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Autore: Adeia Di Elferas    15/05/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quel lunedì a Firenze, nelle case più facoltose, non si parlava d'altro della commissione che l'Arte della Lana e l'Opera del Duomo di Firenze avevano appena concesso a Michelangelo Buonarroti.

Per tutti i fiorentini istruiti e ricchi, quella commissione non significava solo un abbellimento della propria città, ma anche una dimostrazione di saper intraprendere un nuovo corso. La statua del re David, già favoleggiata un paio di volte, doveva nascere da un immenso blocco di marmo che, per le sue caratteristiche non proprio ottimali, aveva già visto ben due artisti importanti abbandonare l'impresa.

Michelangelo non si era spaventato più di tanto, nel sentire che, una quarantina di anni prima Agostino di Duccio si era fermato a un misero abbozzo e che, qualche tempo dopo, anche Antonio Rossellino aveva lasciato perdere. Lui era tornato a Firenze per affari privati, era vero, ma era comunque disposto a dimostrare a tutti di essere il migliore, specie in patria. Anche se quel lavoro gli avrebbe tolto un po' di tempo, non aveva esitato ad accettare.

“Con quelle mani da contadino che si ritrova – commentò, quella sera, all'osteria, Niccolò Machiavelli, che, da quando era tornato dal suo viaggio come ambasciatore, si faceva beffa di tutti, credendosi forse migliore di chiunque – sono pronto a scommetterci cento fiorini che spaccherà in due quel marmo tanto fragile...”

Jacopo Salviati, che era nelle vicinanze, insieme a un paio di amici, intento anch'egli a discutere di quella novità, ma più su un piano morale che non artistico, sollevò un sopracciglio senza commentare.

“Che non lo credete?” lo tirò in ballo Niccolò, il calice di legno in mano e gli occhi un po' spenti.

“Non me ne intendo di marmi.” tagliò corto Jacopo, con un mezzo sorriso.

In realtà aveva solo voglia di tornare a casa da Lucrezia, ma sapeva che sua moglie gli avrebbe chiesto tutti i dettagli di quella novità e, per saperli, gli toccava restare ancora un po' in giro, raccogliendo le chiacchiere all'osteria, dopo aver appreso le notizie ufficiali alla Signoria.

“Fosse per gente come voi – lo sbeffeggiò Machiavelli, che, avendo esagerato troppo con il vino, non riusciva a tenere a freno la lingua – costruiremmo una statua del re Davide al solo scopo di farla a pezzi, quindi immagino che, in effetti, la questione non vi sfiori...”

Quell'accenno alle simpatie che il Salviati aveva mostrato, anni addietro, per la rigidezza dei costumi savonaroliani, colpì l'uomo in pieno. Con molto autocontrollo, però, sorbì un paio di sorsi di vino e poi cercò di tornare a discutere con i suoi compagni, ignorando Niccolò.

“Fate tanto il santo, e poi lasciate che in casa vostra sia una donna, a portar le brache!” esclamò Machiavelli, con una risata sguaiata, e i capelli, tornati a essere troppo lunghi, che gli si riversavano sulla fronte in un ciuffo riccio e scomposto.

“Vi piace far questi discorsi, perché siete più giovane di me.” ribatté, cauto, il Salviati, che aveva già quarant'anni, contro i trentadue del suo interlocutore: “Mettete ancora un po' di sale in zucca e...”

“Come vi permettete? Non sono certo un ragazzo!” sbottò allora Niccolò, su cui molti occhi, ormai, erano puntati.

L'aria, nell'osteria, era opprimente. Gli effluvi del vino, del cibo e della gente erano quasi nauseabondi. Lorenzo il Popolano, là come tanti altri, stava cercando da tempo una scusa per andarsene e rincasare.

Colse quel litigio come pretesto per farlo. Si alzò, facendo grattare la sedia in modo plateale e poi guardò i due contendenti con commiserazione. Malgrado tutte le incertezze che ormai minavano il suo ascendente politico, il Medici attirava ancora un certo interesse, nonché un certo rispetto, per non dire timore. Infatti, quando camminò lentamente verso Niccolò – che se ne stava tronfio, con un piede su una sedia e il calice ancora alzato – calò sulla locanda un silenzio quasi assoluto.

