Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Smaug The Great    22/05/2021    1 recensioni
|INTERATTIVA| The Umbrella Academy AU|ISCRIZIONI APERTE FINO AL 8/12
L'Umbrella Academy è stata, per cinque gloriosi anni, la squadra anti-crimine del mondo magico: un gruppo di bambini prodigio, baciati dal destino e dotati di abilità magiche fuori dall'ordinario, messi al servizio della giustizia da un padre celeberrimo. Padre adottivo, in realtà. Perché i nove ragazzini dell'Umbrella Academy sono nati nello stesso momento ma in posti differenti e sono, soprattutto, frutto di una profezia centenaria che ne decantava la lotta contro il male magico. E per cinque anni, dai dodici fino al diploma a Hogwarts, è stato così.
Poi i bambini sono cresciuti e l'Accademia si è disgregata, crollata dall'interno per le più svariate ragioni. A distanza di otto anni, si riunisce per il funerale dell'uomo più celebre ed enigmatico del Mondo Magico. Octavius Cleremont è morto, solo e in una stanza di ospedale, delirando su nemici invisibili che volevano la sua testa.
E ora, mentre i suoi figli si ritrovano dopo anni e si incastrano nel puzzle della sua morte, i nemici brindano sulla sua tomba e tornano a complottare nell'ombra.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo VII 
Prove di Coraggio
 

 

“«Quasi tutti possono sopportare le avversità,
ma se vuoi mettere alla prova il carattere di un uomo
dagli il potere»”
Abraham Lincoln
 
 
 
 
 
27 Dicembre 2009, Londra (UK), Umbrella Academy
Più avanti, una volta cresciuta e diventata grande, Hillevi avrebbe ripensato al Natale dei suoi quattordici anni come all’ultimo periodo veramente tranquillo dell’Umbrella Academy, prima che iniziassero i tumulti, le crepe, i tradimenti. Per la Levi Cleremont quattordicenne, però, quella era mera normalità.
Gli allenamenti pomeridiani erano finiti da poco. La squadra si era spostata nel salone al pianoterra. Lamentele, propositi, rimpianti, storie. All’ombra dell’enorme albero di Natale al centro della stanza, tutto appariva lieto. Se Octavius li avesse visti –sporchi e sudati nelle loro divise invernali, a insudiciare i suoi divani–, sarebbe andato su tutte le furie e li avrebbe rispediti in palestra per una sessione extra di combattimento. Ma papà aveva altro per le mani. Lo provava il fatto che non era lì con loro. Perso da giorni nelle trattative con un qualche socio in affari, li stava trascurando; e i ragazzi erano ben più che felici di sfuggire alle attenzioni critiche e spietate di papà per qualche giorno.
Proprio per questo, quando Bizzie era giunta a riferirle che Octavius la stava cercando, ne era stata sorpresa. Anche più della sorpresa, era stata la preoccupazione a travolgere la stanza. Tony le aveva scoccato un’occhiata di eloquente apprensione ed Ezra aveva serrato la mascella senza dire niente; Caesar era talmente preso nel raccontare ad un indifferente Alexis le dinamiche del suo ultimo allenamento di quidditch che non si era accorto di nulla. Rigel aveva domandato a Bizzie se ne conoscesse la ragione, con quel cipiglio inquisitorio che iniziava ad appiccicarglisi addosso; era stato Oliver a scollarglielo con una battuta. Il solito, dunque. Solo Artemis aveva aperto bocca per consigliarle, con un sorriso, di fare in fretta così da poter tornare da loro il prima possibile. La stessa Levi non era preoccupata. Certo, era insolito che suo padre la volesse vedere a quell’ora e, per giunta, nel suo studio, in un ambiente formale. Ma in fondo era papà. Qualunque cosa intendesse dirle, non c’era ragione di impensierirsi.
La strada dal salone all’ufficio di Octavius si colmò, dunque, di possibili progetti per la serata che arrivava e di una certa aspettativa per quelle a venire, per il galà di fine anno e le cene con gli amici di famiglia. Giunta a destinazione, bussò alla porta semichiusa e attese, prima di entrare, la voce calda di suo padre. Eccola lì.
«Numero Quattro» anche da seduto, Octavius pareva torreggiare sulla stanza «Accomodati pure»
Levi non se lo fece ripetere due volte. Numero Quattro, già minuta di per sé, diventava una bambolina, seduta com’era su quella sedia un po’ troppo alta e circondata dalla mobilia massiccia e dagli alti scaffali. Nonostante tutto, la sua tranquillità non vacillava. Senza problemi, attese che suo padre firmasse la missiva che aveva d’avanti.
«Ti starai chiedendo perché ti ho convocato proprio ora» esordì Octavius «Ebbene, mio malgrado, sono venuto recentemente a conoscenza di una gravissima e ripetuta infrazione del codice dell’Umbrella Academy; un’infrazione di cui tu sei responsabile» colto il sorgere di un’espressione corrucciata, si affrettò ad aggiungere: «Nulla di cui preoccuparsi Hillevi» giunse addirittura a sorridere, di quel suo sorriso appena accennato eppure rassicurante «Ciò che è successo è frutto di una mia mancanza. Avremmo dovuto affrontare questa conversazione tempo addietro. Tu, così come Numero Uno, non hai colpa»
All’ultima menzione, Levi non poté impedirsi di aggrottare la fronte in una ruga di pensiero. Le corsero alla mente tutte le sue attuali attività da sola con Rigel. Che Octavius si riferisse ai loro recenti incontri di notte fonda in biblioteca, per guardare le stelle con il suo telescopio incantato? Forse era venuto a conoscenza, per vie oblique, delle conversazioni che tenevano a bassa voce in giardino, quando immaginavano come sarebbe stato essere una famiglia normale e non un’accademia. O magari aveva ricevuto una soffiata sui pasticci che lei e Rigel combinavano in cucina, sotto l’attenta supervisione di Bizzie, mentre lui era in viaggio. Nulla di tutto ciò, ad ogni modo, le parve un problema. Ma poteva sbagliarsi. A quell’età, Levi iniziava a essere confusa dalle regole dell’Umbrella Academy.
«Numero Tre» continuò suo padre, piano «mi ha riferito, ti assicuro senza alcuna malizia, che nella pausa tra le sessioni di addestramento corpo a corpo tu “aiuti” Numero Uno con i tuoi poteri. Mi ha detto, e cito testualmente» si inclinò fino ad appoggiarsi del tutto allo schienale della sedia e a guardarla dall’alto in basso «che lo fai “per alleviare i sintomi da post-addestramento”. È corretto?»
