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Autore: Fran Truth    09/05/2021    0 recensioni
Crowley non si aspetta più nulla dalla vita: una laurea in astronomia presto ridotta a un hobby solitario e notturno, il lavoro come insegnate di fisica, il sabato sera al bar con gente sconosciuta. Una routine fiacca e maniacale rotta solo da qualche pomeriggio in compagnia di Anathema, sua collega e vicina di casa, e nulla più. Finché una telefonata dall’Italia non rompe tutti gli schemi, perché la figlia di sua sorella Helen, morta quasi sedici anni prima, è rimasta orfana e senza parenti. Isotta si vede così costretta a lasciare Trieste, il mare e Ilenia, il suo primo e ancora fragile amore.
Aziraphale credeva di aver finalmente trovato il suo equilibrio, barattando il mondo esterno con quello dei suoi libri, ma a un certo punto si ritrova a soffocare nella sua stessa bolla. Preso da un impellente desiderio di sfuggire a quella solitudine, pubblica un annuncio di lavoro alla porta della sua libreria. Isotta coglie quella che sembra una piccola possibilità di ripartire, ammaliata da quell’angolo di mondo che odora di carta e tè, una luce in fondo a quel tunnel di delusione. Quel fioco bagliore si avvicina sempre di più e, infine, illumina tutti e tre.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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«E quello stronzo mi ha preso la guancia! Ma chi cazzo sono, sua figlia? Grazie a Dio sono fuori dalle palle».

Isotta inviò il lungo vocale da cinquanta secondi a Ilenia e buttò il cellulare sul tavolo. La guancia le faceva ancora male e poteva sentire il tocco viscido di Gabriel sulla pelle. Se quella era la sua famiglia, il signor Fell faceva bene a starsene da solo.

Aprì il frigo e si servì un bicchiere di succo. Bevve leggiucchiando qualche paragrafo di "Via dalla pazza folla", ma il suo interesse ormai era calato. Dal piano di sotto proveniva un lieve e incomprensibile borbottio, in cui la voce di Gabriel dominava la discussione, ma Isotta non carpiva nemmeno una parola. Sciacquò in fretta il bicchiere, lo infilò nella lavastoviglie e si diresse nella libreria.

Si trattava di una stanzettina in cui entrava di rado, dove di solito trovava il signor Fell la mattina prima dell'apertura. Non era davvero piccola, ci sarebbe stato spazio sufficiente per quanto serviva a una camera da letto minimale, ma le due grosse libreria ai lati, la scrivania in fondo e una poltroncina accanto alla porta lasciavano libera soltanto una sottile fetta di pavimento. Con due falcate, Isotta raggiunse la scrivania, sulla quale era posto un manoscritto aperto scritto in quella che le parve una forma arcaica di inglese accanto a una penna stilografica. Fitte colonne di versi erano affiancate da miniature un poco sbiadite raffiguranti cavalieri e lande smeraldine. Fu tentata di girare la pagina, ma non osò sfiorarlo.

Sul davanzale della finestra chiusa trovò un grosso manuale, molto più moderno di quello sulla scrivania. Incuriosita lo prese in mano, si sedette e se lo pose sulle ginocchia: "Storia della moda europea: il XVII secolo" capeggiava in oro su una copertina marrone e sobria. All'interno erano raffigurati tessuti, abiti, accessori e macchinari d'epoca, con alcuni appunti a lato. Suo zio le aveva accennato la questione dell'azienda di famiglia del signor Fell, dopo la domenica ai campi, ma Isotta non aveva indagato. Non riusciva a immaginarsi il signor Fell tra tessuti e bozzetti, anche se, probabilmente, era proprio di quello che stava discutendo con i suoi fratelli.

Isotta ebbe un colpo al cuore: che stesse pensando di chiudere la libreria? No, il signor Fell era troppo affezionato, troppo innamorato di quel posto e del suo lavoro per lasciarlo, ne era certa, ma un piccolo timore si fece strada dentro di lei. Chiuse il libro, lo rimise al suo posto e cercò tra gli scaffali un romanzo più leggero (anche se il concetto di leggero, in qualunque senso, non esisteva a casa del signor Fell), ma si bloccò quando la porta d'ingresso cigolò. Una scia di passi si diresse verso il bagno, seguita dal suono dello scorrere dell'acqua. Isotta sbirciò oltre lo stipite e intravide poi l'orlo di un cappotto. Dal piano inferiore provenivano ancora lievi suoni.

Riprese il suo libro e uscì comunque dalla libreria. «Signor Fell?».

In cucina trovò l'uomo pelato dal nome assurdo. Sgranò gli occhi e fece per scattare verso la libreria, ma Sandalphon si voltò e sorrise scoprendo un dente mezzo marcio a lato. «Sì, cara?».

