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Autore: time_wings    26/05/2021    1 recensioni
[In revisione]
Da… un capitolo:
“Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che, al crescere della gioia, cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza."

Questa storia, come molte altre, parla di una grande amicizia, di un amore nascosto, di un fratello abbandonato, di difficili addii. Certe cose nascono alla stazione di un treno, altre finiscono nello stesso posto. Dove ci porteranno? Be', avanti.
O… la storia di come “alla fiera dell'angst per due soldi un malandrino mio padre comprò”.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Marlene McKinnon, Regulus Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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28. Limportanza di chiamarsi Sirius







“Ora” sussurrò Sirius. Poi sbadigliò e, nello stesso momento, si infilò in bocca un angolo di tramezzino.
James, accanto a lui, scoppiò a ridere. Il che non sarebbe stato un disastro, se il fatto che stesse sorseggiando del latte non avesse portato a bolle d’aria e brevi soffocamenti.
“Stai… letteralmente facendo colazione.” Remus aggrottò le sopracciglia e fissò Sirius un po’ confuso. “Tu funzioni in modo strano.”
“Grazie.”
“Non era esattamente un complimento.”
Peter ruttò. “Ora.”
“Ora cosa?” Marlene si lasciò cadere sulla panca. La forchetta che penzolava già dalla sua bocca e le uova nel piatto che rimbalzavano con lei.
Marlene aveva questa interessante abitudine di dare il primo morso ancora in piedi e poi sedersi. La sensazione latente era che l’affamassero.
“Contiamo quante volte ognuno di noi pensa al sesso,” parlò James, con naturalezza, la voce smorzata da uno sbadiglio.
“È… la cosa più stupida che abbia mai sentito.”
“È per la scienza” ribatté James. “A fine giornata votiamo il più depravato.”
Sirius scrollò le spalle. “Vuoi giocare?”
Marlene ci pensò un attimo su, una traccia di disgusto sostò tra le sue sopracciglia e gli occhi scandagliarono il soffitto tornato normale della Sala Grande. “Ora” e quattro risate seguirono quell’ammissione.
“Che c’è adesso?” James si infilò un cucchiaio abbondante di cereali in bocca. Nessuno capì perché fosse stato così violento. Sputacchiò qualche goccia di latte nella sua ciotola.
Quattro paia d’occhi lo fissarono, un momento di esitazione, una sospensione innocente.
“Ora!” urlarono in coro tutti.
James alzò gli occhi al cielo e si ripulì la bocca. “Che. C’è. Adesso?”
“Storia della Magia.”
Un grugnito annoiato lasciò le sue labbra. “Ma perché la mettono sempre di mattina?”
“Per farti soffrire di più” ribatté Peter. “Siamo arrivati alla Guerra dei Goblin.”
“Ma l’abbiamo fatta un mese fa” notò James, le sopracciglia aggrottate come a cercare di afferrare un ricordo che chiaramente gli era sfuggito.
“Ah…” Peter addentò una fetta di ciambellone. “La… seconda Guerra dei Goblin, allora?”
“Non esiste” James sembrava indeciso se essere sconcertato dall’ignoranza di Peter o sollevato all’idea di non essere l’ultimo dei casi persi. Sbadigliò. Un secondo ‘ah…’ di Peter si perse tra le risate dei ragazzi e il sussurrare concitato dei tavoli delle altre Case.
Fu in quel momento che Lily Evans apparve alle spalle di Marlene e fece scivolare una mano nel suo piatto. “Te ne rubo una!” annunciò sgraffignando una fetta biscottata. Marlene si limitò a scrollare le spalle e lasciarla fare.
Sirius, gli occhi carichi di aspettativa, guardò James. Remus, le braccia incrociate e un broncio già pronto a manifestarsi, guardò James. Peter, le sopracciglia sollevate in attesa, guardò James. Se avesse potuto, James avrebbe guardato se stesso solo per non sentirsi il pesce fuor d’acqua della situazione.
“Che c’è?”
“Oh, avanti,” Sirius alzò solo un angolo della bocca, uno sguardo vispo che, a quell’ora, potevano permettersi solo lui e Gilderoy Allock. “Non ora?”
James realizzò. Spalancò la bocca e unì le sopracciglia, una mano sul petto a fingere offesa. “Io” iniziò, la mano che abbandonava il suo petto per puntare un dito contro se stesso, “sono un bravo ragazzo, un gentiluomo.”
Si guardarono. Per qualche secondo, non accadde nulla.
James abbassò lo sguardo, fece schioccare la lingua e con riluttanza sussurrò: “È tutta colpa tua.” Un sospiro. “Ora.”
A fine giornata il premio fu vinto, con immensa sorpresa di tutti, da Remus Lupin.

