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Autore: sacrogral    18/05/2021    10 recensioni
… in cui magari la trama non procede, ma si hanno molte spiegazioni sul pregresso, per cui si può dire che “c’è una svolta”, se colui che scrive è affidabile. Il cavaliere innamorato si troverà di nuovo a far squadra con chi non vorrebbe. Madamigella la Luminosa dovrà prendere una decisione difficile e la prenderà, non pensando a se stessa ma ad altri. Alla Disperazione ci si dispera, com’è giusto che sia. E si scopre che, davanti agli occhi di Dio, il più piccolo di noi vale quanto un grande re.
Questa storia è il continuo di una mia storia, contiene riferimenti ad altre mie storie, diffidare della lettura secca, può risultare incomprensibile. Può infastidire a tratti per il linguaggio usato e per le tematiche affrontate, sgradevoli; metto “contenuti forti”, ma è solo una narrazione di fantasia, e devo tutto a madame Ikeda, va da sé.
Mi permetto una dedica, improponibile. Per Franco Battiato: abbi cura di te nel tuo viaggio, Maestro.
Genere: Dark, Drammatico, Noir | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto

 

… in cui  magari la trama non procede, ma si hanno molte spiegazioni sul pregresso, per cui si può dire che “c’è una svolta”, se colui che scrive è affidabile.  Il cavaliere innamorato si troverà di nuovo a far squadra con chi non vorrebbe. Madamigella la Luminosa dovrà prendere una decisione difficile e la prenderà, non pensando a se stessa ma ad altri. Alla Disperazione ci si dispera, com’è giusto che sia. E si scopre che, davanti agli occhi di Dio, il più piccolo di noi vale quanto un grande re.

 

 

E allora Oscar Françoise de Jarjayes, ben lontana dall’essere nel pieno delle sue forze e ancora di più dall’essere in possesso delle proprie facoltà mentali, si ritrovò davanti i tre uomini del Marchese – questo pensò. 

Non avevano l’aria minacciosa e neppure rilassata, ma sembravano – pensò lei, con stupore – sembravano pieni di speranza. 

“Vi ha mandato il Cielo” disse il più vecchio dei tre con, ci avrebbe giurato, le lacrime agli occhi.

E poi regnò un silenzio che le parve lunghissimo, lei ancora con la guardia alta, cercando di recuperare corpo e mente per sfuggire giocando di agilità ed esperienza sul campo - l’intelletto serve a un militare per la strategia, ma per la tattica occorrono la pratica e l’esperienza delle armi, ripeteva sempre suo padre – cercando di far entrare nel suo campo visivo ogni possibilità a suo favore ma senza perdersi eventuali mosse degli avversari, che tuttavia non accennavano a farne.

“La terra” disse quell’uomo quasi vecchio sul serio “La conoscete voi, la terra? Ci nutre, ci veste, ci scalda, non esiste altro che la terra. Si rinnova ogni primavera, si addormenta d’autunno. E la terra ci dà il lavoro, ci dà il cibo per noi e per i nostri figli, ci dà le uve buone e il vino da bere. La terra non è di chi la possiede, è di chi la lavora. La Terra dà, la Terra vuole. E noi quello che prendiamo lo restituiamo alla Terra, perché continui ad essere generosa. La Terra è una donna, vuole attenzione, vuole esser onorata, vuole essere toccata da mani piene di rispetto. Le mie mani, comandante, sono sporche di terra e meritano rispetto. Ma la Terra vuole sacrificio, vuole devozione”.

Oscar Françoise ascoltava. Non comprendeva appieno quel discorso che le sembrava, minimo, fuori contesto.

“Noi la onoriamo, perché sia generosa” riprese ma l’altro uomo, tarchiato e scuro di capelli. Oscar ne valutò la pesantezza che avrebbe potuto esser lentezza “Lo scorso anno, la vendemmia è stata eccezionale. Il Maudit non avrebbe potuto essere migliore, perché abbiamo onorato la Terra”.