Il signor Fell la chiamava spesso così, un appellativo tiepido e semplice che le aveva sempre fatto piacere, ma detto da quell'uomo le provocò solo disagio. «Scusi, pensavo fosse suo fratello».

Sandalphon fece due passi verso di lei e Isotta indietreggiò fino a toccare l'angolo dello stipite con la schiena. «Desidera qualcosa?».

«Ti dispiacciono due chiacchiere?».

«Credevo aveste cose urgenti di cui parlare».

Sandalphon fece spallucce. «A Gabriel piace insistere sulle cause perse». Si appoggiò al muro e infilò le mani in tasca. Isotta strinse il libro al petto. «Dimmi, da quanto lavori per mio fratello?».

Isotta lo guardò sottecchi. Al posto di assistere i suoi fratelli nei loro "affari importanti" le faceva l'interrogatorio. Dopo averla snobbata, per di più. «Da inizio ottobre».

«È un bravo capo?».

«Sì».

«Ti paga bene?»

«Sì».

«È gentile con te?».

«Molto».

«Ti chiede mai di stare del tempo in più?»

«Abbiamo sempre finito in orario».

L'uomo schioccò la lingua. «Così impari l'inglese» disse con tono sornione.

«Sì» anche se non ci credeva, Isotta non sapeva che altro inventarsi, a quel punto.

«Sei di poche parole» disse. «Come mio fratello. Ti porta spesso fuori?».

Isotta fu percorsa da un brivido. C'era un che di sbagliato, di malizioso, nel suo tono. «Che intende?»

«A pranzo, a passeggiare».

«Molto di rado».

«Mia cognata vi ha visti a St. James' Park. Quella col cane, sai» ridacchiò.

«Una volta».

«Solo?»

«Sì».

«Hai mai visto i suoi "clienti abituali"?»

«Solo quelli che vengono qui».

«Non tutti lo fanno?».

«Molti sono anziani» rispose. «Preferiscono muoversi poco. Va lui da loro».

«Ti ha mai portata?»

«No».

Sandalphon si staccò dal muro. La guardò un'ultima volta e si diresse verso la porta senza dire un'altra parola.

«Ma ci serve il tuo aiuto! Altrimenti va tutto in malora!».

Isotta sobbalzò a quel grido improvviso. Il signor Fell parlò a voce più bassa e lei non afferrò. Sandalphon, quando si accorse che stava ascoltando, si avvicinò all'uscio e le sorrise con acidità. «Discorsi da grandi» disse chiudendo la porta.

«Va' al diavolo» sussurrò Isotta stizzita. Si sedette sul divano giochicchiando con la copertina del libro, ma il tono delle voci si rialzò. Era come essere in un altro posto: l'aura di dolce tranquillità della libreria si era spezzata, come un rivolo di petrolio in un fiume limpido. All'ennesimo rimbombo della voce di Gabriel nel suo petto, Isotta si alzò per vedere cosa stesse accadendo.

Spostò piano la porta perché non cigolasse. Con cautela scese qualche gradino, ma il suono secco di uno schiaffo la paralizzò e un insulto disgustoso le gelò il sangue.

Gabriel e Sandalphon lasciarono la libreria a pugni serrati. Il vetro della porta si crepò. Isotta guardò verso la porta del retrobottega e incontrò lo sguardo mortificato del signor Fell. Aveva il volto arrossato e si tastava la guancia. Rimasero immobili per un attimo. Poi, il signor Fell sparì oltre la porta.

In quel momento Isotta si sbloccò. Scattò sui pochi gradini rimasti e corse verso il retrobottega. Rimase ferma all'ingresso, osservando il signor Fell seduto al tavolo che si reggeva la testa con una mano e non la degnava di un'occhiata. Isotta si ritrovò a respirare come se avesse corso una maratona. «Signor Fell?».

Per la prima volta i loro sguardi si incontrarono. Il signor Fell aveva gli occhi lucidi e resse solo per un istante, ma Isotta poté leggere lo sconforto che portava anche sulle spalle ricurve, sulla mano che passava dal viso ai capelli, sulla bocca che si apriva e chiudeva esalando solo fiato. Ripeté il suo nome, mosse un passo e il signor Fell si appoggiò allo schienale con un profondo sospiro. «Ti avevo detto di restare di sopra».

Isotta tentennò un attimo prima di rispondere. Non era l'inizio che si aspettava. «Ho sentito urlare».

«Vai a casa».

«Come?»

«Vai. Non serve che resti».

Isotta cercò in tutti i modi di trovare le parole per dirgli che stava fraintendendo tutto, che aveva sentito e non le importava, ma fu solo in grado di borbottare un insicuro "non capisco".

Il signor Fell sbatté la mano sul tavolo. Isotta trasalì e si coprì la bocca con le mani. «Vai, ho detto!».

