Anime & Manga > Lady Oscar
Segui la storia  |       
Autore: ireland3    22/05/2021    9 recensioni
E' stato divertente intrufolarmi autorizzata in "Una serata particolare" di Madame Grandier e offrire il mio contributo scrivendo dall'angolazione di Andrè. Questa breve storia vuol essere il tentativo di dare un seguito ideale all'ultimo capitolo, mutandone le prospettive, con leggerezza...
"Lo facevo solo per tornare ad essere la donna che ero - che avevo capito di essere - decisamente migliore dell'uomo che per un attimo avevo invocato di diventare..."
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Selva oscura.
Era tardo pomeriggio ormai, e quel cielo invaso da nuvole spettinate che avevo ammirato col cuore più lieve, ancora non voleva cedere il passo all’incarnato del tramonto. Una missione, recitava freddo il dispaccio. Dovevamo accompagnare un membro dell’alta aristocrazia iberica e la sua famiglia incolumi presso la nostra corte. E non avevo ancora trovato la maniera per parlare con Andrè, per dirgli….
 Percorsi a passi svelti la scalinata d’ingresso, le ampie vetrate riflettevano i giochi di luce alle mie spalle. Avrei dovuto farmi preparare un piccolo comodo bagaglio per la prossima partenza. Dopodomani. Giunsi nell’atrio, arioso ed accogliente come sempre, mi apprestai a salire le scale che mi avrebbero condotto nelle mie stanze. Avevo bisogno di un buon bagno, di mettere a mollo il corpo ed i pensieri. Di galleggiare ancora un po’ dentro me stessa. Passo dopo passo sentivo la stanchezza farsi appresso, mentre la mia mano scivolava leggera sul possente corrimano in marmo e, a testa bassa, la prima cosa che scorsi furono  le punte dei suoi stivali. Mio padre. Stava lì, in cima alla vetta massima della sua dimora, il luogo ove prediligeva attendermi e comunicarmi le sue decisioni, dove tutti lo potevano udire. La sua figura salda ed elegante rimaneva tale, nonostante la spessa fasciatura che ancora gli assicurava la spalla recentemente offesa. Guardava giù, mi stava aspettando. In qualche modo anch’io, e ne fui sollevata. I nostri sguardi si incontrarono.
Fece cenno di introdurre il suo discorso, ma fui più lesta di lui. Le sue regole di severo spadaccino mi avevano insegnato ad anticipare l’avversario: lo sarebbe stato adesso? Avevo l’assoluta necessità di far tracimare la mia spiegazione, di fargli comprendere che non avevo voluto, mai e poi mai, burlarmi di lui. Ma che non avevo voluto  tradire nemmeno me stessa. – Padre, vi prego di ascoltarmi. Non era mia intenzione recarvi offesa alcuna la sera scorsa…io….- non mi diede modo di  continuare. Arginò il mio tentativo di chiarimento.
-So che partirai per portare a termine un compito importante.- il tono della sua voce restava immutato, era quello che gli riconoscevo da tutta la vita, un misto di solennità e rigore. Ma stavolta lo screziava una nota di malinconica, e tutto sommato serena, rassegnazione.
-Sì, con i miei soldati scorteremo il principe spagnolo Aldelos sino a Versailles e….-
-Oscar..- giurai di avergli scorto un tremito tra le spalle, dove stava sistemata come una cappa la sua giacca favorita. –Fa attenzione.-
                                                                          ……………………………..
 
La giornata era stata decisamente difficile. Avevamo marciato per ore, per scortare il principe spagnolo Aldelos e la sua famiglia nel cuore del nostro Paese, costeggiando canali navigabili, campagne assolate in preparazione delle prossime messi, sentieri rannicchiati tra i boschi. In qualità di scorta, parafrasando il nostro nome, non ci era davvero concesso abbassare la guardia: le incognite potevano manifestarsi in ogni momento, e prendere chissà quale forma. C’erano giunte voci fondate sulla possibilità che qualche nemico del regime e di quell’ordine prestabilito da secoli volesse compiere un attentato, con lo scopo di diffondere a macchia d’olio un malsano terrore tra le classi privilegiate. Comprendevo tutto. Le ingiustizie, il malcontento di un popolo esasperato, la frustrazione che esplodeva in rabbia di fronte a corruzione e sprechi indecorosi. Ma non il fanatismo. E quello lo era, fine a sé stesso. Non aveva più una valenza politica e l’arma della dialettica e dell’onesto confronto si stava lentamente spegnendo di fronte a mezzi decisamente più rapidi, ma dai risvolti ferocemente sanguinari.
