, pregando, almeno, di aver ottenuto quel risultato, seppur con metodi scorretti.

“Entro fine mese.” annuì Cesare, incurvando le spalle: “Non voglio che mia sorella parta senza che io prima le possa... Parlare...”

Il tono non prometteva nulla di buono, ma al valenciano stava bene anche così: “Allora avvertirò i nostri.” disse solo e, rigido, tornò alla porta, soggiungendo: “Devo far tornare il paggio?”

“No... No...” scosse la testa il Borja, avvilito: “Mi è passata la voglia...”

 

Attorno alla tavola della cena si erano radunati la Sforza, tutti i suoi figli, compreso Giovannino che, pur avendo già mangiato, era stato tenuto in famiglia per evitare di lasciarlo solo con qualche serva. La madre, anche se non voleva ammetterlo apertamente, si fidava relativamente della servitù e così aveva preferito tenerlo con sé. Estranei alla famiglia, erano solo il De Rossi, frate Lauro e Francesco Fortunati.

“Esattamente, avete capito bene: quella donna l'ha ferito con un sasso.” confermò Troilo De Rossi, in risposta a una domanda molto partecipe appena fatta da Galeazzo.

Senza rendersene quasi conto, l'emiliano si era lasciato trasportare in fretta dalla curiosità del Riario e, siccome a tavola, nessuno li aveva fermati, i due si erano messi a parlare dei recenti fatti bellici, arrivando a discutere delle ultime imprese di Vitellozzo Vitelli.

Caterina non aveva mosso obiezioni. Anche se a tratti si sentiva ancora molto distante dalle vicende presenti d'Italia, si rendeva conto che, se voleva continuare a restare a galla, doveva interessarsi di nuovo di politica e affari esteri.

E così stava ascoltando con attenzione di come Vitellozzo si fosse alleato con gli spoletini, firmando un trattato contro Terni. L'ultimo episodio che il De Rossi stava raccontando, riguardava lo strano assedio mosso dal Vitelli al castello di Contigliano. A quanto pareva, a metterlo più in difficoltà di chiunque altro, era stata una donna che, con presenza di spirito, aveva saputo lanciare un sasso tanto bene da centrarlo alla perfezione, ferendolo.

“Sì, ma...” prese tempo Troilo, intingendo un pezzo di pane nella zuppa che aveva davanti a sé: “Io non so se sia vero, ma da quello che si dice, Vitellozzo s'è rifatto su di lei, uccidendola assieme ad altri centoventisette uomini.”

Improvvisamente la vaga ilarità che aveva colto la tavolata fino a poco prima svanì. L'immagine dell'altero Vitelli sfregiato da una pietra aveva preso l'immaginazione di tutti, ma ormai nelle loro menti c'era spazio solo per la donna che aveva pagato caro quell'affronto.

La Tigre, in realtà, non si era scomposta per nessuna delle due notizie, e così aveva fatto Bianca, troppo impegnata ad ascoltare la voce del De Rossi, più che a cogliere il significato delle sue parole.

“Nel ternano – riprese l'uomo, schiarendosi la voce – sembra che ci sia anche il Baglioni.”

“Avete detto un sacco di sembra e pare, da che avete iniziato il vostro discorso...” disse, strascicato, Ottaviano: “Credevo che tra gli uomini di re Luigi ci fosse più... Collaborazione.”

“Siete un uomo di mondo e d'armi anche voi – ribatté Troilo, con un sorriso tirato, guardando dritto negli occhi del Riario – sapete bene che in una campagna così complessa è fatale che nessuno sappia tutto... Solo il re è al corrente di ogni cosa.”

“Mio figlio ha parlato a sproposito, come sempre.” si scusò la Leonessa, accarezzando distrattamente la nuca di Giovannino, che stava seduto accanto a lei, su una sedia troppo grossa per i suoi tre anni, quasi tre anni e mezzo.

Ottaviano, avvilito dall'intromissione della madre tanto quanto dalla pronta risposta di Troilo, schiuse di nuovo le labbra, per obiettare in qualche modo, ma questa volta fu Fortunati a infilarsi nel discorso, al solo scopo di placare in modo preventivo le acque che rischiavano di agitarsi: “Non ho ancora avuto modo, messer De Rossi, di ringraziarvi e di ringraziare, tramite voi, il re di Francia per avermi concesso di restare qui, accanto a Madonna Sforza.”

