Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: macabromantic    13/05/2021    4 recensioni
[ SPOILER ALERT: Stardust Crusaders / Stone Ocean / Diamond is Unbreakable || TW: ptsd / depression / flashbacks ]
[ Jotaro Kujo x Kakyoin Noriaki ]
...
Kakyoin aveva camminato fino alla stazione di Shibuya immerso nei propri pensieri. Arrivato al grande incrocio nel quale si snodavano numerose strade del quartiere alzò lo sguardo verso il semaforo.
Fu in quel momento che lo vide.
Alto, immensamente alto, sarebbe stato impossibile non riconoscerlo anche in mezzo a tutta quella gente. Sebbene fosse di un bianco smagliante, illuminato dai colori al neon che si mescolavano in piazza fra i toni del turchese e bluette, Kakyoin avrebbe riconosciuto quel cappello dovunque. Un cappotto lungo fino a terra, una pesante catena che scivolava dal lato sinistro del petto. Una sigaretta accesa tra i denti, la mano sinistra vicino alle labbra, quella destra infilata in tasca, una grossa busta di carta che pendeva dal polso.
Jotaro Kujo si trovava dall’altro lato della strada, con la fronte corrugata e gli occhi fermi sulle strisce pedonali. Quando il semaforo scattò dal rosso al verde, Jotaro sollevò lo sguardo e in quell’istante incontrò gli occhi di Kakyoin.
Il cuore gli si fermò nel petto, la sigaretta gli cadde dalle mani.
...
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Jolyne Kujo, Joseph Joestar, Jotaro Kujo, Noriaki Kakyoin
Note: Lemon, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 08

Fiori bianchi, parte II


 
 
Bussarono alla porta. Kakyoin era sveglio, seduto nel letto con la schiena poggiata contro il cuscino. Si voltò in direzione del suono.
«Oi, imbecille.» Nonostante gli occhi fasciati, Kakyoin sorrise nell’udire la voce di Jotaro. Non poteva vederlo, ma riusciva a immaginare la sua figura alta stendere sulla porta, magari poggiato allo stipite con una spalla e il peso del corpo sbilanciato su una gamba sola, le braccia incrociate al petto.
«Anche per me è un piacere vederti,» disse Kakyoin con una risatina che gli scosse le spalle e il rossissimo ciuffo di capelli. Non ne ebbe la certezza, ma avrebbe scommesso di aver sentito Jotaro sospirare come si fa quando si ride solo con il naso; intanto la porta si era chiusa. A giudicare dal rumore dei passi doveva essere solo. «Gli altri non ci sono?»
Jotaro prese l’unica sedia presente in stanza e l’avvicinò al letto, si sedette facendo scivolare il bacino in avanti, le mani strette in tasca.
«No, hanno perso tempo a cercare un posto dove passare la notte, arriveranno fra un po’. Come vanno gli occhi?»
Kakyoin si sistemò meglio nel letto, con le spalle si scavò posto nel morbido cuscino. Alzò la mano destra insieme alla rispettiva spalla, con noncuranza scosse il capo e fece cadere il palmo sulle lenzuola che risposero in un fruscio.
«Per fortuna non è niente di grave, è una ferita superficiale. I medici dicono che non perderò la vista, ma per qualche giorno devo fare attenzione a non prendere sole altrimenti si potrebbe infettare.»
«Capisco.»
Kakyoin annuì, tra le dita di entrambe le mani strinse piccoli lembi delle lenzuola leggere.
«Senti, poi com’è finita con Geb?», domandò dopo qualche momento mentre si pizzicava il labbro inferiore con i denti. «Qualcun altro è stato ferito?»
Jotaro sospirò a occhi chiusi, quando li riaprì guardava un punto impreciso sulle lenzuola.
«No,» disse mentre lo sguardo si spostava sulle fasciature attorno agli occhi di Kakyoin e un respiro di sollievo si alzò dalle labbra schiuse di quest’ultimo. Jotaro continuò a spiegare: «Lo abbiamo sconfitto io e Iggy, anche se il colpo di grazia se l’è dato da solo. Ha preferito suicidarsi piuttosto che tradire Dio.»
«E certo, figurati,» bisbigliò tra sé Kakyoin.
Ci fu silenzio per diversi istanti, poi fu di nuovo Jotaro ad avviare la conversazione.
«Polnareff ti ha portato in salvo neanche fossi una principessa.»
Kakyoin trattenne sonoramente una risata nel naso, poi rise di gusto.