Così accadde. Nell’ora più calda e più tersa di quell’estenuante giornata, intravvidi la sagoma di un antico maniero in rovina, le cui vestigia si ergevano solenni contro la linea pura dell’orizzonte. Decisi quindi di perlustrarne il perimetro, per prevenire la famigerata incognita. Scesi lesta dalla groppa di Cèsar - tutto sommato si stava rivelando un’ottima passeggiata rinvigorente cui le mie gambe e le mie terga resero infinitamente grazie – e percorsi cauta quella radura, affondando fino alle ginocchia in una distesa di bottoni color del sole, i cui petali si sarebbero tramutati presto in ali leggere e trasparenti, in grado soltanto di distrarmi dall’obiettivo tanto quanto il soldato che se ne stava fieramente silenzioso dietro di me dall’intera mattinata, occhieggiando di tanto in tanto il suo esimio compare sempre appaiato. Entrambi scesero dalle proprie cavalcature all’unisono, obbedienti ai sensi in allerta e alla non troppo velata scusa di poter sgranchire le ossa, dal bacino in giù. Quello che accadde poi, lo rividi nitido , in sequenza, solo a sera, nel momento in cui decisi di far ritorno sul luogo del misfatto: la salita cautamente lenta lungo le tortuose scale a chiocciola, l’affaccio che mi tolse per un momento il fiato oltre quel mare giallo ed abbagliante, quell’uomo…di stazza spropositata, sgradevole, ricordai, sin dal primo momento in cui incrociai il suo sguardo in caserma….che tentò in nome della causa di uccidermi, decapitando così il drappello di scorta al principe straniero. Riudii gli spari, netti, precisi, spietati. E gli sguardi complici di Andrè e Alain, che raccontavano il loro malcelato sollievo.
Non importava quale alto ideale avesse mosso quell’energumeno dal tentare di uccidermi, per il momento non importava cosa potessero pensarne i commilitoni o io stessa di quella lava incandescente che ribolliva non più tanto sotterranea e che avrebbe sconvolto forse un intero sistema, eravamo soldati, ubbidivamo a delle regole, servivamo lo Stato, che era ancora il Re. L’etat c’est moi. Anche se la grandezza di un sovrano affonda le sue radici nella cura del suo popolo, da cui, e per cui, egli si nutre…
Era giunta l’ora che volgeva al desio, dunque, e mai come in quel frangente ne reclamavo l’approssimarsi. Il principe e la sua famiglia avevano trovato ricovero ed accoglienza presso una magione aristocratica appena fuori il villaggio, da dei parenti alla lontana, supposi, dal momento che le famiglie di rango elevato solevano spesso essere imparentate tra loro, per perpetrare la continuità dinastica. Alcuni dei migliori soldati della scorta personale del Principe erano rimasti a sentinella della proprietà. Ai miei uomini, non restava altro da fare, dopo aver consumato un frugale pasto, che di accamparsi per la notte, turnandosi nella sorveglianza dei viottoli di paese …che in altri momenti nessuno si sarebbe mai sognato di perlustrare. Cercai con lo sguardo Andrè, senza successo. Miseramente fallii nell’intento di individuare pure Alain, che almeno mi desse una dritta in merito. Una strana mestizia mi stava per opprimere, dovetti ammettere a me stessa che stava diventando ogni giorno più complicato fare i conti con quella lastra di vetro immaginaria che mi separava da lui: non poterci parlare, anche solo sfiorare, era motivo di quel lieve, ma continuo stillicidio dell’anima. Era il mio personale Purgatorio, lo riconoscevo solo adesso. Mi chiedevo come avesse potuto per anni lui nutrire quell’amore tacito quanto intenso, soffocando ogni brama di contatto, confinando i sensi nelle loro stanze più segrete, trattenendo lo spirito dalla materia di cui eravamo fatti. Carne.