“Io sono più vecchio di voi – disse Lorenzo, guardando Machiavelli – e più giovane di voi.” fece, passando al Salviati, che aveva appena due anni più di lui: “Ma so bene che questi non sono discorsi da fare in un'osteria. Mi avete rovinato la digestione, con le vostre chiacchiere. Mi ritiro.”

Nel momento stesso in cui lo dichiarò, un discreto numero di avventori si affrettarono a svuotare calici e piatti per imitarlo.

“E voi, messer Niccolò – riprese, posando gli occhi tondi su Machiavelli – sarete anche stato molto utile alla Repubblica, in Francia e tutto quanto... Ma so che a fine mese sposerete Madonna Corsini... Non fareste meglio a trascorrere questi ultimi giorni di solitudine a pregare per la buona riuscita del vostro matrimonio?”

Il Medici non attese una reazione dell'altro che, comunque, aspettò di vedere il Popolano allontanarsi, prima di borbottare: “Avresti dovuto pregare tu, per il tuo, di matrimonio...”

L'aria di Firenze, quella sera, non era tanto più fresca di quella chiusa e stantia che si respirava nell'osteria. Lorenzo inspirò quasi a fatica l'afa, chiedendosi dove fossero finite le sere lievi dell'agosto fiorentino. Era come se tutto il mondo gli stesse dando battaglia, perfino la città per cui aveva dato in pegno la sua intera vita.

L'uomo si avvide distrattamente di quelli che l'avevano seguito fuori, e, per caso, intravide anche Jacopo Salviati, tra quelli che avevano deciso che la loro serata era finita ed era ora di tornare a casa.

Il Popolano, quando era intervenuto poco prima nel brevissimo battibecco tra il marito della cugina e Machiavelli, non aveva difeso apertamente il Salviati perché gli fosse amico, ma solo perché Niccolò gli stava ancora più antipatico. E, non secondario, gli sembrava anche più pericoloso.

Mentre salutava in fretta qualcuno dei suoi conoscenti più stretti, Lorenzo sollevò gli occhi al cielo, trovandolo terso come un telo di lino blu appena lavato. C'era ancora troppo chiaro per vedere le stelle, eppure c'era troppo buio per intrattenersi all'esterno per troppo tempo.

Così, con passo deciso, cominciò a dirigersi verso il proprio palazzo. La strada gli sembrava più lunga di quanto la ricordasse e quella semplice constatazione lo stava già facendo innervosire. Da tempo ogni minima cosa lo faceva arrabbiare. Da giovane era stato capace di grande pazienza, ma con gli anni si era trovato a non averne più.

Era quasi alla svolta di San Lorenzo, e da lì sarebbe stato a casa in un lampo, ma era così impegnato a pensare ai suoi cugini, che quel dettaglio non ridusse nemmeno di un briciolo la collera che provava continuamente.

Stava ragionando proprio su Jacopo Salviati, sulla sua aria serafica, quasi ingenua, e, al contempo, sui suoi modi decisi. Non era mai aggressivo o apertamente ostile a qualcuno, eppure, quando veniva il momento giusto, anche a costo di fare giravolte inaudite per trovarsi dalla parte giusta, riusciva sempre a non affondare. Di certo, si diceva il Popolano, era sua moglie Lucrezia il motivo di tanta abilità. Era la figlia di suo cugino Lorenzo, che tutti avevano chiamato per anni 'il Magnifico'... Che altro poteva saltar fuori, da una simile volpe, se non una bestia altrettanto scaltra, infida e feroce?

Quasi per certo, pensava, Lucrezia era ancora in contatto con l'esule Piero, un uomo che non valeva nemmeno un'unghia della sorella, ma che, solo per i suoi natali e il suo sangue, era un pericolo tangibile per il Popolano. Avrebbe avuto pace solo quando l'avesse saputo morto.

Il Medici si passò una mano sul collo, trovandolo molto sudato e poi, con un ultimo sguardo alla strada, quasi deserta, si annunciò al portone ed entrò nel cortile del suo palazzo. Le torce che illuminavano l'elegante quadrato a cielo aperto quasi lo stranirono. C'era molta più luce lì che in tutta Firenze.