***
 
L’aria primaverile fischiava attraverso i finestroni del corridoio. La luce si infrangeva secca ma non arida sulla pietra, colorando di vita qualunque cosa sostasse nella sua rotta.
Per caso, una di quelle cose fu James Potter. Si arrestò in quel raggio di sole, una mano ad arruffarsi i capelli, la Mappa del Malandrino nell’altra e la faccia accartocciata dalla confusione.
“Ma che diavolo…” sussurrò, dando voce ai suoi pensieri. Mormorò un incantesimo e rintascò la Mappa, poi abbandonò il riflettore sotto cui si era fermato e voltò l’angolo che lo separava dalla fonte della sua confusione.
Come previsto, tre ragazzini che non potevano avere più di dodici anni erano seduti a terra. Uno aveva le gambe distese davanti a sé e le braccia a sorreggerlo poco dietro il sedere. L’altra era seduta a gambe incrociate, la bacchetta in una mano e un’alta coda di cavallo in testa, ed era l’unica Corvonero in mezzo a due Tassorosso. L’ultimo sedeva con le ginocchia al petto, un’aria un po’ spaurita e le mani che gli reggevano la faccia come se fosse potuta cadere da un momento a un altro.
Quando James incontrò lo sguardo sorpreso di quest’ultimo, anche gli altri due si voltarono. “Che ci fate quassù?” domandò James prima che potesse trattenersi. Non è che, proprio lui, potesse permettersi di rimproverare chi non si trovava dove avrebbe dovuto.
Notò la ragazzina con la coda nascondere fiale e altri oggetti dietro la sua schiena.
Il ragazzo sbracato a terra fu costretto a torcere il collo per dargli un’occhiata. Alzò un sopracciglio come se quel corridoio avesse portato il suo nome. Un istinto stupido fece venir voglia a James di dimostrargli che lui era l’unico che potesse reclamare qualunque proprietà con lo sguardo, quando metteva piede in una stanza, perché questo aveva fatto per sei lunghi anni in quella scuola. Non disse niente, però, perché il ragazzino parlò per primo. “Che ci fai tu quassù?”
James non riuscì a non guardarlo male. “Ronde.”
Fu solo in quel momento che notò che stava masticando uno stuzzicadenti. Imbarazzante. “Ah-ah” ridacchiò derisorio “tu non sei un prefetto.”
“Neanche tu.”
“Allora siamo pari” la giovane Corvonero si strinse nelle spalle.
“Lo saremmo” disse James, “se non avessi visto i componenti per una Bomba Urlatrice.”
Quella frase ebbe l’effetto sperato. Perfino il Tassorosso arrogante abbassò lo sguardo e scambiò un’occhiata con la Corvonero. James la considerò una vittoria, prima di rendersi conto che stava facendo a gara di sguardi con un ragazzino.
“Che ne sai che si chiama così?” domandò diffidente quello dall’aria spaurita. A furia di competere per chissà quale proprietà del corridoio, James aveva momentaneamente dimenticato il terzo membro della banda.
“Che ne so?” James domandò, retorico. “Be’, tanto per cominciare l’ho inventata. Piuttosto, come la state facendo, visto che non ci sono ricette?”
I ragazzi si fissarono tra loro, una conversazione muta che doveva suonare più o meno così:
‘Ci fidiamo?’
‘In effetti è un po’ strano.’
‘Secondo me sta bluffando.’
‘Idiota, conosceva il nome della Bomba.’
‘Dobbiamo fidarci per forza.’ 
‘Già, altrimenti ci denuncia a qualche prefetto.’
“Va bene” il ragazzino arrogante si sporse su un lato. James pensò che sarebbe stato un dannato sogno, se si fosse lasciato scappare una scorreggia, invece affondò una mano nella tasca posteriore dei suoi pantaloni e ne cavò fuori una pergamena stropicciata. Considerò James per un ultimo secondo di completa diffidenza, poi gli porse la pergamena con una scrollata di spalle. “L’ho presa dall’ufficio di Gazza.”
James alzò un sopracciglio. “Vuoi dire che l’hai rubata” precisò, appropriandosi della pergamena e dando finalmente un’occhiata:

 
AVVISO DI DETENZIONE
STUDENTI: James Potter, Sirius Black
ANNO SCOLASTICO: III
DATA: 26 novembre 1973
PROFESSORE: Minerva McGranitt
RICHIAMO:Con l’aiuto di Black, Potter ha finto uno svenimento durante la lezione di Trasfigurazione. Nel momento in cui gli è stato prestato soccorso, tre urla acute sono scoppiate nella classe. Gli studenti, perfettamente sani, hanno poi sostenuto che l’unico modo per disattivare le urla fosse chiamare gli esplosivi da cui provenivano con il loro nome (Bombe Urlatrici) e sussurrare loro parole dal dubbio decoro. Dopo avermi fatto presente, tramite un biglietto, cosa dire esattamente alle bombe, si sono rifiutati di pronunciare le formule loro stessi e hanno imbastito una gara di limbo con i restanti studenti della classe di Trasfigurazione, chiedendo che, come pegno, il perdente si preoccupasse di disattivare le urla che, durante tutto l’avvenimento appena descritto, si sono perpetuate.
FIRMA: Minerva McGranitt

“Non male” commentò James, ridacchiando e porgendo di nuovo la pergamena al suo ladro.
“Migliorabile” lo corresse quello, alzando gli occhi al cielo. “Sarebbe stato ancor più divertente se la professoressa fosse stata l’unica voce riconosciuta dalle Bombe Urlatrici.”
James alzò un sopracciglio. Era offeso? Sì, decisamente. “No, perché semplicemente non l’avrebbe mai fatto.”
La ragazzina Corvonero alzò un sopracciglio. “Sei Sirius Black?”
James chiuse gli occhi e inspirò a fondo, perché evidentemente questi brufoli ci tenevano a offenderlo. “Ti sembro un idiota?”
Il signor-arroganza alzò un sopracciglio. “Onestamente?”
“Non rispondere” alzò una mano. “Sono James Potter, non avete mai visto una partita di quidditch da quando siete qui? Comunque...” infilò una mano nella tasca segreta del suo mantello e tirò fuori uno specchio. “Sirius” chiamò. Notò con la coda dell’occhio che la ragazza Corvonero aveva tirato fuori di nuovo tutto l’occorrente per le Bombe Urlatrici. Non aveva idea di cosa ci facesse dell’eucalipto, lì. “Sirius” provò di nuovo e l’immagine nello specchio finalmente ondeggiò.
Il dormitorio apparve buio, le tende del letto erano tirate a costringere all’esterno la luce, là fuori. “che vuoi?” rispose Sirius, attraverso uno sbadiglio. Per buona misura, si passò anche una mano sugli occhi, nel tentativo di lavare via il sonno.
“Che ha?”
James strinse gli occhi, come se questo avesse potuto aiutarlo ad ampliare la visione ristretta che lo specchio gli concedeva sul dormitorio. “Era Remus?”
“Sì” James udì un fruscio, “ti presento Remus Lupin, non so se ne hai mai sentito parlare. Viene a scuola con noi, dorme nel nostro dormitorio, ieri ti ha lanciato un cucchiaino appresso, ricordi?” L’immagine nello specchio ondeggiò di nuovo. Remus fece capolino da un angolo dell’inquadratura e lo salutò con una mano. Con l’altra reggeva un libro. Una lampada da lettura sul comodino gettava una luce fioca all’interno delle tende del letto, permettendogli di leggere.
“Perché dormi nel letto di Remus?”
“James, io dormo ovunque.” L’immagine tornò sulla faccia ancora mezza addormentata di Sirius. “Che vuoi?”
James si riscosse e lanciò un’occhiata ai ragazzini. “Abbiamo dei fan” lo mise al corrente, voltandosi per rimanere nell’inquadratura dello specchio e mostrare anche i tre ragazzi.
“Amico, in realtà non ce ne frega niente di voi, vi stiamo letteralmente rubando l’idea.”
James ignorò mister-arroganza perché l’altra opzione sarebbe stata un pugno in testa e diventare violento non rientrava nei suoi obiettivi quotidiani. “Visto? Dobbiamo aiutarli!”
“Non sto scherzando” proseguì il ragazzino, “vi stiamo proprio rubando l’idea.”
“A me sembra che ci stiano rubando l’idea” commentò Sirius.
“Vieni qua e aiutiamoli.”
“Mi sente?” domandò invece Sirius, allungando il collo come se fosse stato di qualche aiuto. “Ehi, stronzo!”
“Bene, me ne occuperò io, torna a dormire.”
Prima che Sirius potesse lanciare altre ingiurie alla sua palese versione più giovane, James nascose nuovamente lo specchio nella sua tasca e si concesse una vera occhiata agli ingredienti che avevano raccattato i ragazzini.
“Non ci serve il tuo aiuto.”
“A dire il vero ci serve eccome” si intromise la ragazza. A James piacque subito. “Non sappiamo neanche da dove cominciare.”
“Secondo me l’eucalipto non c’entra niente” commentò l’altro ragazzo. Di nuovo, James aveva rimosso la sua presenza.
“Non c’entra niente, infatti,” confermò James. “Be’, la brutta notizia è che questi scherzi hanno dei retroscena non altrettanto divertenti.”
I tre ragazzi lo guardarono curiosi e meravigliati per qualche secondo. Tutti e tre, incluso l’odioso. Forse James gongolò.
“Se non studiate non combinate niente” rivelò con un sorriso. “Andiamo in biblioteca?”
E fu così che James Potter, noto combinaguai di prima categoria e collezionista di detenzioni a velocità record, finì per dare inconsapevolmente le sue prime ripetizioni a studenti più giovani: un gesto piccolo che avrebbe rivoluzionato la sua esperienza scolastica.