Mi arresi alla momentanea evidenza: alcune volte, quando smetti di cercare qualcosa, la trovi. Sarebbe stato così anche con lui. Percorsi quel sentiero che confinava con un lungo muro a secco, le mie gambe stanche sembravano animarsi di vita propria mentre si allontanavano dagli ultimi lumi che rischiaravano quelle casupole perse in lontananza. Tornai quasi inconsapevole alla radura: la vivida intensità di quei colori al meriggio, lasciava spazio adesso alla placida serenità del torpore serale. Le ombre degli alberi circostanti si allungavano come dita pronte ad artigliare le mura del castello, le pietre ancora spesse lo vestivano di maestosità e ne custodivano i segreti sepolti del tempo passato. Quanto avrei voluto togliermi gli stivali e correre scalza fino lì, attraversare quel prato dai confini indecisi e respirare il calore della terra attraverso la mia nudità. Quanto avrei voluto correre accanto a lui, adesso, fermare quell’attimo che non sarebbe tornato più, quella goccia di vita rubata al tempo, dissetante e preziosa. Arrivai alle mura, le toccai, fredde e porose e mi inghiottirono di nuovo. Risalii frettolosamente le stesse  scale, come poche ore prima. Mi affacciai sulla torre di mastio, la più imponente e rividi la macchia scura di sangue non ancora del tutto rappreso di quell’uomo. Mentalmente mi segnai, forse un po’ per scaramanzia, senz’altro per rispetto: aveva attentato alla mia vita, certo, ma la sua anima era ancora prigioniera lì, e forse si sarebbe unita al coro di spettri che da anni vi aveva preso dimora. Passai oltre.  Attraversando lo stretto camminamento di ronda, giunsi infine all’altro torrione, quello da dove i miei fidati secondi avevano preso la mira per freddare l’attentatore. Lo spazio sottostante si dischiuse in tutta la sua buia vastità. Di giorno sarebbe stato un ottimo punto d’osservazione, ma non era quello il motivo che mi aveva condotta sin lì. Non lo sapevo nemmeno io, in verità. Volevo far riposare il soldato per riascoltare soltanto me stessa, lontano da tutto quello che poteva distrarmi dall’eco di quel canto. Il mio nuovo canto di donna innamorata…
-Broceliande? – non seppi dire se arrivò prima la voce o il cadenzare inconfondibile dei suoi passi. Sapeva che lo aspettavo. Sapeva dove trovarmi. Me ne compiacqui, fu come quella volta a Saverne, quando intimai a tutto il drappello di non seguirmi e lui disubbidì, per fortuna, perché aveva fiutato il pericolo, sapeva che ne avevo bisogno. Anche se ora si trattava di un bisogno diverso… Lo percepii vicino, ma non ancora abbastanza da capire quanto chiaro fosse il mio richiamo, quella solitudine cercata solo per poterla condividere finalmente con lui. –Sembra la foresta delle leggende, quelle che ci narravano da bambini, non è vero?- incalzava guardingo, i nostri più recenti incontri riparati dal buio non erano stati affatto facili. Sorrisi mentalmente: eccola l’ora, ecco il mio desio. Soffocato nelle ultime notti bianche tra le mie dita, calde di carezze nascoste nel suo nome. Rividi quella sera, dentro i miei occhi soltanto, perché nel mio petto non c’era altro spazio che per lui. Riascoltai quel crepitìo, simile a brace ardente che fa esplodere il ceppo in mille scintille incandescenti: allora di rabbia, adesso di voglia. E mi scoprii a non pensare più, che nascere o morire in quell’ istante avrebbe avuto lo stesso senso, che non c’era abbastanza vuoto per precipitare sotto perché due ali fatte con le piume del medesimo sogno ci avrebbero solo portato lontano.