Mentre faceva quella valutazione, la sua mente continuava il suo lavorio logorante, suggerendogli di come Lucrezia Medici non fosse altro che una vipera che strisciava nell'ombra, pronta a tutto, pur di riportare il sangue del Magnifico al potere. In quell'ottica, era possibile credere che stesse prendendo contatti con Caterina Sforza, magari accordandosi con lei in qualche modo che a Lorenzo sfuggiva? In fondo erano due donne che lo odiavano e che avevano un grande interesse nel vederlo distrutto...

“Ho detto di non prepararti nulla, per cena.” la voce di Semiramide era fredda e impersonale.

Il Medici la osservò con attenzione, mentre si allontanava dalla colonna dietro cui era stata in agguato e gli si avvicinava.

'Ecco la terza donna che mi odia più di ogni altra cosa al mondo' pensò, con lo stomaco che si contorceva e lo sguardo che non riusciva a evitare di inseguire il profilo della moglie, messo in risalto dall'abito semplice che portava. La sua pelle, lo poteva ben vedere, alla luce tremula delle fiamme, era coperta da un lieve velo di sudore. In altri tempi, non avrebbe resistito a stringerla a sé e baciarla, sfruttando il caldo dell'estate come una miccia per accendere tra loro un vero incendio.

“Da quando sei tu a decidere se cenerò o meno?” chiese invece, rigido, sollevando appena il mento.

L'Appiani si era fatta ancor più vicina e, con una smorfia, fingendo si annusarlo, ribatté: “Con il tanfo che hai addosso, o sei stato in un'osteria a mangiare o in un bordello a tradirmi. Conoscendoti, propendo per la prima cosa.”

Lorenzo non la contraddisse. Malgrado tutto, voleva che lei sapesse che non la stava tradendo con nessun'altra donna. In un certo senso, la propria fedeltà lo faceva sentire moralmente superiore.

“Non ho voglia di parlare con te.” tagliò corto l'uomo, mentre i suoi sensi si confondevano sempre di più, nel trovarsi tanto appresso alla moglie.

Erano settimane, se non mesi, che non riusciva a starle tanto vicino. Forse si trattava di un'esca che Semiramide gli stava lanciando al solo scopo di ritrarsi all'ultimo e farsi beffa di lui. Non poteva permetterlo.

Senza aggiungere altro, quindi, le passò accanto e andò verso le scale, senza mai voltarsi, benché fosse sicuro che lei lo stesse ancora tenendo d'occhio. Arrivò in camera sua, si aggirò furibondo per qualche tempo, le mani dietro la schiena, pensando al da farsi.

Alla fine, convinto che quella bonaccia non avrebbe portato a nulla, e smosso anche dal nuovo timore di sapere la Tigre e Lucrezia Medici in combutta – non che avesse elementi che glielo facessero realmente pensare – decise di passare all'azione.

Uscendo quasi di corsa dalla propria camera, cercò uno dei servi che gli faceva da delatore e a cui si stava affidando e gli disse: “Quella cosa... Va fatta. E presto.”

L'altro, corrucciandosi, aprì un po' le labbra, mettendo in mostra i denti irregolari e poco numerosi e poi chiese: “Ne siete sicuro? Avevate detto che andava aspettare ancora...”

“Appena alla villa non ci sarà nessuno a disturbare – scosse il capo Lorenzo – che lo si faccia e basta.”

“Come il mio signore comanda.” rispose il servo, con un profondo inchino.

 

“Lo sai bene quanto me, o forse anche più di me, che io soldi non ne ho e, tanto meno, ho modo di guadagnarne.” disse piano Caterina, guardando Fortunati, che stava controllando le ultime lettere di Lorenzo Medici, che accordava di dilazionare la quota di indennizzo dovuta dalla Sforza per la custodia del figlio: “Senza contare che le pretese di mio cognato sono assurde, alla luce di oggi...”