Hillevi aveva, nel corso della spiegazione, tirato un sospiro di sollievo. Ecco cos’era, tutta quella situazione. Un fraintendimento. Suo padre non aveva capito bene le dinamiche della cosa; motivo per cui, in primo piano, lei e Numero Uno si erano accordati di mantenerla segreta. Chissà come l’aveva saputo Caesar, allora.
Per istinto, si sporse in avanti e si portò dietro l’orecchio una grossa ciocca di capelli biondi, di un color miele che s’incupiva d’inverno. «È corretto,» disse, a voce chiara e alta ma gentile «però non è tutto. Stiamo usando una tecnica molto popolare nella terapia babbana; l’ha scoperta Esmeralda a scuola proprio lo scorso ottobre e ha fatto alcune ricerche. In teoria sembra una sciocchezza, ma non lo è affatto» sperò, tra una parola e l’altra, di suonare convincente; il volto stoico di suo padre, tuttavia, non lasciava trapelare nulla «Si immagina un posto felice e ci si rilassa. In questo modo ci si distacca per un po’ dal dolore fisico, così da ritornare in sé quando si è alleviato almeno un po’. Non so quanto sia efficace per i babbani, ma con il mio potere stiamo procedendo benissimo. Pensavo che…» per un attimo, la tentò l’idea di scollare i suoi occhi da quelli di Octavius «Beh, io e Rigel pensavamo che, tra un po’, potremmo anche estendere questa cosa al resto del gruppo, no? Proprio perché stiamo ottenendo ottimi risultati»
Suo padre non le rispose subito, anzi. Per un paio di secondi, che a Levi parvero ore, si limitò a guardarla con un fare indecifrabile, di occhi cupi e braccia incrociate e spalle dritte e una piega severa di labbra –un’espressione che tanto le ricordava Rigel–. Poi, finalmente, si mosse. Si sporse anche lui in avanti, poggiandosi con gli avambracci sulla scrivania, e le parlò con una voce roca e morbida: «Ottimi risultati verso quale obiettivo?»
Levi aggrottò la fronte. Era forse una domanda a trabocchetto? Si costrinse, ingoiata la sgradevole impressione di non star capendo, a rispondere. «Attenuare il più possibile i sintomi tra uno scontro e l’altro» disse, piano «Limitare la sensazione di dolore per chi, tra noi, si addestra corpo a corpo»
«E perché mai vorresti farlo?» suo padre sembrò più confuso di lei.
«Perché mai non vorrei farlo?» replicò, di getto «Gli allenamenti sono tremendi, papà, e non puoi immaginare quanto sia penoso guardarli fermarsi per qualche minuto e poi ricominciare a combattersi mentre a stento riescono a camminare!»
«Numero Quattro,» Octavius prese un sospiro profondo «mi rendo conto delle tue buone intenzioni, ma quello che stai facendo è minare l’intera educazione dell’Umbrella Academy. Se avessi voluto “limitare la sensazione di dolore”» una smorfia gli storse le labbra «avrei fatto intervenire Numero Sei e Numero Otto già da tempo, non trovi? Ma quello che stiamo facendo è andare nella direzione esattamente opposta»
«Quindi noi vogliamo… aumentare il dolore?» domandò Levi, con una voce sottile come un ago.
«Quasi» le rispose subito suo padre «Gli addestramenti corpo a corpo replicano una situazione realistica: per questo ce ne sono più sessioni ravvicinate con pause rapide. È ciò cui andate incontro durante le missioni. Numerosi scontri, intensi e ravvicinati, distaccati da tempi brevi in cui non si riesce a “limitare la sensazione di dolore”» Octavius tacque per qualche secondo «Quello che sto cercando di fare è abituare i tuoi compagni a muoversi, pensare lucidamente e combattere al meglio delle proprie capacità in qualunque condizione. Feriti, storditi, sanguinanti, non importa in che stato, devono saper andare avanti. È per il loro bene, Hillevi. Capisci» c’era, questa volta, una nota di grezza gentilezza nel suo volto «perché non posso lasciarti continuare?»
Numero Quattro abbassò il capo, gli occhi ostinatamente fissi sul pavimento. Di conversazioni come quella, ne aveva sempre di più con suo padre: sorgeva un qualche problema, ne parlavano, si scoprivano in disaccordo e poi a lei toccava fare un passo indietro e rinunciare. Octavius rimaneva sempre uguale. Mai l’aveva visto piegarsi alle suppliche di uno qualsiasi di loro. Lei, di contro, si riscopriva, di volta in volta, sempre meno convinta dalle argomentazioni di papà. Soprattutto quando si parlava dei suoi compagni di squadra e delle innumerevoli crudeltà gratuite a cui erano di continuo sottoposti; atrocità nascoste dietro quell’immensa e sempre più fragile scusa che era l’addestramento, il controllo dei loro poteri. «Capisco» rispose, in un tono assente che stava usando troppo di frequente.
«E mi puoi promettere» soggiunse suo padre «che non lo farai mai più?»
Gli occhi di Hillevi –blu, sgranati, traditi– corsero verso quelli scuri di suo padre. Le promesse, Octavius lo sapeva bene, avevano un valore particolare a quell’età. Speciale, forse. Per un momento, un attimo fugace e tuttavia reale, sentì di odiare con tutta se stessa il sorriso sghembo e bonario che le stava rivolgendo, quello scaltro incurvarsi di labbra con cui riduceva l’intera discussione a un capriccio adolescenziale. Le tremarono le mani dalla voglia di scattare in piedi e rispondere che non era d’accordo. Che era stanca. Che si trattava dei suoi poteri. E dei suoi fratelli. Che quella situazione coinvolgeva anche lei e che non sarebbe rimasta a guardare. D’altra parte, non era certa che ne valesse la pena. Suo padre, da ché ne aveva memoria, aveva sempre vinto. E da un po’, oramai, ben nascosto dietro tutto l’ottimismo che di solito la animava, Levi aveva iniziato a covare lo sgradevole sospetto di non essere altro che una delle tante proprietà di monsieur Cleremont.
«Prometto» mormorò, allora, senza sforzarsi di ricambiare il sorriso.
Octavius ne parve comunque tranquillizzato e, dopo un breve cenno di assenso, tornò a rivolgere le sue attenzioni alla pila di documenti che ingolfava la scrivania. A Numero Quattro, in ogni caso, non interessava. L’unica cosa che poteva trovare in quello studio ombroso erano dubbi. Giù, invece, a una rampa di scale e un paio di corridoi di distanza, la attendevano i suoi compagni di squadra –i suoi fratelli–, e, assieme a loro, tutte le certezze di cui aveva bisogno.
 