Oscar Françoise non interrompeva. Perplessa, silenziosa, riprendeva le forze.  In quello stesso istante, ma lei lo ignorava, André Grandier la osservava estasiato a distanza siderale, in un luogo che non era, dove i fiumi son fatti di latte e le querce stillano miele ed è sempre primavera.

“Noi abbiamo onorato la terra con il sacrificio” affermò secco l’altro uomo, alto e biondo, con una faccia normanna. Era quello che aveva spaccato lo zigomo ad André.

Oscar Françoise cercava di capire, mentre valutata che sì, ce la poteva fare, o che almeno il tentativo valeva la pena.

 

Gobemouche spalancò la porta socchiusa della Disperazione vuota, il volto pallido lo faceva somigliare alla statua di un qualche imperatore romano, in posa di eterna giovinezza ed espressione indecifrabile; ma lui era sudato e i capelli erano tutto tranne che composti e arricciati ad arte, e la barba non fatta da qualche giorno lo infastidiva. 

Si abituò all’istante al buio quasi perfetto dello squallore da parigini del Terzo stato, molto “Terzo stato”, perché ormai i suoi occhi non ricordavano quasi altro; e lui, avvezzo alle scorribande nel sole fin da ragazzino, da qualche giorno aveva la netta percezione di vivere solo di notte, oppure al buio – nella sua casa con la sorella malata, nella Disperazione cupa, sempre al buio. 

All’inizio fu l’enorme macchia bianca che spiccava nella penombra e che era la camicia di Joss – lui, in ginocchio, a occupare senza grazia un monte di spazio, sembrava uno di quei pastori sporchi e devoti nelle Adorazioni del secolo precedente, di quelli messi lì apposta per far risaltare la bellezza della Madonna, del Bambino e dei Magi; ma Joss il pastore, sconvolto e impotente, era chino non su infante d’oro ma su un ragazzino di terra e fango, che tremava e non riusciva a tenere ferma la testa. Gobemuche  si accorse che gli teneva la bocca a forza spalancata, con le sue mani pelose e impacciate, a impedire che si soffocasse con la lingua.

Restò un istante paralizzato, come scolpito nel marmo del basso Impero: il bambino-ambasciatore glielo aveva detto, di correre da Joss, che doveva far presto – e lui aveva corso, e adesso che era lì, fuori dal buio della notte e dentro la notte della Disperazione, rimaneva impalato come uno stoccafisso.

“Cristo Santo, Foret!” gridò “Ha bevuto il Maudit” scattò verso di loro, che gli si presentavano come un’incongrua e assurda Pietà

“No” affermò Joss, calmo “Gli ho detto di non toccarlo e lui non l’ha toccato. Lui ubbidisce. Questo è un attacco del morbo sacro”.

“Epilessia?” chiese Michel Gobemouche, chinandosi sul ragazzo a terra e sostanzialmente impotente “Non è possibile, Foret non soffre di epilessia”.

“E tu che ne sai?” ribadì Joss, la voce più cupa “Io non posso muovermi. Trova il dottor Lassone” ordinò, col tono di voce di un generale prussiano “E chiama… chiama anche fra Etienne” buttò fuori, controvoglia, e incrociando gli occhi di Gobemouche “Son giorni strani, io non so più cosa pensare. L’ombra è più cupa. E l’acqua santa male non fa”.

Gobemouche, che d’istinto non aveva toccato Foret e si rese conto, maledicendosi, di esser diventato credulo e irrazionale, lesse nello sguardo di Joss quello che le parole non riuscivano a dire, e che alla fine si sintetizzava in questo ragazzo mezzo genio e mezzo scemo è come un figlio e muoverò Terra e Cielo per lui e annuì.

Correndo di nuovo fuori, lanciò uno sguardo all’affresco e alla Morte che rideva e si trascinava dietro poveri e ricchi, giovani e vecchi, donne e uomini, senza distinzioni.