«Che figura di merda che ho fatto, santo cielo.»
«Mi fa ridere pensare che stavi restando cieco per colpa di un cieco.»
Kakyoin sollevò le sopracciglia e sganciò le mascelle, le braccia incrociate al petto.
«Ah, quindi sei pure simpatico,» disse ridacchiando mentre a tentoni, con la mano più vicina, si allungava per cercare di dargli una botta su una spalla. Jotaro si scansava, gli occhi socchiusi e una risatina gutturale che solo lui poteva udire. Ma la udì anche Kakyoin, il quale nel petto sentì il cuore accelerare per un istante, il volto colorirsi.
«Ma pensa te,» mormorò infine Jotaro lasciandosi colpire.
«Ah, ti ho preso!», disse Kakyoin con entusiasmo mentre faceva suonare uno schiaffo contro la lana del cappotto.
«Bravissimo
Kakyoin ebbe un sussulto. La voce di Jotaro si era avvicinata di molto al suo viso, al punto che sentì le sillabe sospirate sulle proprie labbra. Il calore del sangue avvampò tutto alle guance, sentiva che stava arrossendo in maniera esagerata e che le viscere si erano annodate tutte tra loro scambiandosi di posto.
«JoJo!», lo rimproverò in un sussurro mentre si spingeva con forza contro il cuscino, quasi sperasse di venire inghiottito dentro di esso. Ma più indietreggiava e più sentiva il respiro di Jotaro farsi caldo sulle sue labbra. Entrambe le mani andarono a cercare le braccia di lui, il quale si era allungato verso il materasso fino ad abbandonare la sedia, per spingerlo lontano da sé. «Ma che stai facendo–»
«Non ti agitare, tanto siamo soli,» fu la sua risposta mentre saliva sul letto. Lasciò un bacio fugace sulle labbra di Kakyoin, il quale non ebbe modo di reagire se non con un sussulto. «Non entreranno dottori fino a che non arriveranno anche gli altri, ho chiesto che ci dessero un poco di privacy.»
Kakyoin si lasciò andare a un sorriso sorpreso con tanto di capo inclinato su un lato, riprese a respirare rendendosi conto di come stesse trattenendo il fiato. Si fece scivolare sul materasso, si morse di nuovo il labbro inferiore lasciandolo umido; il cuore scoppiettava nel petto. Le mani di Jotaro si avvolsero entrambe attorno ai suoi polsi e li sollevò sulla sua testa, prima il destro e poi il sinistro. Un sospiro silenzioso uscì dalle labbra di Kakyoin, il quale assecondò i movimenti di Jotaro. Nonostante la presenza delle lenzuola, sentiva chiaramente sopra di sé il corpo rovente dell’altro. Piacevoli brividi lo scossero nelle spalle ora che le labbra di Jotaro si erano spostate sul collo, i propri polsi tenuti fermi dalla presa di un’unica mano ampia, calda come ogni volta. Tentò di assecondare quei baci porgendo il collo, schiacciando il profilo del viso contro le pieghe del cuscino. Quando sentì la lingua di Jotaro tracciare un percorso liquido tra il collo e il lobo destro nuovi brividi lo percorsero lì dove veniva toccato. Strofinò le gambe tra loro, il cuore batteva all’impazzata poiché rimaneva dentro di lui la paura che la porta potesse aprirsi da un momento all’altro.
«Che pensiero carino che hai avuto, a venirmi a trovare,» disse a bassissima voce, la punta del naso che si sporgeva a cercare quella di lui nel tentativo di raccattare un bacio. Ma Jotaro fu più veloce: lo colse alla sprovvista, la punta della lingua s’insinuò rapida sulla superficie delle sue labbra per lasciarvi su un bacio bagnato. La mano sinistra si avvolse sinuosa tra il mento e la linea delle mascelle di Kakyoin così da obbligarlo in quella posizione.
«Zitto,» soffiò sulla sua bocca nel tono autorevole di sempre sebbene basso, privo di alterazioni che lasciassero trasparire a cosa stesse pensando. Certo, magari in un momento del genere non ci poteva essere molto a cui pensare. Nel petto di Kakyoin il cuore ebbe un sobbalzo ma obbedì con un sorriso accaldato; la gamba destra si sforzò di trovare la strada fuori dalle lenzuola per incastrarla sopra la sporgenza del bacino dell’altro. Nonostante gli indumenti, Kakyoin sentiva i desideri di lui farsi turgidi contro di sé e i propri stringersi sotto le lenzuola. I denti di Jotaro lo pizzicarono ancora sul collo, scesero sulla clavicola lasciata scoperta dai bottoni del pigiama. Kakyoin si lasciò andare a un sospiro mentre inarcava la schiena così da far urtare il suo petto con quello dell’altro, le mani trattenute ancora sopra la testa mentre la mancina di Jotaro scivolava sotto i tessuti che lo coprivano sul torace.