 
 
 
 
8:02, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Rosewood di primo mattino era un trionfo di quiete, luce che scivola sul marmo e mormorii echeggianti per le scale. Nella gloria della tormenta invernale che infuriava dalla scorsa notte, l’antica dimora dei Cleremont si delineava nobilmente attraverso la nebbia e appariva, in lontananza, come il miraggio di un’epoca lontana. Tra le sue mura, invece, regnava il silenzio. Serenità domestica. Pace artificiale. Attesa. Tutto, a eccezione di un paio di figure grigie, era immobile e i pochi rumori –il fruscio di una vestaglia, il tintinnio di una tazza di ceramica, il fischio del bollitore– erano distanti e ovattati.
Delle mattine della sua tarda adolescenza, Hillevi non ricordava molto. L’intero periodo nella casa paterna era, talvolta, una nebbia vorticosa di incubi ad occhi aperti e memorie affilate; per questo motivo, quando il ventitré dicembre si svegliò –la tenuta di famiglia immersa nel silenzio e circondata dalla neve– le parve di essere in un sogno lucido.
Nello specchio da terra accanto all’armadio, il suo riflesso era una cosa estranea, un incastrarsi di linee e colori che non le apparteneva, di un’astrazione spaventosa. Osservò, in un’occhiata, che le radici dei suoi capelli blu iniziavano a tornare bionde e che presto avrebbe dovuto tingerli di nuovo o, magari, cambiare colore. Neanche questo pensiero attecchì. Dietro la finestra, le tende azzurre scostate appena a rivelare uno spicchio di paesaggio. Oltre la porta, il silenzio. Levi indossò la vestaglia blu appoggiata sul comodino, soffermandosi solo un attimo nel chiedersi chi la ripiegasse ogni giorno se Bizzie era assente. Subito il dubbio le scivolò via dalla mente.
Per il corridoio, quiete anomala. Trovò buffa e amara al contempo quell’immagine, soprattutto se sovrapposta a quella dei suoi ricordi, quella di appena otto anni prima: un viavai di passi barcollanti da sonno e urti accidentali, saluti bofonchiati e grugniti impazienti nel realizzare che il bagno più vicino era già occupato. Le parve di udire rumori soffici da dietro alcune porte –quella di Oliver, ad esempio–, ma, incurante, procedette per la sua strada. Per il momento, anzi, sperò di non incontrarli. Nessuno di loro. Nessuno in assoluto. Il suo riflesso le era bastato. Quel pomeriggio, con ogni probabilità, sarebbe giunto il notaio di fiducia di Octavius per parlare del suo testamento e la situazione –già immaginava– sarebbe stata incandescente o gelida. Impossibile dirlo. D’altra parte, avevano atteso fin troppo. Con l’arrivo di Bizzie la sera prima, la situazione si era sbloccata del tutto: non c’era più motivo, pensò con amarezza, di fingere di essere tutti riuniti per nostalgia o affetto.
Sotto la lana delle sue calze, i gradini di legno gemettero. Levi si strinse un po’ di più nel velluto morbido della vestaglia e continuò il suo percorso fino alla cucina. Sperava in una tazza di tè caldo per combattere il freddo e l’inquietudine. Da sola, preferibilmente. Dopo gli innumerevoli rimarchi passivo aggressivi degli scorsi giorni, una mattina tranquilla le era più che dovuta. Ciò che trovò in cucina fu poco meno di ciò che sperava.
Nell’ala ovest, all’interno dell’ampia sala che un tempo doveva aver visto l’indaffararsi di almeno una dozzina di elfi domestici, c’era Numero Uno. Di spalle, con i capelli spettinati, tutto intento a sistemare delle tazze su un vassoio, Levi avrebbe potuto scambiarlo per un ragazzo qualsiasi, una forma anonima alla stregua del suo riflesso nello specchio. Lo tradiva la divisa. Lei la riconobbe perché da qualche parte nell’armadio, nel cottage sul lago Mälaren in cui viveva, c’era anche la sua. A dispetto delle voci che giravano su di lui e dell’immagine accuratamente costruita nel tempo, Octavius aveva sempre tenuto molto alle apparenze e, in particolare, all’estetica dell’Umbrella Academy. Dei suoi figli. Levi ricordava il suo sguardo glaciale e la linea inflessibile delle sue labbra quando, per i loro quindici anni, Oliver avanzò la timida proposta di tingere di verde qualche ciocca di capelli. Numero Sei non chiese più, da allora. E quella non era che la punta dell’iceberg. C’era una divisa per tutto, a casa. Pigiami, vesti da giorno o da allenamento, abiti da sera, da cocktail e missione. Gran parte dell’abbigliamento che entrava a Rosewood era opera di magi-sartorie, su misura specifica di ognuno, uguale in tutto se non per il numero di riconoscimento ricamato. Quella che indossava Rigel era fatta per gli addestramenti, un modello domestico e poco elegante ma funzionale, che negli anni Octavius aveva soltanto adattato nelle misure: pantaloni cargo, stivali alti, maglia termica e una grossa cintura a cui assicurare armi magiche e non. Completamente in nero, a eccezione del 1 dorato sulla schiena. Il tutto farcito da un poderoso sistema di ammortizzamento nelle suole e da tutori per gomiti, ginocchia e spalle; uno spicchio sottilissimo sull’orrore che erano le sessioni di allenamento. Nonostante l’elaborato sistema di omologazione che suo padre aveva creato, Hillevi comunque notò –la centesima volta come la prima– che tuttavia le divise non potevano essere più diverse. La sua era quasi del tutto intatta; solo un paio di graffi e il colore sbiadito da alcuni schiantesimi indicavano che un tempo era stata usata. Quella di Rigel, invece, mostrava più chiaramente i segni del tempo e dell’usura. I tutori, ad esempio, avevano le crepe tipiche di un oggetto riparato più volte con la magia, il nero degli stivali era macchiato in alcune parti e sfumato in grigio in altre, le tasche dei pantaloni erano sfilacciate e numerose ricuciture testimoniavano tutte le maledizioni che nel tempo non era riuscito a parare. A confronto nella mente di Levi, le due divise raccontavano storie diverse. Non che ci fosse da stupirsi. Con la sua abilità magica, Hillevi non era mai dovuta entrare in contatto diretto con i nemici e gli scontri corpo a corpo le erano estranei. Octavius era sempre stato chiaro a riguardo. L’addestramento di autodifesa, per Numero Quattro, era pura formalità. Tra tutti i suoi compagni, lei era forse quella con il potere più indirettamente micidiale. Per altri, invece, essere in grado di unire combattimento magico e non magico era questione di vita o di morte. Rigel, Ezra, Caesar ed Esmeralda erano quelli che, più di tutti, si buttavano nella mischia e sulla loro sicurezza era improntato il design delle divise da allenamento. Numero Quattro ricordava sempre con un certo senso di nausea i pomeriggi in cui era costretta a guardare i suoi compagni battersi tra loro, sotto lo sguardo e le indicazioni di Octavius.