“Maledetta lupa” disse a mezza voce, parafrasando il boia Sanson, e chiedendosi se non fosse il caso, in quei giorni in cui si respirava zolfo dappertutto, di chiamare anche monsieur Charles-Henri, giusto per quella sua  frequentazione con colei che adesso non voleva nominare. 

Il piccolo Foret, mentre Joss gli deformava il volto per fargli solo del bene, il piccolo Foret, con gli occhi vitrei, aveva biascicato di continuo, come una preghiera: “Lei”. Saperlo, chi era, “lei”.

 

In strada, Gobemouche fischiò tre volte nell’ombra più cupa. Nel cuore della notte, sbucati da chissà quale fogna come topolini veloci, o usciti direttamente dalla Corte dei miracoli, ecco arrivare da direzioni opposte tre soldi di cacio procuratori, piccoli dentro stracci per loro troppo piccoli.

“Voi due” disse Gobemouche, in fretta e senza preamboli “Trovatemi il dottor Lassone e portatelo qui. Ditegli che serve alla Disperazione. E tu corri alla chiesa, quella piccola, di quartiere, mezza diroccata – butta giù dal letto fra Etienne e portalo qui”. 

Il poeta lanciò in aria tre monete che non toccarono terra, afferrate come furono da prontezza già scaltra, gagliarda.

“Fate il lavoro bene e in fretta e ve ne verrà del buono; sennò, andatevene pure da Parigi per sempre”, specificò – ma senza che ce ne fosse bisogno – Gobemouche. Sparirono in fretta come erano apparsi.

Pensando, senza criterio, che i luoghi comuni sono verissimi e che il cielo era trapunto di stelle, e che quelle dell’Orsa brillavano vaghe, corse via anche lui.

 

 

“Mio buon amico, fermatevi un istante” chiese con grande cortesia il marchese Donathien Alphonse de Sade. André Grandier, nella fretta e nella rabbia, d’istinto lo accontentò.

“Stiamo perdendo tempo a guardare in ogni stanza della mia non piccola magione. Perdete pochi minuti a spiegarmi cosa vi spinge a credere che il comandante Oscar sia in pericolo, e soprattutto perché, e forse potrò aiutarvi meglio”.

André pensò che era lo stesso tono di voce che usava sua nonna quando, lui e Oscar cuccioli, venivano educati alla calma e al rispetto. “Un serpente” si disse, il serpente che tentò Eva, così che, invece che in quel Giardino meraviglioso e creato apposta per l’uomo, siamo buttati in questo mondo infame, fatto a misura dei cani, a rimpiangere una mela addentata per il gusto di conoscere il lato oscuro. Domò a fatica la voglia di spaccargli la faccia, lo guardò, ma non trovò traccia di quella furia che il divin marchese gli aveva riservato poche ore prima. E neppure trovò malizia, né fraudolenza. 

“Non mi piace non esser padrone in casa mia. Avevo ordinato di farvi prendere una sbornia da Maudit e controllare che vi faceste un bel sonno ristoratore, per ricordarvi chi sono io e chi siete venuti a offendere, a ingiuriare in casa propria. Adesso mi ritrovo minacciato di morte e perduta l’ospite d’onore, la figlia di un conte, e mi ritrovo a un filo da un altro elenco di accuse ancora più incomprensibili di quelle rivoltemi finora. Non mi piace non capire”.

“Voi davvero non sapete niente” disse André Grandier, calmissimo “Davvero pensavate che fossimo venuti a chiedervi aiuto per qualcosa, sulla scia della Bestia di Parigi, e siete rimasto deluso”.

Il marchese fece un gesto vago, distolse lo sguardo e sembrò – André trasecolò – imbarazzato:

“Forse ho addirittura pensato che foste venuti in visita di piacere – a onorarmi di un saluto amicale, intendo. Debolezze, lo comprendo. A maggior ragione cercate di comprendere la mia momentanea reazione” e doveva essere quello di più simile che quell’uomo concepiva come espressione di dispiacere.