«Jotaro, voglio toccarti,» sussurrò cercando le labbra di lui in cui riversare quel caldo desiderio.
«Non puoi.» Fu irremovibile nella sua risposta. Intanto la mano aveva raggiunto il cavallo dei pantaloni di Kakyoin, il quale ebbe un piccolissimo spasmo negli adduttori delle cosce e nelle spalle.
«Ti prego,» ripetette in un sussurro arroventato.
«Ho detto di no,» e intanto stringeva tra i denti una porzione di pelle vicino alla sua spalla. L’aria passò tra i denti di Kakyoin in un brivido sibilante, le gambe si strinsero sui fianchi di Jotaro. Un mugolio affranto, quasi infantile si fece spazio tra le sue corde vocali.
«Ma così non posso fare niente...» bisbigliava tra un sospiro e l’altro; le dita cercavano di stringersi attorno alla mano di Jotaro che ancora le immobilizzava. Fu proprio quella mano a indirizzare la presa di Kakyoin verso le sbarre della testiera. Il ragazzo accettò di mantenere quella posizione aggrappandosi a loro. Un sospiro più intenso scivolò dalle sue labbra aperte ora che si sentiva toccare sotto l’elastico dei pantaloni. «Non posso toccarti, non posso parlarti, non posso vederti...»
«Parli troppo,» gli disse Jotaro spingendo il proprio pollice destro a disegnare il labbro superiore di Kakyoin. Questi lo lasciò fare e, anzi, con la punta della lingua ne inumidì la falange che aveva il sapore della terra. Jotaro lo trattenne per il mento, ma solo dopo aver sfilato il pollice da quella bocca. «Quando in realtà ti ho detto di stare zitto.»
Le labbra colorite di Kakyoin si erano fatte ancora più deliziosamente invitanti, bagnate della sua saliva che si mescolava alla propria. Le vide inclinarsi in un sorriso furbo, più furbo nell’angolo mancino su cui apparve una sensuale linea d’espressione.
«Costringimi.»
Allora lo sguardo di Jotaro si fece glaciale mentre tra quelle labbra spingeva le proprie falangi. La lingua di Kakyoin si mosse veloce sull’indice di Jotaro, seguito subito dopo anche dal medio. Ne succhiò il sapore intenso di sigarette, la consistenza ruvida dettata dal deserto. L’altra mano di Jotaro, invece, lo aveva liberato quel poco che bastava degli indumenti che lo avvolgevano nei fianchi e lo stesso andava a fare con i propri. Poi quelle dita umide scivolarono tra le gambe di Kakyoin e sulle labbra spalancate di quest’ultimo morì un gemito. Non sapendo quale parte di sé avrebbe toccato, ogni contatto con le mani di Jotaro era una sorpresa, ogni centimetro di pelle fremeva quando su di esso restava la traccia calda delle sue dita.
Dovette impegnarsi per non lamentarsi rumorosamente, ma le dita di Jotaro dentro di sé lo rendevano un’impresa difficile finché non lo abbandonarono lasciandolo con il fiato sospeso per dei momenti che parvero interminabili. Il calore che prese il loro posto, però, era molto più grande.
Kakyoin attese di avvertire un nuovo contatto con il corpo di Jotaro sollevando la testa e le spalle dal cuscino, le braccia ancora aggrappate alla testiera del letto cominciavano a formicolare. Infine Jotaro si spinse dentro di lui trattenendo un respiro, entrambe le mani ancorate ai suoi fianchi. Kakyoin contrasse il ventre, trattenne un rantolo che uscì dalle sue labbra in uno sfiato e un brivido lo percosse quando sentì un sospiro caldo di Jotaro sul viso, poi si abbandonò di nuovo con la schiena tra le lenzuola.
«Puoi toccarmi, se vuoi,» sussurrò con voce rauca dentro il suo orecchio. Kakyoin accolse quella possibilità con il bagliore di un sorriso. Le mani si sganciarono dalla testiera e subito le braccia cercarono le spalle di Jotaro.