Nell’atmosfera lugubre della cucina, le parve che non fosse passato un giorno da quei tempi. Suo padre sarebbe entrato di lì a poco e li avrebbe rimproverati entrambi per non essersi ancora resi presentabili a quell’ora della mattina; poi avrebbe dato un’occhiata al vassoio che Rigel stava preparando e avrebbe attaccato la solita ramanzina sull’importanza di una buona colazione. A quel punto Rigel gli avrebbe ricordato la propria incapacità ai fornelli e allora, ma solo allora, loro padre, in un sospiro falsamente seccato, avrebbe iniziato a preparare le sue tradizionali uova à la coque e si sarebbe trattenuto a colazione con qualche scusa. Le fece uno strano effetto pensare che quel mondo era finito. Rendersi conto che no, papà non avrebbe fatto proprio nulla perché il suo cadavere senza vita si stava già decomponendo nella cripta di famiglia e tutto ciò che davvero rimaneva di lui erano loro, i suoi figli.
La voce di Numero Uno la colse di sorpresa «Non dovrei essere io quello appostato nell’ombra a spiare la gente?»
«Sì,» rispose Levi «ma a me riesce meglio. Tu puoi continuare a preparare tè nero come una casalinga britannica»
Lui si limitò a pescare dallo scaffale un’altra tazza e a farle spazio sul vassoio. «Non ti ci abituare, lo faccio per pietà» disse poi, a bassa voce «Artemis è sul punto di fare una strage nel salotto orientale e il sangue non se ne verrebbe mai dai tappeti. Potresti unirti a me e venire a goderti la scenata»
Hillevi bofonchiò un «okay» a mezza voce, spostando il peso da un piede all’altro. Le cose tra lei e Rigel erano difficili. Lo erano sempre state, in un certo senso, ma mai come ora. Da quando era andata via di casa cinque anni prima, suo fratello non si era fatto sentire, né aveva mosso un solo dito per mantenere i rapporti. E, anche una volta ritrovatisi per la morte di loro padre, pareva evitarla. Evitarli, in realtà. Rigel non era sembrato particolarmente in vena di chiacchierate con nessuno, ma, dopo tutto quello che avevano vissuto insieme, Levi aveva sperato fosse lui a fare il primo passo. E invece a stento si erano rivolti la parola.
Versato il caffè in quattro tazze diverse e il tè in altre tre, Rigel incantò il vassoio con un colpo di bacchetta ed esso prese a fluttuare, tremando appena. Quando si voltò e iniziò a camminare, la mente di Levi scorse una paurosa assonanza tra l’immagine di Numero Uno e il proprio riflesso nello specchio. Gli stessi capelli spettinati e occhiaie scure, lo stesso sguardo assente e malinconico.
«Sembri un fantasma» fu l’osservazione di lui, fronte aggrottata e una smorfia acre sulle labbra.
Levi non seppe impedirsi di sorridere «È proprio vero che siamo fratelli, allora»
Rigel rise, di un suono roco e mattutino «Hai mai avuto dubbi a riguardo?»
Lei alzò le spalle e lo seguì attraverso i corridoi e le ampie sale ariose –e fredde– dell’ala est dell’accademia. A qualche metro dal salotto orientale, finalmente ebbe un’idea più chiara sulla strage che Artemis era sul punto di compiere. Delle sue urla, però, non capiva molto. Mentre lei e Rigel facevano il loro ingresso furtivo –l’uno accanto all’altra, separati solo dal vassoio fluttuante–, Levi si strinse un po’ di più nella vestaglia, come a ripararsi dalla cascata inarrestabile della ramanzina di Numero Sette. Sua sorella, per l’appunto, era accanto alla poltrona su cui giaceva, insonnolito ma sveglio, Antoine. I ricci di Esmeralda, quella mattina, erano un caotico groviglio di nodi con cui competeva soltanto il nido di cuculi che aveva in testa Tony e la matita nera del giorno prima era ovunque tranne che attorno agli occhi gonfi di sonno. Anche così, Levi la trovò stupenda. Di una bellezza calda e morbida che spiccava particolarmente accanto alla pelle diafana e ai tratti affusolati di Alexis, con il quale aveva condiviso lo spazio notturno. Di fronte a loro, ancora steso e spudoratamente incurante della situazione, c’era Ezra, troppo alto persino per il lungo divano del salotto orientale, non che –con un piede poggiato a terra e l’altra gamba a scavalcare il bracciolo– ne sembrasse infastidito. Tutti e quattro facevano un bel quadretto. Eppure, non c’era modo di ignorare il vero protagonista della scena. Hillevi non avrebbe mai smesso di stupirsi dell’incredibile presenza scenica di Artemis: tra gli eleganti tappeti verdi e le vetrine scintillanti di alcolici, sotto il lampadario di cristallo e di fianco ai divani in pelle, tra il mogano e l’oro, era la sua figura a catalizzare l’attenzione dei presenti. Fu lei che trovarono, prima di tutto, gli occhi di Levi: trecce albine, occhi chiari e assottigliati, una piega scontenta di labbra, la stoffa bianca di un abito ad abbracciare le curve morbide del suo corpo. Tutti gli sguardi le erano incollati addosso. Rigel solo la oltrepassava per cercare, nella penombra, un’altra figura.
Artemis, da parte sua, continuava a parlare.
«Potevo aspettarmelo dagli altri, ma tu» nonostante tutto, Levi fu grata di non essere il bersaglio del sospiro deluso di Numero Sette «Tony» Antoine, nella grossa poltrona scura, si fece piccolo piccolo «da te proprio non mi sarei immaginata un atteggiamento del genere, una tale irresponsabilità. Ma cosa stavate pensando, poi? All’età di venticinque anni vi comportate come se ne aveste quindici! Non so davvero cosa dirvi!» nessuno ebbe il coraggio di farle notare come, nonostante non sapesse che dire, era lì a parlare da quasi dieci minuti «E se pensate che sarà Bizzie a ripulire tutto questo schifo, vi sbagliate di grosso; voglio vedere questo posto brillare prima di mezzogiorno. Sono stata chiara?» il suo sguardo vagò di divano in divano, impassibile alle espressioni scontente degli altri «Perfetto. Avendo detto ciò–» a quel punto dovette accorgersi dei due nuovi arrivati, perché il suo voltò si trasfigurò del tutto e «Oh, ci siete anche voi» la smorfia sulle sue labbra si allargò fino a farsi sorriso «e con la colazione! Siete la mia salvezza»
Anche gli altri sembrarono piuttosto sollevati della loro apparizione. Inutile dire che nessuno dei due –a dispetto del sorriso contagioso di Artemis e delle chiacchiere leggere degli altri– si sentiva all’altezza di quella definizione.
 