“Signore, tutto questo ha un motivo. Esiste davvero un male che sta dilagando per Parigi, ha origine concreta ed effetti concreti. Quando Oscar ve ne parlava, sapeva a stento di cosa parlava, solo gli effetti le erano noti, e per bocca del popolino. Adesso io so da cosa tutto è scaturito, e non per merito di intelletto, ma perché mi è stato rivelato. Ma voi, signore, dovete sospendere l’incredulità, lasciare in disparte le vostre convinzioni, sforzarvi di credere. Non ho tempo per entrare nei dettagli, non dovete farmi domande che avranno risposte in altro tempo, o non ce l’avranno. Dovete solo ascoltarmi, e credermi”.

Non avrebbe pensato, il marchese de Sade, che un giovane soldato potesse esprimersi in quei termini davanti a lui, un figlio del popolo cui doveva il suo labbro spaccato e una concitazione notturna come minimo inaspettata. 

“Vi ascolto, giovane André” disse piano il marchese, e il “giovane André” si accorse di sfuggita che, per la prima volta, quell’uomo lo aveva chiamato per nome.

 

 

“Immagino che accendiate dei falò alla Luna e vi mettiate in ginocchio di fronte alle vigne. Magari vi divertite anche in danze rituali, voi, uomini fatti” ironizzò Oscar Françoise. 

Attaccare il biondo, all’improvviso. Pugno fra mandibola e collo – colpire il punto preciso, puoi esser grosso quanto vuoi, vai a terra come un sasso. Scartare a sinistra, approfittare dell’effetto sorpresa. Colpire l’altro al naso. Tenersi il più anziano come inseguitore unico nella fuga. Al primo angolo, fermarsi, aspettarlo, abbatterlo. Contare fino a cinque e agire. Uno…

“Non avete capito, madamigella” riprese il vecchio, a precisare “La Terra vuole, la Terra ordina. Son riti di sangue che la Terra chiede” e cominciarono a scendergli lacrime enormi, quasi oscene, dagli occhi semi velati e piccoli, infossati nella carne; e Oscar Françoise pensò due e si fermò. 

Rilassò i muscoli, sentì il cuore calmare il battito e regolarizzarsi gelido. 

“Riti di sangue, signore? Devo credere… animali sgozzati? Galline nere e agnelli bianchi?” domandò, rammentando vecchie favole, racconti della servitù. Ma non lo pensava davvero.

“Dovete credere che la Terra vuole il meglio, comandante della Guardia metropolitana” gridò quasi il normanno “Chiede sangue di fanciulla innocente. La Terra beve il sangue, le vigne bevono il sangue e il vino che ci dona è rosso come il sangue, e ci consente di  vivere e mangiare”.

Oscar Françoise prese fiato. 

“Signori, state confessando davanti a me, soldato al servizio di Sua Maestà, che voi praticate sacrifici umani, nella Francia dei Lumi, allo scopo di ingraziarvi la Terra? Mi state dicendo che uccidete a sangue freddo una ragazza affinché la terra ne beva il sangue o qualcosa di simile? Ho capito bene, signori?” riassunse madamigella, sperando flebile di essere smentita e sentendo un conato irrazionale provocato dall’idea del vino bevuto, quasi avesse commesso un gesto di cannibalismo, il tabù più grande dell’essere umano. Portami il cuore di tua nonna per i miei cani. Non riuscì a fermare un brivido che la scosse, arrivò alle mani ancora chiuse, attraversò la nuca e giunse alle radici dei capelli, che si mossero vive. 

Nessuno negò  e nessuno abbassò gli occhi.

“Si tira a sorte, decide il caso. Decide la Terra” disse ancora l’uomo che piangeva “E quest’anno ha scelto la mia bambina, la mia piccola Marie Rose. Ma” aggiunse, radioso, pensò Oscar Françoise “siete arrivata voi, mandata dal Cielo. Siete arrivata voi, mandata dalla Terra. A salvare la mia creatura, a prenderne il posto. Io vi ringrazio e ringrazio la Madre Terra”.

