CAPITOLO VENTI
“Il supremo male che
possa capitare
è commettere
ingiustizia (…)”
Platone.
“Cosa significa?!”
sbotto.
Il detective mi fa
salire in macchina con un gesto secco della mano destra.
“Te lo racconto mentre
ti riporto a casa”.
Ci accomodiamo e gira
la chiave nel cruscotto, partendo di velocità.
“Adesso mi lasciate
finalmente tornare a casa?” chiedo, seccato più che mai.
Quasi non ci credo; non
vedo l’ora di ritornare tra le braccia di mia moglie e di rivedere i miei
figli. Non voglio illudermi, però, perché questi matti mi hanno insegnato che
da loro ci si può aspettare di tutto, e di solito mai nulla di piacevole.
“Sì” risponde l’uomo,
di poche parole.
“Come mai adesso non mi
tormenti più? Ieri, quando potevi infierire, l’hai fatto senza rimorsi. Adesso
invece che torno a casa, eccoti lì mogio e zitto… dovevo soffrire ancora, per
renderti felice?”
In tutta risposta,
scrolla le spalle con non curanza.
Sento un forte odio
dentro di me, penso di estrarre finalmente la pistola dalla fondina e farmi
valere. Non mi importa più di niente.
“Io e la mia datrice di
lavoro ci siamo premuniti” afferma, quando tasto la fondina e non trovo più la
pistola d’ordinanza.
“Questa… questa è una
grave prevaricazione, questa è…”.
“Questa è semplicemente
la tua fine, agente speciale Barley. Oppure posso chiamarti semplicemente
James, poiché ti piace dire che non lo sei più? Eh?”
“Sei pazzo anche tu”
concludo, senza replicare. Mi sta confondendo e quello che più spero è di
tornare a casa al più presto, desiderio che per fortuna si realizza in fretta.
Con il cuore in gola
scendo dalla berlina nera e mi sento colmo di commozione; presto abbraccerò la
mia amata e tutto sarà come prima!
“Non mi saluti? Siamo
stati colleghi per un sol giorno, però penso che la cortesia non debba sfumare
così in fretta…”.
Mi volgo verso il
bastardo, un solo istante prima di sbattere lo sportello dietro di me.
“Che vuol dire?”
chiedo, continuamente poco lucido per via dell’ansia. “Che non mi tormenterete
più?”.
Il mio interlocutore mi
mostra un mezzo broncio, poi sorride apertamente.
“No, non credo. O,
quanto meno, non in queste circostanze”.
“Ne sono proprio
felice” mi viene da gioire e da ridergli in faccia.
Lui però mi fa cenno di
chiudere lo sportello, e prima di pestare brutalmente l’acceleratore abbassa il
finestrino e sancisce quella che sembra una sentenza.
“Io non lo sarei al
posto tuo, James. Non hai accontentato la mia datrice di lavoro, quindi sei un
uomo finito”.
Mi volgo verso di lui,
ma avverto solo un addio urlato e il rombo della macchina che già si allontana
in fretta.
Resto un attimo
perplesso, ma alla finne me ne frego; l’importante, nell’immediato, è aver
riguadagnato la libertà.
Non ci sono più i
gorilla a bada della porta d’ingresso.
Varco serenamente la
soglia e con il più smagliante sorriso corro verso la cucina, sapendo che è la
stanza preferita di mia moglie. E in effetti è proprio lì.
Resto immobile un
istante prima di entrare, perché Tiffany è sì presente, ma è con la faccia
affondata tra le mani. Piange.
I miei due figli sono
come pietrificati a guardarmi, poi appena dopo qualche secondo si allontanano e
per abbandonare la stanza quasi mi spintonano. Ed io che li volevo abbracciare.
Penso subito che quella
puttana deve aver combinato una delle sue e chissà cosa ha fatto ai miei
familiari.
“Amore” mi avvicino a
mia moglie, sussurrando a voce bassissima. Lei nemmeno mi guarda, singhiozza
più forte.
“Amore, cosa ti hanno fatto?” insisto.
Solo a quel punto
scatta. Si alza e quasi mi spintona a sua volta.
“Hai anche il coraggio
di chiedermi cosa mi hanno fatto?!” esclama, rabbiosa. “Cosa mi hai fatto tu”
conclude, notando il mio sbigottimento.
“Cosa… cosa ti ho fatto
io?” chiedo, ma a quel punto ho una pessima impressione. Un brutto pensiero si
espande nella mia mente…
“Guarda cosa mi è
arrivato questa notte su Whatsapp” e sbatte il suo cellulare sotto al mio naso,
prima di azionare un video inviato alle tre di notte da un numero non salvato
in rubrica.
Le immagini sono di
ottima qualità, nitide e cristalline, così tanto che non ho alcuna difficoltà a
riconoscermi, nudo e in preda alla passione, mentre faccio l’amore con
Angelina.
