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Autore: KaienPhantomhive    09/05/2021    1 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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12.

 

Assalto

 

 

Interno del Dollhouse; altitudine dal suolo di Varsavia: 850 mt.

 

“Raggiunto il punto previsto.” – disse al microfono uno dei due operatori dell’enorme hovercraft – “La quota d’altitudine minima per il lancio della sWAn è regolare.”

“Obiettivi localizzati sotto di noi.” – aggiunse il co-pilota, continuando ad aggiustare interruttori e levette colorate – “Il dirigile più grande è in fase di decollo.”

“A tutte le unità: mantenere la formazione.” – ordinò ancora l’altro, portandosi il ripetitore alle labbra.

Roger.” – ripeté qualcuno, dall’altra parte.

Da dietro gli stretti oblò del mezzo, Nat fissava vide la colonna di fumo nero che esalava dai i cumuli di auto e cassonetti del centro città; gli Zeppelin neri del Reich avevano ritirato le ancore e iniziavano a librarsi più in alto, mentre il dirigibile-cetaceo aveva già superato la loro quota attuale; una decina di dischi volanti ronzavano in formazione come mosche inquiete.

“La città.” – mormorò la ragazza, con il battito sempre più accelerato – “La stanno distruggendo.”

“Il nemico sembra essersi accorto della nostra presenza!” – esclamò una voce all’altoparlante, probabilmente appartenente al Capitano Ivanovič – “Impossibile mantenere la posizione di copertura, ingaggiamo battaglia!”

“Ricevuto, Capo-Rosso.” – confermò il co-pilota – “Procediamo con il distacco della Machine.”

Era arrivato il momento tanto temuto. Quella frase pronunciata con tanta freddezza e distacco, neanche fosse la cosa più naturale del mondo, sanciva ufficialmente la seconda entrata in battaglia di Nataša Novikov in poco più di tre settimane.

Mentre un uomo la scortava lungo la predella che circondava l’interno cavo del cargo si rese conto che la flebile speranza di non dover mai più rientrare nell’abitacolo di Freya – speranza di cui aveva tentato di autoconvincersi – era stata smentita ancora.

La Machine la attendeva in ginocchio, attorniata da grossi cavi collegati agli alimentatori a batterie nucleari installati a bordo. Compì un passo oltre il bordo della capsula in titanio – spalancata fuori dalla gabbia toracica – e si ritrovò ancora con le caviglie lambite dalla sostanza fredda e densa chiamata ‘Mercury-D’. Chiuse gli occhi mentre il portellone si sigillava e la Camera di Flamel si ritirava nel torace della gigantessa meccanica. Udì lo scatto dell’armatura pettorale che si richiudeva e nelle sue orecchie risuonarono confusi comandi pronunciati da terzi: “Preparativi completati; configurazione del Flam-ber per il collegamento neurale.”

“Avviare l’Elettroconduzione tramite batterie d’emergenza: tensione elettrica oltre il punto critico.”

“Arma Umanoide per Operazioni Militari Speciali: distacco!”

Ci siamo. – pensò nell’istante in cui la prima bolla di Mercury-D si sollevò dalla massa compatta depositata sul fondo.

 

*   *   *

 

Il portellone ventrale del Dollhouse si spalancò e Freya iniziò a precipitare a grande velocità.

Per la seconda volta in vita sua, Nat rivisse l’inebriante stordimento che lo spazio alternativo della Camera di Flamel era in grado di procurare: una caduta verso un Ignoto luccicante, con bambole di carta e geroglifici luminosi che danzavano intorno al suo corpo, i vestiti andavano dissolvendosi e un’ondata di intenso trasporto la fece gorgogliare. Poi l’oscurità multicolore di quell’attimo si disfece e tutto quello che rimase furono solo nubi bianche che le venivano incontro a grande velocità e qualche finestra digitale che ora le si apriva davanti.

Si rese conto di stare precipitando.

Lanciò un urletto di spavento e Freya si portò quasi immediatamente in posizione eretta. I repulsori sulle gambe e sotto le lamine del gonnellino si irradiarono di una polvere atomica color ametista, arrestandone a mezz’aria la caduta. Nat riprese a fatica il respiro mozzato dall’improvviso calo di pressione, mentre iniziava a realizzare di ritrovarsi nuda e senza peso, attorniata dagli anelli di rune luminose dell’abitacolo. Guardò sotto di sé: poteva vedere le gambe nere della sua Machine sospese a un centinaio di metri sopra i palazzi.