Mi voltai. Lo fissai per il tempo infinitesimale di un muto assenso. Poco tempo prima avevo allontanato il fratello, ora ritornava Amore. Un passo, uno ancora. Ce n’erano state anche troppe di parole, taglienti come schegge appuntite, inutili e dolorose a galleggiare nel silenzio. Ci stavamo toccando con gli occhi, annusando l’attimo che trattiene l’odore intenso della verità più pura e più bella che avremmo potuto confessarci. E così strinsi decisa il bavero della sua giubba, come quella volta, e lo obbligai. A chiudere gli occhi, a farlo con me, mentre appoggiavo forte le labbra alle sue, mentre le mie dita cercavano i suoi capelli e lì vi restavano, perché volevo che mi baciasse per sempre, perché non mi sarebbe bastato più vivere di una sensazione distante, persa come un sogno al mattino, che afferri di corsa e più passano le ore e non riesci a ricordare più. Udii solo il mite clangore delle nostre fibbie che si toccavano, quando anche le sue mani strinsero nei nodi più dolci anche le mie chiome e parlammo come solo da amanti era possibile fare. Era bello restare senza peso. Senza forma. Superbi nel nostro richiamo: lo stesso finalmente.
Il respiro di Andrè si stava rompendo tra le nostre labbra. Rischiava di somigliare ormai più ad un gemito roco e profondo, veniva da lontano, dalla parte più nascosta di lui…anzi, di noi. Ci confondevamo in quella sete profonda, figlia dei nostri deserti, ci dissetavamo avidi di quei baci liquidi cui non potemmo resistenza alcuna. –Tu non sai quanto sia valsa la pena aver sofferto….per tutto questo, Oscar- un soffio appena, tra la bocca dischiusa. Avrei voluto essere fatta solo di mani e labbra, in quel preciso istante, perché le parole non avrebbero avuto forza abbastanza per fargli capire che m’ero accorta d’amarlo più d’ogni altra cosa. – Non posso farti toccare il mio cuore, Andrè, ma la mia lingua ti parlerà solo d’amore…- e nell’ombra di mezzi sorrisi accennati, riprendemmo ad assaporarci con delizia e voluttà, in quel calice liquoroso che erano le nostre bocche: tocchi profondi e a tratti ruvidi, come quando prendi un sorso di cognac invecchiato, quello migliore, e dentro resti diviso tra il gusto pieno che appaga il momento e quel calore furioso che ovunque si propaga. Non seppi come e nemmeno me ne importava, ma mi sentii per un attimo divisa tra il freddo soffio d’umidità che penetrava nella spina dorsale e la pressione bollente del suo corpo sul mio petto traboccante di battiti prigionieri. Per aver più agio dei nostri movimenti, mi aveva sospinto contro la merlatura che incorniciava la fortezza. Percepii ancor più chiaro il vuoto, mentre inclinavo la testa nell’ osservarlo ingorda vicino, in ogni sua piega, e quella carezza di vento che ci scompigliava i capelli ci consegnava all’abbraccio di una notte ancora incerta. – Mi fa morire la piega di questo broncio…-e prese a saggiare le labbra con la punta delle dita, piano, senza sosta. Era ancora il suo sguardo a toccarmi, mentre con i polpastrelli mi guardava, in un delirante stravolgimento …– Non sono imbronciata….sono attenta….-e lo cinsi alla vita, costringendolo a non indietreggiare, banchettando avidamente al tavolo della mia audacia, perché mai prima d’allora avevo avuto l’ardire di volere così tanto. Era scomodo lassù, era ruvida la pietra che sfregava impietosa le mie ossa, vestite di quell’uniforme che pareva fatta di carta. Respirarlo così intensamente, così vicino, era lusso e lussuria al medesimo tempo. Indugiare negli attimi dell’attesa ci costringeva ad addentrarci nelle segrete dei nostri pensieri, quelli deliziosamente sporchi, che tramutavano ogni brivido sulla pelle in squame e solo toccandoci potevamo lenire quell’estenuante, sublime, agonia.