La stronza intanto
filma e geme, di tanto in tanto, e si prende pure lo sfizio di sussurrare
quegli schifosi ‘sei il mio uomo, adesso, solo il mio’.
Il video ha una durata
di trentacinque minuti, ma lo fermo subito dopo averne visionati solo quattro,
sconvolto.
Restituisco il
cellulare a mia moglie, mentre il mio volto avvampa, in preda alla più cupa
vergogna.
“Non è così come
sembra” riesco soltanto a dire, dopo qualche altro minuto. Tiffany adesso è
calma, seduta su una sedia, senza mostrare nessun sentimento in particolare.
Ancora non mi guarda,
fissa a vuoto il pavimento.
“Mi ha costretto a
farlo. Io non volevo…”.
“Godevi come un porco,
invece… l’ho visto tutto, fino alla fine, fin quando le hai dato quel bacio
pieno di passione e hai anche usato la lingua. Sono sconvolta, non mi sarei mai
aspettata una cosa così terribile da parte tua” si spiega, sempre calma, come
se ormai avesse razionalizzato tutto ciò.
“Io nemmeno mi ricordo
di quello che ho visto, né di quello che mi dici. Lei è pazza, mi ha
somministrato qualcosa che non mi faceva ragionare”.
Mia moglie ancora tace.
“Non mi credi, vero? Non mi credi più”.
È come se lo affermassi
da solo, disperato. Però a mia volta non faccio scenate, né piango.
È anche nel mio caso
una sorta di dato di fatto; sono stati giorni che mi hanno distrutto sotto
tutti i punti di vista.
Lei nega con un solo
cenno del capo, risoluto.
“I nostri figli lo sanno?”
“Lo sanno. È arrivato
anche nei loro cellulari”.
Stronza schifosa,
penso, ribollendo dalla rabbia. La stronza non avrà avuto problemi a ottenere i
numeri di mia moglie e dei miei figli, con tutti i contatti che ha e i suoi problemi
mentali. Così, ha rovinato anche la mia
famiglia.
“Non ti voglio più in
casa, James. Per favore, vattene subito” aggiunge Tiffany, constatando il mio
silenzio prolungato.
“Ma che stai dicendo?!
Io amo te, sempre e solo te! Non vedi che ci ha fregato, quella troia? Niente
di tutto ciò che hai visto è vero!”
Mi avvicino e cerco di
baciarla sulla guancia, ma lei mi dà uno schiaffo e si allontana.
“Con quelle stesse labbra
con cui qualche ora fa hai baciato quella lì…” mugugna, ora rabbiosa,
esplosiva, “…te ne devi andare subito”.
“Va bene” alzo le mani
in segno di resa. “Permettimi di fare i bagagli e di salutare i ragazzi,
almeno…”.
“Non ti vogliono più
vedere. Ti avranno anche già portato giù la valigia”.
Mi affaccio di nuovo
sulla soglia e in effetti vedo un valigione pieno di cose che mi attende
solitario davanti alla porta d’ingresso, che solo venti minuti fa ho varcato
con grande gioia.
“No…” sussurro.
“E’ tutto finito,
James. Tutto. Hai mandato tutto all’aria” singhiozza Tiffany.
Voglio avvicinarmi di
nuovo ma inizia a strillare come una pazza.
“Vattene via o chiamo
la polizia! Vattene! Vattene! Vattene!”
Atterrito da quella
raffica di strilla, retrocedo e vado alla porta. Non posso fare altro. Ancora
non ci credo, il mondo è crollato su di me così in fretta… così tanto in fretta
che non so farmene una ragione.
Forse nemmeno ne me
accorgo quando esco di casa con la valigia in mano, non comprendo la gravità
del gesto. Lo sto solo subendo, come ho sempre fatto ultimamente.
Devo sembrare un
derelitto ai due agenti che si presentano all’ingresso del cortile, armati a
puntino, come se mi stessero attendendo.
“Agente James Barley?”
mi chiede uno.
“Sì…”.
Non faccio in tempo a dire
altro che estraggono entrambi la pistola e me la puntano contro.
“Non faccia
sciocchezze, mani dietro la schiena. La dichiariamo in arresto”.
Lascio cadere la
valigia e me ne sto fermo mentre i due mi raggiungono e mi trattano come il
peggior criminale di questo mondo. Resto in compagnia della mia rassegnata
consapevolezza che tutto ciò è stato generato dalla Stradford.
Aveva ragione allora il
detective, quando mi ha detto che non l’avevo accontentata e che dovevo
aspettarmi il peggio, perché ero un uomo ormai finito. E il peggio, in effetti,
è arrivato.
I minuti si trasformano in ore, le ore in giorni, i giorni in
mesi.
La quarantena più lunga della mia vita si espande assieme
alla sensazione che tutto si sia fermato. Tutto, appunto, tranne il tempo.
Tempo che inizia a diventare confuso nella mia mente; oggi
che giorno è? I giorni si confondono, non si esce più e non avendo contatti con
l’esterno la monotonia vince su tutto. In pratica, passo le giornate a mettere
a posto libri.