 
 
 
 
16:00, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Il notaio arrivò nel primo pomeriggio, anche se fuori sembrava già notte. I Cleremont erano assiepati nella sala principale del pianoterra –seduti composti sui divani, lanciandosi ogni tanto sguardi colmi d’ansia– e fingevano di non ritrovarsi in uno strano incubo ad occhi aperti. Unica nota di serenità era Bizzie. Il solo incurvarsi tiepido delle sue labbra riusciva ad alleggerire l’atmosfera di gran parte di quella negativa aspettativa che si percepiva. Se da una parte il testamento di Octavius era il motivo per cui si erano riuniti, dall’altra nessuno aveva un’idea precisa di cosa potesse aver lasciato loro. In pochi avevano mantenuto i contatti con l’accademia. Ancora di meno erano quelli che avevano sentito loro padre nei suoi ultimi mesi di vita.
Una delle poche certezze era, per l’appunto, il notaio. Mister Noyers era stato una presenza fissa, e anche piuttosto attiva, durante tutta la loro infanzia e adolescenza; sua premura erano i regolari regali di Natale e figlia della sua insistenza era la settimana di ferie di Luglio. Sul come e sul quando Octavius e Steven si fossero conosciuti c’era un velo di mistero. Che Levi ricordasse, suo padre era solito definirlo “il mio più caro compagno” e liquidare l’intera questione dell’inizio della loro amicizia con un criptico: «Ci sarebbe troppo da raccontare». A lungo le cronache del gossip giornalistico avevano tentato di portare luce sull’intera questione, ma l’enigma aveva mantenuto il suo fascino solo fuori dalle mura di Rosewood. I ragazzi dell’Umbrella Academy impararono in fretta ad abituarsi ai trabocchetti e alle mezze verità del loro amato genitore; con il tempo, dunque, mister Noyers era diventato semplicemente Steve e il dilemma del suo passato aveva perso appeal. A sostituirlo era giunto quello del suo presente. Dargli un ruolo specifico in casa era impossibile, in effetti. Ciò che c’era di chiaro era la sua presenza. Frequente. Benvoluta. Rassicurante, talvolta. Steven Noyers era a Rosewood più di chiunque altro che non fosse parte dell’accademia. Sempre il primo ad arrivare alle soirées e a festeggiare i successi dell’Umbrella Academy, ma anche all’evenienza in prima fila, assieme a Bizzie, nel difendere i ragazzi. Un unico mistero, su di lui, persisteva nella mente dei ragazzi. Il motivo dell’immensa influenza che Noyers esercitava su loro padre; quello soltanto, di volta in volta, tornava a stuzzicare la loro immaginazione, nei momenti troppo tesi per pensare a cose meno leggere. Esmeralda, ad esempio, insisteva da tempo immemore con la teoria che Steve fosse l’amante di Octavius, per la delizia di Artemis e l’orrore di Caesar. Altre ipotesi sostenevano che mister Noyers era il suo compagno di cella ad Azkaban (Oliver), sotto maledizione imperius (Alexis) o in qualche modo debitore (Tony). Qualunque fosse la verità, era sempre piacevole, da ragazzi, inventare storie sul passato di loro padre, immaginarlo giovane e diverso, impelagato in qualche mirabolante avventura assieme al buon vecchio Steven Noyers, magiavvocato di fiducia. Rivederlo a distanza di così tanto aveva un ché di fiabesco e di inquietante assieme.
Arrivò alle quattro. Alto e asciutto, di un pallore tutto anglosassone, catalizzò l’attenzione generale non appena mise piede nella sala grande, una mano guantata sulla spalla di Rigel e la fronte corrugata in un cipiglio pensieroso. Stava scambiando con Numero Uno parole quiete e strascicate, che a stento giungevano fino al camino. La loro conversazione, tuttavia, terminò in un colpo di tosse. Non appena si voltò verso di loro, Levi ebbe un tuffo al cuore. Mister Noyers –Steve, si costrinse a pensare– era l’ennesimo pezzo su quella scacchiera polverosa, un ulteriore, inconfondibile campanello d’allarme. Tutto, in quella stanza, apparteneva al passato. O a un sogno, le suggerì una voce malevola nelle orecchie. Ma quello non era un sogno. Quell’uomo che si avvicinava a passo cadenzato, affaticato appena dal bastone da passeggio che sorreggeva la gamba sinistra, era una persona vera. Di carne e sangue. E tanto reale quanto dolorosi erano i suoi occhi scavati, i tratti scarni del suo volto allungato, i fiocchi di neve posati sul completo troppo largo e vecchio che indossava. In qualche angolo della sua mente, Numero Quattro conservava il ricordo delle sue risate contagiose e la curva morbida dei suoi sorrisi sghembi, quando le diceva qualcosa senza che Octavius sapesse. Il tempo, osservò, era stato gentile con Steven. A eccezione del grigio che si annidava alle radici dei capelli castani e dell’incedere più lento e di un paio d’ombre in più attorno agli occhi, poco o niente in lui era cambiato. Aveva ancora i baffi, un taglio curato ed elegante. Anche il suo sguardo pareva lo stesso, pensoso e indagatore tra iridi azzurre e sopracciglia arcuate. Sebbene più alto solo di un paio di centimetri, sembrava un gigante accanto a Numero Uno. Rigel stesso lo guardava con una certa ansiosa apprensione che proprio non gli apparteneva. Lo scortò fino alla poltrona accanto al camino, per poi farsi da parte e accomodarsi vicino a Esmeralda. Ci furono un paio di saluti da parte dei ragazzi, cenni del capo e delle mani ricambiati a stento. Anche così, l’aria si tagliava a fette.
«Prima di cominciare,» mister Noyers si schiarì la voce, chiara e flautata ma formale «vorrei offrirvi le mie più sentite condoglianze per la perdita che ha afflitto tutti quanti noi. Non spetta a me dirlo, ma Octavius teneva molto alla sua accademia e avrebbe voluto vederci riuniti in circostanze più piacevoli, avrebbe voluto–» il suo sguardo colse quello di Bizzie «essere qui con noi». Estrasse dalla tasca interna della giacca la grossa busta bruna di una lettera; per qualche momento, si limitò a guardarla, rigirandola tra l’una e l’altra mano. Poi alzò gli occhi sul resto della stanza «Questo è il testamento di vostro padre, redatto alla presenza mia e di Parkinson. Sto già lavorando sulle carte burocratiche per la transizione legale dei beni, ma non vi nascondo che il lavoro procede a rilento. Entro qualche settimana saranno pronte e, in base ai vostri desideri, dovranno essere firmate. Fino ad allora,» soggiunse, mentre pescava da un’altra tasca la sua lunga bacchetta di cedro «questo è tutto ciò che avete di vostro padre»
Gli sguardi dei suoi compagni, notò Levi, erano incastrati in una precisa geometria che ne sventava la collisione. Caesar stringeva forte la mano di Bizzie, per confortare più se stesso che lei, e gli occhi di Artemis non si scollavano dalla lettera, mentre quelli di Alexis la fuggivano senza sosta. Persino Tony, seduto di fianco a lei, non riusciva a stare fermo, colto anche lui da chissà quali pensieri. Levi, invece, guardava Ezra. Cercava nella fermezza della sua mascella squadrata e nella linea rilassata delle sue spalle qualche sorta di consolazione, un appiglio o forse solo la speranza che si accorgesse di lei. Ma quando Ezra si voltò a guardarla, quando le posò addosso occhi grandi e castani e chiari e così onesti, quando accennò al più lieve, commiserante incresparsi di labbra, Levi non riuscì a sopportarlo. Si girò di scatto verso mister Noyers. Il pensiero del testamento le ricadde addosso come un masso.