“Lorenzo qui ha agganci ovunque...” le fece notare il piovano, sistemandosi meglio sullo scranno e poi appoggiando i fogli davanti a sé, sul tavolo: “Hanno annullato l'ultima disposizione solo perché era indifendibile.”

La donna fece uno sbuffo. In effetti quando il Medici aveva ottenuto – almeno a parole – la custodia di Giovannino, era stato perché lei era rinchiusa a Castel Sant'Angelo, come prigioniera di guerra, una condizione che, di per sé, per la legge di Firenze, la rendeva non solo inadatta, ma proprio interdetta alla potestà del figlio. Quando era stata liberata ed era stato ricordato a tutti il suo status di protetta francese e non di preda di guerra, Lorenzo aveva solo potuto fare un passo indietro, specie perché, non essendo mai riuscito a mettere fisicamente le mani sul bambino quando avrebbe potuto per legge, gli sarebbe risultato molto difficile farlo ora.

“La tua condizione economica, come ti dicevo, potrebbe essere un motivo sufficiente a convincere un tribunale corrotto a toglierti Giovannino...” proseguì Francesco, con il tono odioso di qualcuno che salmodiava ripetendo le stesse parole da anni.

“Questo lo so bene anche io, ma, come ti ho detto: i soldi non li ho e non posso farli spuntare dal nulla!” il tono della Leonessa si era fatto più duro e il suo profilo più teso.

Non riuscendo più a stare calma, si alzò di scatto e, con le mani dietro la schiena, cominciò a camminare per la saletta. Aveva mal di testa e le faceva anche male la gamba rimasta ferita nell'ultima battaglia di Forlì. Dava la colpa al tempo, cupo e premonitore di qualche tempesta di fine agosto, ma sapeva che buona parte della colpa per i suoi malanni era nella sua testa. Se solo fosse stata più serena, sarebbe stata in perfetta forma. Poteva mangiare, bere e dormire come preferiva, aveva vicino a sé quasi tutti i suoi figli, e nessuno, per quello che ne sapeva, minacciava in modo imminente la sua vita. Eppure non riusciva a calmarsi, come se avvertisse una terribile tragedia avvicinarsi.

“Hai ancora i tuoi gioielli...” provò a dire, con un soffio, Fortunati.

L'idea, in realtà, non era stata sua, ma di Cesare Riario che, scrivendogli, lo pregava di porgere i suoi saluti alla madre, ma, anche e soprattutto, le consigliava di impegnare i gioielli salvati dalla guerra in modo da avere contanti in quantità bastevoli per vivere. In coda al messaggio, aggiungeva anche che gli avrebbero fatto comodo alcune camice, un nuovo abito sacerdotale e il necessario per avere un servo privato, dato che il Cardinale Sansoni Riario, al momento rifugiato a Milano, poteva attingere solo in parte ai suoi beni, riducendo così l'appannaggio che normalmente gli versava.

Il piovano aveva preferito non dire nulla di tutto ciò a Caterina, facendo solo un cenno al saluto del figlio, al quale la donna aveva ribattuto, gelida: “Ormai ha compiuto ventun anni, eppure ha paura di scrivere direttamente a me... Nella tua prossima lettera, non mandargli i miei saluti: che me li chieda apertamente.”

“Mio figlio Sforzino – disse la Leonessa, tenendo la schiena al piovano – ha fatto quattordici anni la settimana scorsa e ho potuto fargli preparare solo una torta. Per fortuna è di animo umile e gli è bastata, ma non sai come mi sono sentita, nel sapere che non avrei comunque potuto fare di più.”

Il modo in cui Caterina aveva fatto finta che Francesco non avesse nemmeno nominato i gioielli lo mise in allarme, ma ci riprovò: “Forse impegnando o vendendo anche solo un paio di collane si potrebbe...”

“Credi che non ci abbia pensato anche io?” lo incalzò allora la Tigre, osservandolo da sopra la spalla, senza mostrargli del tutto il suo viso: “Ho anche provato a tastare il terreno chiedendo al De Rossi, e facendo scrivere a Bossi qualche lettera alle persone giuste, ma il mercato non c'è.”

“Ma Venezia...” iniziò il piovano, restando seduto al tavolo, gli occhi che inseguivano le cifre minute vergate sulle pagine che aveva davanti.