E il generale di Brigata Jarjayes, già comandante delle Guardie Reali, colonnello al servizio di Sua Maestà la Regina, si rese conto d’improvviso e di necessità che fuggire avrebbe significato abbandonare al suo destino immotivato e crudele una ragazza, forse una bambina, sconosciuta e insignificante. Ma insignificante per chi? Nel momento di silenzio, rivide una ragazzina di undici anni in abiti da principessa, l’aria esaltata e smarrita, una rosa bianca – la sua rosa bianca, donatemi questa rosa, Oscar – nella mano destra stretta, prima di lasciarla andare e lasciarsi andare da una finestra sul vuoto, il braccio esile rivolto verso l’alto, in un luogo di sfarzo e fontane di acqua fresca, e poi fu solo una bambina sfracellata nel vuoto, fra la costernazione e il dolore stupito di quelli che credevano che a loro no, a loro mai, perché Dio è sempre dalla parte dei nobili; e invece eccola lì, una bambina sacrificata, spinta dal terrore di un matrimonio non voluto con un uomo che chissà com’era fatto, chissà che voleva; una bambina sacrificata all’ambizione che altro modo non aveva potuto trovare per scappare, giovane contessina, capricciosa e innamorata dell’idea dell’amore. E adesso un’altra bambina, che stavolta poteva salvare, o tentare di salvare, da una follia differente ma sempre la stessa, perché alla fine cosa importa che sia per un feudo o per un tozzo di pane, per diamanti e rubini oppure per un bicchiere di vino a cena, una bambina è sempre una bambina, vestita di sete e velluti o coperta di stracci – una bambina è sempre una bambina, anche con i calzoni comodi per andare a cavallo e una spada in mano a ferire l’orgoglio di figli cadetti e rampolli blasonati, sempre una bambina è; e vallo a spiegare a questi disgraziati che la terra del mestiere di vivere non chiede nulla se non il lavoro delle mani che sì, sporche di terra meritano rispetto, ma sporche di sangue no, non meritano un accidente; e vallo a spiegare che la Natura non sbaglia, che lo sbaglio di natura è una distorsione dell’uomo storto, l’uomo stupido e crudele, assetato e bramoso di salvarsi da eventi che si illude di controllare.

E adesso c’era una bambina da salvare, pensò ancora Oscar Françoise de Jarjayes, e a tutto il resto si sarebbe pensato poi, si sarebbe visto mentre accadeva, e alla fine – si disse, rigorosa – di qualcosa bisogna pur morire, e un soldato muore sul campo di battaglia, o male che vada per compiere una buona azione, per difendere i più deboli, e di rado muore vecchio.

E non era detto che qualcuno dovesse davvero morire, non era detto che lei non potesse rimettere a posto le cose.