“Ci sono.” – si disse ad alta voce, provando a razionalizzare senza andare in panico – “Sono in campo.”

Sollevò lo sguardo e in alto, sopra le nuvole, i localizzatori automatici di Freya inquadrarono il Dollhouse: era precipitata davvero in fretta. Poi, rombando minacciosi, due grandi oggetti le passarono accanto, facendo vibrare le giunture dell’abitacolo: un aereo della sua squadra e un disco nero del Reich. Nat si richiuse su sé stessa dalla paura, tappandosi le orecchie: di certo dovevano aver sorpassato la testa del suo robot ma gli schermi a trecentosessanta gradi del Flam-ber erano tanto realistici da darle la sensazione di non essere stata urtata per un pelo.

Dollhouse a Cigno Nero.” – la voce di uno degli addetti al trasporto risuonò nell’abitacolo – “Cigno Nero, prepararsi a ricevere supporto balistico.”

“S-Sì!”

Dall’alto, l’hovercraft sganciò come un proiettile un grande contenitore di titanio sigillato, che si aprì con una piccola detonazione per liberare un enorme mitragliatore nero appositamente creato per la Machine. Imitando i movimenti della sua pilota, Freya protese le mani in alto e afferrò con estrema goffaggine l’arma e poco ci mancò che non la lasciasse cadere. La strinse forte al petto per assicurarsi che non la perdesse. Nat ansimò con le braccia chiuse a sé e si disse: “Ok, ok…ci sono. L’ho presa!”

Lanciò un grido quando una scarica di proiettili colpì le spalle della sua Unità, facendola tremare; non sentì che poco più di un formicolio alla schiena ma l’impatto la lasciò comunque tentennante. Vide sul monitor un velivolo nazista che l’aveva sorpassata di circa duecento metri e che ora le veniva addosso. I cannoni dello scafo inferiore ruotarono verso di lei: stava per far fuoco. La mente di Nataša reagì finalmente in modo proficuo: senza pensarci due volte drizzò il mitra nero verso l’obiettivo e premette il grilletto: una scarica di proiettili formato Machine sventrarono il disco volante, facendolo esplodere. Nat rimase impassibile per un singolo istante, prima di mettere a fuoco la situazione.

“Ho sparato.” – si disse tremante e incredula – “Ho sparato sul serio a delle persone…”

Poi nella sua mente baluginò fugace l’immagine di una croce dalle braccia uncinate.

Se lo meritano. – in quel pensiero si dissolse ogni ulteriore esitazione.

Freya imbracciò saldamente la sua arma e la indirizzò verso lo sciame di aerei di opposte fazioni nel cielo di Varsavia e sparò senza remore. Non aveva previsto il rinculo dell’arma e per questo il tiro fu impreciso, disegnando una ‘S’ di bossoli volanti che riuscirono comunque ad abbattere un Haunebu a oltre trecento metri di distanza. Per poco non rimase coinvolto anche un aereo della Russia, dal quale provenne un rimprovero via-radio: “Ehi, sta’ attenta, dannazione! Ci siamo anche noi, qui!”

“D’accordo!” – rispose la ragazza, troppo impegnata ad abbattere un nuovo bersaglio, in alto, e agganciandone con la vista un secondo che discendeva pericolosamente verso i tetti dei palazzi.

“È come al simulatore, è solo come al simulatore!” – continuava a ripetersi Nat, stringendo i denti dall’ansia.

Il mitragliatore gigante non smetteva di scoppiettare nella sua intermittente ‘X’ di polvere da sparo, ma i colpi andarono a vuoto per un lungo tratto. Molti tetti rimasero sfondati.

“Porca…!” – sibilò la ragazza in un impeto di paura e rabbia.

Freya ruotò il torso con più rapidità e i proiettili raggiunsero, scoperchiarono e infine abbatterono il nemico. Nat spostò ancora lo sguardo e fu colta dal panico quando vide un Haunebu a distanza ravvicinata, con i portelloni laterali già aperti e pronto a rilasciare i razzi. Non sarebbe riuscita a evitarlo.

Nat temette per il dolore che sarebbe giunto, ma una scarica di colpi si immise da destra, annientando il velivolo. La ragazza sobbalzò dallo stupore e si voltò velocemente al lato. Un grande caccia rosso, rinominato ‘EARNEST’ a caratteri bianchi sulla fusoliera, si portò alla sua altezza. Una targhetta identificativa comparve sulla parete-schermo; in corrispondenza dell’abitacolo del caccia: RED-1/VASYLJEV.