«Credo sia il momento, Steve» era stata Artemis a parlare «Abbiamo aspettato fin troppo»
Steven le rivolse un’occhiata criptica, ma non rispose. Puntò la bacchetta contro la lettera e, dopo un gesto secco del polso, essa prese a fluttuare; l’involucro si aprì e deformò fino ad assumere la vaga forma di una strana stella di origami. Solo allora, si mise a parlare.
«Nove dicembre duemila venti, Londra» la voce era, inequivocabilmente, quella del defunto Octavius Cleremont, un piacevole baritono dall’impeccabile accento britannico. Levi pensò che le sarebbe bastato chiudere gli occhi per illudersi che suo padre fosse lì con loro, in carne ed ossa. Di lui, tuttavia, la carta aveva solo il suono «Nel pieno delle mie facoltà mentali, io, Octavius Cleremont, detto le mie ultime volontà ai posteri e a quel che rimane della mia famiglia» c’era una distinta nota di stanchezza nel modo in cui parlava, nei profondi respiri che prendeva ogni tanto per poter darsi il solito tono «A Bizzie, che è stata molto più di quello che il suo contratto richiedeva, affido tutto il contenuto della camera blindata 693 presso la Gringott londinese, attualmente in mio possesso. Spero sceglierai di continuare a vigilare sui miei eredi. Che tu sia per loro, mia cara, l’ancora che sei stata per me»
Gli sguardi di tutti erano spudoratamente accatastati sull’espressione miserabile dell’elfa domestica, ma lei tirò su a fatica con il naso e non distolse il suo dalla lettera.
Dopo una breve pausa, monsieur Cleremont aveva ripreso a parlare: «A Numero Sette, dispersa nel Vasto Mondo,» Artemis, seduta di fianco a Ezra, era evanescente; sopracciglia arcuate in un cipiglio angosciato, occhi grandi e malinconici «lascio una seconda possibilità. Io ben so e tu altrettanto bene sai, che sei infelice. Se vorrai, ti sarà concessa la damnatio memoriae di ogni peccato e sarai riaccolta in casa e in accademia, nel posto a cui appartieni, come se nulla mai fosse accaduto. Torna a casa, bambina mia, finché sei ancora in tempo».
Un paio di lacrime minacciarono di scivolar via dalle ciglia lunghe di Artemis, ma Numero Sette non era mai stata altro che efficiente; le raccolse con le punte delle dita e rialzò lo sguardo come se nulla fosse accaduto.
La voce di Octavius riprese subito a parlare, in un tono marcatamente più leggero, quasi sollevato. «A Numero Tre, il più leale dei miei soldati, va l’eterna gratitudine per aver compiuto il più doloroso dei sacrifici. Ancora una volta, ti affido quel compito a cui per troppo tempo ti ha sottratto la necessità: veglia sul tuo capitano e rimanigli accanto nella nuova direzione dell’Umbrella Academy. È ora, anche per te, di tornare alle sponde patrie e ricongiungerti a quella strada della quale mi hai tanto parlato nelle nostre lettere. Sii libero di seguirla, ora che non ti tengo più indietro, e perdonami, se puoi. Di te, Caesar, non ho di ché preoccuparmi: tu sei, e so che sempre sarai, il custode di tuo fratello»
La presa di Numero Tre sulla mano di Bizzie si era allentata fino a diventare una carezza. Anche la ruga di tensione sulla sua fronte si era distesa in un’espressione marcatamente amorevole; tra tutti, era forse lui il più sereno. Levi seppe, guardandolo, che tutti, tra quelli riuniti, avrebbero dato qualunque cosa per una fetta della sua evidente tranquillità.
«A Numero Uno, io lascio in carica l’Umbrella Academy,» ed ecco che il tono del defunto monsieur Cleremont tornò a farsi pesante e solenne, ruvido di una qualche emozione che Hillevi non seppe definire a primo orecchio «assieme a tutti i suoi segreti e ogni mio bene personale. Questa morte, Rigel, la accolgo in pace e sono contento di andarmene io prima che possa farlo tu. Ti confesso, ahimè» la voce s’acquietò di colpo e perse in un attimo tutta la sua gravità per diventare lieve e densa d’amore, non di un grande signore ma di un vecchio morente «che non so più immaginare una vita che non sia nostra e sono tanto certo in questa follia che non esito a pronunciarla ad alta voce. A te, ragazzo mio, un ultimo monito:» un’esitazione, un sospiro, un attimo d’ansia rappresa e aspettativa «sta’ in guardia dal tempo fuggevole» con un colpo di tosse, la voce tornò a essere chiara e calda «Ai miei soldati disertori, ai figli che non ho saputo crescere, va il mio più recondito rimpianto, ognuna delle mie notti insonni. A chiunque tra voi ne sente l’antico richiamo, io lascio un posto nell’Umbrella Academy. Che la tenuta di Rosewood sia spartita tra i suoi protettori e possa il tempo riparare quel che mani mortali hanno distrutto. Tali sono le mie volontà.»
La voce di Octavius si sciolse nel silenzio pesante della sala. Le pieghe della lettera si aprirono e distesero finché la pergamena non riprese il suo stato originale e tornò nella sua busta marrone. Invano. Nessuno si godette lo spettacolo. La voce del loro defunto padre aveva trasformato i giovani adulti emancipati in tristi bambini-soldato, con gli occhi fissi e la mente smarrita. E il più triste di loro era Rigel. Nella periferia del campo visivo di Levi, appariva una copia pallida e vuota della sua solita persona: ogni colore drenato via dal suo viso, labbra schiuse e curvate all’ingiù, occhi vitrei e lucidi puntati sul pavimento, il suo volto una maschera appuntita di bianco totale, di assenza di tutto. La mano di Esmeralda, ancora poggiata sulla sua spalla, non gli impedì di alzarsi. Di scatto. All’improvviso. Come spinto da una qualche molla. Si mosse come in automatico –come se non stesse pensando affatto o stesse pensando troppe cose allo stesso tempo– e tenne lo sguardo fisso in alto, su qualche punto imprecisato che non toccava essere vivente ma piuttosto, forse, uno spettro invisibile. Numero Uno biascicò qualcosa, parole confuse attaccate a un filo di voce, ma Levi non capì. Lo vide –e magari non lo vide affatto– attraversare la sala a passi rigidi e respiro irregolare. Scansò il pensiero che stesse piangendo. La sola idea –l’idea di suo fratello che le crollava accanto e di lei immobile, incapace di far altro che esistere– faceva troppo male.
Caesar balzò in piedi qualche secondo dopo e gli corse dietro. Prima di andare, aveva detto: «Ci penso io». Oppure: «Non seguitemi». Numero Quattro, anche più tardi a mente fresca, non avrebbe saputo dirlo. La verità è che non ascoltava. Già non era più lì; nelle orecchie le ronzava, eco di un’eco, la voce di suo padre.
 