«Oh, dio, Jotaro–», lo chiamò a voce bassa mentre questi si spingeva dentro di lui, stretto per i fianchi, una mano che allargava il palmo sulla schiena nuda. In mezzo a tutti quegli indumenti, Kakyoin cercò di insinuarsi con la mano destra sotto il cappotto pesante, alla ricerca delle spalle nude, madide di sudore alle quali si aggrappò con le unghie. La sinistra, invece, si era stretta attorno ai capelli sulla nuca. Soffocando i gemiti contro la sua spalla, stringendo lembi di tessuto tra i denti man mano che le spinte si facevano più dure, Kakyoin strozzava in gola ogni desiderio di gridare il suo nome. La mano sinistra restava stretta tra le ciocche corvine dei suoi capelli. La visiera del berretto di Jotaro si sollevava ogni volta che quest’ultimo si sporgeva per dargli un bacio finché, irritato da questo continuo urtarsi con il cappello, Kakyoin non lo afferrò per lanciarlo lontano da loro.
Le spinte di Jotaro avevano un ritmo lento e intenso, si alternavano in un crescendo che portava Kakyoin a stringersi con forza attorno ai suoi fianchi trattenendo il fiato fino a scoppiare. Allora Jotaro sospirava a denti stretti, lasciava un bacio sul suo viso, un altro sopra le bende, e con le mani Kakyoin cercava il suo volto. Lo teneva tra i palmi, lo toccava come se potesse vederlo. Non importava che il caldo dell’Egitto li imperlasse di sudore, Kakyoin spostava i capelli dalla fronte di Jotaro e con i pollici disegnava la linea delle sopracciglia, gli zigomi, incontrava le sue labbra ripiene. E Jotaro lo baciava sui palmi, lo prendeva per i polsi e si aggrappava alla testiera del letto. Sospirando contro il suo orecchio, stringendone il lobo tra i denti, Kakyoin si trovò a pensare che sotto l’attacco di Geb aveva avuto paura. Quando aveva sentito il sangue caldo scorrere sul viso e la vista diventare nera aveva creduto fosse giunto il suo momento. Bastò quell’attimo a fargli credere che tutto sarebbe finito lì, nel cuore del deserto. Non avrebbe più visto Jotaro, Polnareff e gli altri, non sarebbe mai più tornato a casa, non ci sarebbe stato più niente. Invece era ancora vivo, tremante sotto l’adrenalina che gli riempiva le vene.
L’unione dei loro corpi si fece più incandescente e l’orgasmo giunse scoordinato come ogni volta. Negli ultimi sospiri prima di lasciarsi Kakyoin stringeva a sé le spalle sudate di Jotaro, la sua testa posata con la fronte tra il collo e la spalla. Sospirò, prese fiato fino a sentire che il cuore tornava al suo battito di sempre. Infine, mentre lasciava un bacio tra i suoi capelli neri che conservavano il forte odore del muschio mescolato a quello delle Marlboro, Kakyoin pensò di non essersi mai sentito così vivo come durante quei giorni nel deserto.
«Cerca di rimetterti presto,» gli aveva poi detto Jotaro una volta ritrovata la compostezza della sua uniforme, in piedi accanto alla porta per controllare che fine aveva fatto il resto della squadra. «Non posso continuare questo viaggio senza di te.»
Kakyoin aveva sorriso, dentro di sé un tremore di commozione gli aveva fermato il respiro. Aveva annuito stringendo le lenzuola tra le mani e, anche se non poteva vederlo, sapeva che pure Jotaro, prima di andare, aveva sorriso.
 
Scosse il capo nel tentativo di scacciare quel ricordo che continuava a frullargli nella testa. Era stato inevitabile dopo il loro incontro non tornare a pensare alla volta in cui Jotaro era andato a trovarlo in ospedale poco prima dell’incontro con Dio.
Una lacrima cadde a bagnare lo schermo del game boy che stringeva tra le dita, un sospiro pesante gli sgonfiò il petto. Stringendo tra il pollice e l’indice un lembo del pigiama, Kakyoin pulì la goccia che era caduta sulla scritta lampeggiante del “game over”, poi con lo stesso tessuto si asciugò il viso. Non era tristezza, né commozione, ma il solito difetto che di tanto in tanto gocciolava dalle palpebre interrotte.