Troilo, dopo un ultimo sguardo a Ottaviano, che era tornato a farsi cupo e a bere vino, chinò il capo per un istante e poi ribatté: “Non c'è bisogno di ringraziare. Non si può negare il supporto spirituale a nessuno, men che meno a una donna della levatura di Madonna Sforza.”

Quell'affermazione trovò tutti d'accordo, e per un po' nessuno disse più nulla, tranne frate Lauro, che si perse nel lodare la bontà delle ultime portate della serata.

“Quando avremo finito di cenare – fece Bianca, sorprendendo un po' tutti – se siete d'accordo, potrei cantare qualcosa nella sala delle letture...”

Istintivamente, tutti i figli della Sforza – tranne Ottaviano, ancora troppo concentrato a rimuginare per prestare attenzione alle parole della sorella – guardarono la madre, in attesa del suo assenso.

Anche Bossi e Fortunati fecero altrettanto, e così perfino Troilo, dopo aver staccato a fatica gli occhi dalla Riario, che sedeva più o meno dinnanzi a lui, si mise a guardare la Leonessa, nella speranza di sentirle dire di sì.

Caterina, quando capì che tutti aspettavano una sua decisione, sollevò un po' una spalla, indecisa.

Da un lato non aveva alcuna voglia di un simile spettacolino. Le ricordava le sere tranquille passate a Ravaldino, con i suoi figli, sua madre, sua sorella e, soprattutto, il suo Giacomo. In più aveva voglia di stare da sola. Non capiva se fosse una cosa normale o un retaggio dei mesi passati in solitudine completa a Castel Sant'Angelo, ma le capitava spesso, in quei giorni, di desiderare la solitudine, dopo aver passato qualche ora in compagnia. Le sembrava che, finché c'era con lei qualcuno, anche se qualcuno di cui apprezzava la vicinanza, non le fosse possibile abbassare la guardia, e questa cosa la stancava immensamente.

Tuttavia vide lo sguardo speranzoso della figlia, che, evidentemente, agognava un po' di normalità, e così anche gli altri suo figli, che aspettavano con ansia che la madre dicesse di sì. Perfino i due religiosi e l'ospite le sembravano ben disposti verso quella proposta, così alla fine la donna cedette.

“Va bene, non vedo perché no.” soffiò.

Non appena ebbero tutti finito di mangiare e si furono spostati nella sala delle letture, Bianca attese che ciascuno prendesse posto e si mettesse comodo e poi, avvertendo solo un leggero imbarazzo, così come le era capitato anni prima, a Ravaldino, cominciò a cantare, partendo dalla prima ballata che le tornò in mente.

C'era un clima molto particolare, quella sera. Fuori l'estate era pregna di profumi e nella sala delle letture sembrava quasi potersi sentire un'eco di quegli aromi pieni e quasi malinconici. La voce della Riario, limpida e intonata come sempre, stava mettendo una tristezza tutta particolare nell'animo della Tigre. Così come le era accaduto la prima volta che la figlia aveva cantato per lei dopo la sua liberazione, anche in quell'occasione non poteva non ricordare i tempi andati e il confronto era straziante.

Anche se adesso, a Firenze, poteva dirsi in una condizione agiata, in un palazzo comodo e con quasi tutti i suoi figli con lei. Non doveva più preoccuparsi di soldati, artiglierie e guerre. Perfino i suoi problemi economici – che pur, lo sapeva, alla fine sarebbero venuti al pettine – in quel momento le sembravano lontani. Fisicamente non era in forma come in passato, ma non poteva nemmeno definirsi malata. Non aveva un uomo al suo fianco, ma d'altro canto non sentiva più il pungente bisogno di compagnia di un tempo.

Eppure si trovava a rimpiangere gli anni passati nella sua rocca militare, in mezzo ai soldati, tra notti di guardia sotto la neve di dicembre e lunghi addestramenti sotto al sole di luglio. Le mancavano perfino la fatica fisica e la tensione di sapere un qualche esercito nemico in avvicinamento. A ben pensarci, le mancava anche il brivido che le dava scendere nei baraccamenti ogni notte per cercarsi una preda da portare nella sua tana...

Era così presa dai suoi pensieri che quasi non si accorse che Bianca aveva cambiato registro, si era fatta più seria e, prima di iniziare una nuova canzone, l'aveva fissata per un lungo istante, come chiedendosi se non stesse facendo una scelta troppo azzardata.

Fu perciò con stupore che la Sforza sollevò lo sguardo verso di lei, quando la sentì intonare: “Ahi, valorosa vipera gentile...”