La Sforza si impose di non perdere la pazienza, mentre diceva: “Venezia li prenderebbe magari in pegno, ma per un'inezia, e allora tanto varrebbe andarli a vendere al mercato e sperare di ricavarci in tutto un fiorino. Milano non ha commercio, in questi mesi, e nessuno avrebbe i soldi per comprare gioielli come quelli che possiedo io. La Francia mi ha fatto un'offerta, tramite il De Rossi, ma ci ricaverei ancor meno che a Venezia, e sarebbe una vendita, non un impegno. E Genova... Ah, Genova ha detto che da una meretrice come me non comprerebbe nemmeno un'oncia d'oro.”

Quell'elenco, così avvilente eppure così freddamente lucido, lasciò di stucco Francesco che, schiarendosi la voce, riuscì a ribattere solo: “Anche in passato hai avuto momenti di difficoltà, ma ne sei sempre uscita.”

“Perché avevo uno Stato pieno di spese: all'epoca bastava tagliare i costi e già si aveva un guadagno.” fece, amara, la donna: “La verità è che non ho soldi e basta. Non posso pagare le rate per Giovannino. Posso solo sperare che capiti qualcosa che mi permetta di pretendere che la richiesta economica di mio cognato venga dichiarata illecita.”

“Dovresti chiedere un nuovo processo.” suggerì il piovano, credendo di aver avuto una buona idea.

“E con quali rappresentanti legali? Come li pagherei e, soprattutto, dove troverei degli avvocati onesti che vogliano difendermi, qui, a Firenze?” la voce di Caterina era esasperata.

Avrebbe voluto piangere, per quanto quella situazione era assurda. Stava pensando a chi poter chiedere un prestito, ma non aveva in mente nemmeno un nome valido: i suoi amici erano tutti o morti, o prigionieri o in esilio. E, anche se avesse ottenuto un prestito, come avrebbe mai potuto assicurare di restituirlo?

“L'unico a cui potrei chiedere un prestito – sussurrò – è Luffo Numai.” sollevò un sopracciglio e concluse: “Ma se me lo concedesse, e so che lo farebbe, verrebbe smascherato e di certo gliela farebbero pagare. Che senso avrebbe avuto farsi passare per mio nemico al fine di conservarsi la vita e il titolo, se poi si capisse che era tutta una recita?”

Il piovano non sapeva cosa risponderle. Capiva bene la situazione, anche se era convinto che la Leonessa stesse rinunciando troppo in fretta. Forse il mercato dei gioielli era difficile, in quel momento, ma un prestito, anche in modo discreto, avrebbe potuto ottenerlo e a quel punto avrebbe avuto un po' di respiro, almeno per placare la sete di soldi del cognato e per coprire le spese più urgenti.

La Sforza, vedendo che Francesco non diceva altro, ritenne chiusa la questione e uscì dalla saletta, salutando l'uomo con un cenno del capo e soggiungendo: “Devo pensare. Ne parleremo in un altro momento.”

Senza una vera meta, un po' come aveva fatto tante volte a Ravaldino, la donna si mise a vagare per la villa. Non si soffermava su nulla in particolare, passando da una stanza, a un corridoio, fino a lambire il cortiletto interno, lasciando la sua testa libera di vagare.

Per quanto quel metodo, in passato, le fosse a volte servito per trovare delle soluzioni, quel giorno sembrava non funzionare. Forse era colpa del caldo o forse era lei a non essere più la stessa.

Alla fine, mettendosi a una delle finestre che dava proprio sulla corte, la Leonessa provò semplicemente a non pensare a nulla. Guardava il rettangolo di cielo azzurro che si stagliava alto sopra la villa e si sforzava di non chiedersi niente: né come avrebbe fatto a far fronte ai suoi problemi economici, né a che tipo di futuro avrebbe potuto dare ai suoi figli più giovani, oltre che a Bianca che, essendo una donna e per di più formalmente sposata con Astorre, prigioniero del papa, avrebbe di certo fatto più fatica di tutti gli altri.