***
 
“Buondì!”
Sirius avrebbe urlato, ma fu misericordioso abbastanza da decidere di lasciar dormire beatamente il resto del dormitorio maschile.
Sussurrò invece all’orecchio di Remus, canticchiando perché l’intenzione di suonare irritante non svaniva certo se tagliava il numero di amici che importunava.
“È la seconda volta in una settimana che mi svegli così” biascicò Remus, dandogli le spalle perché, davvero, non ne poteva più. Schiacciò la faccia sotto il cuscino perché l’ultima volta era stato attaccato da ogni lato e imparare dai propri errori era la prima regola dei cani e purtroppo solo la seconda degli esseri umani.
“Prego.”
“Non ti stavo ringraziando” ribatté Remus, il tono un sussurro che faceva a pugni con il cuscino per superare la barriera del tessuto. Sirius lo udì comunque. “Che ore sono?”
“Le sei e mezzo.”
Remus grugnì. Avrebbe voluto suonare frustrato, invece sembrò solo sofferente. “Se non te ne vai ti prendo a calci.”
Sentì Sirius ridere e iniziare a scuoterlo con il solo scopo di tormentarlo. Ci stava riuscendo. “Andiamo a Hogsmeade, oggi” gli fece presente, tentando in tutti i modi di sottrargli il cuscino, ma Remus era deciso a non mollare la presa neanche per sogno e mantenne testardamente il punto.
“Ma è ancora ieri.”
“Non è più ieri da sei ore e mezzo.” Sirius non ottenne risposta. Remus lo sentì abbandonare ogni tentativo, sedersi sul materasso e soffiarsi un ciuffo di capelli presumibilmente via dagli occhi. “Remus John Lupin” iniziò, guadagnando in risposta un altro grugnito contrariato, “ti giuro che se mi apri il bagno dei prefetti prima di colazione io ti porto sulla luna.”
Remus aveva i pensieri ancora troppo impigliati nel sonno, per afferrare la vera richiesta di Sirius al primo tentativo. C’era una differenza sostanziale tra ‘aprire’ il bagno dei prefetti e ‘portarlo’ nel bagno dei prefetti. Remus combatteva ancora la parte di se stesso che avrebbe voluto portarlo nel bagno dei prefetti, spogliarlo nel bagno dei prefetti e, arrossendo anche solo al pensiero, anche scoparlo nel bagno dei prefetti. Invece si prese un momento per respirare profondamente, scacciare i pensieri molesti del mattino e concentrarsi su quello che Sirius aveva detto. Portarlo sulla luna? Il primo sorriso della giornata gli spuntò sulle labbra. “Non ho idea di cosa mi succederebbe sulla luna, sai.”
“Vuoi scoprirlo?”
Remus mise finalmente via il cuscino che gli copriva gli occhi e osservò Sirius con un cipiglio pensieroso. “Credo che sia sempre piena.”
Sirius scrollò le spalle e gli sorrise, forse per il cuscino, forse solo perché era felice di vederlo. “Io credo che non abbia senso il concetto di pieno, lassù. Tu chiami la Terra piena?”
“Secondo me vale come piena.”
“Che mi dici dei pianeti da cui la luna non si vede?”
“Avvisami quando trovi un modo per respirare su Urano. Zitto, non dire niente.” Remus sbuffò. “Sono le sei e mezzo.”
“Ma ho la tua attenzione” il sorriso di Sirius si affilò, una complicità che aveva l’elettrizzante componente della potenzialità. “Immaginaci sulla luna, vivremmo una vita da cani.”
Remus sbadigliò e ridacchiò insieme. “Sono piuttosto sicuro che non sia un modo di dire positivo.”
“‘fanculo il modo giusto, io lo dico come mi pare.”
Ah be’, allora sì.
Si guardarono per qualche secondo di silenzio, con una confortevolezza figlia della quantità esorbitante di mattine che avevano passato in compagnia dell’altro negli ultimi sei anni della loro vita, ma anche con una certa tinta di disagio, di consapevolezza e vulnerabilità tipiche solo di chi non ha ancora scoperto le proprie carte e prega di avere una buona mano.
Contro ogni aspettativa, Sirius distolse lo sguardo per primo.
Era una dinamica strana a cui Remus si stava abituando.
A quattro mesi dal giorno in cui Remus aveva deciso che, una volta perdonati i torti subiti, se li sarebbe anche lasciati alle spalle per una questione di giustizia, qualcosa nel loro modo di relazionarsi si era mossa alla velocità di una lancetta delle ore.
Davvero lenta, dunque.
La verità era che Remus non era più lo stesso, da un po’ di tempo a quella parte. Tutte quelle potenzialità che l’intromissione di Greyback nella sua vita gli aveva portato via, stavano comunque venendo a galla. Era un processo che si era messo in modo quando James aveva visto attraverso le sue cicatrici, quando Peter gli aveva chiesto per la prima volta aiuto con i compiti e, forse, quando Sirius aveva iniziato a guardarlo così.
Un anno prima avrebbe creduto di esserselo immaginato, di aver avuto un picco di autostima, un’evoluzione che andava oltre i suoi malfunzionamenti. Ma quello era un altro Remus: uno che non litigava con suo padre, uno che non sapeva di doversi far valere, di pretendere delle scuse, quando gli erano dovute, uno che non pensava di trascinare James nella serra della scuola a rubare arbusti.
Il nuovo Remus era troppo intelligente per non credere di piacergli. Purtroppo tra credere e sapere con certezza ci passava un crepaccio sottile ma pericolosamente profondo.
Avevano iniziato a giocare all’impiccato, negli ultimi quattro mesi. Si scambiavano lettere di una stessa parola senza sbagliare neanche un’ipotesi né mettere lontanamente a rischio l’omino a un passo dalla corda.
Quell’agglomerato di lettere formava la parola sentimenti.