Isotta fece qualche passo indietro con lo sguardo piantato verso il basso e allungò la mano verso il trench appeso, ma il signor Fell si lasciò di nuovo sulla sedia. «Perdonami» disse a mezza voce. «Perdonami. Non... non meriti di essere trattata così».

Le dita strinsero con vigore il tessuto cammello. Isotta scavò nella sua mente per trovare il modo di esprimere quella connessione che sentiva con lui, quel timore comune, ma in quel momento pareva che la sua mente si fosse fermata.

«Per favore, vai».

Isotta si limitò ad annuire. Si infilò il trench, prese la borsa e uscì mormorando un lieve arrivederci.

Fuori un sottile strato di nebbia abbracciava gelido la città, ma Isotta sentiva un caldo quasi estivo sotto i vestiti e uno strato di fastidioso sudore le appiccicava il tessuto alla pelle. Camminò a perdifiato facendo slalom tra la gente con lo sguardo assente piantato in avanti e non si riposò nemmeno quando, a metà strada, i polpacci iniziarono a implorare pietà per la marcia assidua. In fondo, era poco rispetto al bruciore che aveva nel petto.

Aveva fatto male sentirlo. Poteva percepire il dolore dello schiaffo sul volto. In quel momento, la voce di Gabriel le era parsa uguale a quella di suo padre quando nei programmi del pomeriggio comparivano i più noti volti LGBT della televisione, coperti da una cascata di "frocio" sputata sullo schermo, con Marica, la sua ultima ragazza, che annuiva divertita. Non lo faceva mai fuori dalle mura di casa: non era elegante, solo gli incivili insultavano per strada, la faccia va salvata, soprattutto quando indossi la cravatta tutto il giorno, questo diceva.

A lei non avrebbe sbraitato frocio, ne era certa. Avrebbe borbottato "puttanella invertita" tra i denti, solo perché era sua figlia, ma non aveva mai avuto l'occasione di farlo. Marica però non era sua madre: lei glielo aveva detto. Lo aveva detto anche di Ilenia.

«Fottuta stronza».

Quando finalmente raggiunse l'appartamento chiuse la porta con due giri, buttò trench e borsa sul divano, si cambiò i vestiti sudati e si gettò sul letto. Nonostante il silenzio Gabriel continuava a gridare nella sua testa come un disco rotto, lui e le sue luride mani che le aveva toccato il viso. Si avvolse nel copriletto verde e chiuse gli occhi ascoltando il rumore della pioggia appena giunta, in attesa che le immagini della libreria si dissolvessero e il cuore, ancora in tumulto, si quietasse.

Il cellulare vibrò sul comodino. Isotta sgusciò fuori dalle coperte e il nome di Ilenia illuminò lo schermo. Vibrò altre quattro volte e Isotta allungò il braccio, ma ritornò sotto le coperte. Dirlo a lei, togliersi quel peso con lei sembrava la soluzione più naturale. Chi altri aveva, sennò? Eppure non voleva farlo. Cosa le avrebbe detto, a parte le solite frasi di circostanza che usava sempre: "fregatene, tu sei a posto". Loro erano a posto, ma Isotta non capiva come fosse possibile "fregarsi" del fatto che non tutti lo pensavano. Era tanto facile dirlo, per lei, che sera in cui l'aveva annunciata come la sua ragazza aveva ricevuto teneri baci e pacche sulle spalle! Lei che non doveva nascondere certi libri e sperare, tornata a casa, che nessuno dei suoi genitori li avesse trovati mentre spolveravano la sua camera!

Isotta soppresse il calore rabbioso che le aveva di nuovo invaso il viso. Non era giusto. Non poteva fare del bene di Ilenia una colpa, anche se quella stessa fortuna aveva costruito barriere, come quelle contro tutti i suoi baci evitati in piazza. Quella che le impediva di liberarsi adesso.

Un forte bussare la destò dal dormiveglia. Scattò a sedere. «Eh, chi è?»

«Isotta!» Anathema bussò ancora. «Ci sei?»

Isotta saltò giù dal letto, si infilò la prima felpa buona che trovò e aprì la porta dopo essersi sistemata in fretta i capelli. «Ciao» si sforzò di sorridere. «Hai bisogno di qualcosa?».

«No, tranquilla, volevo solo chiederti una cosa» si sistemò gli occhiali sul naso. «Madame Tracy sta preparando il tè e ti abbiamo vista entrare, vuoi unirti?».

Isotta fu tentata di rifiutare subito e tornare fra le coperte calde, ma esitò. Avrebbe significato tornare dai suoi pensieri, da Ilenia. Li voleva fuori dalla sua testa, tutti e due. «Volentieri. Aspetta solo che mi metta almeno un maglioncino».