“Miša!” – esclamò con un lampo di speranza che le ridiede forza.

“Nat, stai bene?” – la voce risuonò un po’ lontana e meccanica, ma sempre premurosa.

“I-io credo di sì!” – rispose lei, arrossendo tanto per l’emozione quanto per il timore che – così come lei poteva nitidamente vedere lui – Miša riuscisse a notare la sua nudità. Si era un attimo dimenticata che a dividerli c’erano solo diecimila piastre di armatura corazzata.

“Cerca di mantenere l’attenzione e segui lo schema!” – disse ancora Miša, ma stavolta suonò più come un ordine – “Combatti solo ad alta quota, alla città penseremo noi!”

Lei annuì con decisione: se c’era lui al suo fianco, sentiva di poter tornare a casa viva.

“Capo-Rosso a Cigno Nero!” – una terza voce: quella di Ivanovič – “Cigno Nero, il dirigibile ammiraglio ha raggiunto la quota del Dollhouse: impediscigli di fuggire! Fa’ in fretta!”

Lei sentì un fremito correrle per il corpo e si inumidì le labbra senza un motivo preciso. Guardò ancora l’aereo del suo amico.

“Coraggio! Possiamo farcela!” – la voce di Miša accompagnò un pollice sollevato oltre i vetri del cockpit.

Lei serrò un pugno: “Sì!”

E Freya decollò verticalmente, lasciandosi dietro solo una fugace scia di luce viola.

Nel cuore della battaglia, due Haunebu roteavano intorno a un Sukhoi russo. Spararono dalle quattro canne giroscopiche, crivellando di colpi il bersaglio che esplose violentemente. Le due unità lunari fecero appena in tempo a sciogliere la loro formazione che tre razzi le raggiunsero e distrussero. Un T-80 contrassegnato da un ‘7’ sull’alettone posteriore oltrepassò il banco di fumo e il suo pilota proferì: “Rosso-7 a Capo-Rosso: abbiamo perso Rosso-5!”

Nel trovarsi in linea di tiro, Rosso-3 aumentò di velocità e una sezione sotto la pancia del caccia si aprì: un braccio meccanico sganciò una fascina di torpedini. Sfrecciarono in linea retta per un buon tratto, poi i legami ad anello si ruppero e si divisero singolarmente in opposte direzioni. Un paio colpirono altrettanti UFO marchiati di svastica e i due rimanenti sfrecciarono oltre le linee nemiche, andando a collidere contro la carena di uno Zeppelin, senza però arrecare danno visibile.

“Fuori due!” – Capo-Rosso batté un pugno sulla cloche, entusiasta, solo per rimangiarsi le parole poco dopo: il dirigibile nero appena colpito spalancò le fiancate, vomitando fuori altri sei Haunebu.

Il sottoufficiale trattenne a stento una bestemmia.

 

Molto più in alto Freya volava a mach-3, con l’aria sempre più gelida a fenderle fischiante la corazza. A meno di mezzo chilometro da lei, l’Eisen Wolke continuava la risalita con una velocità inaspettata per la sua stazza. Nataša focalizzò l’attenzione verso il propulsore di coda dell’aeronave, mentre due puntatori scorsero sullo schermo fino a inquadrarlo. Freya mirò il mitra senza rallentare e sparò un paio di volte, ma la velocità di volo le fece mancare l’obiettivo. Per risposta i quattro blocchi di cannoni da tre mortai ciascuno, posti sullo scafo del Wolke, scorsero sulle rotaie fino a raggiungere la poppa; i cannoni indipendenti si voltarono ed emisero un otto fasci di luce rossa. Con una prontezza di riflessi che sorprese sé stessa, Nat pensò di evitare il colpo e la sua Unità la accontentò ruotando con rapida grazia verso sinistra, schivando i laser. Ma quando vennero proiettati i successivi quattro raggi non fu abbastanza rapida da cambiare manovra: la colpirono in pieno.

Cadde.

Cadde a lungo e molto velocemente, con quelle lance di luce scarlatta che la spingevano in mezzo al torace, rendendolo incandescente. Nat gridò di dolore mentre il Mercury-D ribolliva sul suo sterno che le pareva andare in fiamme. Perse quota in modo disastroso senza riuscire a rallentare, la potenza e la gittata di quei laser era spaventosa. Quando finalmente si estinsero, Freya si era già schiantata rovinosamente su un palazzo, schiacciandolo sotto il peso. Persino la Gravità-0 della Camera si annullò localmente e Nat si ritrovò con la schiena nuda contro il fondo della cabina. Batté la testa e perse i sensi.