Con un altro sospiro decise di lasciar perdere il videogioco e sprofondò tra le grinze del cuscino, la consolle posata a faccia ingiù sul comodino. Lo sguardo andò all’ampia finestra che illuminava la stanza, a giudicare dalla luce calda doveva essere vicina l’ora del tramonto. La tv era stata lasciata accesa, dei cartoni animati andavano avanti coloratissimi e pieni di suoni che non stava ascoltando. Sotto di essa, sulla cassettiera bianca si alzava un vaso affusolato da cui si ergeva il mazzo di gigli, peonie e giacinti. Nonostante fossero passati diversi giorni, i fiori avevano conservato quasi del tutto la loro freschezza. Solo alcune foglie si erano curvate, pochi petali si erano ambrati nei bordi e altrettanto poche erano le teste di giacinto che erano scivolate sul mobile, ma il profumo era sempre forte di primavera. Ogni giorno Kakyoin si alzava dal suo letto e gli andava vicino, guardava la composizione con sguardo cupo e si prometteva che quello sarebbe stato il giorno in cui l’avrebbe buttata. Solo che poi non lo faceva mai. Magari oggi era il giorno buono.
Con l’ennesimo sospiro nei polmoni, Kakyoin si scoprì con un secco fruscio delle lenzuola, infilò le pantofole e si avvicinò ai fiori tenendo le braccia incrociate al petto. Li scrutò con attenzione, gli occhi contratti nel centro e le labbra strette. La cosa che più di tutte gli faceva ribollire il cuore in un turbinio di sensazioni contrastanti era la scelta dei colori. Il bianco candido accompagnato dal verde intenso delle foglie, il rosso scuro che dava profondità ai petali che lo circondavano. Era come se quei fiori in qualche modo gli parlassero, come se dentro di loro ci fosse nascosto un messaggio che era unicamente per lui. E in ogni petalo riecheggiava la voce di Jotaro, quello sposami soffiato tra le mura dell’ospedale.
Sposami, perpetuò il sussurro di Jotaro nella testa di Kakyoin ora che allungava le dita della mano destra a sfiorare il velluto nei petali di giglio. Chiuse gli occhi come dopo un’amara medicina, sentiva ogni organo sintetico scosso nelle pareti da piccolissimi brividi quando tornava quel suono dentro le sue orecchie. Si mordeva la faccia, si massaggiava la fronte. Più cercava di non pensare a quella proposta e più quella proposta si scolpiva nel suo cervello.
Sposami, e non poteva non immaginare come sarebbe stato. Con una casa sul mare dalle ampie finestre, le tende leggere e la porta che dava direttamente sulla sabbia. L’odore della salsedine che si spargeva tra le camere per tutto l’anno, persino d’inverno, tutto sulle tinte del bianco e l’azzurro. Pensava a tutti i quadri che avrebbe dipinto in una casa del genere, a come sarebbe stato bello la sera accendere una candela ai fiori di ciliegio e aspettare che suo marito tornasse.
Marito. Bastava quella parola per fargli attorcigliare lo stomaco, per far perdere al cuore due battiti alla volta.
Si passò una mano sulla faccia, sentì il viso pizzicare per come il rossore si stesse spandendo nelle guance partendo dal centro, dilaniandosi fino alle orecchie, forse persino ai capelli. Dentro di sé era convinto che quella di Jotaro non era stata una vera proposta. Nessuno sparisce dalla vita di qualcun altro e ci torna come se nulla fosse, nessuno ha l’ardire di credere che una cosa del genere possa cancellare tutto ciò che di tragico c’è stato. E Kakyoin si avviliva a pensare a tutte le cose storte che non smettevano di susseguirsi nella sua vita, alzava gli occhi al cielo sibilando maledizioni. No, senza dubbio non poteva bastare nulla del genere, una proposta fatta senza pensare, dettata da chissà quale follia. E poi gli aveva detto di no, no e basta, su questa scelta era irremovibile. Aveva deciso che ormai non c’era più nulla da prendere, tantomeno da salvare. Ma chissà cosa sarebbe successo se gli avesse detto sì, Jotaro, ti sposo. Che non aspettava altro che vivere al suo fianco, che finalmente sarebbero stati felici, che forse in questo modo ce l’avrebbero fatta, che avrebbero trovato un modo per stare bene, per superare ogni cosa.
«Kakyoin?»
«No! No, ho detto no–», sussultò nel sentirsi chiamare, le spalle scosse in un fremito e gli ultimi pensieri per paura di essere stati smascherati si erano vestiti della ragione. Girandosi verso la voce che l’aveva chiamato, rosso in viso più di prima, tirò un sospiro di sollievo vedendo che in stanza era entrata sua madre, la quale ora ridacchiava a bassa voce. «Mamma, mi hai fatto prendere un colpo.»