Era una parola che non si potevano assolutamente permettere, in un mondo che cadeva e Remus non sapeva se la combatteva da sei anni o solo da sei minuti.
E il motivo per cui non se la urlavano in faccia ogni volta che si incrociavano era che Sirius non sapeva cosa significasse e Remus non sapeva neanche se se la meritasse.
Il risultato sconcertante era pura paura della possibilità che vi viveva all’interno, terrore di avere un pezzo di felicità a portata di mano e che potesse però essere una truffa.
“Vuoi le chiavi del bagno dei prefetti?” domandò Remus, ricordando il motivo principale per cui stavano avendo quella conversazione alle fottute sei e mezzo del mattino.
“No?” Sirius gli sorrise in quel modo tipico di quando mettevano a punto uno scherzo molto scenografico e questo risultava ancora più fenomenale di quanto avessero previsto. Forse Remus avrebbe voluto morire guardandolo.
“Sì?”
“Sì.”
Accennò col capo al cassetto del suo comodino. Sirius si sporse in avanti, ma si fermò a un passo dalla maniglia. “Sicuro che posso aprirlo?” gli occhi accesi di ironia “Non ci trovo dentro un album con le mie fotografie?”
Aaaaah, frustrante! Stava scherzando? Non del tutto? Perché gli esseri umani avevano bisogno di fare una cosa tanto stupida come flirtare? E perché sembrava solo l’altra faccia di una bugia? Remus aveva quattro mesi di allenamento, però, ormai non arrossiva neanche più. Ricambiò il sorriso, per quanto i cinque minuti dal suo risveglio gliene concedessero uno. “Stai alla larga dal libro rosso, c’è una ciocca dei tuoi capelli stipata dentro.”
“Maniaco” commentò Sirius, aprendo il cassetto e appropriandosi della chiave.
“Avrei optato per la barba, ma purtroppo…”
“Stronzo” ma rise, “guarda qua, invece, qui ho dei peli.”
Sirius inclinò la testa all'indietro e si indicò qualche punto a caso sotto il mento. Remus alzò un sopracciglio scettico. “Forse è sporcizia.”
Sirius abbassò la testa di scatto e lo guardò male. “Stronzo!” ripeté, ma stavolta ce la mise tutta a fingersi offeso. “Come se tu avessi la barba.”
“Io sono più piccolo.”
Remus ricevette solo un’occhiata poco convinta. “Allora vado” annunciò poi Sirius, sventolando la chiave e lasciando il suo letto.
Remus pensò che fosse proprio un peccato.
“Oh, mh, Remus?” Sirius si fermò a un passo dalla porta. Gettò un’occhiata nei letti attorno come se le tende non gli avessero comunque impedito di accertarsi dello stato di coscienza di Peter e James, poi lo guardò negli occhi. “Oggi, a Hogsmeade, ti va una Burrobirra?”
Remus credeva che il problema di tutto quel giocare e girare attorno alle cose fosse proprio l’inevitabile domanda ambigua a cui rispondere sperando di bilanciare bene la propria, di ambiguità. “Sì, come sempre, no?”
Sirius annuì una sola volta, poi altre tre di fila, una delusione sui lineamenti che forse Remus aveva solo immaginato, un trucco della speranza. “Sì” confermò, aprendo la porta del dormitorio, “come sempre.”
E il cielo sapeva cosa sarebbe accaduto se Remus si fosse limitato ad accettare la proposta senza volersi necessariamente accertare della sua natura.
Wow, era un cretino!
 
La Testa di Porco era uno di quei luoghi poco raccomandabili creati appositamente per i tipi loschi e dalle cattive intenzioni. Si dà il caso che James, Sirius, Peter e Remus rientrassero a pieni voti nella categoria.
In un certo senso.
Ad ogni modo Aberforth li conosceva e li detestava perché, quando mettevano piede nel suo locale, l’atmosfera solitaria di chi non voleva farsi notare esplodeva nel casino che quattro adolescenti erano capaci di evocare anche solo con una parola.
“Oh, no” grugnì l’uomo, quando li vide varcare la soglia del pub.
“Ehilà, Ab!” Sirius alzò una mano, James accennò col capo nella sua direzione in una forma baldanzosa di saluto. “Ci chiedevamo…” Sirius raggiunse il bancone, vi appoggiò entrambi i gomiti e si sporse in avanti, in un falso gesto confidenziale, “hai sei bottiglie di Whiskey Incendiario?”
“Se ce le ho? Certo che sì. Ve le darò? No” ribatté lapidario Aberforth. Non sembrava avere voglia di gestirli, ma la verità era che non sembrava mai avere voglia di gestirli, eppure non venivano mai cacciati. Aberforth, sosteneva James, era la tipica persona che ti trattava male a prescindere dalla simpatia che provava nei tuoi confronti.
Sirius si sporse ancora un po’ verso di lui. “Abbiamo diciassette anni.”
Aberforth lo guardò, poi guardò i suoi tre compagni di merende, poi lo guardò di nuovo. “Ti sembro nato ieri, ragazzo? Vi scolate sei bottiglie da soli, qui?”
“Potremmo.”
“Via dal mio locale” si limitò a ordinare Aberforth.
Il resto della clientela sembrava troppo occupato nelle sue losche faccende per preoccuparsi del baccano.
“Prima devo salutare le capre.”
Il fatto era che c’erano due modi di dissuadere Sirius Black dal fare qualcosa: trovargli un’attività ancora più eccitante a cui dedicarsi o costringerlo con qualcosa di definitivo, come un pugno. Aberforth non aveva intenzione di sprecare energie né per intrattenerlo né per picchiarlo, quindi lo lasciò passare oltre la porta sul retro.
Gli chiuse l’uscio alle spalle e si voltò a fronteggiare i tre ragazzi rimasti.
“Allora…” iniziò Remus. Fu il suo turno di appoggiarsi con disinvoltura al bancone. “Riguardo il Whiskey Incendiario…”
Aberforth sbuffò sonoramente.
 