Eravamo follemente lucidi, nonostante tutto, perché bisognosi di nutrirci di quegli istanti rubati come fossero diamanti, gemme rare e bellissime da incastonare nella nostra anima. E non c’importava se non fosse quello il luogo, il momento più sereno: gustare l’essenza più vera di noi, che si stava svelando pura e fuori controllo, ci stava sfamando più d’un sontuoso banchetto reale. Presi a lambirgli piano l’indice con la punta della lingua, e più s’inebriava di questo, più perseverava nella morbida tortura di quel tocco, continuando a carezzarmi le labbra inconsapevolmente schiuse dalla condensa dei miei sospiri. Percepivo anche qualche capello farsi prigioniero della mia succosa avidità: l’aria sbarazzina della sera ce li scompigliava impertinente e diventava partecipe nel nostro sfiorarci le gote, accaldati e complici, in un modo che mai avevamo pregustato finora. Iniziò ad allentare leggero i primi ganci della giubba, quelli che mi cingevano il collo: sapeva di dover liberare ogni mio respiro, che accanto a lui stava si tramutando in affanno e compì lo stesso gesto su sé stesso, fissandomi, come se mi stesse vedendo già nuda. Chissà quante volte mi avrà immaginato così. Lo confesso, lo facevo anch’io. E non potevo, e nemmeno volevo, opporre resistenza a quei pensieri che mi perforavano le viscere. Smise di toccarmi le labbra, che avvertii per un attimo fredde senza la sua solerte attenzione, ma non mi diede modo di sentirmi trascurata: richiusi ancora le palpebre per sentirmi, invece, perduta. Mi stava accarezzando il viso e quel lembo di collo esposto solo sfregando le sue guance sulla mia pelle. Tornava su, scendeva giù, lento ed estenuante, mentre con la ruvidezza delle sue gote non più imberbi, arrossava le mie, come un felino selvatico che, accoccolato, fa le fusa. E restammo imprigionati nei nostri abiti, severi quanto il nostro dovere, mentre i nostri corpi si compiacevano loro malgrado di quel contatto monco eppure sensualissimo, ci respirammo intensamente, come mai c’eravamo concessi fino a quel momento, impregnando le narici di tutto il buono di cui sapeva l’altro. Fino a raggiungere il limite. Dove vuoi di più.
-Hai capito che non potrò più avere paura, vero? – glielo dissi tirandogli le ciocche ribelli che si arricciavano scomposte dietro la nuca accaldata, mentre continuava semplicemente a star fermo col viso contro il mio. Eravamo un incastro perfetto a ridosso di quei mattoni, un groviglio indistinto di  cuori pulsanti e membra, ammorbidite dall’euforia e dall’assaggio del reciproco piacere. –Sì…adesso siamo in due…ad amarci…a volerci…-lo disse come se stesse esorcizzando un demone lontano, quello del rifiuto e della solitudine, che mai più avrebbe guardato in faccia. E dissolse quegli ultimi vapori di dubbio, riprendendosi il fuoco dei miei occhi e la tenera arrendevolezza di labbra e pelle, suggello concreto della mia verità. Mentre le nostre bocche gareggiavano nel loro ardimentoso crescendo, avvertivo la costrizione delle vesti non più come un piacevole delirio, bensì come un’opprimente armatura forgiata direttamente sui nostri corpi frementi, tant’è che non mi resi subito conto che m’aveva messa a sedere sul bordo più basso della possente muratura, da dove sarei solo potuta cadere nel pozzo dei suoi – dei nostri- desideri…aprì lesto qualche bottone e prese spazio con dita arroganti e leggere tra le mie cosce, con la feroce tenerezza che ormai sapevo essergli propria. Perché non mi spogliava, ancora? Quale colpa dovevamo espiare stando costretti a camminare nel ciglio di quel burrone, tra tormento ed estasi? Schiusi le gambe dando sollievo al tremore che le scuoteva, in parallelo alle mie labbra che quasi le sentivo dolere nel duro affondare tra le sue, per raggiungere in un vortice di umido oblio la porta della sua anima. Non volevo staccarmi dal caldo riparo delle nostre bocche, ma ne fui costretta, intonando quei sospiri che presto avrebbero cantato l’apice del mio godimento. Eravamo vittime e carnefici, l’uno per l’altra. Mi sentivo una sirena: la mia voce, calda di lui, lo rapiva e non riusciva in alcun modo a sottrarsi da quell’incantesimo, da lui stesso iniziato, mentre io mi stavo dissolvendo – e come polvere avrei voluto coprirlo - ogni volta che con la sua dolcissima brama infieriva…