Quel canto, antico quasi quanto la famiglia dei Visconti, diede una stretta al cuore alla Leonessa, ma in senso piacevole. Era stata sua nonna, quando lei era ancora piccolissima, a insegnargliela, e da allora non l'aveva mai dimenticata.

Distrattamente, si chiese se qualcun altro dei suoi fratelli ancora in vita la conoscesse. Dato che lei e Alessandro erano gli unici abbastanza vecchi da aver avuto modo di sentirla cantata dalle labbra di Bianca Maria Visconti, poteva presumere di no.

La Riario continuava, sforzandosi di ricordare le parole che, ormai, non rinfrescava da mesi, anzi, da anni: “Per tua forza oltra mar già navigasti! Ogni onda grossa a te parea sottile, e per vento mai vela non calasti...”

Troilo era rimasto un po' interdetto, nel vedere come la giovane avesse scelto una canzone che, chiaramente, alludeva alla superiorità dei Visconti, antenati direttissimi degli Sforza. Forse, pensò, avrebbe dovuto arrabbiarsi, calcolando che erano stati proprio i milanesi a derubare i De Rossi dalle loro terre.

Gli risultava però molto difficile farlo. Tutto ciò a cui riusciva a pensare, mentre seguiva le note melodiose emesse dalla ragazza, era la grazia e, allo stesso tempo, la solidità di Bianca.

Or ti convien, se mai virtù mostrasti, ch'or la mostri...” andava avanti la giovane, arrischiandosi solo di quando in quando a concedergli uno sguardo, mentre con gli altri ospiti, ossia Fortunati e frate Lauro, sembrava molto più prodiga di cenni e sorrisi.

Forse, pensò di nuovo Troilo, l'idea che volesse lanciargli un messaggio con la scelta di quel brano non era tanto campata per aria. Malgrado ciò lui riusciva sempre e solo a vedere lei, seguendo sempre meno il significato delle sue parole.

Adesso sapeva con certezza che avrebbe fatto vent'anni in autunno, in ottobre, per la precisione. Gli sembrava sempre molto giovane, ma saperne con esattezza l'età aveva in parte ridimensionato l'ansia che lo attanagliava. Si era detto e ridetto che a vent'anni una donna era una donna fatta e finita e che la maggior parte delle giovani di quell'età erano già moglie e madri da tempo.

Nonostante ciò, comunque, l'attrazione irrazionale che provava per lei, molto diversa da quella che aveva provato in passato per donne con cui aveva passato una notte o poco più, lo spaventava da morire.

E che stanca non ti trovi, ma franca: che al punto sei d'Italia dominare.” sentenziò la Riario, riprendendo poi il ritornello, approfittando anche dell'attenzione che si era acuita, anche tra i suoi fratelli, nel sentir parlare dei Visconti.

Bianca faceva finta di non guardare quasi mai il De Rossi, anche se con la coda dell'occhio l'aveva sempre sotto controllo. Le piaceva notare come lui, invece, serioso e immobile, non le togliesse mai lo sguardo di dosso.

Ricordava bene quando, da ragazzina, aveva cercato le attenzioni di Ottaviano Manfredi, amante di sua madre, ma, sulla carta, suo promesso sposo. Ricordava molto bene come le piacesse provare a mettersi in mostra, ballando a una festa o rivendicando i propri meriti per la cottura ottima di uno stufato, e ricordava altrettanto bene come il faentino le concedesse le sue attenzioni con parsimonia e mai con trasporto, più come uno zio dal fare paterno, ma distante che non come un possibile marito.

Dato che la canzone era finita, ma che aveva avuto un grande successo – sua madre era perfino arrivata a dirle, con la voce un po' roca, che era stata bravissima – la Riario rispolverò un altro pezzo del suo repertorio, con il medesimo soggetto.

Io mi ricordo, e voi vi ricordate, venir gli imperatori in Lombardia, e le cittade a loro si sono date...” iniziò a cantare: “Hanno rubato e portatosen via e poi in gran resìa l'hanno lassate in pianto...”

Mentre faceva un'ulteriore esercizio di memoria per non sbagliare le parole, Bianca ebbe un attimo di distrazione e si trovò a osservare in modo più plateale Troilo. Si sentì quasi una stupida e distolse lo sguardo nel momento stesso in cui anche lui, apparentemente in imbarazzo, fece altrettanto.

Visconti sotto il manto l'han dirizzate col ben operare...” canatava la Riario, e intanto cercava di non arrossire troppo.