 
 
 
 
17:58, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Quel tardo pomeriggio, quando la tormenta fuori casa si stava appena placando, Hillevi era in biblioteca. In realtà era lì da quando Steven si era congedato e la squadra si era sparpagliata per casa, inventando scuse che nessuno, nel disagio generale, si era curato di ascoltare. Tanto meglio così. Lei si sentiva anche più vuota di quella mattina. E se inizialmente l’aveva sfiorata il pensiero di seguire Rigel e logorarsi nel comune dolore, aveva spinto il pensiero in qualche angolo recondito della sua mente perché non la disturbasse più. La sola idea era ridicola. Come avrebbe potuto sorreggere suo fratello se a stento riusciva a non cadere a pezzi sotto il minimo soffio di vento? Andarsene era stata la scelta giusta. Tra i vecchi scaffali polverosi dell’immensa libreria di Rosewood, perlomeno, lo spettro di suo padre diventava una presenza quieta e benevola che aleggiava, morbida, nell’aria e la rassicurava.
«Ehi» Levi alzò gli occhi dal libro che stava leggendo –un vecchio bestiario di creature magiche che sfogliava distrattamente da ore–. Smarrita com’era nelle sue contemplazioni, neanche si era accorta dell’incursione di qualcun altro nel suo rifugio. Invece, Artemis le era proprio di fronte e poi, nel giro di qualche secondo, seduta nella nicchia vicino a lei «Ti sto cercando da un po’» il tono di Numero Sette era incerto, come se lei stessa sapesse di non aver controllo su ciò che diceva «Ecco, ti ho vista un po’ scossa prima e volevo assicurarmi che stessi bene»
Numero Quattro esitò un attimo, ma proprio non seppe impedirsi di sollevare le labbra in un debole sorriso d’avanti all’incerta gentilezza di sua sorella. Sin da quando erano bambine, Artemis dimostrava un’impetuosa tendenza a preoccuparsi di tutto e a farsi carico dei problemi altrui; anche quando non li conosceva, anche quando non li comprendeva, anche quando non conveniva. Soprattutto, avrebbe detto Octavius, quando non conveniva.
«Non credo di essere la priorità al momento» Hillevi si appuntò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e cercò di mettere in piedi quello che doveva essere un sorriso mesto, stanco «E poi non so dirti se sto bene» soggiunse, più in fretta «Certe volte mi sembra che qui il tempo sia bloccato, che in questa casa tutto sia immobile e che lo sia anch’io e che in questa stasi ci si possa perdere. O magari mi sono già persa e–» si interruppe di scatto e si voltò verso sua sorella «Pensi che sia matta?»
«Per niente» Artemis la guardava con occhi grandi e tristi «Sai? A volte ripenso a com’era prima e immagino…» le scappò dalle labbra una risata leggera –un suono tanto delicato da ricordare lo scrosciare di un torrente– e subito scosse la testa, con lo sguardo volto a terra «è una sciocchezza, davvero, e so che non è più un’opzione da prendere in considerazione, però a volte… a volte immagino come sarebbe se tornassimo a vivere qui a Rosewood. Tutti noi. Insieme, come ai bei vecchi tempi» non per caso evitò lo sguardo di Numero Quattro «Lo so, una sciocchezza»
«Non è una sciocchezza, Artemis. Ci abbiamo pensato tutti, a un certo punto, ma io non credo che questo» accennò vagamente con la mano tutto ciò che le circondava «sia la soluzione ai nostri problemi. Erano davvero belli i vecchi tempi? Nostro padre non era un uomo facile e i nostri poteri hanno solo complicato le cose. Tutti quegli addestramenti, tutte quelle missioni, la tensione continua verso un pericolo di cui era incerta persino l’esistenza» le altre parole le morirono sulla lingua e Levi trasse un profondo sospiro. Degli ultimi affari dell’Umbrella Academy –precedenti di poco alla diserzione di Numero Due e Numero Quattro– non si parlava mai. L’unica cosa che entrambe sapevano era che c’erano nemici sulle tracce di Octavius e che, per diretta conseguenza, Rigel era diventato l’ombra di loro padre ogni volta che metteva un piede fuori Rosewood. I dettagli erano pura leggenda. Quando riprese a parlare, quasi un minuto era passato «I bei vecchi tempi ci hanno ridotto in questo modo, Artemis. Forse è tempo di metterli da parte e andare avanti»
«Avanti dove?» quella risposta la colpì come un pugno allo stomaco.
Le rivolse una occhiata indagatrice e tacque per qualche secondo. Le tornarono in mente le parole che Octavius aveva riservato a Numero Sette nel testamento. «Pensavo» tentò «che tu fossi la più felice, ora che sei fuori dall’accademia e libera di seguire le “incerte vie del mondo”». Le ultime parole le disse con un sorriso appena accennato, riprendendo un’espressione usata da Numero Sette anni addietro.
Artemis colse il riferimento e ricambiò il sorriso, ma il suo tono si fece scricchiolante «Curioso che sia tu a dirlo. A questo punto, dovresti sapere che i sogni ad occhi aperti non hanno niente a che fare con la realtà. La realtà, poi… quale sarebbe la realtà?» la voce di Numero Sette si era alzata di almeno tre toni e al contempo si era ridotta a un sussurro rapido e fradicio di sconforto «Io non ho niente se non l’Umbrella Academy. Papà aveva ragione. Non c’è posto per me là fuori. Non c’è niente se non solitudine e desolazione!»
«E che ne è» Levi le rivolse un’occhiata cauta «del Vasto Mondo?»
«Il Vasto Mondo era una bugia» fu la risposta più spontanea, detta d’impulso, quasi senza pensarci «e le sue promesse false. Guardami ora» Levi, suo malgrado, non vide nulla di marcio e annerito negli occhi arrossati e nell’infelice piega delle labbra di sua sorella –non, almeno, come lo vedeva nel proprio riflesso–. Ciò che vide era un’angosciosa solitudine. «Guarda cosa mi ha fatto la ricerca della felicità. Ho trascorso gli scorsi due anni scappando da tutto e da tutti, nascosta nelle foreste a occidente, dove sono nata. Ed è stato bello, è stato… speciale» lo sguardo di Artemis correva dalle sue mani al volto di Hillevi e poi in punti fissi oltre le mura di Rosewood, oltre l’oceano, chissà dove «Credevo di essere felice lì. Credevo di voler essere libera e che la libertà fosse isolamento, allora sono andata in un posto dove nessuno avrebbe potuto seguirmi. E, indovina?» le sfuggì una risata, o un singhiozzo; impossibile dirlo «Quando sono diventata del tutto irraggiungibile, ho scoperto di non essere libera affatto. Non c’è posto, per quelli come noi, nel mondo reale»
«Io un posto ce l’ho, nel mondo reale» replicò di getto Hillevi, come spinta da una qualche molla istintuale «Ho un lavoro che mi piace fare. C’è un sacco di gente che mi stima per come sono, che apprezza la mia arte, la mia musica. Ho anche» continuò, voce chiara e bassa, con una tenacia che non si aspettava di avere «una casa, che ho comprato con i miei soldi, in un posto meraviglioso che sono sicura ti piacerebbe. E come c’è posto per me, ce n’è anche per te e per tutti gli altri. Nostro padre sbagliava» non seppe dire chi tentava di convincere, se sua sorella o se stessa o il fantasma aleggiante di Octavius «Io ho una vita nel mondo reale, una vita che ho costruito da sola. Quello che ho fuori da Rosewood non me lo ha regalato nessuno, non l’ho ereditato come diritto di nascita né me l’ha procurato il mio potere» le pareva di esserne più certa a ogni parola «È mio perché l’ho creato io»
«E sei felice?» domandò Artemis, in un bisbiglio.
Levi tentennò, ma si costrinse a rispondere «Ci sto lavorando»
Neanche quella era una bugia. La felicità, per quelli come lei, era ben lontana dalla mirabolante stella cadente in cui per anni aveva sperato. Ci voleva del tempo, per costruire la felicità. E Levi, nonostante tutto e nonostante tutti, ci stava lavorando. Con calma. Un giorno, magari, ce l’avrebbe fatta.
Quando parlò di nuovo, la voce di Numero Sette era sottile e incerta, così distante da lei che Hillevi fece inizialmente fatica ad associarla a sua sorella. «Se ti chiedo una cosa, prometti di rispondere onestamente?»
«Prometto»
«Tu pensi che abbia ancora valore tutto questo, che valga la pena chiamarci ancora famiglia e condividere lo stesso cognome? Insomma…» un sospiro «credi che questa sia la fine dei Cleremont?»
«Abbiamo troppo in comune per lasciarci andare davvero» Levi non esitò un attimo a rispondere; su questo, almeno, non aveva alcun dubbio «Non c’è nessuno come noi al mondo. Qualunque cosa accada, non so spiegarti perché, ma– ci sono cose che neanche il tempo può rovinare. Qualunque cosa accada, noi non smetteremo mai di volerci bene»
«Ricorda solo questo, sorellina» Artemis le rivolse una smorfia ben lontana dal sorriso di quella mattina «L’amore è organico. Marcisce»
Senza dire un’altra sola parola, sua sorella si alzò e sfilò via, il rumore dei suoi passi inghiottito dal pavimento.
Hillevi, guardandola andare, contemplava la tragedia di Antigone.
 
 
 
 
 