«Oh, vieni così, siamo solo noi tre. E poi, insomma, hai visto 'sti capelli?» indicò il suo chignon mal fatto. Isotta le sorrise e la seguì fuori dopo aver preso un bel respiro.

Madame Tracy viveva nel palazzo accanto a loro e Isotta aveva già potuto vedere il suo appartamento, quando, nei mesi precedenti, l'aveva aiutata con la spesa prima che aprissero un nuovo negozio proprio davanti a loro. Assomigliava alla casa di una nonna, piena di merletti, centrini, foto d'epoca e chincaglierie, immersa nel lieve odore di un dolce deodorante per ambienti. Non appena entrarono, il bollitore in cucina fischiò.

«Arrivo subito, ragazze!» squittì Madame Tracy dall'altra parte.

Isotta e Anathema si sedettero al tavolo già apparecchiato con un barattolo di biscotti e tre piattini decorati con un vivace tema floreale. Madame Tracy entrò con vassoio su cui erano poggiate le tazze, facendo tintinnare i lunghi fasci di bracciali che portava.

«Isotta, tesoro, ti ho fatto la cioccolata buona. Vuoi anche la panna?».

«No, va bene così, grazie».

Porse il tè ad Anathema e si sedette. «Ogni tanto un pomeriggio fra donne mi fa bene. Meno male che ci siete voi, care. Shadwell ultimamente è più scontroso del solito».

«La vedo dura» disse Anathema. «Che è successo? Ha perso un altro dei suoi seguaci, il sergente Scatoletta di Tonno?».

«No, no. Ha trovato lavoro in un'officina – sapete, non si guadagna granché facendo il... cacciatore di streghe – ma credo che i suoi superiori non siano contenti del fatto che chieda a un cliente su due quanti capezzoli abbia» guardò Isotta. «Spero a te non l'abbia mai domandato, tesoro».

Isotta ridacchiò. «In realtà sì, mi ha chiesto prima quello e poi il mio nome». Lo aveva incontrato la prima volta che aveva aiutato Madame Tracy e ancora non ricordava una domanda più stramba. «Credo sia rimasto deluso».

«Insomma, sai com'è» disse Anathema. «Gli prepari ancora la cena, Tracy?»

«Ogni tanto».

«Sinceramente non capisco perché lo fai. Non è nemmeno gentile».

«Sono certa sia molto buono, invece. Qualche volta» aggiunse ridendo. «Credo si senta solo, nient'altro. Suo fratello non si è ancora ripreso».

Isotta smise di bere la cioccolata. «Ma non si era ammalato a settembre? Sta ancora male?».

Madame Tracy annuì a occhi bassi. «Sembra molto cagionevole. Ma sta migliorando, tesoro, non ti preoccupare. Volete altri biscotti? Ho anche quelli alle mandorle, so che ti piacciono un sacco, Anathema».

Prima che entrambe potessero rispondere, saltò su dalla sedie e si diresse verso la credenza. Anathema e Isotta si guardarono ed entrambe sorrisero scuotendo la testa.

«Come va in libreria?» chiese lei.

Il sorriso di Isotta sparì. Per pochi minuti, tutto quello che era successo era scomparso dalla sua mente. Se Anathema glielo aveva chiesto per metterla a suo agio, aveva fallito. «Bene, bene, tutto benissimo».

«Dovrei farci un salto, Crowley mi ha detto che il proprietario si ricorda di me e di mia nonna».

«Parlate del signor Fell?» Madame Tracy tornò con un piatto pieno di biscotti. «Non è per caso quello che presta sempre i soldi a Shadwell?».

«"Prestare" è una parola grossa» disse Isotta, lottando apparire serena. Anathema la stava guardando come se fosse stata uno dei pentagrammi dei suoi libri sull'occulto. «Ma al signor Fell non interessa. Lo fa volentieri».

«È un uomo così caro, sono contenta che ti tenga».

Isotta si nascose dietro la tazza e nelle orecchie risuonò il grido con cui l'aveva cacciata. «Sì, mi trovo bene».

«E a scuola come va, Anathema?». Isotta la ringraziò col pensiero per aver cambiato argomento.

Anathema poggiò la tazza vuota. «Così così. Quest'anno ho una classe dove la metà dei ragazzi non so dove abbia lasciato il cervello. Uno nel compito mi ha scritto che Cromwell finanziò la compagnia di Shakespeare. Posso solo immaginare che abbia dato una pensione d'oro ai cadaveri dopo la chiusura dei teatri. E un altro non scrive un collegamento che sia uno! Di colpo mi dice che Carlo I sciolse il parlamento, senza un motivo. Cosa significa, che si è svegliato di cattivo umore?».