Fendette l’aria così satura dei nostri giocosi lamenti, un verso chiaro, nitido, con una nota stridula. Per un attimo ci fermammo, non più soggiogati dal nostro volere, ma da quel suono inquietante, messaggero di malasorte, che s’era insinuato molesto nel calore del nostro spartano rifugio. Recuperai svelta, ma non per questo meno maldisposta, il controllo dei miei respiri. Osservai, riducendo in braci morenti il mio cuore in fiamme, la sua porzione di pelle che mi sovrastava: lo vidi deglutire piano, sino a ridurre ogni amoroso fremito in desta attenzione, per quello che percepimmo entrambi come potenziale pericolo. E ancora, lo stesso verso. Cercammo risposte oltre le macchie scure che delimitavano il bosco e, anche se tutto pareva immoto, in realtà le ombre della notte non avevano solo la forma fumosa di fantasmi. – Sembrerebbe il richiamo del maschio di allocco….ma, qualcosa non mi convince Oscar….-
-Nemmeno io mi sento tranquilla Andrè. – e mio malgrado detestai dargli ragione stavolta, perché stavamo ancora tornando a rivestirci dei nostri ruoli, troppo stretti per contenere la pressione di un sentimento dirompente. – Torniamo al villaggio. Riusciremo così a perlustrare anche la radura. – Assentì. Negli occhi lo stesso velo di caliginosa delusione. -…e fa attenzione, ti scongiuro. – Non gliel’avevo detto mai. Finora.
Scendemmo i ripidi scalini resi impervi dal tempo e dall’oscurità a tentoni, tenendoci ancorati al muro per evitare una poco onorevole caduta, che avrebbe oltremodo compromesso l’esito della nostra ricerca. Percorremmo rapidi il cortile interno, dove troneggiava nel suo centro il pozzo, unico polmone che aveva consentito la sopravvivenza degli antichi abitanti del feudo nei tempi antichi. Ci guardavamo le spalle vicendevolmente, com’eravamo abituati a fare in modo tacito e naturale da tanti anni, ormai, ogni volta che c’era un incarico pericoloso da portare a termine, fino al limitare del ponte levatoio che sarebbe stato la nostra imminente via d’uscita. –Pssss…pssss….Comandante..Andrè…di qua…- la voce familiare e rassicurante di Alain ci mise a nostro agio. Anche se….che diamine ci facesse lì, proprio allora, era una domanda cui non volevo assolutamente concedere una risposta. Non adesso, perlomeno. Ci fece cenno di seguirlo, indicandoci una minuscola, ma massiccia, porticina dove per accedervi fui costretta persino io, di taglia decisamente più ridotta rispetto loro, ad abbassare la testa per attraversare uno stretto ed altrettanto breve cunicolo da cui trovammo la fuga. Quel breve, quanto claustrofobico momento si concluse nell’ampio respiro dell’aperta oscurità. - ….ero in giro da queste parti, a trovare un po’ di refrigerio per il mio spirito…- ruppe il silenzio Alain, e subito Andrè alzò gli occhi al cielo per attutire il colpo della sua pungente ironia – quando mi sono reso conto di qualcosa di anomalo che si muoveva nel bosco…a peggiorare il tutto quello strano richiamo…troppo insistente, troppo…troppo costruito..ecco…-
-Non potrebbe semplicemente trattarsi di animali?- chiesi.
- Per quanto la foresta pulluli di vita, Comandante, dubito fortemente che si servano di piccoli lumi ad olio per comunicare messaggi cifrati di loro unica comprensione….ho pensato fosse il caso di dar meglio un occhiata…così, per stare più sicuro…et voilà! Casualmente mi sono imbattuto in voi…-
Se non fossimo stati comunque in allerta, giurai di aver visto Andrè tagliarlo in due con un’occhiata in tralice ed un muto “idiota” sillabarsi tra le labbra, che avrei voluto al più presto ritornare a mordere con golosa passione.
-Dobbiamo dividerci. – sentenziai. - Io percorrerò il fianco del bosco, voi raggiungerete il villaggio, cercando di restare in parallelo senza perderci di vista, in caso di necessità….tutto chiaro?- Tutto chiaro, certo. Estrassi la pistola, quel fardello necessario per mantenermi incolume, e con un cenno deciso prendemmo tutti le nostre rispettive direzioni.