Proprio mentre pensava a lei, sentì la sua voce alle sue spalle. Si voltò e vide la giovane con Giovannino che le correva vicino, allargando le braccia e muovendo frenetico le gambette ancora un po' incerte. Caterina sorrise, ricordando come Bianca, unica testimone della famiglia ad aver visto tutti i progressi di crescita del fratellino, le avesse detto che il piccolo Medici aveva cominciato subito a correre, imparando a camminare solo in un secondo momento.

“Giovannino!” chiamò la Tigre, aprendosi in un sorriso istintivo, che il bambino colse immediatamente, fiondandosi verso di lei.

Mentre il Medici le saltava al collo, la Sforza chiese alla figlia se stesse bene e questa, felice dell'interessamento, le disse di sì e soggiunse: “Giovannino voleva uscire in cortile, ma gli ho spiegato che fa troppo caldo...”

“Ce lo porto io.” fece subito la Leonessa: “Ho voglia di stare un po' con lui. E poi non fa troppo caldo... Staremo all'ombra.” soggiunse, notando una sfumatura preoccupata nell'espressione della Riario.

Era paradossale, forse, ma era come se la sorella fosse più in ansia della madre, per il piccolo Medici. Eppure Bianca non ebbe nulla da obiettare, vedendo come il bambino fosse entusiasta e come la Tigre lo stesse coprendo di baci, parlandogli fittamente all'orecchio.

“Ti va se, mentre andiamo fuori, ti racconto ancora la storia del tuo bisnonno?” chiese la milanese e il figlio reagì subito con una breve esclamazione di gioia.

“A dopo, allora...” disse la ragazza, un po' sollevata, in realtà, dal non avere con sé il fratellino.

Cogliendo l'occasione all'istante, cominciò a vagare per la villa, cercando il De Rossi. Anche se stava spesso in stanza, sapeva che c'era ali del palazzo che prediligeva. Voleva imbattersi in lui in modo apparentemente casuale e parlagli, solo quello. Voleva sapere quanto ancora sarebbe rimasto e voleva capire, una volta per tutte, se lei avrebbe mai potuto interessarlo.

In quei giorni di convivenza sotto lo stesso tetto, benché le possibilità di condividere momenti della giornata non fossero state poi molte, Bianca aveva comunque creduto di percepire una certa benevolenza, da parte dell'uomo. Sia durante i pranzi o le cene, che nelle serate in cui lei si proponeva per cantare per tutti e sua madre glielo permetteva, Troilo sembrava sempre ben disposto nei suoi confronti. Aveva notato una volta un sorriso più persistente del consueto, un'altra volta, a tavola, le aveva inavvertitamente sfiorato una mano, ma senza ritrarsi subito, un'altra volta, passandole accanto, le era stato così vicino da poterne sentire il calore, e un'altra volta ancora...

La Riario non riuscì a finire il suo elenco mentale, che sentì proprio la voce del De Rossi, che si alternava a quella di frate Lauro.

I due uomini erano in fondo alle scale, quasi vicino all'ingresso della villa. Da dove si trovava in quel momento, la ragazza poteva cercare di origliare, senza farsi vedere, e così fece.

“E dunque vi incontrerete con lui?” stava chiedendo Bossi.

“Non ne vedo il motivo: non porta ordini per me.” fu la risposta dell'emiliano: “Louis d'Armagnac, il Duca di Nemours sta andando a Napoli come luogotenente del re di Francia: non ha nulla a che fare con tutta questa storia.”

Il frate doveva essersi esibito in uno dei suoi sorrisi strani, tra l'ironico e il servizievole, perché quando parlò, la sua voce aveva l'inflessione che prendeva di solito in quei casi: “E dunque per quanto ancora ci delizierete con la vostra presenza?”

“Perché lo volete sapere?” anche il tono del De Rossi era cambiato, facendosi quasi allarmato, tanto che anche Bianca provò una sorta di stretta allo stomaco, come se in qualche modo potesse condividere l'ansia dell'uomo, pur non sapendone l'origine.

“Mera curiosità.” rispose frate Lauro: “Madonna Sforza ha urgenza di cominciare i suoi esercizi spirituali, e capite bene che, debilitata come ancora è, avere in casa un ospite non...”