 

“Nat! Nat, mi senti?! Stai bene?!” – Miša fece appena in tempo ad accorgersi con la coda dell’occhio di quanto accaduto, sperando di avere risposta tramite il contatto-radio. Nulla.

Nonostante gli schermi della sua cabina permettessero una visuale a duecentosettanta gradi, non riusciva comunque a raggiungere con la vista il gigante nero alle sue spalle.

“Capo-Rosso a Rosso-1.” – lo distrasse il suo superiore – “Rosso-1, ci serve fuoco di copertura per gli Zeppelin!”

“Ma…” – si inumidì le labbra improvvisamente secche, combattuto se proseguire verso i suoi nemici o indietreggiare per assicurarsi che la pilota del robot stesse bene.

“Il target di Cigno Nero ormai è fuori portata, non possiamo farci più nulla. Concentrati sullo squadrone rimasto!”

A malincuore e con mille altre opzioni che la sua coscienza gli suggeriva, Miša Vasyljev serrò i pugni sulle leve di movimento: “Ricevuto.”

Earnest accelerò diretto verso uno dei dirigibili, quando da quest’ultimo dipartì una raffica di proiettili che Miša riuscì a evitare di pochi metri con una brusca virata. Si ritrovò sotto il ventre dello Zeppelin: le lamine dello scafo del dirigibile iniziavano ad aprirsi come una bocca sdentata, rivelando altri UFO pronti al decollo.

“In giro ce ne sono già abbastanza, di voi!” – Miša selezionò uno dei due missili all’astrolite di cui disponeva e premette il pulsante sulla leva di sinistra. Una torpedine si sganciò da sotto l’ala destra e volò all’interno dell’hangar.

L’ultima cosa che il ragazzo vide fu la scia del suo missile perdersi tra gli Haunebu che stavano per spiccare il volo, poi esplosioni a catena e un mare di fuoco presero il loro posto, mentre squarci fiammeggianti si aprivano come piaghe in tutto lo scafo nero.

Nonostante rigurgitasse fumo scuro e denso, il grande Zeppelin si voltò lentamente, deciso a non crollare.

“È ancora in grado di muoversi?!” – Miša quasi si morse la lingua nel tentativo di parlare, guardare indietro e manovrare il suo aereo contemporaneamente.

Poi, con un rombo continuo – dapprima debole e poi sempre più distinto – un punto nero si profilò in lontananza. Un blackbird modificato, quasi zoomorfo. Era veloce.

Si avvicinò con uno scatto inatteso, si rovesciò sul dorso come un acrobata e passò a un metro dalla sua fusoliera.

Quella frazione di secondo parve decisamene più lunga e nel riflesso translucido dei vetri dell’abitacolo Miša fu certo di scorgere qualcuno alla guida del jet nero: un volto di giovane uomo, dallo sguardo severo. Un ardore nelle iridi che era come se volessero sussurrargli all’orecchio: “Sarò io il tuo avversario.”

Poi quell’attimo eterno finì di colpo e i due caccia si ritrovarono a grande distanza, l’uno dall’altro.

Il caccia rosso sperimentale invertì direzione. Il blackbird fece allo stesso modo e qualcosa di rosso luccicò fugacemente sul metallo nero: quattro laser cremisi si dipanarono diagonalmente, piegarono ad angolo retto e si fiondarono in avanti.

Miša strattonò con forza i comandi e il suo aereo frenò bruscamente su cuscini d’aria, quindi i repulsori inferiori lo sospinsero in esatta verticale. I raggi rossi piegarono in alto e si gettarono all’inseguimento, torcendosi e saettando come mossi da vita propria. Le mani del ragazzo russo tirarono fino al limite le due leve, riuscendo ad anticipare di solo mezzo secondo quella serie di tentacoli di luce rovente.

“Come riesce a far curvare i laser?!” – Miša fece roteare il suo aereo due volte sull’asse a distanze diverse, prima di riuscire a distanziare i vettori del Siegfried. Aumentò le prestazioni dei propulsori, puntando alle nuvole più alte.

I due avversari trapassarono un nembo grigio come ferro, avvolti da stracci di aria condensata che si sfilacciavano dalle loro ali.

Erano al di sopra di tutte le altre unità in campo. Soli.

Soli nel cielo aperto, prossimo all’imbrunire.

Soli in quel mondo d’aria in cui orchestrare scontri privi di confine.