Ma adesso, Oscar Françoise, non pensava al futuro che è un’ipotesi, pensava al presente che è certezza, e non c’era più verso di credere possibile una fuga o una lotta ingaggiata sul posto, adesso l’unica cosa possibile era seguire quei tre pazzi, e vedere la bambina – solo Marie Grandier aveva mai chiamato lei bambina, nessun altroe capire se qualcosa si poteva davvero fare, e se fosse necessario rinunciare alla vita in quel modo assurdo, senza gloria, e senza aver conosciuto l’amore che, in quei giorni strani e in quella notte fuori dal tempo, in qualche maniera incomprensibile reclamava la sua attenzione, si piegava nelle crepe e scorreva molto lento nelle vene, e tutto ciò la portò a pensare se André, in quel momento, stava bene, se dormiva e sognava, e se lei sarebbe mai riuscita a chiamarlo a sé solo pronunciandone il nome, come quella volta, una vita prima, lei dentro un convento sconsacrato e lui fuori con le Guardie Reali, a troppo grande distanza per udire la voce bassa di lei dentro mura spesse e vento fuori, lei in carenza di aria e lui in carenza di lei – pensò, perché è bene essere onesti in certi momenti – eppure l’aveva sentita, a dispetto di ogni materialismo sbandierato da quell’uomo fatto di pietra, a dispetto dei sensi umani; e ricordò improvvida la corsa, lei fra le braccia di André Grandier che annaspava a tratti, e lui che voleva solo allontanarsi con lei addosso e fra sé e sé talvolta se lo diceva: “Ce la faccio, ce la faccio. Stingiti a me, Oscar”, ma senza fiato, e rami dappertutto, e Jeanne Valois che aveva gridato: “Corri, cavaliere innamorato, corri” con voce d’inferno; e lei a lasciarsi portare, nella fiducia che ogni cosa sarebbe andata bene comunque fosse andata, e nell’odore del suo torace che le ricordava l’Italia da sempre, benché non l’avesse mai vista, benché il sudore si sposasse solo al sapone di Grasse che il generale permetteva di acquistare in grandi lotti e una volta l’anno, per le fiere di paese (1)

 

E nell’intervallo brevissimo che era trascorso, che forse le aveva solo consentito di sbattere le palpebre due volte davanti a quei tre uomini che continuavano a rimanere immobili, fiduciosi nella reazione di lei che doveva essere prevedibile, ai loro occhi voluta dalla Terra e ai suoi dovuta alla vita, Oscar trovò solo il modo di sorridere il più possibile ironica, di abbassare le braccia e la guardia, di distendere i lineamenti tesi e chiedere:

“È un’idea che vi ha messo in testa il vostro signore, il marchese de Sade, questa?” 

giusto per capire.

 

 

E quando Gobemouche e monsieur Sanson spalancarono la porta della Disperazione ecco che la scena era cambiata di poco, perché Joss era sempre piegato sul ragazzo e sembrava che si fosse cristallizzato in quella posizione, ma adesso il dottor Lassone, molto concentrato, gli aveva aperto la camicia e gli auscultava il petto scarno, mentre fra Etienne, a debita distanza, teneva fra le dita il rosario di legno e lo sgranava, e sembrava pallido e determinato come chi sta facendo qualcosa di fondamentale.

Gobemouche era già restato quasi attonito quando monsieur Sanson, tornato dal lavoro e a fine cena con la famiglia, palesemente provato, lo aveva ricevuto senza batter ciglio; e la moglie del borreau, madame Marie Anne,  aveva invitato al silenzio i bambini, benissimo educati, e Gobemouche si chiese come fosse possibile che mai una volta, negli anni in cui aveva visto il boia prima seduto al suo tavolo riservato e sempre solo, poi scambiare qualche timida parola con Joss, e infine addirittura rivolgere prima un paio di appunti a lui, col tono paterno di un padre che lui non aveva più e che comunque non valeva una bestemmia neppure da vivo, e poi addirittura qualcosa di simile a un saluto, per poi infine anche qualche frase che avrebbe potuto definire una conversazione e negli ultimi giorni pure qualche cenno che avrebbe potuto definire d’amicizia – si chiese dunque, Gobemouche, come mai non avesse mai pensato che monsieur Sanson avesse una famiglia, una famiglia vera, boia d’un Giuda, per dirla con fra Etienne, con una signora normale a prendersi cura di lui e due figli quasi adolescenti a rispettarlo come il padre che era, mentre lui l’aveva visto sempre e solo come il boia di Parigi, quello che corteggia la Morte.

Ma ancor di più era rimasto interdetto e perplesso vedendo Sanson scattare al nome di Foret, Foret che si dibatteva a terra come un indemoniato, e alzatosi in tutta la sua mole – Non aspettarmi stanotte, donna – prendere il cappello e uscire, senza una parola di più, senza domandare perché dovesse muoversi.