Sirius respirò primavera e sterco di capre. Si chinò ad accarezzare la schiena macchiata di una. Osservò la sua mano affondare nel pelo, percorrere lo spazio tra le sue orecchie, poi chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, ad accarezzare la capra c’era una grande zampa nera.
L’odore di primavera e sterco era più intenso, più tridimensionale. Sembrava far parte del paesaggio, un’entità concreta nella sua evidenza. Si udì ansimare, mentre radunava le capre e correva nel recinto, giocando a chi era più veloce.
Era una cosa stupida che si concedeva di fare perché le capre erano animali esilaranti, a detta sua, e perché James e gli altri impedivano ad Aberforth di fare irruzione nel suo stesso recinto. Questo significava che Sirius, da quel momento in poi, poteva andarsene in giro per Hogsmeade in forma canina senza farsi scoprire nel bel mezzo di una trasformazione.
Dopo aver fatto vorticare un po’ le capre e, banalmente, averle confuse più di quanto necessitassero, Sirius si allontanò dal retro della Testa di Porco e si avventurò tra le strade marginali del villaggio, l’erba alta gli solleticava le zampe e a volte arrivava perfino a grattargli il collo. Le margherite lo fecero starnutire.
Le case e i negozi iniziarono a diminuire, spuntando come forme di vita rare in un deserto di recinti sfasciati e ciottoli sconnessi, finché non ne rimase solo una.
Una stradina sterrata, costellata di ciuffi d’erbacce, portava fino alla duna su cui sorgeva la Stamberga Strillante. Il tetto appuntito era massacrato più dal tempo che dalle urla dai temibili spiriti che si diceva vi abitassero. Sirius trotterellò fino al grappolo d’alberi non lontano dall’edificio e si immerse nel verde.
Quella era una cosa che preferiva non divulgare troppo.
Il fatto era che dividere un pezzo della propria vita con un cane portava a nuove strane abitudini. Per un padrone di cane, queste erano uscire di casa a orari improbabili, nascondere pastiglie in bocconcini di prosciutto e convivere con la strana palla di pelo acciambellata ai piedi del letto. Per un Animagus, queste erano rotolarsi nel fango – perché era dannatamente divertente –, leccare chiunque lo toccasse e andare a bere nel laghetto vicino alla Stamberga Strillante.
Quel giorno, però, Sirius non si abbeverò nel laghetto vicino alla Stamberga Strillante.
La verità era nascosta da qualche parte nel sangue.
Ed era odiosa.
Ventimila chilometri non sarebbero bastati a spaccare sorrisi simili, angoli delle labbra aguzzi, visi sottili e capelli bui.
Non importava quanto Sirius cercasse di raddrizzarlo, se messo alle strette attaccava allo stesso modo di Bellatrix Black: affondi rapidi e decisi concepiti per la gestione contemporanea di più nemici, colpi dalla mira non perfetta volti a sfiorare e spaventare più che a distruggere.
Non importava quanto Sirius cercasse di correggerlo, se si sentiva minacciato si sedeva nel modo a cui l’aveva abituato Walburga Black: schiene dritte e una patina di opaca sicurezza nello sguardo, menti alti sulla linea pericolosa che separava la superiorità dall’accondiscendenza.
Non importava quanto Sirius cercasse di negarlo, a volte la sua logica seguiva percorsi spaventosamente simili a quelli di Regulus Black: la certezza del successo, il rischio, la grande idea di cercare un ago di solitudine in un pagliaio di gente.
Sulla riva del laghetto nascosto nel mucchio di alberi nascosti sul retro della casa infestata nascosta alla fine di Hogsmeade, c’era nascosto anche Regulus Black, assorto in qualche pensiero a cui Sirius non si sarebbe mai connesso né da cane né da umano.
Si scrollò il pelo con riluttanza, occhieggiando la mano di Regulus galleggiare mollemente nello specchio d’acqua e decidendo che quella volta non avrebbe bevuto.
E poi si guardarono.
Occhi simili che nascondevano segreti diversi.
Regulus tirò su col naso, l’atteggiamento che cambiava in favore di uno più guardingo, un sopracciglio sollevato e il naso all’insù in quella maniera irritante che lo faceva sembrare più un dipinto di famiglia che una persona con dei sentimenti.
Poi, però, quel palloncino di doveri si sgonfiò. Regulus inclinò il viso su un lato e gli sorrise. 
Sirius non si mosse, lo studiò come se fosse stato una preda, indeciso se lasciarlo cadere in qualche trappola o attaccarlo all’istante.
Non fece nessuna di quelle cose, però, perché Regulus protese una mano verso di lui e unì le dita tra di loro sfregandole, come a promettergli qualcosa di buono. Si morse un labbro come se avesse avuto almeno tre anni in meno. No. Si morse un labbro come se finalmente avesse avuto la sua età. “Mi dispiace” confessò, il tono un po’ divertito un po’ rotto da qualche parte sotto la superficie, “non ho niente con me.”
Sirius si avvicinò diffidente, le emozioni semplici che si connettevano a una consapevolezza più complessa di avere un debito con lui e di doverlo ripagare. Annusò la mano di suo fratello in un istinto più animale che di carattere, ma si irrigidì quando lui lasciò scivolare la mano tra le sue orecchie, scuotendola in un grattino aaah, dannazione! davvero piacevole.
“Non hai le zecche, vero?”
Sirius sbuffò in una maniera che, su una bocca e non su un muso, sarebbe suonata derisoria.
Nacque una conoscenza a senso unico piuttosto lunga, fatta di carezze incerte e grattini che provocarono versi di apprezzamento a cui Regulus rise.
Fu quel suono venuto direttamente dalla sua infanzia che fece alzare gli occhi di Sirius in quelli ignari di suo fratello.
Da umano ci avrebbe messo esattamente trentadue millisecondi a mettere insieme i pezzi, ma da cane il fatto che avesse tirato su col naso, parlato con tono rotto e sorriso in maniera così triste non ebbe un senso finché non lo sentì ridere.
Forse Regulus Black era ancora umano abbastanza da piangere da solo davanti a un laghetto brutto nella parte brutta di Hogsmeade.
Si sedettero uno accanto all’altro a fissare l’acqua limpida del lago, la mano di Regulus ancora sulla sua schiena lo faceva sentire in parte ‘può andare’ e in parte ‘mi fai senso’.
“Sei la migliore compagnia che abbia avuto negli ultimi… non lo so, da quando ero piccolo” confessò Regulus.
La matematica del cervello canino di Sirius troppo arretrata per permettergli di riconoscere che, quando Regulus era piccolo, l’unica compagnia che aveva era quella di suo fratello.
Bastò il suono di un ramo che si spaccava da qualche parte a rompere quella magia di ghiaccio. Sirius non tornò a respirare, non aveva smesso un attimo di farlo, in effetti, ma espirò in un ansito, come se per tutto quel tempo avesse mantenuto in alto il diaframma in una sospensione accidentale.
Si scrollò la mano di Regulus di dosso, lo guardò un’ultima volta negli occhi – simili, sempre simili, anche se in quel momento nessuno dei due era umano – poi scappò mimetizzandosi tra gli alberi e cercando con l’olfatto la strada per le capre di Aberforth.
Non vide la delusione sul volto di suo fratello, quando lo seguì con lo sguardo, ma se la portò attaccata al pelo.
 