Tutte uguali.
E adesso, appunto, non so nemmeno più con certezza che giorno
è, per la precisione.
Non ha importanza, la quarantena sarà ancora molto lunga e
quando tutto sarà finito sarò sicuramente cambiato molto.
Ricordo l’atteso sabato, e pure la domenica al mare. Adesso
si mettono a posto i libri, tramite le stesse azioni.
Pasti a ore forzate, sempre allo stesso minuto.
Non cambia più una virgola.
Il peggio è che mi sto confondendo mentalmente e che temo di
abituarmi a questo isolamento, a tutto questo silenzio.
In questo inferno, mi viene da pensare a una cosa che può
sembrare strana.
A una tigre. Sì, una tigre siberiana.
Prima della tempesta Coronavirus, ho avuto modo di vederne
una dal vivo. Una grossa, grassa e vecchia tigre siberiana, trasportata su un
carrozzone di un circo itinerante proveniente dall’estero.
Allora erano i giorni delle festività natalizie e mi sentivo
immortale, anche se ero una merda emarginata mai mi sarei aspettato questa
segregazione in casa.
La creatura, appunto sbarcata nella vicina città grazie al
circo, veniva lasciata libera durante tutto il giorno in un recintino costruito
da ferri piantati a terra, ben delimitato e in sicurezza.
Ricordo quando le sono andato vicino, solo la recinzione
metallica rinforzata a separare me dalla fiera. Inizialmente, un timore
reverenziale da parte mia, credendo in chissà cosa.
Per chiunque abbia solo sbirciato il libro La tigre di John Vaillant, un brivido
viene a prescindere; poi trovarti un bestione così a pochi passi, sembra
un’esperienza di un altro mondo.
Mi sono sciolto solo quando l’ho guardata negli occhi. Erano
spenti. Ne La tigre, il feroce e
intelligente felino in grado di adattarsi a ogni situazione, dagli occhi
svegli, profondi, vivi, cacciatrice di prede di grande mole ma anche di persone
nel caso sia provocato, è qualcosa di tangibile seppur sia solo una
testimonianza scritta.
Ma lì, dal vero, quella creatura non aveva più nulla di
selvatico e indomito.
Lo sguardo più spento di quello di un gatto, senza alcuna
profondità. Il niente.
La bestia mi guardava, io guardavo lei. Ogni tanto faceva un giretto
attorno al breve perimetro della recinzione metallica, per poi tornare a
sedersi nello stesso punto da cui era partita.
Prima di tutto, ho provato una profonda delusione. Infine,
sorge la consapevolezza che quello che ho visto in fondo è solo una creazione
umana; cosa si può pretendere da un animale strappato da decenni dal suo
habitat naturale, dalla taiga siberiana ancora perlopiù lasciata intatta
dall’uomo, e costretto a esibirsi all’infinito a piacimento di un pubblico
pagante? Niente.
Ecco, adesso con il coronavirus mi rendo conto cosa voglia
significare essere una tigre, o un animale. Essere costretti a vivere in spazi
limitati per un’intera esistenza, senza mai poter uscire.
Per fortuna prima o poi il virus passerà, la vita riprenderà
e tutto cercherà di tornare alla normalità, però anche solo un mese trascorso
in cattività mi ha cambiato, figuriamoci una vita intera.
Siamo o non siamo dei mostri, degli oppressori, che hanno
distrutto non solo l’ambiente e gli altri esseri viventi, ma anche tante altre
civiltà che invece avremmo dovuto proteggere, sostenere, preservare,
rispettare?
Siamo la sintesi di uno spietato, rapido percorso evolutivo.
Gli animali sono esseri viventi come noi, ma non potranno mai
vivere in un ambiente naturale perché noi l’abbiamo distrutto, e li abbiamo
reclusi in gabbiette e recinti, a produrre e a riprodursi per i nostri scopi.
Siamo mostri e in qualche modo dobbiamo pagare e rendere
conto per quello che abbiamo fatto al mondo.
Per quanto mi riguarda, quella tigre non me la scorderò mai,
e resterà per sempre l’emblema della libertà rubata e dell’ossessione dell’uomo
rivolta al soggiogare la natura.
I miei giorni di quarantena mi stanno facendo capire che in
fondo si può pensare di essere fortunati per essere nati umani, in un certo
senso. Ma fino a un determinato punto.
NOTA DELL’AUTORE
Mamma mia, quanto tempo e quanti errori! Ne ho messi a posto
molti, ma sicuramente tanti altri mi sono sfuggiti. Mi scuso per questo.
Ma soprattutto mi scuso per i secoli impiegati per aggiornare
una storia ormai conclusa da tempo… che vergogna! Ora sono qui per riparare,
promesso.
Un grazie immenso e infinito a chi sarà ancora qui, pronto a
leggere e a sostenermi.