A bordo del suo aereo, Zeitland squadrò di sfuggita il suo avversario rivestito di metallo magenta. Sorrise: “È bravo. Vediamo ora quanto.”

E portò all’estremo il regime dei motori, superandolo. Reagendo all’impulso primordiale della sfida, Miša serrò i denti, svuotò la mente dei pensieri che lo zavorravano, portò la mano sul graduatore di velocità e spinse fino al massimo consentito.

Iniziarono.

Due velocissime code di combustibile che salivano di quota, si oltrepassavano a vicenda e poi tornavano ancora l’una contro l’altra. Un turbinio di traiettorie incrociate, curve ampie fin quasi a uscire dal campo visivo e poi altre strettissime. Oltre ogni limite, oltre qualsiasi freno inibitore. Solo velocità, cielo a perdita d’occhio, macchie bianche che si avvicendavano sconclusionate oltre i vetri delle cabine. E poi ancora virate diametrali e improvvisi voli in picchiata, dove due schegge di rosso e nero si avvitavano e fronteggiavano in una danza a spirale.

Proiettili arroventati sparati a tale velocità da far dimenticare a chi dei due appartenessero. Miša prese l’iniziativa ed Earnest rilasciò dal ventre cinque razzi termosensibili, che serpeggiarono veloci verso il blackbird, che saettava a più altezze, emettendo contemporaneamente i suoi laser. I missili esplosero convulsamente spargendo fiamme ovunque e i laser rossi schioccarono e si dibatterono nell’aria come fruste, creando una trama di luce frenetica. Si scontrarono in un’unica coda di esplosioni allineate, da cui emerse il caccia rosso, solo per ritrovarsi sorpassato ancora dall’aereo nero.

Davanti agli occhi di Misha due puntatori scorrevano sugli ologrammi opposti di due anelli, che ingabbiavano il nemico in prospettiva; quando si fermarono – e la scritta azzurra ‘TARGET LOCKED’ comparve tra di essi – Miša sputò tutto d’un fiato: “Ti ho preso!”

Il suo mezzo rallentò solo per un istante e altri otto razzi vennero espulsi dai contenitori sulle ali e sul dorso di Earnest. Ancora una volta tracciarono indistinguibili forme nel cielo polacco, intrecciandosi veloci in spire di fumo, tra le quali luccicava lo straordinario aereo da battaglia del Cavaliere Nero. Questi sganciò dalla coda una manciata di flares rossi e attirando i razzi termo-ricettori come lupi affamati, che finirono per esplodere a vuoto.

Non c’era ancora alcun vincitore.

 

Lentamente, i sensi di Nataša iniziarono a ritornare, presentandosi come un formicolio debole e diffuso. Aprì piano gli occhi ma per un lungo momento la visione fu solo un’onda nera e confusa; i suoni erano ovattati, echeggianti, lontani come in un sogno. Poi si fecero più squillanti e le sagome lontane di aerei in volo e palazzi in rovina si delinearono più nette. Era ancora viva. E la battaglia non era ancora terminata.

Non posso restarmene qui. – pensò la ragazza, sollevandosi dolorante sui gomiti.

Guardò per puro caso alla sua sinistra: la strada, gli alberi e i palazzi circostanti erano ridotti a un cumulo di rovine scomposte.

Guardò con più attenzione e notò che il braccio sinistro della Machine era penetrato nella facciata di un edificio adiacente, demolendo almeno quattro piani. Nat aguzzò la vista e gli occhi di Freya zoomarono sulla sua stessa mano. E lo vide. Tra i blocchi di cemento armato e travi di ferro ritorte che spuntavano dai muri portanti come ossa rotte s’intravedevano sagome rigonfie e curve, accatastate come sacchi tra le dita meccaniche giganti.

Una schiena coperta da una maglia lacerata, un torso riverso all’indietro in una posizione innaturale e un paio di braccia e gambe che non avrebbero dovuto trovarsi a quella distanza dai corpi.

Rigagnoli rossi scorrevano lenti tra i mattoni denudati.

 Nat rabbrividì. I suoi occhi azzurri si spalancarono dall’orrore, le sue pupille si restrinsero e una sensazione di nausea acida le risalì in gola. Lentamente la Machine tentò di rialzarsi e portò la mano alla sua vista. L’enorme palmo che comparve sugli schermi della cabina diede conferma a Nat di quel timore che le si era rapidamente insinuato dentro: sangue. Sangue rosso sul nero degli artigli affilati di Freya.