«Scusami, non volevo spaventarti. A chi dicevi di no?», ripetette lei mentre si avvicinava al letto, poi posò sul comodino accanto ad esso una busta di carta. Kakyoin distolse lo sguardo, cercò la risposta nel pavimento mentre con le dita di una mano si grattava la guancia accaldata.
«A nessuno, a me steso. Ero solo sovrappensiero,» mormorò mentre si sedeva sul bordo del letto. Harumi, intanto, aveva tirato fuori dalla busta due contenitori e due paia di bacchette per il pranzo.
«Stamattina sono passata da casa tua,» disse mentre porgeva al figlio uno dei due bento.
«Fuji sta bene?»
Harumi annuì. «Gli ho lasciato da mangiare prima di andare via. Il pranzo l’ho preparato con le cose che avevi in casa, altrimenti si perdono.»
«Hai fatto bene,» disse Kakyoin mentre apriva la confezione. Non poté trattenere una risatina di tenerezza quando vide l’aspetto che aveva il suo coloratissimo pranzo. Insieme a una varietà di quattro uramaki, accompagnati da insalata mista ridotta in coriandoli a forma di stella e del sashimi arrotolato come boccioli di rosa, c’erano tre onigiri decorati come fossero delle simpatiche gallinelle e, a parte, delle ciliegie mature. «Mamma, non c’è bisogno che mi prepari un pranzo così impegnativo ogni volta.»
Harumi, che a sua volta dal proprio bento aveva preso un onigiri decorato, rispose al figlio scuotendo leggermente il capo, la spalla destra sollevata: «Un pasto diventa più buono se è anche bello da vedere.»
Risero entrambi mentre iniziavano a mangiare.
«Come va il polso?», chiese lei dopo un po’, delicata in uno dei suoi sorrisi da mamma. Kakyoin abbassò lo sguardo sulle fasce che lo avvolgevano, mosse lentamente la mano insù e ingiù. Annuì mandando giù un boccone di riso.
«Va meglio, anche se spesso mi si addormentano le dita.»
Anche Harumi annuì, tra il pollice e il medio stringeva la polpetta di riso vicino alle labbra. Attese qualche momento prima di parlare di nuovo.
«Per il resto come ti senti?»
Era sempre una domanda azzardata. L’ultima volta che gli avevano chiesto come si sentisse, Kakyoin non era stato capace di farsi capire. Nella sua testa aveva dato una chiara spiegazione, eppure si era ritrovato da solo, come ogni volta, con l’unica compagnia di Hierophant Green. Sospirò mentre si inumidiva le labbra con la punta della lingua.
«Sto un po’ meglio, la cura che mi hanno dato qui sta facendo effetto.» Non era una bugia, ma non sapeva per quanto tempo ancora il suo corpo, anzi, la sua mente avrebbe accolto di buon grado quelle medicine. In passato era già successo di iniziare più di una terapia, ma poi finiva sempre per essere un impegno troppo grande e la stanchezza vinceva sulla tenacia. «Stavo pensando che, forse, dovrei dare una possibilità alla cura sperimentale della dottoressa Shizuka.»
«Ah, quella che mi dicevi l’altra volta?»
«Sì, con quel suo collega specializzato.»
Harumi annuì ancora, poi i suoi occhi si spostarono nella stanza e raggiunsero i fiori. Restò in silenzio per qualche secondo, poi cercò le parole tra i riccioli dell’insalata.
«Kiko, tu lo sai che puoi dirmi tutto, vero?» Nella sua voce c’era un velo di malinconia. Kakyoin crucciò le sopracciglia, la testa inclinata di qualche grado verso sinistra.
«Sì, certo che lo so.»
«Non riesco a smettere di pensare a quel ragazzo che ti ha portato i fiori.» Per un attimo il cuore di Kakyoin smise di battere, ogni goccia del suo sangue si congelò nelle vene. Non trovando nulla da dirle, Kakyoin attese che fosse di nuovo sua madre a ricominciare a parlare, e lei lo fece con un sorriso stanco ma gentile: «Ha detto che vi conoscete dalla scuola, ma non riesco a trovarlo in nessuna delle tue foto di classe.» Un nodo strinse lo stomaco di Kakyoin, le punte delle mani si stavano rapidamente raffreddando. «Ho immaginato che avesse a che fare con la faccenda dell’Egitto.»
«Mamma...»