Ricordava il trasporto che aveva provato per il giovane soldato cui si era abbandonata l'ultima notte passata a Ravaldino, ricordava altrettanto bene l'eccitazione e la sensazione di euforia che aveva sperimentato anche prima, quando non si era spinta oltre a qualche bacio e qualche tocco appena più ardito. Perfino quando era stata in convento alle Murate non era stata immune al fascino maschile. Questa volta, però, era diverso.

Si rendeva conto di non conoscere affatto quell'uomo, e anche che lui fosse molto più vecchio di lei... Si chiedeva se non fosse stato il lungo isolamento a renderla tanto suscettibile all'improvvisa vicinanza di un uomo di così bell'aspetto, ma il risultato non cambiava.

Pensate voi che il Tedesco ch'è in via per esaltarvi vegna in Lombardia? Io penso el no: ma per dolore commettendo omicidi e ruberia...” sperò di aver azzeccato la strofa, mentre la sua mente continuava a sbattere furiosamente sempre contro lo stesso pensiero.

Si sentiva come una falena che si rompeva la testa contro il vetro di una finestra, nel tentativo di entrare e raggiungere una fiamma.

Arrivò alla fine della canzone con un sospiro, legato non tanto al testo poetico, quanto alla consapevolezza che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di avere quell'emiliano almeno una volta, prima che se ne andasse definitivamente da Firenze.

La ragazza cercò ancora un paio di canzoni che amava da cantare a tutti e poi, rendendosi conto che l'ora s'era fatta tarda, ringraziò per l'attenzione e si godette un lungo applauso, e l'abbraccio di Giovannino, che, già felice di esser potuto restare sveglio di più del solito, aveva gradito particolarmente l'esibizione della sorella.

“Mi piace molto, sentirti cantare.” disse Caterina, mentre gli altri si congedavano e iniziavano a uscire dalla sala per ritirarsi per la notte: “Mi sembra di tornare indietro nel tempo.”

La ragazza fece un sorriso un po' mesto e poi le sussurrò: “Mi ricordo di quando cantavo assieme alla zia e...”

Siccome la Leonessa le aveva messo una mano sulla guancia, e i suoi occhi verdi si erano fatti un po' umidi, la Riario non aggiunse altro. Sapeva che non era tanto la nostalgia per la sorella, morta prematuramente di parto, a commuoverla, quanto il ricordo di un periodo in cui era stata felice e appagata sentimentalmente.

Come se quella consapevolezza le avesse fatto scattare una molla nel petto, Bianca occhieggiò appena sopra la spalla della madre, per vedere se il De Rossi fosse ancora lì. Rimasta delusa, nel non vederlo, salutò la Tigre e poi, prendendo in braccio Giovannino, che non la voleva lasciare, chiamò a sé Bernardino, che si era attardato con Galeazzo a parlottare vicino al camino.

“Devo ancora fare una cosa... Puoi tenerlo tu?” gli chiese.

Il Feo fece un cenno con il capo e così la sorella chiese al piccolo Medici di restare con il fratello.

“Voglio dormire con nostra madre.” disse, granitico, Giovannino.

Da quando la Sforza era a Firenze, il bambino aveva iniziato a parlare in modo molto più corretto, e si era fatto, parimenti, più loquace. Tuttavia per la Riario era sempre una sorpresa, sentirlo esprimersi con tanta fermezza.

“Per favore, quando puoi, portalo da nostra madre...” disse Bianca, a Bernardino: “Scusa, devo...” e senza aggiungere altro, lasciò il bambino alla custodia del fratello e si allontanò.

Non sapeva nemmeno lei che cosa volesse fare, sapeva solo che i suoi piedi la stavano portando, a passo svelto, nei pressi della camera che era stata concessa al De Rossi. Avrebbe avuto davvero la faccia tosta di offrirglisi senza pretendere altro da lui, se non qualche ora di passione? Lui sarebbe stato disposto ad accettarla? La trovava davvero attraente, oppure era lei che si era immaginata tutto, fraintendendo i suoi sguardi indagatori?

“Madonna Bianca...” la voce di Troilo la fece fermare a metà corridoio, mentre ancora cercava di orientarsi.

Quella villa, per quanto non enorme, a lei a volte sembrava ancora un dedalo. Era stato molto più semplice imparare a muoversi per le stanze spoglie della rocca di sua madre.

“Messer De Rossi...” lo salutò, chinando il capo, sia per nascondere il rossore del suo collo, sia per sfuggirne lo sguardo.