Adesso Gobemouche si sentiva quasi di troppo, abbracciato di straforo da una luce concentrata sul ragazzo e emanata da personaggi oscuri, e oscuri ciascuno a suo modo. 

Registrò spontaneamente che il dottore senza orario si era mosso con celerità, che il prete che dormiva con un occhio aperto era accorso anche lui coi suoi ferri del mestiere, e che i ragazzini avevano fatto il loro dovere. 

Il dottor Lassone alzò lo sguardo oscurato e scuro.

“I polmoni sono puliti” dichiarò, nella luce tremolante della Disperazione, che rendeva ogni volto più spettrale. Lo disse come se non fosse una buona notizia.

Il ragazzo era irrigidito, la testa arrovesciata e i muscoli del collo tesi e duri. Una contrazione sfigurava a tratti quei lineamenti che avevano come sola bellezza la gioventù.

“Il cuore si sente nel polso” precisò ancora.

Gli occhi spalancati di Foret non guardavano nulla. 

“È lo stomaco, Foret? È la gola? Senti dolore al petto?” chiedeva il dottor Lassone, a brevi intervalli, palpando il ragazzo ora qua ora là, attendendo una reazione che non arrivava.

Scosso da tremiti scanditi – sembrava – dal ritmo turpe della risata della Morte nell’affresco, Foret apriva le labbra esangui poco e niente, e per pronunciare una sola parola: “Lei”.

“Ci resta solo la preghiera” sentenziò fra Etienne “Gli sciroppi e le pozioni del medico, qui, servono a nulla, boia d’un mondo!” gridò, senza scusarsi con monsieur Sanson, che non ci fece caso affatto.

Il dottor Lassone, impotente, scosse la testa.

Joss aveva abbassato il capo, e Gobemouche notò, con orrore, che l’oste piangeva. 

E fu così che quel giovane mangiapreti, che da sempre aveva deriso le sottane dei preti e disprezzato il rosso dei cardinali, che delle Madonne nei quadri valutava le forme delle prostitute che per quelle avevano posato, e che non aveva rivolto un pensiero ai Comandamenti se non per giustificare il suo infrangerli – Non desiderare la donna d’altri? Vallo a dire a chi una donna ce l’ha, prete! (2) – il ragazzo miscredente che rideva in faccia alla Morte che gli rideva in faccia, e che faceva le corna per scaramanzia quando vedeva il boia, si inginocchiò, e incrociò le mani, e cominciò a mormorare parole della sua infanzia, che a stento rammentava.

 

“Sacrifici umani, mio buon amico?” si limitò a dire il marchese de Sade, osservando André terreo “Nella mia proprietà, i miei servi, sacrifici umani?” e davanti al giovane che annuiva, svuotato, il nobile, il divin marchese, colui che niente stupiva, si inalberò.

“Maledetta sia la superstizione in tutte le sue forme e le sue manifestazioni. Maledetta sia l’ignoranza, l’esser credulo dell’essere umano, il non accettare la sua finitezza! E maledetto sia io, per non aver visto tutto questo!” gridò, alle stanze vuote, facendo rimbalzare l’eco delle sue parole nel vacuo dei muri.

“Voi non c’entrate nulla, signore?” chiese André, ansioso, e ormai desideroso di votarsi a qualsiasi speranza, a qualsivoglia appiglio.

Gli occhi di Donathien Alphonse de Sade brillavano nella penombra come quelli dei gatti.

“Non offendetemi, signore. Io sono un indecente e abominevole libertino, e per una maledetta scopata come dico io son stato disposto a rovinarmi nelle sostanze e nella reputazione. Ma qui si tratta di maledetti omicidi. Svegliatevi, ragazzo. Io son uno che scrive, e non l’ho mai nascosto. Son uno che scrive oscenità e depravazioni, sono un lascivo e godo nel legare e frustare ragazze consenzienti, e pure il contrario; ragazze  che poi ampiamente pago e ripago. Non l’ho mai nascosto. Come non ho mai nascosto di non aver mai ammazzato nessuno e di non desiderare farlo. Confondete ancora letteratura e vita, confondete ancora il personaggio e l’uomo, piccolo servo limitato e ottuso?”