Harumi prese un respiro profondo, le spalle si sgonfiarono mentre posava il bento sul comodino. Kakyoin, invece, stringeva il proprio strofinando i pollici sulla superficie liscia della scatola, i canini che pizzicavano porzioni invisibili del labbro inferiore.
«Se andavate a scuola insieme dovete avere più o meno la stessa età. Questo vuol dire che all’epoca è probabile che anche lui fosse minorenne. Non ho mai capito bene cosa sia successo in quel viaggio, ma anche per lui deve essere stata un’esperienza traumatica.» Fece una breve pausa, dopodiché i suoi occhi affettuosi si alzarono sul viso del figlio. «Non so cosa ci sia stato, né cosa c’è ora tra voi, ma quel ragazzo viene a trovarti ogni giorno.»
Gli occhi di Kakyoin si fecero enormi, le labbra schiuse, asciutte per la sorpresa.
«...che cosa?»
«In realtà ho la sensazione che non se ne sia mai andato, però potrei sbagliarmi» aggiunse lei con un sorriso intenerito. Kakyoin scosse il capo apprendendo la notizia, quasi dovesse riassestarsi dopo quel colpo inaspettato.
«Aspetta, Jotaro non se n’è mai andato?»
«Ah, Jotaro! Ecco come si chiamava,» disse lei annuendo, di nuovo lo sguardo tornò sui fiori bianchi. «Gli ho chiesto più volte se aveva bisogno di qualcosa, se voleva entrare, ma ha sempre rifiutato. Credo che, a modo suo, voglia rispettare i tuoi tempi oltre che i tuoi spazi.»
Dopo aver pronunciato quelle parole, Harumi ripose ciò che restava del suo pranzo dentro la busta di carta. «Sai,» concluse, «un amore così devoto non lo vedevo da quando conobbi tuo padre. Persone così si incontrano una volta nella vita.»
Quelle parole schioccarono più forti di una frusta nelle orecchie di Kakyoin, immobile nel bordo del letto anche ora che sua madre si avvicinava. Lo salutò con un bacio sulla fronte, una carezza per allontanare i capelli candidi dal viso. Gli disse che sarebbe tornata domani, gli raccomandò di mangiare il suo pranzo altrimenti non sarebbe mai tornato in forze, infine Kakyoin la guardò chiudersi la porta alle spalle.
Non era mai stato dubbioso sulla propria sessualità, fin da piccolissimo Kakyoin era stato consapevole di provare attrazione per i ragazzi. Prima che Hierophant Green facesse la sua prima apparizione credeva fosse per questo che non riusciva a stringere amicizie. Pensava non fosse normale vivere con segreto del genere, quasi fosse una maledizione – cosa poteva saperne, poi, di tutte le cose che sarebbero successe. Prima di Jotaro non c’erano state molte altre esperienze, se c’erano state in qualche modo si erano rivelate sempre a senso unico, e mai aveva raccontato qualcosa a sua madre. Sapeva che di lei si poteva fidare, nel corso del tempo gli aveva sempre dimostrato di essere il porto sicuro in cui rifugiarsi nei giorni di tempesta, però una confessione del genere non l’aveva mai fatta. Non avendolo mai detto con chiarezza, Kakyoin non aveva mai preso in considerazione che lei, in quanto madre, potesse saperlo e basta. Di tutte le persone che poteva immaginare, poi, non avrebbe creduto che sarebbe stata proprio lei a mettere una buona parola sulle azioni di Jotaro.
Si decise a uscire dalla propria stanza dopo diversi minuti, forse una decina, da quando era rimasto solo. Prima di uscire davvero si limitò a fare capolino, controllò il corridoio. Guardò a destra e non vide nulla se non la corsia che si disperdeva tra i dottori che si davano il cambio di turno, e poi a sinistra. Su una fila di sedie adibite per l’attesa, Kakyoin perse il cuore. Lì c’era Jotaro, il quale si era già accorto di lui e aspettava solo che i suoi occhi lo incontrassero.
Kakyoin strinse i denti, uscì dalla propria stanza chiudendo piano la porta. Si avvicinò a Jotaro incrociando le braccia al petto, l’altro si alzò portando le mani in tasca. Sul suo viso la barba era cresciuta ancora, un sottilissimo stato scuro che gli dava l’aria di uno stanco marinaio.
«Che ci fai ancora qui?», mormorò Kakyoin allontanando lo sguardo da lui.
«Avevo bisogno di parlarti.»
«Ho detto che non volevo più vederti.»