La luce di un paio di torce a muro bagnavano i loro profili rendendoli incerti, ed entrambi sentivano la propria anima smossa e mutevole, come le fiamme che li illuminavano.

“Vi... Vi sono piaciute le canzoni di stasera..?” domandò, incerta, la giovane.

L'uomo, che era uscito dalla propria stanza solo perché aveva sentito dei passi e aveva sperato con tutto se stesso che si trattasse della figlia della Tigre, annuì, senza dire nulla.

Siccome nemmeno la Riario, però, parlava, alla fine l'emiliano si convinse a dire qualcosa: “Io certe non le conoscevo...”

“Alcune sono canzoni della mia famiglia. Hanno quasi duecento anni.” ribatté Bianca, sollevando il mento, assumendo una postura orgogliosa che l'uomo gradì particolarmente: “Sono canzoni di Milano... Quando vivevo a Forlì, anni fa, le cantavo spesso assieme a mia zia, che si chiamava come me.”

Troilo dovette ammettere con se stesso di non conoscere abbastanza a fondo la genealogia della Leonessa di Romagna, per ricordarsi di una sorella di nome Bianca, ipotizzando che la Riario non si stesse riferendo alla ben più nota Bianca Maria andata in sposa all'Imperatore. Dal tono usato, comunque, capì che la Bianca di cui si parlava doveva essere morta.

La figlia della Sforza si rendeva conto che la discussione languiva, ma non aveva voglia di andarsene e, di contro, non aveva il coraggio di andare oltre.

Così, un po' impacciata, soffiò: “Allora resterete ancora qualche giorno...”

“Sì.” convenne lui, accigliandosi: “Ma presto dovrò tornare nel parmense, perché non posso lasciare che mio padre si carichi da solo sulle spalle il peso di riordinare le nostre terre...”

“Giusto.” sospirò lei, sentendosi doppiamente una sciocca, ad aver pensato di poter interessare a un uomo del genere: “E immagino che vostro padre vi aiuterà presto a trovare una moglie con cui generare degli eredi e stabilizzare il vostro governo. Anzi, mi pare strano non vi abbia mai trovato una moglie prima...”

La freddezza, se così si poteva definire, con cui la Riario aveva appena parlato, raggelò Troilo. Non si era aspettato di sentirla parlare di certe cose, tanto meno l'aveva creduta capace di toccare determinati argomenti con tanto distacco. Per certi versi, quel suo atteggiamento lo affascinava.

“Fin'ora – fece lui, con un sorriso tranquillo, nato spontaneo, non avrebbe saputo dire nemmeno lui come mai – non sono stato mai un partito molto appetibile.”

Il modo in cui il volto del De Rossi si era disteso portò Bianca a fare altrettanto: “Non dite così, voi siete...”

Ma la voce di Bernardino, in fondo al corridoio, la zittì. Il fratello, con Giovannino al seguito, stava gettando gli occhi al cielo, tentando di far calmare il bambino, e, quando finalmente vide la sorella, non rendendosi conto di aver appena interrotto qualcosa, la pregò di occuparsi del piccolo, perché la madre non era ancora in camera e il Medici non voleva altri che la Tigre o la sorella.

Con uno sbuffo benevolo, la ragazza, che non riusciva ad arrabbiarsi con il fratellino, lo prese in braccio, dandogli un bacio sulla guancia e rassicurandolo.

Il Feo era già scappato via, desideroso di tornare ai suoi impegni serali, che, come spesso accadeva, l'avrebbero tenuto sveglio ancora parecchio, e così la Riario decise che fosse tempo anche per lei di tornare alle sue consuete abitudini.

“È bello vedere come vi prendete cura di lui.” si lasciò scappare Troilo, incrociando le braccia sul petto ampio: “Sarete un'ottima madre.”

“Lo spero.” disse lei: “Anche se per il momento non ho un uomo da rendere padre.”

Ancora una volta, l'emiliano rimase a bocca mezza aperta, davanti alla facilità con cui la giovane toccava certi argomenti. Forse, pensò, non era così strano, vista la madre che aveva. Era cresciuta in una corte, se tale la si poteva definire, in cui c'era una grande libertà di pensiero e costumi...

“Mi auguro che lo troviate.” sussurrò lui e, con un mezzo inchino, capendo che stava arrivando ancora qualcuno, si scusò e tornò verso la porta della propria stanza.