“James, buon compleanno!”
La prima cosa che James si trovò davanti, quando varcò con i Malandrini la soglia della Sala Comune, fu Mary MacDonald, un sorriso enorme e una traccia di speranza a illuminarle gli occhi. Poi si sporse in avanti e lo abbracciò. James guardò fisso davanti a sé e aggrottò la fronte. Sul viso, al contrario di lei, aveva piantato un sorriso di circostanza. “Wow, grazie!” articolò, aggiustandosi gli occhiali con una mano.
Sirius alzò un sopracciglio e avvistò Marlene, a qualche metro di distanza, che si avvicinava per accoglierli a sua volta. “Che roba è?” le sussurrò all’orecchio, quando fu a portata di mormorio.
Marlene si allontanò da lui e osservò la situazione a braccia conserte, mordendosi un labbro. Non disse niente, incontrò soltanto gli occhi di Sirius e sollevò le sopracciglia in un messaggio eloquente.
“Ti prego” ribatté Sirius, che comunque era abbastanza pettegolo da avere un certo fiuto per quelle faccende, il che rendeva facile cogliere al volo i segnali. “Ti prego, dimmi che a Evans piace Mary, sarebbe uno spasso!”
Marlene si limitò a sottrargli la busta di cartone che aveva in una mano e dare un’occhiata all’interno. “Whiskey di Ogden! Mi chiedo chi te l’abbia fatto provare.”
“Non ricordo con precisione.” Sirius sorrise sghembo, “Se non erro un tempo uscivo con una ragazza fuori come un balcone che me l’ha fatto provare al primo appuntamento.”
“Vuoi dire una ragazza simpatica fuori dal comune!” Marlene tirò fuori una delle bottiglie e la esaminò con cura.
Sirius scosse la testa e proseguì, fingendo di non aver sentito la correzione. “Successivamente” sottolineò con la voce, come se quello che era a un passo dal rivelare fosse stato semplicemente inammissibile, “ha rimarcato la sua cattiva influenza mettendomi in mano una sigaretta.”
“Ribadisco che era una ragazza veramente simpatica e non certo una cattiva influenza!” Marlene rise e tornò con lo sguardo sulle bottiglie di Whiskey Incendiario. “Dove le avete prese, comunque? Nessuno sano di mente venderebbe sei bottiglie a dei ragazzi di Hogwarts.”
“La Testa di Porco. Sappiamo essere molto...” Sirius si strinse nelle spalle, in una pausa drammatica assolutamente non necessaria, poi assottigliò lo sguardo e sorrise furbo “persuasivi, se sai cosa voglio dire.”
“Le abbiamo solo pagate” si intromise Remus, venuto dal nulla, guardando Marlene dritto negli occhi e appoggiando con disinvoltura un braccio sulle spalle di Sirius. “Non siamo stati persuasivi, soprattutto lui che non c’era quando le abbiamo prese” continuò pratico, scuotendo la testa come se nella vita non avesse aspettato altro che fare questo commento.
Marlene sorrise, poco toccata dal drastico calo di ilarità nell’aria. “Non avevo dubbi” ammise, guardandosi attorno. “Vado a radunare tutti!” annunciò e si allontanò urlando a nessuno in particolare che ‘era il momento della festa!’. Un metodo interessante di fomentare le folle.
Remus sciolse lo strano abbraccio. “Ma sai avere una conversazione senza flirtare?”
“Non stavo flirtando!”
Remus lo guardò. Sirius lo guardò. Si guardarono.
Remus sollevò un sopracciglio. Sirius sollevò un sopracciglio. Entrambi sollevarono un sopracciglio.
“OH!” James, probabilmente libero dagli auguri di Mary Macdonald, li raggiunse con tutta la sua voglia di far rumore e stabilire contatti fisici mai richiesti. “È una gara a chi si fissa più a lungo? Il vincitore si scontra con me!”
Contro ogni aspettativa, Sirius distolse lo sguardo per primo.
Era una dinamica strana a cui Remus si stava ancora abituando.
Remus si ritrovò l’indice di James puntato contro. “Inaspettato. Va bene, sono pronto, amico.” Mosse la testa a destra e sinistra in una caricatura di un pugile pronto a salire sul ring, poi scrollò le mani a mo’ di riscaldamento.
Fu accontentato unicamente perché era il suo compleanno.
La cosa, comunque, non si rivelò essere una particolare seccatura, perché Remus vinse la sfida dopo esattamente tre secondi, tra sussurri strabiliati di James che suonavano tanto come: ‘sa il fatto suo, davvero un valido avversario’.
 