19:34, 23 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
«Caesar» la voce gli scappò via dalle labbra senza che se ne accorgesse, quasi fosse impossibile non associare quel nome alla figura alta e slanciata sulle scale «Caesar!» ripeté, poi più forte «Che?».
Solo a quel punto, Numero Tre si girò verso di lui e alzò una mano in segno di saluto. Per un attimo –occhi sottili e sospettosi, pieghe di inquietudine sulla fronte alta– sembrò che potesse voltarsi e andarsene, ma invece scese di una rampa e si sedette su uno degli ultimi gradini. Oliver lo imitò.
«Oli» le labbra di Caesar erano sollevate, ma suo fratello non mancò di notare una certa tensione nelle spalle, malcelata rigidità nella mascella serrata «Dimmi tutto»
«Non ho esattamente qualcosa da dirti, non… non nello specifico» Numero Sei gli rivolse un’occhiata obliqua, esaminando con attenzione scientifica l’atteggiamento di quello che era stato il suo migliore amico e che ora era quasi uno sconosciuto «È che ho l’impressione che da quando ci siamo rivisti tu stia cercando di non rimanere da solo con me»
La tensione nelle spalle di Caesar si fece più visibile e il suo sorriso più ampio. Arrivò persino a ridere, di un suono basso e carezzevole ma vuoto. Di guardarlo negli occhi, neanche un tentativo «È solo un’impressione. Perché dovrei non voler rimanere solo con te? Siamo amici io e te, no? Siamo fratelli»
«Certo che lo siamo» lo rassicurò l’altro «Ma forse stai cercando di evitare un certo discorso che sai che voglio fare; un discorso circa… che ne so?» c’era una nota di benevolo rimprovero nella sua voce «I tuoi poteri fuori controllo, magari?»
«Non so a cosa ti riferisci» il sorriso era ancora in piedi.
«E io non so come fai a evitare un problema di questo calibro, Che! Insomma, otto anni fa…» per un attimo esitò «beh, otto anni fa sappiamo entrambi com’eri messo, e poi papà ti ha addirittura spedito ai confini del mondo da solo, nonostante sapeste tutti quanti che era una pessima idea! Io non ero lì, certo, ma che ne è degli altri?» una volta iniziato, gli fu impossibile arginare il fiume in piena di tutte le riflessioni in solitario degli scorsi sei anni «Dov’erano Rigel ed Esme ed Ezra mentre papà prendeva decisioni assurde? Voglio sapere come si è evoluta la situazione, se hai trovato un modo, e…» si passò una mano tra i capelli, indugiando appena tra le folte ciocche verdi; sembrò buttar fuori, in un sospiro, tutta la severità del suo tono «Ci tengo a te, Caesar. Voglio sapere se stai bene. In tutti questi anni, mi sono sempre chiesto… insomma, non ho mai smesso di preoccuparmi per te»
In qualche modo, anche la tensione si era sciolta in Numero Tre: il suo sorriso era diventato una smorfia e le spalle si erano abbassate in una curva di sconforto. «Diciamo che sei anni da solo in Asia sulle tracce dei nostri nemici non mi hanno aiutato, Oli. Però–» si affrettò ad aggiungere, difronte all’espressione sconsolata di suo fratello «però sono fiducioso. Voglio dire, ora sono a casa, no? Si sistemerà tutto»
«Che» tentò Oliver «non c’è più nostro padre a risolvere questi problemi. E se è vero come dici, se non solo il tuo autocontrollo non è cresciuto ma è addirittura peggiorato …» la frase rimase in sospeso. Oliver alzò gli occhi per cercare quelli di suo fratello.
«Come sei drammatico!» fu la calda rassicurazione di Caesar «Oli, non è così male come lo faccio sembrare. Hai visto anche tu, no? Tutta quella storia della parola di cui parlava papà si è rivelata un successo. Ora so incanalare il mio potere in modo stabile! Non devo più concentrarmi e non c’è neanche il minimo rischio di perdere la coscienza o di avere qualsiasi effetto collaterale successivo. Questo è… beh, questo– non lo trovi strabiliante?»
«Tutt’altro, Che. Lo trovo…» era chiaro che Numero Sei stesse cercando le parole adatte a quella conversazione in apparenza delicata e in verità delicatissima «preoccupante. Ciò che ho visto è che ora ti è molto più semplice usare il tuo potere senza ripercussioni personali. Non credi» per l’ennesima volta, suo malgrado, gli si spezzò la voce «che questo complichi le cose?»
«Beh, sì» concesse Caesar, avendoci riflettuto un po’ «ma è comunque un passo avanti. Un grande passo avanti. Ed è una cosa che ho fatto da solo, senza l’aiuto e la supervisione di nessuno. Immagina quanti progressi potrei fare qui, a casa, in un ambiente protetto dove–»
«Dove nostro padre non c’è più» insistette lui. Per quanto non gli piacesse essere crudo e scortese, sapeva anche che era necessario battere il ferro finché fosse stato ancora caldo. Caesar –e suo fratello lo sapeva benissimo– non era solito prendere con filosofia questo tipo di critica costruttiva; in fondo quel potere era unico nel suo orrore e Oliver in particolare –Oliver con la mente sgombra d’ombre e il cuore leggero, con il dono della grazia nelle mani e l’osannato ruolo di martire sulle spalle– sapeva di essere l’ultimo in diritto di fargli la predica. Ciononostante, proprio perché le loro capacità erano complementari, era a Numero Sei, più che a chiunque altro, che Caesar dava retta per certe questioni. Fino a un certo punto, ovviamente; un punto che Oliver temeva suo fratello avesse già superato. «Odio doverti dire una cosa del genere, ma ho paura che tu stia sottovalutando la faccenda. Sì che questa è ancora casa nostra, non lo metto in dubbio, ma non c’è più nostro padre a farsi carico dei nostri problemi e proporre soluzioni discutibili e, anche se ci fosse…» per la seconda volta in quella conversazione, non faceva più caso a ciò che diceva, ogni censura e cauzione travolte da tutte le cose che si era tenuto dentro «anche se ci fosse» ripeté «credi davvero che sarebbe una buona cosa? Guarda come ci hanno ridotto, le sue soluzioni! Guarda come hanno ridotto te e Rigel e Artemis e Tony!»
Caesar restò in silenzio per quasi un minuto, spostando regolarmente lo sguardo dai suoi piedi agli occhi del fratello. Quando parlò, la sua voce era quieta e accorata «Hai ragione» disse «Nostro padre non c’è più e questo non è del tutto un male. Ora che lui non può più ferirci e abbindolarci con la promessa del suo rispetto, ora che non può più tenere coltelli nelle nostre piaghe, ora avremo finalmente l’occasione di guarire. Rosewood non ha mai smesso di essere casa mia e so che questo non basterà a risolvere i miei problemi, ma sono a casa» dopo qualche secondo, aggiunse anche: «e qui c’è Rigel»
«Ed è stupendo, però non basterà a–»
Numero Tre neanche lo fece finire «E invece sì. Ora devo andare, ho allenamento con Esme. Ci vediamo a cena, sì?»
«Sì» rispose mestamente Oliver. Neanche vide suo fratello rivolgergli un ultimo cenno di saluto e a stento lo sentì salire le scale due gradini alla volta. Per la testa, Numero Sei aveva lasciato liberi tutti i rimorsi a cui aveva imparato a non pensare; tutti i se e i forse e i magari che ancora faticava a mettere da parte. Rimase ai piedi delle scale, a tormentarsi, per quella che gli sembrò una vita, prima che delle voci dal piano di sopra gli ricordassero che c’era un mondo al di là della sua mente.
Fuori dalla finestra, la tormenta era cessata.
 
 
 
 
 
1:13, 24 Dicembre 2020, Londra (UK), Umbrella Academy
Rosewood di notte era un mosaico di roccia grigia, legno scuro e candelabri, scorcio incantevole di una fiaba mai raccontata, di un fascino tale da stregare anche l’occhio più scettico. Belli erano gli arazzi colorati nella sala dei trofei. Belli i dorsi ricurvi dei libri in biblioteca. Bella la cascata d’edera sulle mura del cortile. Bello il mantello di neve in giardino. Belli i fiori in corridoio. Belli persino i suoi abitanti; tra le labbra morbide di Esmeralda e i denti bianchissimi di Oliver e le ciocche albine di Artemis o gli occhi grandi e cangianti di Alexis. Bella Rosewood, d’una bellezza che non poteva non essere un incanto. Così bella, che l’unica in grado di spezzarne il sortilegio era l’abitudine.
Quel Dicembre del duemila venti, Levi guardava il giardino alle spalle di casa sua dalla finestra della grande biblioteca, come mille altre volte aveva fatto, e ne spiava, indifferente, la vita notturna, l’anima intima e segreta.
Sulla coltre di neve, s’indovinavano quattro diverse piste. Le orme dei passi pesanti e delle falcate lunghe di Rigel segnavano una traiettoria dritta e singola verso le cripte; se chiudeva gli occhi, Hillevi riusciva a vederlo –gambe incrociate e occhi chiusi– al centro dell’ampia sala sotterranea, circondato dalle colonne in pietra, tanto immobile da confondersi con le statue assiepate nelle nicchie laterali. Accanto alle sue, la coltre di neve era violata dagli stivali di Alexis, che aveva sfidato il gelo in cerca del punto più buio del giardino: oltre il gazebo, alle spalle delle cripte ma prima della grossa cancellata che delimitava l’inizio delle proprietà boschive. Levi conosceva quella strada perché anche lei, anni prima, l’aveva fatta cento volte per aver la miglior vista possibile delle costellazioni invernali. Indietro, orme più leggere tracciavano un percorso incerto che culminava al centro del labirinto delle rose. Artemis, che di solito risaltava nella folla, ora quasi spariva nel candore del giardino innevato; in ginocchio, a terra in un cerchio di pietre, vestita solo di un abito bianco e leggero nel freddo invernale –probabilmente protetta da un incantesimo di riscaldamento corporeo–, pregava. La quarta pista delineava l’ultimo percorso; quello di Ezra, della sua irrequietezza, dello spaventoso disordine che dalla sua mente strabordava nel mondo reale, giù per il vialetto che conduceva alle cripte e poi indietro verso il cortile, attraverso tutto il porticato fino alla fontana con l’acqua gelata, infine nel giardino delle statue.
Impossibile afferrare, nel vento pungente notturno, i pensieri dei sonnambuli di Rosewood.
La luna, gibbosa e curva, avrebbe mantenuto i loro segreti e assieme a lei, candida e buia e sfuggevole, anche Hillevi.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Smaug The Great