 

“Quelle persone…” – le labbra di Nat si mossero quasi da sole; non poteva ripetersi solo nella mente quello che aveva fatto – “…io…le ho uccise.”

Una parte della sua coscienza le bisbigliò subito che no, non poteva averle uccise lei. Probabilmente erano già morte prima dell’impatto o forse sarebbero morte comunque. Forse lei era atterrata solo su una casa già distrutta dalle esplosioni.

Ma i tre quarti della sua mente le suggerirono: “Quali esplosioni?”

La sua squadra stava facendo di tutto per mantenere lo scontro ad alte quote e – per quanto le suonasse strano e contradittorio – persino i soldati delle SS non sembravano avere interesse a bombardare la città. I tetti che apparivano sfondati erano stati ridotti così dalla sua scarsa capacità di tiro e la sua caduta aveva dato il colpo di grazia.

E quei corpi…quei cadaveri spezzati che avevano annullato la vita di un’intera famiglia.

Lei. Era stata lei.

“È colpa…mia?” – la bocca le tremò nel fissare le mani sporche di sangue del suo robot; guardò le proprie e le parve di essere altrettanto macchiata.

Paura, senso di colpa, vertigine, disgusto, orrore.

E poi rabbia. Solo, esclusivamente, integralmente, puro odio verso quegli uomini in nero che seminavano morte e tragedie a ogni passo.

Se non fosse stato per loro, se non fossero mai tornati sulla Terra…

 “…io non sarei mai stata costretta a combattere! Non avrei mai ucciso nessuno!”

Doveva uccidere loro. Loro erano gli unici colpevoli.

Le venne da gridare. Forte, lacerante. Gridare e basta.

Freya si rialzò del tutto. Un ruggito confuso provenne da sotto il casco; due sottili occhi rossi lampeggiarono sotto il visore; le antenne simili a piume si estesero, le finiture fosforescenti lungo il corpo brillarono e le esili braccia si trasformarono in due enormi lame nere.

Come poche settimane prima.

Era pronta a porre fine a quello scontro.

 

Siegfried ed Earnest erano notevolmente discesi e sorvolavano il campo di battaglia invaso dai due dirigibili neri e dagli UFO del Reich.

Zeitland lo affiancò a breve distanza, ma il pilota russo tirò con forza la cloche verso di sé e i repulsori sotto la punta frontale del suo aereo emisero un forte getto di fiamme ossidriche.

Il caccia russo s’impennò e retrocedette a enorme velocità per più di mezzo chilometro.

“Una manovra cobra?!” – Zeit si voltò appena in tempo, sbalordito e furioso allo stesso tempo; doveva ammettere di aver trovato un concorrente più che valido.

Da lontano, il posteriore del caccia rosso dischiuse un vano nascosto: due, quattro, sei missili terra-aria vennero sputati fuori.

Curvarono in basso e attraversarono speditamente l’aria ormai satura di fiamme. Con un anticipo di due secondi e mezzo, Dietrich invertì rotta, fece vorticare sul proprio asse il blackbird ed emise un pari numero di vettori laser, intrecciati a spirale.

Si scontrarono e una grande vampata si frappose tra i due.

Tra le fiamme e il fumo baluginarono rapide due o tre croci di luce; una raffica di munizioni sfondò e diradò la coltre che li divideva ed Earnest emerse a grande velocità. La pazienza di Miša cominciava a esaurirsi, mentre notò con fastidio di aver esaurito tutti i missili, eccetto la torpedine all’astrolite; gli sfuggì una specie di ringhio nel pensare che avrebbe dovuto cavarsela solo con gli RK-68. Sparò un paio di volte una breve serie di colpi che si persero tra gli edifici più alti, nel tentativo di inseguire il bagliore rossastro dei propulsori del suo avversario, sempre avanti a lui. Uno Zeppelin sotto di loro spalancò la copertura dorsale, rivelando dodici cannoni. Fasci ortogonali di luce rossa lampeggiarono sulle imboccature, per poi estendersi in verticale come aghi d’istrice.

I due caccia sfrecciarono tra i laser rossi che tagliavano il vuoto, quando uno di essi pose una considerevole distanza tra i due.

Sul monitor di Zeit tre indicatori –distanza, traiettoria e velocità angolare del bersaglio – si centrarono finalmente sulla sagoma del suo nemico e un’icona rossa indicò la condizione ottimale per una determinata manovra.

Dies ist das Ende![1] – esclamò premendo sul pedale.