“Capisco, capisco...” tagliò corto Troilo: “Ora scusatemi, ma devo andare un momento nei miei alloggi per curare la corrispondenza.”

“Certamente. Vi raccomanderò a Dio nelle mie preghiere, come sempre.” lo salutò Bossi, con un eccesso di entusiasmo.

La Riario capì troppo tardi che il De Rossi stava salendo le scale e, con le sue gambe lunghe, facendo due gradini per volta, l'uomo arrivò in cima alla rampa ben prima che la giovane potesse allontanarsi o assumere un'espressione di circostanza.

“Stavate ascoltando?” chiese lui, un po' ruvido.

“Non ho sentito quasi nulla.” ammise la figlia della Tigre, distogliendo per un attimo lo sguardo dagli occhi dell'emiliano e poi tornandovi, come se non potesse evitarli.

Anche Troilo, in quel momento, faticava a staccare l'attenzione dalle iridi blu della ragazza, e ne era confuso abbastanza da lanciare alle ortiche alcune delle sue remore: “Non dovete preoccuparvi per il passaggio dell'Armagnac – le disse, avvicinandosi un po', notando, forse per la prima, la differenza di statura fra loro, notevole, benché lei, degna figlia della Leonessa di Romagna, non fosse certo bassa – non ha nulla a che fare con voi e non disturberà vostra madre.”

Anche Bianca stava facendo caso, all'improvviso, della loro differenza di altezza. Quel dettaglio, assieme alle spalle larghe e alle mani forti del De Rossi, glielo mostrava sotto una luce ancora nuova. Se fino a quel momento le era parso soprattutto un uomo desiderabile e interessante, adesso le sembrava anche un uomo in grado di difenderla, se necessario. Per certi versi, le ricordava un po' una figura paterna che lei, se non per brevissimi periodi della sua vita, non aveva mai conosciuto.

“Quando ve ne andrete?” domandò Bianca di rimando, calibrando male le parole, mentre tornava in lei, prepotente, l'attrazione fisica, prima ancora che mentale o spirituale, per l'uomo che aveva davanti.

“Perché lo volete sapere anche voi?” a differenza di come aveva fatto con Bossi, il De Rossi non pose quel quesito restando sulla difensiva, appariva solo perplesso, nulla di più.

“Perché..?” anche la giovane era perplessa e restò in attesa di una risposta, mentre Troilo si passava pensieroso la lingua sulle labbra, portandola a pensare a tutt'altro rispetto a quello di cui stavano effettivamente parlando.

“Prima il frate mi ha chiesto la stessa cosa...” iniziò lui e poi, decidendo di fidarsi, proseguì: “E questa mattina me l'hanno chiesto sia una delle cuoche, sia uno dei servi. Quando ho chiesto come mai interessasse loro saperlo, la prima mi ha risposto che doveva pianificare le spese della cucina e il secondo che doveva dare ordine di sistemare la mia stanza.”

“Mi sembrano spiegazioni sensate...” soppesò la Riario, ben comprendendo, però, la perplessità dell'emiliano: “Anche se – aggiunse infatti – non spetterebbe a loro, tanta curiosità...”

L'uomo agitò una mano per aria e poi chinò un po' il capo, per parlare a voce più bassa e farsi sentire ugualmente: “Voi vorreste che partissi subito, vero?”

La Riario, che si era persa un momento a osservare i riflessi dorati dei capelli biondo rossicci di Troilo, scosse il capo: “No, no... Mi... Mi fa molto piacere avervi qui.”

Il De Rossi deglutì, osservandola. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto sporgersi un po' in avanti e baciarla. Erano così vicini che, anche volendo, lei non avrebbe avuto il tempo di sottrarsi. Fu proprio questo pensiero a frenarlo: non voleva rubarle nemmeno un bacio senza che fosse lei a volerlo. E se questo significava che se ne sarebbe andato da Firenze senza aver ottenuto più che qualche scambio di parole e qualche fantasia, era pronto ad accettarlo. Forse ragionava in modo troppo rigido, ma sentiva di avere dei doveri anche nei propri confronti. Aveva vissuto come uomo onesto per quasi quarant'anni, poteva continuare a farlo.