                                                            …………………………………………………
Nel frusciare dell’erba i due soldati tenevano saldi fucili ed attenzione. Ma c’era bisogno comunque di muovere quella fune sdrucciolevole sulla quale stavano in precario equilibrio. Fu naturalmente Alain a fendere l’aria greve di tensione. –Ti ho sottovalutato, Andrè, credevo che non saresti mai riuscito nella folle impresa….-
Andrè capì, capì benissimo la sua per nulla velata allusione, ma volle far credere all’amico d’arrivare sin dove lo conduceva la sua curiosità. –A che ti riferisci, di grazia?-
Alain alzò un sopracciglio in modo volutamente canagliesco ed arricciò semplicemente il labbro, non potendo per ovvie ragioni esplodere in una fragorosa quanto contagiosa, grassa, risata. – Non fare il timorato di Dio con me. Lo so, non mi darai mai la soddisfazione di conoscere per filo e per segno ogni particolare del vostro incontro peccaminoso in cima alla torre, mio bel Lancillotto….o se la tua lancia sia andata a segno…non lo faresti mai. Anche da sbronzo marcio o sotto tortura sei incorruttibile…-
-Ci stavi forse spiando? – e lo disse enfatizzando di proposito il suo finto disappunto.
-Senti, amico, sarò anche riconosciuto come un pervertito di prima categoria, ma non sono ridotto poi così male da aver bisogno di guardarvi di nascosto per eccitarmi come un ragazzino in preda alle sue smanie. Sono in grado di provvedere alle mie necessità…e comunque…ahhh, ti sei fregato da solo…lo hai ammesso!- e di rimando gli restituì la stessa canzonatoria acidità. Per un attimo cercò di focalizzare il suo sguardo, reso sfuggente da quel velo di opacità che la disgrazia occorsagli ed il pudore nel serbare le sue emozioni gli avevano calato sugli occhi. Andrè non stette al gioco, lui non lo incalzò. Rilasciò un sospiro lungo e sottile, che gli consentisse di dire la cosa giusta, quella che avrebbe potuto mangiarti dentro. –Ho imparato a conoscerti ormai, Grandier. Bene. Hai i coglioni d’acciaio, lo hai dimostrato in caserma, lo fai da una vita con lei….l’ho capito….non arretri mai, e tutta questa forza la trattieni dentro. Ti servirà. Ti sei già battuto per averla….continua a proteggerla. E fallo anche con te. –
Andrè sapeva cosa celavano quelle parole. Stima, primi schizzi d’affetto quasi fraterno. La capacità di sapersi rallegrare  se annusava il buon odore dell’altrui felicità. Ma ora non c’era il tempo, quello per commuoversi. Gli posò una mano sulla spalla –Andiamo! –
Non sapeva, invece, che Alain lo aveva seguito con discrezione, sino al limitare della radura. Che aveva osservato da lontano i raggi di luna infrangersi contro i capelli del Comandante, gonfi d’aria e svettanti come un vessillo, sporgere oltre la sommità del “loro” castello, nel momento in cui aveva reclamato a sé il suo uomo. Che erano pericolosamente belli e davano troppo nell’occhio, anche in quello di chi potrebbe aver voluto loro male. E che quindi scelse di fermarsi laggiù e d’aspettarli, seduto, con la schiena adagiata sul legno d’un albero vetusto, nell’atto di dormire con un occhio aperto. Distante abbastanza da stordirsi col frinire intenso delle cicale, per non violare in alcun modo l’intima sacralità del loro pagano incontro, vicino quel che bastava per custodirne il sentimento. O accorrere in caso di necessità.
 
Ps. Le due piccole citazioni di dantesca memoria non vogliono affatto essere indice di presunzione, ai Geni mi accosto con massimo rispetto, deferenza e gratitudine. Mi piacevano troppo nell’intreccio umilissimo dei miei pensieri. Tutto lì. Buona lettura.
 
 
 
 
 
 
   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Lady Oscar / Vai alla pagina dell'autore: ireland3