Le ali e il collo del velivolo si snodarono in più punti e l’intera intelaiatura s’incurvò, i carrelli di atterraggio e parte dello scafo si allungarono in qualcosa che assomigliava a degli artigli. Sembrava un dragone nero, non era qualcosa che un umano avrebbe potuto ideare.

“Ma che ca-?!” – Miša non riuscì a terminare la sua frase che l’impatto di quelle zampe meccaniche contro il suo aereo gli mozzò il respiro.

Si mantenevano in aria con difficoltà, come un rapace sulla sua preda. Il Cavaliere Nero minacciò qualcosa in Tedesco che suonò assolutamente incomprensibile alle orecchie di Vasyljev, che per tutta risposta ringhiò: “Non ho capito una parola!”

E batté un pugno sullo schermo tattile, espellendo l’ultimo razzo all’astrolite. Il missile si sganciò dall’ala ma rimase incastrato tra i due aerei, troppo vicini per permettergli di allontanarsi; si divincolava e sbatteva contro gli scafi come un pesce in una rete.

Miša pregò vivamente che l’altro pilota avesse a cuore la vita, perché di morire in una mossa suicida non aveva affatto voglia.

Quando Zeit si rese conto che lo shell protettivo dell’astrolite era sul punto di rompersi lasciò andare i comandi e Siegfried scalciò via l’aereo di Miša come se ne fosse rimasto ustionato.

Il razzo si divincolò fuori dalla stretta, zigzagò in aria per un buon tratto ed esplose.

Concedendosi un solo secondo per allentare la tensione, Miša guardò indietro e si rese conto che i problemi maggiori dovevano ancora arrivare.

 

Freya spiccò il volo a una tale velocità che le poche finestre integre dei palazzi circostanti si sbriciolarono sotto l’urto d’aria. Lunghissime protesi di energia violetta triplicarono le dimensioni delle sue spade, che tese dietro di sé mentre il suo corpo superava la velocità del suono. Puntava al dirigibile già per metà in fiamme; quello sbagliato, dato che tra i due costituiva di certo la minaccia minore. Nat aveva gli occhi gonfi di lacrime, i denti stretti per un dolore e un’ira mai provata prima e tutta la sua attenzione indirizzata contro ciò che presto avrebbe ridotto a un cumulo di rottami. Non si accorse nemmeno di un indicatore al suo fianco che continuava a segnare valori sempre in aumento di qualcosa a lei ignoto che suonava come ‘VRIL’. Non sentì minimamente i dati allarmati che i piloti del Dollhouse tentavano di comunicarle, né tantomeno le voci dei suoi compagni di squadra che le intimavano di cambiare obiettivo. Nemmeno quando Miša le gridò dal voice-only di fermarsi lei seppe riconoscerlo. Freya accelerò ancora e in un soffio attraversò da parte a parte il gigantesco aeromobile nazista, fermandosi solo molto oltre esso, quasi fosse incorporeo.

Allargò le braccia e le richiuse al petto; le lunghe lame di luce si estero in trasversale, separando l’orizzonte in un filo d’ametista, e poi si ridussero a un punto.

Per un momento tutto tacque.

Poi uno squarcio disegnò una bocca sfrangiata sul muso dell’aeromobile, e si estese sempre più affondo fino a separarlo per lungo in due metà, le quali – cigolando e muggendo come strani animali morenti – iniziarono a precipitare lentamente sulla città mentre le pareti arroventate dal taglio tossivano fumo nero come ciminiere.

Nat si voltò inorridita: “No…non così!”

Aveva sbagliato ancora. Spezzare in due un aereo già grande di per sé e farlo affondare come una balena sugli isolati civili non sarebbe potuta essere un’azione più avventata e sconsiderata.

Fissò impotente ciò che rimaneva dello Zeppelin schiantarsi sui palazzi di Varsavia, scivolare a lungo sulla terra e produrre sempre più danni, mentre le insegne del Reich che sventolavano sulla fusoliera ardevano crepitanti.

“Oh, no, questa è la cosa peggiore!” – gridò qualcuno della sua quadra.

“Nat!” – la voce di Miša – “Nat, perché lo hai fatto?! Che cosa succede?! Mi senti?! Rispondimi!”

Ma la sua mente aveva già staccato il collegamento con il presente.

Che cosa ho fatto? Che disastro ho combinato? – le sue labbra tremavano convulsamente, mentre le sue mani tentavano di coprire il volto pieno di vergogna e disperazione – Altra gente…ho solo ucciso altra gente!