«Lo so, e io non ti ho creduto.» Kakyoin sospirò, le spalle si fecero più strette insieme alle braccia allacciate tra loro. «Hai detto che in questo momento è come se fossi un estraneo, per te.»
Gli occhi di Kakyoin, contratti nel centro da piccole rughe d’espressione, si alzarono su quelli di Jotaro. Le sopracciglia brune donavano un’aria cupa ai suoi occhi trasparenti, indecifrabili più che mai.
«E quindi?»
«Dici che il tuo libro preferito è una raccolta di poesie di Neruda che s’intitola “I versi del Capitano”, ma in realtà è “il Piccolo Principe”. Non ti piace il Natale, ma ami l’inverno. Il tuo colore preferito è il verde, soprattutto il verde bottiglia. L’acqua la bevi sempre a temperatura ambiente anche quando fa caldo, non ti piace la frutta del giorno prima. Quando mangi le ciliegie le fai girare sulla lingua, due volte a destra, tre a sinistra, una destra e poi le mastichi dal lato sinistro salvo qualche eccezione. Quando ridi c’è un muscolo sul tuo sopracciglio destro che si alza prima di tutti e prima di ridere arricci gli angoli della bocca. Hai un neo dietro l’orecchio sinistro, piccolissimo, che accarezzi sempre quando sei sovrappensiero.»
Kakyoin sciolse le braccia, le spalle ancora tese.
«Smettila,» disse senza riuscire a trattenere un velo di disagio e l’altro si zittì. In ogni parola di Jotaro, pronunciata con la sicurezza di chi ha osservato ogni dettaglio con meticolosa attenzione, Kakyoin rivedeva sé stesso. Sentiva il viso pizzicare, nel petto la sensazione che ci fosse poca aria.
«Quello che intendo dire è che non voglio essere un estraneo, Kakyoin,» disse con un sospiro così piccolo che Kakyoin, per un momento, pensò di esserselo immaginato. Ma le spalle di Jotaro si erano abbassate di un paio di centimetri, le palpebre si erano socchiuse. «Vorrei che mi conoscessi.»
«Non so se voglio farlo, Jotaro.» Di nuovo incrociò le braccia al petto. Jotaro annuì, pronto a quella eventuale risposta.
«E io non voglio costringerti. Domani sera dovrò partire per lavoro, starò via quindici giorni. Il sedicesimo giorno, giovedì alle diciotto sarò alla Sky Tree1. Vorrei che...»
«Aspetta, non...» Kakyoin si passò una mano sulla fronte, strinse gli occhi per un momento. Prima di riprendere a parlare staccò le dita dal viso, ma queste rimasero aperte poco distanti da sé. «Allora. Non sto dicendo che ci sarò, ma puoi evitare gli orari serali? Non voglio che sembri un appuntamento.»
«Certo,» rispose Jotaro dopo qualche momento, raddrizzandosi nel suo cappotto bianco. «La mattina, per le dieci?»
Dopo una manciata di secondi, Kakyoin annuì senza guardarlo.
«Il terzo giovedì da oggi, la mattina alle dieci,» ripetette Jotaro, gli occhi per un momento distanti su una mattonella lucidissima. «Allora io vado, devo consegnare una relazione entro stasera e sono un po’ indietro. Se è tutto, io vado.»
Le iridi candide di Kakyoin lo avevano guardato mentre pronunciava quelle parole, poi era tornato a guardare un punto indefinito del corridoio mentre dondolava con il peso del corpo sulle gambe.
«I fiori che mi hai portato iniziano a puzzare,» mormorò sentendo la punta del naso farsi calda.
Sebbene non lo stesse guardando, Kakyoin sapeva che le labbra di Jotaro si erano distese in un sorriso che nessuno poteva vedere. «Vorrà dire che te ne porterò di freschi.»
 

 
________________________________________________
 
 
N.d.A.:
 
 
1: famoso grattacielo e punto turistico di Tokyo


Bentornat* nelle note d'Autore!
Inizio con il dirvi che, ahimè, anche questa settimana non ci sarà il capitolo di "Come una volta". Mi sono concentrata talmente tanto sulle fanart da non avere avuto il tempo materiale per scrivere - Habibi sta campando di rendita al momento ahahah. Ciò nonostante, non ho intenzione di mollare, anzi! Non vedo l'ora di andare avanti con entrambe le storie, questo fandom mi prende tantissimo e sono sempre più entusiasta.
Detto ciò, se avete voglia di lasciare un commento sapete bene che sono sempre aperta ad ascoltarvi,
a presto!

iysse ♥

 
   
 
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