Entrambe risero e Isotta smise di muovere la gamba che non si era accorta di star facendo tremare sotto al tavolo. Anathema raccontò di uno studente "che usa il lessico di un topo" mentre divorava i biscotti alle mandorle. Isotta beveva la cioccolata con lentezza, cercando di concentrarsi sul discorso. Madame Tracy insisté per offrirle anche delle pastine alla crema e cedette alla tentazione.

«Tesoro, tuo zio mi ha detto che anche tu vuoi insegnare».

Anathema la guardò sorpresa. «Davvero?».

Crowley le aveva consigliato, mesi prima, di confrontarsi con lei se avesse avuto bisogno di qualche dritta, ma non lo aveva mai fatto. Semplicemente, in realtà, aveva abbandonato qualunque pensiero riguardante il suo futuro. Quell'idea, il vecchio sogno di una cattedra e dei pomeriggi che avrebbe potuto sfruttare per stare sui libri, negli ultimi tempi era diventata una sorta di risposta standard da mettersi in bocca tanto per non cadere nel mutismo, la carta matta del mazzo. «Sì, è un'ipotesi».

«E cosa insegneresti?».

«Italiano, credo».

«Quindi torneresti in Italia?».

Isotta puntò il suo sguardo su Anathema. «No, no, aspetta... perché?».

«Niente, niente» si affrettò. «Mi sembrava solo molto naturale, come opzione».

«No, be', insomma, sono certa che qualcuno studi italiano pure qui» si grattò il collo. «Non molti, certo, ma, voglio dire, qualcuno».

«Sì, in alcune scuole lo insegnano come lingua opzionale» disse Anathema. «Non è popolare quanto altre lingue, ma qualcosa puoi trovare». Sorrise, ma il suo tono non era affatto convinto.

«Ehi!».

Tutte e tre sussultarono, Madame Tracy fece cadere qualche goccia di tè sulla tovaglia candida. La porta d'ingresso tremò a causa dei forti colpi provenienti dall'altra parte. «Gezabele!».

«Apri, Shadwell, smettila di sbattere in quel modo». Posò la tazza e andò ad accoglierlo.

Il signor Shadwell entrò inondando il pavimento di acqua e fango con i soliti stivaloni, ma Madame Tracy non ci badò. «Immagino tu voglia il solito tè».

«Mh».

«Su, unisciti a noi».

Il signor Shadwell grugnì, ma si avvicinò lo stesso al tavolo e Anathema si avvicinò a Isotta per fargli posto. «Come va con il nuovo lavoro?».

Lui si guardò le mani annerite, incrociò le braccia e borbottò un sottile "strega". Anathema alzò le spalle e si versò dell'altro tè.

Madame Tracy tornò con una tazza piena e alcuni biscotti. Il signor Shadwell annuì, poi aggiunse un piccolo grazie e presto si trovarono immersi in una conversazione su dove fosse meglio andare in vacanza in bungalow. Isotta, rigirandosi tra le dita un pezzetto di mandorla, guardava Anathema con la coda dell'occhio. Contò fino a tre, poi le chiese: «Prima dicevi sul serio o era solo per essere cortese?».

Anathema si voltò e sollevò un sopracciglio. «Di che parli?».

«Dell'italiano. È stupido pensare di insegnare qui?».

«Non è stupido, Isotta. Se cerchi troverai sicuramente qualche posto libero. Più che altro non so se possa essere un lavoro adatto a te».

Isotta sgranò gli occhi. «Un attimo, che intendi?».

«Sarò sincera con te, non ti vedo molto bene dietro a una cattedra. Sei molto silenziosa e chiusa».

«Devo spiegare, non fare una performance».

«Insegnare non è solo ripetere quello che dice il libro» si tolse gli occhiali e la guardò, ma Isotta distolse lo sguardo. «Interagire con una classe di venti, venticinque persone è molto diverso rispetto a spiegare a una tua amica».

«Mi conosci a malapena» sussurrò stizzita Isotta. «Non puoi dire se sono capace o no».

«Hai mai provato, almeno? O ti limiti a fare la maestrina dietro allo schermo?».

«Io non faccio la maestrina».

«Isotta» si strinse il ponte del naso fra le dita. «Non sto dicendo che non dovresti farlo, ma ti consiglio di pensarci bene».

«Voglio studiare letteratura e continuare a dedicarmi ai libri. Insegnare me lo permetterebbe».

Anathema si lasciò sullo schienale e incrociò le braccia. «Se questa è la tua motivazione, dovresti prenderla come un campanello d'allarme».

Isotta inclinò la testa. «Scusa?».

«Tu non vuoi insegnare perché vuoi essere una professoressa. Vuoi farlo perché è la strada più semplice per tenerti attaccati i tuoi libri».

«Non ho detto questo» strinse i pugni sotto al tavolo, ma le sue stesse parole le lasciavano il sapore della menzogna sulla lingua. Messa così le dava fastidio, ma suonava così schifosamente vera come affermazione.