André Grandier nemmeno fece caso all’offesa.

“Marchese, quella signora, quell’essere demoniaco di cui vi dicevo… ha fatto il nome di Thèrése, ha detto che lo scorso anno è toccato a lei, e che è stata sgozzata perché il suo sangue scorresse a bagnare la terra che dà il vostro Maudit, e che la piccola ha subìto una grande ingiustizia, e adesso ha diritto a una grande vendetta”

“E ci credo!” urlò il marchese “Ho avuto la piccola Thèrése nel mio letto per tre notti, ne amavo le forme, e le ho regalato due abiti che l’hanno fatta felice, prima che venissero a riprendermi per restituirmi al pregevole Bernard-René Jourdan, che ama ingabbiarmi in tutti i sensi (3). Non ho potuto vedere la fine e il risultato della prima vendemmia del Maudit. Mi sono stupito, quest’anno, non vedendola. Quei bifolchi mi hanno detto che era morta di mal sottile. Pezzi di sterco, a infangarne pure la memoria. E io sono totalmente dalla parte di Thèrése, ha diritto alla sua vendetta, muoia Sansone con tutti i filistei!” tuonò de Sade.

“Non a prezzo di Oscar, signore” disse André, gelido “Vi ricordo che io, par al contrario di voi, sono un soldato e non mi faccio scrupoli a uccidere – mentì, perché se ne faceva e molti – e per Oscar, ma lo sapete, abbatterei Parigi intera. Mi aiutate o no?” chiese, secco, a corto di tempo.

“Ma certo che vi aiuto, che credete? Pensate che abbia voglia di essere incriminato per la sparizione dell’erede del casato Jarjayes? – mentì de Sade, che avrebbe voluto dire pensate che voglia che quella splendida creatura, pura e dura come un diamante, venga a contatto con questa sporcizia da plebe vizza? – e adesso ragioniamo. Se mi avete detto il vero, se esiste questa làmia femmina di religioni antiche, e se per qualche motivo vi guarda con benevolenza e dice il vero, allora quello che verrà stanotte celebrato è un rito della terra, e la terra non si trova in casa, ma fuori. Dobbiamo recarci nel vigneto, senza dubbio”.

“Nel vigneto, sì” disse André, come risvegliato da un sogno “Nel vigneto” e poi, pallidissimo “Pensate, signore, che abbiano preso Oscar per… lei è una ragazza, signore”.

“Lo so che è una donna, amico mio” ribadì compunto de Sade, con quell’aria a metà fra il gentiluomo e il puttaniere “Ma che l’abbiano presa per quello o per chissà cosa, il punto è un altro: non desidero che nessuna fanciulla muoia stanotte, né il comandante Jarjayes né qualsiasi altra fanciulla. Soprattutto per un motivo così ridicolo. E se possiamo impedirlo, lo impediremo. Se poi ci sarà da dare giustizia alla piccola Thèrése, le sarà data”.

E, preso per un braccio André che stava già scattando, il marchese de Sade, col suo sorriso che nessuna ironia avrebbe mai potuto eguagliare, e probabilmente da gaffeur robusto, disse:

“Vi giuro che, vada come vada, per l’anno prossimo smantello tutto e faccio piantare tulipani olandesi”.

 

 

 

(1)    Riferimento alla mia storia Il cavaliere innamorato, parziale riscrittura dell’ep. 24 dell’anime.

(2)    Cfr. F. de André, Il testamento di Tito.

(3)    Il Governatore della Bastiglia, che farà una brutta fine il 14 Luglio. Riferimento in particolare alla mia precedente Per l’uomo non c’è altro inferno che la stupidità o la malvagità dei suoi simili.

 


 
  
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