Un’ora dopo il mondo ondeggiava.
“Ti spiego” Sirius era stravaccato sul divano come se avesse affittato l’intero castello, una mano davanti a sé per rimarcare le parole che avrebbe pronunciato di lì a poco, “se tu bevi un goccio di profumo, poi puoi baciare saporito.”
Remus, dalla poltrona che era sua sia da sobrio che da ubriaco, scosse la testa come se avesse sentito la cosa più stupida sulla faccia della Terra. “James, digli che è fuori di…”
“In realtà potrebbe essere una buona idea!”
Negli effetti dell’alcol, Remus trovava una declinazione di pace dei sensi, Sirius mostrava un’abilità potenziata a spararne di grosse e Peter scopriva uno sconcertante senso dell’umorismo. James invece sembrava che avesse fatto l’uomo cannone al circo e fosse ancora lì per raccontarlo con tanto di occhi spiritati. Forse acquisiva una visione periferica ampia al punto da conquistare un grandangolo, nessuno poteva dirlo.
“Non è una buona idea” ragionò Remus. Ragionò sul serio, perché una parte del suo cervello si attivò per trovare un modo per dare senso a quella proposta. “Mh, forse però se lo bevi e lo sputi…”
“Esatto!” Sirius per poco non saltò sul divano.
“Cosa diavolo… NO!” Peter si intromise, allargando le braccia e soffermandosi con lo sguardo proprio su Remus. “Non bevete il profumo! E lo dico perché so che potreste avere questa conversazione anche da sobri!”
“Pensaci, Pete, darebbe un tocco esotico alla situazione.”
Qualcuno che suonava troppo come Marlene-ubriaca – che era una specie animale diversa da Marlene-sobria – urlò da qualche parte nella Sala Comune. Sirius ignorò la logica di Peter e il caos che si consumava attorno a loro. “Bene, è arrivato il momento di comporre poesie all’impronta” annunciò, come se un orologio avesse potuto confermare la realtà di quell’affermazione.
“Tu hai letto un libro in vita tua” gli ricordò Remus, “non puoi comporre poesie, non sai neanche cosa sia una poesia.”
“Grazie per il tuo incoraggiamento, Remus, ne terremo conto durante la stesura.”
“Hai detto che sono all’impronta. Dov’è l’improvvisazione se esiste una stesura?”
Sirius scambiò un’occhiata seccata con James, poi giunse le mani insieme e cercò di sembrare il più possibile costernato. “Bene, Remus non parteciperà al gioco.”
“Farò da giuria” propose, sollevando un sopracciglio e avvicinando un ultimo sorso di Whiskey alle labbra.
“Mettiamola ai voti” ribatté Sirius all’istante. “Chi vuole che Remus John Lupin, guastafeste e distruttore di sogni, faccia da giudice per il concorso di poesie da cui è stato appena bandito?”
James e Peter non alzarono alcuna mano.
“Mi dispiace, Remus.”
“Noi votiamo per lui!” gridò una voce dal fondo della Sala Comune. Marlene, Dorcas, Alice e Mary avevano le mani alzate e tanta voglia di assistere a un litigio basato sulle correzioni e le critiche di Remus.
“Quattro contro tre.”
“No” Sirius alzò l’indice e sorrise sicuro. “James oggi compie gli anni, il suo voto vale due. Siamo pari.”
“Questa regola non ha senso.”
“Il mio voto vale due, amico” James si strinse nelle spalle come se il ragionamento filasse meglio del formaggio in un buon piatto a cena e lui semplicemente non potesse contestarlo.
“Anch’io voto per Remus.” Frank Paciock, un sorriso divertito e un po’ fuori fuoco, alzò il braccio che non teneva appoggiato sulle spalle di Alice.
James si voltò irritato e gli riservò un’occhiataccia poco bilanciata alla situazione. “Sei sicuro? Ti costerà cinquanta flessioni in più in allenamento.”
Frank si strinse nelle spalle. “Sono pronto a qualunque tortura.”
Remus sorrise sornione. “Il voto di James vale improvvisamente tre o possiamo…”
“Iniziamo” tagliò corto Sirius, perché non era ubriaco al punto di accettare una tale quantità gratuita di umiliazione.