«Oh, a me sembra proprio di sì e non sei contenta che qualcuno te lo dica. Pare quasi che tu abbia scelto l'occupazione più conveniente da una lista, abbia alzato le spalle e pensato "mal che vada mi tengo lo scontrino"».

Isotta schiuse le labbra, ma si girò dall'altra parte senza dire niente. Quella piccola idea sul suo futuro era da sempre l'unico ramo dell'albero a cui poteva aggrapparsi per non cedere, ma ora vedeva una crepa sull'attaccatura del tronco. Il fatto che non sapesse cosa ribattere dava peso alle parole di Anathema. Le avevano sempre detto che con una laurea in lettere avrebbe potuto solo finire dietro a una cattedra e lei aveva accettato quel destino, ma solo ora si rendeva conto che, forse, lo aveva fatto troppo passivamente.

Oggi non è un buon giorno, pensò. Anathema avvicinò la mano alla sua spalla, ma Isotta si alzò prima che potesse sfiorarla e decise di andarsene con la scusa di dover preparare la cena. Anathema non lo aveva fatto con cattiveria e in fondo prendersela sarebbe stato inutile, ma quello, oltre a ciò che era successo in libreria, l'aveva sfiancata come una frustata. Il silenzio non le avrebbe fatto bene, lo aveva lasciato proprio perché lo sapeva, ma era meglio andarsene prima che anche gli altri si accorgessero del suo stato.

Ringraziò Madame Tracy e accettò le ultime pastine rimaste per offrirle anche a suo zio. Salutò in fretta e si diresse verso l'uscita dell'appartamento.

«Ehi, lassie!» il signor Shadwell scattò in piedi e con il dito le fece cenno di avvicinarsi. Isotta rimase un attimo ferma sullo stipite, poi obbedì.

Il signor Shadwell estrasse dalla tasca un portafoglio logoro che emanava un forte odore di tabacco e tirò fuori due banconote sbiadite e piene di pieghe. Settanta sterline in tutto. «Lavori ancora in libreria, no?».

Isotta annuì piano.

«Questi sono tutti i soldi che devo al damerino. Con qualche interesse». Senza aspettare una risposta, glieli infilò nella tasca della felpa. «Glieli porteresti... per favore?».

Allora ha qualche scrupolo. «Nessun problema, signor Shadwell».

Lui borbottò qualcosa che assomigliava a un grazie. Isotta salutò di nuovo, uscì e in giardino lasciò libera la tosse dovuta al tanfo che proveniva dalle tasche.

*

«Principessa?» Crowley le accarezzò i capelli e si sedette sullo spazietto che Isotta, distesa in posizione fetale, aveva lasciato libero. «C'è qualcosa che non va?».

Isotta mugugnò e affondò il viso nel cuscino. Oltre al braccio di suo zio, in tv, Nausicaä cavalcava il suo aliante sopra il magnifico scenario di una foresta disegnata a mano. «No, niente, sono solo stanca».

La giornata non era migliorata, dopo il tè da Madame Tracy. Isotta si era accorta di aver lasciato – di nuovo – il suo libro nell'appartamento del signor Fell e non aveva di certo il coraggio di telefonargli o di andarlo a prendere. Aveva risposto a Ilenia, sbollendo i suoi messaggi pieni di veleno contro Gabriel, ma non le aveva parlato degli avvenimenti della libreria. Spossata, aveva preparato un veloce petto di pollo che aveva spento lo sguardo illuminato di suo zio e non aveva mangiato oltre.

«Sembri un'anima in pena».

«Te l'ho detto, sono stanca. Tra poco vado a dormire».

Lui continuò a formare piccoli cerchi tra le sue ciocche. «Anathema mi ha detto che sei tornata presto, oggi».

«Sì, abbiamo passato il pomeriggio da Madame Tracy. C'era anche il signor Shadwell».

«Qui qualcuno ha fatto festa, insomma».

«Non proprio, ma è stata una bella chiacchierata».

Suo zio tacque. Tolse la mano dai suoi capelli, gliela appoggiò sulla spalla e si abbassò verso di lei. «È successo qualcosa in libreria?».

Isotta si rannicchiò ancora di più. «Mh, no, perché?».

«Sei tornata molto prima del solito e Anathema dice che eri pallida come un cadavere».

«La paghi per spiarmi, per caso?».

«Sono solo preoccupato, Isotta! Cosa è accaduto? Hai litigato con il signor Fell? Qualcuno ti ha dato fastidio per strada? Sei stata zitta per tutta la sera e non hai mangiato quasi niente».

«Madame Tracy mi ha riempita».

«Se è l'unica cosa che mi dici significa che allora è successo qualcosa».