Una spia rossa iniziò a lampeggiare nervosamente nel Flam-ber e un segnale acustico si fece sempre più stridulo e asfissiante, sommandosi alle voci che le risuonavano nei timpani e alle numerose icone di pericolo che iniziavano a riempire gli schermi, accavallandosi l’una sull’altra.

 

A bordo del Dollhouse il co-pilota di destra armeggiava ansioso sul computer, mentre quello di sinistra tentava di rispondere alle domande che Ekaterina Asimov – dalla base di Mosca – gli poneva via radio.

“Non lo sappiamo, ha agito da sola!”

“Effetto Destrudo in corso! Il grado di interfaccia Doppelgӓnger è al di sotto della norma!”

“Curve armoniche in distorsione! C’è il rischio che perda il governo dell’Unità!”

“Impossibile riprendere il dominio del circuito! I sistemi di controllo remoto sono in crash!”

 

“Sono un mostro! Non sono capace di niente!” – la voce di Nataša moriva strozzata nei palmi delle sue mani, le cui dita le artigliavano il viso. Avrebbe voluto strapparsi la pelle dalla faccia e cavarsi gli occhi, così non avrebbe visto il cimitero di fiamme in cui aveva ridotto la città.

La sua Machine barriva fuori controllo, piegandosi sul ventre e stringendosi la testa. Gli occhi luminosi sotto il visore lampeggiavano come impazziti. Poi parve perdere le forze e iniziò a precipitare a peso morto verso il basso.

Le pareti della Camera si tinsero di rosso e strane rune nere sfrigolarono ovunque, mentre la Gravità-0 si annullò. Nat urtò con il viso il fondo della cabina.

Cadde ancora e poi successe qualcosa che non avrebbe creduto possibile: i vetri dei monitor sembrarono liquefarsi, le giunture che saldavano le pareti cedettero, i grossi cavi nascosti dalle piastre metalliche si disfecero come interiora e persino i suoi abiti tornarono intatti, un filo dopo l’altro.

L’armatura di Freya si polverizzò in un nugolo di brillii e ingranaggi e per un attimo un gigantesco corpo ricoperto da pelle grigiastra rimase visibile. Poi si sgretolò anch’esso: venne via la pelle, quelle che sembravano ossa, muscoli e strani organi finché non rimase altro che una sfera di titanio. Precipitò sulla città e poi si smaterializzò. Nat si ritrovò senza nulla sotto i piedi da un’altezza di tre metri. Portò le braccia al volto mentre avvertì con dolore tutto il suo corpo collassare sull’asfalto.

 

*   *   *

 

Lago Baksheevo.

 

Fu un attimo: un bagliore nel cielo, un lampo di luce e lo spazio si contorse come stretto da una cucitura mal eseguita: Freya emerse dal nulla e si schiantò sulla sponda del lago.

 

*   *   *

 

Ci volle qualche istante prima che Nat trovasse la forza per ignorare il dolore e aprire gli occhi: si ritrovava con una guancia a terra, una ferita alla testa che poteva anche trascurare e gambe e braccia sbucciate. Intorno solo desolazione, zolle di strada ribaltate come terra smossa, finestre in fiamme, fuliggine ovunque e sirene rimbombanti. Nero, grigio e rosso. In alto ancora qualche aereo e un dirigibile nero.

Non aveva idea di cosa fosse appena successo, ma non poteva rimanere distesa in quel modo.

Devo andarmene. Devo nascondermi. – pensò razionalmente e si sollevò a fatica, incespicando sulle gambe lancinanti, in cerca di un riparo.

 

“Nat! Nat!” – gridò disperato Miša dal suo aereo, mentre già iniziava a puntare verso la città, ma la voce di Ivanovič lo fermò.

“No! Non puoi andare, Rosso-1.”

“Ma Nataša è caduta laggiù! Devo andare a cercarla!”

“Impossibile, siamo rimasti solo in tre! Dobbiamo ritirarci, non possiamo farci più nulla!”

“Ma…!”

“È un ordine!”

E senza poter replicare ulteriormente, Earnest fu costretto a cambiare direzione.

 

Quel poco che rimaneva dello squadrone ‘Stella Rossa’ si librò verso le nuvole più alte, sfuggendo alle ultime e stanche raffiche di colpi, lanciate quasi come un gesto di derisione. Si stavano dando alla fuga, come cani bastonati. Quella città per la quale si erano battuti era caduta nelle mani del nemico.

Avevano perso.

 

[1] Traduzione: “Questa è la fine!”

   
 
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