“Mi auguro anche io di trovarlo...” sussurrò di rimando lei e poi, mentre il De Rossi, con un altro sorriso tranquillo, uno di quelli che Bianca già adorava, si ritirava, la ragazza tese l'orecchio per capire chi stesse arrivando.

“Che ci fai qui?” la voce di Caterina era sospettosa, ma, nel vedere Giovannino, si addolcì: “Mi hai portato tuo fratello?”

Era palese che le stesse mettendo in bocca la risposta. La Riario aveva visto il modo in cui la madre aveva occhieggiato in direzione della porta del De Rossi, che si era appena chiusa con un piccolo scatto.

“Sì, ma non ti ho trovata...” mentì la giovane.

La Sforza sospirò: “Mi sono fermata un attimo con Fortunati, per discutere di una cosa...” e le spiegò di come stessero cercando di capire come far quadrare i conti, con tutta la servitù che Lorenzo aveva appioppato loro.

La Riario si dimostrò comprensiva, ma, una volta restituito il Medici alla madre, non riuscì a mascherare la fretta che aveva di andarsene. Voleva restare sola, pensare a quello che lei e Troilo si erano detti e immaginarsi i suoi occhi color miele indagarla palmo a palmo mentre si spogliava per lui... Voleva immaginarselo mentre passava le sue mani sul suo corpo, mentre si abbandonava del tutto a lei, mentre con la voce spezzata diceva il suo nome, sfiorandole il collo con le labbra e stringendole i fianchi con le sue mani grandi e forti...

“Buona notte, allora.” disse la Leonessa, accettando il congedo della figlia e poi, notando come, nel passare accanto all'alloggio del De Rossi, la ragazza avesse lanciato un'occhiata involontaria alla porta, soggiunse: “Pensa bene a quello che fai.”

“Certo, madre. Come sempre.” assicurò lei: “Non scordo i tuoi insegnamenti.”

Troilo, in tutto quel tempo, era rimasto appena dietro l'uscio, per provare a origliare il discorso tra la madre e la figlia. Aveva provato una certa ansia, nel sentire dei loro problemi economici, e aveva provato una grande tenerezza, nell'udire la Tigre coccolare il figlio più piccolo. Era quasi come se quella famiglia fosse la sua. Era una cosa sciocca, lo sapeva benissimo, ma non riusciva a restare insensibile.

Capendo che in corridoio non c'era più nessuno, ancora vestito si buttò sul letto, guardando con gli occhi spalancati il soffitto.

“Sembri un ragazzino goffo...” si disse da solo, ripensando alla difficoltà con cui aveva scambiato due parole con Bianca: “E lei potrebbe essere tua figlia.”

'E che male ci sarebbe?' disse una vocina dentro di lui: 'Quanti uomini hanno mogli o amanti di vent'anni più giovani di loro? Non è certo un delitto...'.

“Lei ha già un marito...” soffiò lui, come rispondendosi da solo.

'Un marito ragazzino, prigioniero a Castel Sant'Angelo...' si ribatté.

Da Castel Sant'Angelo era molto difficile uscire vivi...

Sentendosi un po' in colpa per aver quasi augurato la morte al povero Astorre Manfredi, triste tra i principi d'Italia, l'uomo si posò una mano sul petto, sentendo il cuore battere ancora rapido. Si domandò se, prima di tornare in Emilia, sarebbe riuscito ad andare oltre qualche parola sussurrata in un corridoio. Avrebbe voluto avvicinarla, baciarla, stringerla a sé e...

Premendosi la punta delle dita sugli occhi, cercò di scacciare dalla mente l'immagine lasciva e al contempo elegante di una Bianca intenta a spogliarsi solo per lui. La immaginò mentre gli parlava all'orecchio, con voce rotta, mentre lo tratteneva a sé, con voluttà, avvolgendolo nelle sue spire fino a togliergli il fiato, personificazione della valorosa vipera gentile di cui aveva cantato le gesta...

Con il respiro che si era fatto più veloce, il De Rossi affondò il viso nel cuscino e si maledisse per il desiderio che provava. La Riario era appena una ragazza, anche se aveva quasi vent'anni... Come poteva pensare di renderla sua amante? L'avrebbe solo rovinata e si sarebbe odiato per questo.

Mettendosi a sedere, capendo che per un bel po' non sarebbe riuscito a prendere sonno, andò alla scrivania e cominciò a scrivere una lettera diretta a suo padre, in cui gli annunciava che a breve, finiti i suoi affari per conto del re, sarebbe tornato presso di lui, per far fronte ai doveri imposti dal suo sangue.

 

   
 
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