«Niente di importante, te l'ho detto, in libreria è andato tutto bene e nessuno mi ha tormentata in strada».

Crowley strinse le dita intorno alla spalla di Isotta e lei, in risposta, se lo scrollò di dosso e si alzò. «Vado in bagno e poi a letto» finse uno sbadiglio.

Suo zio allargò le braccia con una smorfia, poi si ricompose. «Va bene» se ne andò verso la sua stanza. «Va bene» ripeté. «Sono in camera anche io, se hai bisogno».

Addormentarsi si rivelò impossibile. Isotta si rigirava tra le lenzuola in cerca della posizione migliore, aggiunse una coperta per combattere il freddo, provò calmarsi con gli esercizi di respirazione che le aveva insegnato la psicologa durante il suo periodo nella casa-famiglia, ma il sonno non arrivava. La voce di Gabriel non c'era più, ma un'eco era come incastonata dietro la sua mente. Solo in quel momento realizzò che non molte ore dopo avrebbe dovuto ritornare in libreria. Il signor Fell l'avrebbe accolta ancora? Certo che sì, si disse, perché no. Eppure quel giorno non l'aveva voluta. Cosa si sarebbero detti? Isotta scalciò le coperte e si prese la testa fra le mani.

«Dormi, cazzo, dormi».

Riafferrò le lenzuola e formò un bozzolo tutto intorno al suo corpo. Oltre al muro udiva la melodia dei Velvet Underground nella camera di suo zio.

Lui voleva solo aiutarla. Da mesi continuava a costruire ponti verso di lei, e in risposta rifiutava. All'ennesimo cambio di posizione scattò in piedi, spalancò la porta e bussò con foga a quella di suo zio prima che quelle scintille di coraggio si spegnessero. In un attimo, suo zio fu davanti a lei.

«Ehi-»

«Posso parlarti?».

Crowley sbatté le palpebre. «Eh?»

«Posso parlarti? Adesso?».

Suo zio aprì e chiuse la bocca senza dire nulla. Mosse la testa fra lei e la stanza e riuscì a borbottare: «Uh, sì, sì, certo, vieni... ».

La camera di suo zio era una stanza spoglia dalle mura scure. Da un armadio aperto spuntavano gli orli di una fila di abiti neri e la lampada sul comodino, accanto al giradischi in funzione, illuminava soffusamente l'ambiente. Sotto di essa suo zio aveva ammucchiato, senza ordine, la sua raccolta di saggi scientifici.

Crowley si distese sul letto matrimoniale sfatto e la invitò accanto a lui con un cenno. Isotta lo seguì e, senza pensarci, si rannicchiò accanto a lui appoggiando la testa sulla sua spalla. Solo dopo si accorse dello sguardo confuso di suo zio.

«Scusa» disse allontanandosi.

«No, no, resta pure. Se ti va».

Le picchiettò la spalla opposta e lei adagiò di nuovo il capo su di lui. Sotto i vestiti, la clavicola sporgente di suo zio le premeva sulla tempia e il suo collo emanava l'odore del suo deodorante da uomo. Crowley fece passare il braccio dietro alla sua schiena e avvolse Isotta in un leggero abbraccio, accarezzandole la pelle vicino all'orecchio con il pollice. L'ultima volta che erano stati così vicini era stato ad agosto, il giorno del suo compleanno. Si beò di quel calore che era divenuto ormai estraneo, ascoltando la voce di Lou Reed sulle note di un allegro rock'n roll.

Suo zio leggeva un libriccino dalla carta lucida, dove l'inchiostro si illuminava alla luce della lampada. Foto di stelle che occupavano più di metà pagina accompagnavano didascalie disseminate di parole sconosciute.

«Cos'è?» gli chiese.

«Alpha Centauri» rispose. «È un sistema triplo della costellazione del centauro. Uno dei più luminosi che possiamo vedere a occhio nudo».

«Possiamo andare a vederlo?»

Lui rise. «No, non da qui, principessa. Si trova nell'emisfero australe». Girò la pagina. «Quando facevo ricerca sono andato in Nuova Zelanda. Da lì il cielo è tutt'altra roba». Chiuse il libretto e torse il corpo verso di lei, passandosi la mano sul collo. «Quindi... cosa vuoi dirmi?».

Isotta gli sorrise appena. «Mi dicevi sempre "parlami", ma non te l'aspettavi sul serio, vero?».

«Più o meno».

Si accoccolò ancora di più accanto a lui. «In libreria è successa una cosa».

Gli raccontò tutto, dall'arrivo dei fratelli del signor Fell fino alla sua uscita, riportando ogni dialogo nella maniera più fedele. A ogni parola che lasciava andare, un peso dentro di sé si dissolveva. Le tremò al voce, all'inizio, ma pian piano il suo tono si fece più calmo, privo di balbettii. Quando finì, suo zio strinse il braccio che ancora le avvolgeva le spalle. Non aveva detto nulla fino a quando non concluse il discorso.