Alla quarta poesia, però, era eccome ubriaco al punto di accettare una quantità gratuita di umiliazione.
“La prossima facciamola in coppia” propose, prendendo James a braccetto e concedendosi un attimo per sbadigliare. “Inizio io. La intitoliamo L’importanza di essere seri.”
Remus alzò gli occhi al cielo. “Credo che l’abbia già detto qualcuno, forse...”
“Allora,” James lo interruppe, il rischio che gli occhi gli saltassero fuori dalle orbite sempre più prossimo a smettere di essere un rischio e trasformarsi in una solida realtà, “la intitoliamo L’importanza di chiamarsi Sirius.”
“Plagio[1]” avvertì Remus e Marlene, ancora appostata dall’altra parte della Sala Comune, ridacchiò. Aver permesso a Remus di giudicare il concorso di poesie campate per aria si stava rivelando la migliore scelta del secolo.
“Guarda che è il compleanno di James” si lamentò Sirius.
Ma James non si curò di una cosa piccola e insignificante come un plagio e andò dritto per la sua strada. “La poesia fa così: Chi beve profumo è pazzo.”
Sirius annuì solenne, prima di accodarsi: “Però credo che tu hai un grande cazzo.”
Remus alzò le braccia come se il dio dell’alcol avesse deciso di farlo martire. “Credo che tu abbia un grande cazzo” lo corresse.
“Grazie per la pubblicità, ma preferirei che non interrompessi la nostra poesia con le tue avances da porco.” Sirius osservò con un angolo della bocca sollevato il lento esasperarsi di Remus Lupin, in contrasto con il suo rapido arrossire in zona orecchie. Peter rise sguaiato. “Prego, James, e scusa la pausa inopportuna.”
“Inammissibile. Dove eravamo?” James si schiarì la voce. Remus lanciò una… cos’era? Una spugna coi baffi di Freddie Mercury addosso a Sirius. “Tre metri di pesce, per la precisione.”
Sirius ridacchiò. “Una renna che suona il trombone.”
“Andiamo, amico, un cervo che suona il trombone,” lo corresse James.
“Hai ragione. Un cervo che suona il trombone.”
James non proseguì il loro capolavoro, perché puntò fisso gli occhi da qualche parte. Forse erano davvero rotolati via dalle orbite.
Amici, è questo il suono lunare dell’amore?” Sirius optò per uno sfogo integrale delle sue doti artistiche. “Sto comprando il giudice con le mie parole.”
“Questa non è una rima, è un’assonanza,” interruppe ancora Remus.
Forse se la piantasse di correggermi le rime,” Sirius sorrise, ingenuo al punto da risultare sospetto, “E invece dicesse ciò che non dice…”
“Un’altra assonanza” ribatté impassibile lui.
Sarebbe il caso che di questa fottuta assonanza” continuò imperturbabile, “ne discutessimo chiusi in una sta…
“Ragazzi.” La voce di Peter non vibrò nell’aria ondeggiante dell’ebbrezza. Ferma e decisa, sbarrò la strada a un’ennesima svolta ripida sul percorso costellato di errori che Sirius e Remus amavano percorrere. Forse fu meglio così.
I ragazzi si guardarono per un
altra coppia di secondi, occhi fuori fuoco e labbra lucide. Era impossibile decidere se a separarli fossero tre centimetri di possibilità o tre chilometri di sentimenti incastrati. Non ebbero tempo per accertarsene.
Come previsto, Sirius distolse lo sguardo per primo.
Era una dinamica strana a cui Remus si era abituato.
Quando si voltarono a fronteggiare il problema che Peter aveva segnalato richiamandoli, capirono perché la conclusione de L’importanza di chiamarsi Sirius fosse stata lasciata nelle mani di un solo poeta.
Fissarono tutti e quattro un angolo della Sala Comune troppo buio per non essere intimo e troppo illuminato per venire considerato nascosto. Lì, nella penombra di una festa quasi giunta alla fine, Dirk Cresswell spostò una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio di Lily Evans.
“Oh, no” Sirius inspirò tra i denti. Dolore fisico.
Lei sorrise. Lui sorrise. Lei abbassò lo sguardo, le sopracciglia aggrottate da un’adorabile confusione. Lui si sporse in avanti. Lei alzò gli occhi di scatto nei suoi e poi li chiuse, perché lui la baciò.
Un orologio meccanico diede l’allarme e Peter, Remus e Sirius si voltarono contemporaneamente a guardare James.
James, al contrario, non si voltò a guardare proprio nessuno. Tenne gli occhi fissi su quel bacio come se questo fosse bastato a disinnescarlo.
Quindi tornarono tutti e quattro a guardare Dirk Cresswell, il modo in cui le sorrise quando lasciò andare le sue labbra, il modo in cui le sfiorò una guancia con il retro della mano e il modo in cui si congedò con parole inudibili e uscì dalla Sala Comune Grifondoro.
James fissò Lily, sola nella penombra di una festa giunta certamente alla fine. Lily non guardò James, ma si portò una mano alle labbra, forse ricordando il tocco di quelle di Dirk Cresswell.
James prese un solo respiro poco rumoroso, poi parlò, in un sussurro appena udibile: “Ho chiuso. Non funzionerà mai.”
Rilassò le spalle come se l’avessero sgonfiato e perse venti lucciole negli occhi. Poi si alzò più sobrio di come si era seduto e guardò i suoi amici. Non sembrava triste, non sembrava stare per piangere, non sembrava aver perso uno spicchio di cuore.
Sembrava normale.
E normale, addosso a James, era terrificante.
“Malandrini” iniziò, un sorriso vispo gli brillò sul viso, ma era luce artificiale, “tutto questo far poesie mi ha messo un gran sonno, quindi credo che andrò a dormire” sgranò gli occhi ironico come riferendosi a una battuta mai condivisa.
“James…” Sirius iniziò, ma fu interrotto.
“Provate a introdurvi nel mio letto e non arriverete a domani. Mi hai sentito?” L’ultima frase la rivolse specificamente a Sirius.
Si guardarono soltanto, poi James lasciò la Sala Comune.
Peter, Remus e Sirius non fiatarono per qualche minuto.
“Quindi James quand’è triste è così?”
Sirius incontrò gli occhi di Remus. Sembrava che un tornado fosse passato sulla sua faccia, il che, nel caso di Sirius, era una rarità. “Non ne ho la più pallida idea. Siamo in territorio sconosciuto.”
“Oh” fu l’unico contributo di Peter alla conversazione. Fissava ancora il punto in cui Lily Evans e Dirk Cresswell si erano baciati.
“Va bene, io direi che andiamo in cucina, prendiamo il soufflè al cioccolato che gli piace e poi ci introduciamo tutti nel suo letto.”
Peter aggrottò la fronte. “Sirius, ha esplicitamente detto che…”
“Andiamo?” domandò incurante dell’avviso di Peter. “Vorrei arrivare prima che inizi a piangere. Sarebbe... patetico” disse. Il tono incerto lasciava supporre che, fino a un attimo prima, avesse avuto in mente un’altra parola.
“Bastardo” commentò Remus, poi si avviò per primo verso il ritratto della Signora Grassa.
A Peter non restò altro da fare che seguirli.
 
In dormitorio la cosa andò più o meno così:
Sirius spalancò la porta decretando che, dopo un attento tour nei suoi ricordi, James nudo fosse mille volte più appetibile di Dirk Cresswell. Il confronto risultò in una ciabatta in testa, ma James accettò il soufflé, la presenza di Remus e Peter e il cane acciambellato addosso a lui.




[1] Storpiatura del titolo della commedia teatrale di Oscar Wilde "L'importanza di chiamarsi Ernesto/L'importanza di essere onesto". Il titolo originale dell'opera è The importance of being earnest, il che rende possibile il gioco di parole sempre dall'inglese con The importance of being Sirius.

Elnotel: Stupidino e leggero, questo capitolo, eh? Allora ci vediamo nel prossimo :)
Adieu,

El.
   
 
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