“Credevo di essere per voi un incomodo, come lo sono per vostra madre.” si schermì allora, ritraendosi appena.

La Riario notò quell'allontanamento, avvenuto proprio quando la distanza tra loro era stata così minima che, se solo ne avesse avuto il coraggio, avrebbe potuto slanciarsi appena in avanti e provare a baciarlo. Al massimo, si era detta, avrebbe rimediato un rifiuto e una fragorosa risata. E invece non aveva fatto nulla...

“Non siete un incomodo, né per me, né per lei. Anzi, credo che mia madre vi apprezzi.” mise in chiaro lei.

“Ho un ruolo ingrato, in tutta questa storia.” commentò lui, sollevando l'angolo della bocca.

Scese un silenzio strano, tra loro. La casa intera sembrava addormentata. Era impossibile che, con così tante persone che vivevano tra quelle stanze, sia Bianca sia Troilo non riuscissero a sentire altro se non il battere veloce del loro cuore e il respiro dell'altro.

Agendo senza ragionare, vinta dalla voglia irrefrenabile di sentire almeno il calore della sua pelle, la Riario afferrò per qualche istante la mano del De Rossi, trovandola grande, accogliente e ruvida, come quelle dei migliori uomini d'arme che avesse conosciuto, e gli sussurrò: “Io sono solo felice, di avervi potuto conoscere.”

Detto ciò, la villa parve rianimarsi tutta d'un colpo. Dal piano di sotto arrivarono le voci concitate di frate Lauro e Sforzino, che stavano quasi litigando riguardo un Santo di cui avevano letto entrambi l'agiografia. Alle spalle di Bianca comparve Bernardino che, correndo come un pazzo, probabilmente per scappare da qualche pasticcio appena combinato, quasi travolse la sorella, lanciandosi a capofitto giù per le scale. Completò l'opera Galeazzo che, anche se pacatamente, chiedendo alla giovane se avesse visto Fortunati, la distolse del tutto dal De Rossi.

Il ragazzo aveva intravisto la sorella tenere la mano dell'uomo, ma fece finta di non essersene accorto. Era stato troppo a lungo abituato a osservare, capire e, in un certo senso, perdonare, la madre per la sua passione per gli uomini: non avrebbe certo iniziato a fare il moralista con Bianca.

“Non so dove sia...” disse la giovane, schiarendosi la voce: “Non è nella sala delle letture?”

“Perdonatemi...” soffiò Troilo, rivolgendosi solo a lei: “Ora... Tolgo il disturbo. È stato un piacere parlare con voi.”

La Riario non disse nulla, limitandosi a sorridergli e guardarlo, mentre si allontanava a passi ampi.

“Non volevo... Io...” cercò di scusarsi Galeazzo, che, ormai, trovava ridicolo far finta di non aver colto nulla di ciò che aveva appena visto e sentito.

“Non importa.” lo rassicurò lei: “Tanto non...” lasciò cadere la voce e poi chiese: “Perché devi vedere il piovano?”

“Perché...” il ragazzo si fece serio e poi le disse, all'orecchio: “Ho sentito dei discorsi strani tra la servitù.”

“E non è meglio parlarne con nostra madre?” obiettò la ragazza.

Il Riario strinse le labbra e poi, anche se riluttante, rispose: “Nostra madre è sempre una donna forte, ma... A volte... Non voglio farla preoccupare per niente.”

“Ma cosa dicevano i servi?” si informò a quel punto Bianca, iniziando a preoccuparsi davvero.

“Si chiedevano quando il De Rossi se ne andrà, e parlavano di Giovannino... Non ho capito bene, perché parlano toscano, ma c'era qualcosa che non quadrava...” spiegò lui.

Convinta, la giovane fece un lungo respiro e poi annuì, dicendosi che, almeno per il momento, era meglio lasciare da parte i suoi pensieri, sempre più frequenti e ingombranti, su Troilo, e concentrarsi sulla sicurezza di tutti loro: “Hai ragione, bisogna parlarne innanzitutto con Fortunati. Lui saprà come regolarsi.”

   
 
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