«È tutto?» le domandò poi. La mano libera scivolò in quella di Isotta.

«Per quello che è successo, sì».

«E c'è altro? Avanti, ti ascolto».

Isotta quasi stritolò la mano di suo zio. Aveva le dita affusolate e la pelle resa ruvida dal gelo. «È solo che... voglio dire, non so come spiegartelo».

«Almeno prova».

Isotta si chiuse ancora di più a riccio. «La questione è che... vedere una persona trattata così mi ha fatto davvero male. I-io non so nemmeno come farti capire quanto disprezzo suo fratello ha provato per lui in quel momento, penso che per questo fatto sia successo qualcosa di grave tra di loro, ma, ma lui è così gentile. Io non capisco perché abbiano dovuto trattarlo così, non ha mai nemmeno alzato la voce! E poi... » la sua voce si bloccò il gola, ma recuperò quando suo zio le chiuse la mano nella sua. «È tutto il giorno che continuo a pensare che una cosa del genere avrebbe potuto succedere anche a me. Sai, papà non era molto... aperto. Non ha mai saputo cosa ci fosse davvero tra me e Ilenia e a lei questa cosa dava molto fastidio, io ho cercato di dirglielo perché nemmeno a me piaceva l'idea di una relazione quasi clandestina, ma... beh, insomma, sai come è finita».

Nascose il viso contro la spalla di suo zio. In silenzio, Crowley le accarezzò la schiena e aprì più volte la bocca, senza però dire niente. Isotta lo lasciò fare e, adagiata sul materasso, chiuse gli occhi. L'amaro di quelle urla non era svanito, ma si era fatto più sopportabile.

Crowley schioccò la lingua. «Mi dispiace, Isotta. Per tutto quello che è successo. Per Ilenia».

«Tu non lo facevi?» gli chiese. «Nascondere i tuoi ragazzi, dico».

«Ho avuto poche relazioni che si possono definire tali. Sono abbastanza sicuro che mia madre sospettasse qualcosa, ma non mi ha mai detto nulla. Poi mi sono trasferito e mi sono dato alla pazza gioia».

Isotta rise. «Questo Lucifer sembra uno bravo».

«Sì, non era male, ma sotto sotto era un po' stronzo. Alla fine non mi è dispiaciuto troppo che sia finita». Le sfiorò il viso con le nocche. «Qui sei al sicuro, va bene? Nessuno ti dirà nulla, puoi portare tutte le belle ragazze che vuoi senza nasconderti in una macchina nei bassifondi e non dovrai sprecare chili di fondotinta che nemmeno si abbina al tuo sottotono».

«Basta con questa storia, dài». Il suo sorriso si spense. Lasciò la sua posizione stretta e si posizionò semidistesa sulle lenzuola stropicciate. «Che dovrei fare, domani? Andare?»

«Perché no?».

«Oggi mi ha cacciata».

«Penso volesse soltanto stare da solo, Isotta. Da quel che ho capito, tra lui e i suoi fratelli non scorre buon sangue. E poi è pur sempre il tuo lavoro, non puoi saltarlo come se fosse la scuola».

«E se non mi volesse più?».

«Perché non dovrebbe volerti? Lui mi ha detto che è contento di averti».

«Lo avrà fatto per cortesia. Ha sicuramente compagnia migliore di una ragazzina».

«Isotta» suo zio alzò gli occhi al cielo.

«Sì, sì, domani vado» disse lei. Poi aggiunse: «Mi dispiace per lui. È un uomo buono».

Crowley sospirò. «Purtroppo non basta essere gentili perché la gente ti rispetti». Affondò le dita tra i capelli bruni di Isotta. «Meglio, ora?».

Lei annuì e sorrise mentre assaporava le coccole tra le ciocche.

«Una volta non volevi nemmeno che ti sfiorassi e ora fai le fusa» disse Crowley, ghignando.

Isotta abbassò lo sguardo, rossa di vergogna. «Scusami. Sono stata una bestia con te».

«Tuo padre era appena morto e ti sei vista arrivare uno sconosciuto in casa. Potevo capire il tuo fastidio».

«Non avevo comunque il diritto di risponderti male o di lanciarti qualunque cosa mi capitasse in mano».

Crowley rise. «È passato, principessa». Riprese il libro e lo aprì dove aveva lasciato il segno. «Guarda, è Proxima Centauri, la stella più vicina a noi. Dopo il sole, s'intende».

Per qualche minuto, osservò le immagini insieme a lui, ascoltando vagamente i suoi discorsi. Prima di lasciarsi al sonno, mani affusolate le avvolsero la pesante coperta intorno al corpo.

 

   
 
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