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Autore: Shiki Ryougi    28/05/2021    0 recensioni
Il cuore conferma,
il sangue prosegue,
il respiro vibra.
«Dove finisce il tuo sogno?» chiese l’ombra.
Sospiri lievi disegnano nuvole di vapore,
il calore si espande,
siamo su di un batuffolo di cotone.
«Dove inizia il nostro dolore» risposi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia ombra
 
Il cuore conferma,
il sangue prosegue,
il respiro vibra.
«Dove finisce il tuo sogno?» chiese l’ombra.
Sospiri lievi disegnano nuvole di vapore,
il calore si espande,
siamo su di un batuffolo di cotone.
«Dove inizia il nostro dolore» risposi.
 
La luna disegnava le sinuose forme delle colline che si stagliavano davanti ai miei occhi.
Me ne stavo distesa sull’erba fresca di rugiada che gocciolava dopo una giornata caratterizzata da una pioggia lenta ma costante. Nel tardo pomeriggio il vento aveva spinto a est le nuvole scure e gonfie, liberando il cielo agli occhi di chi si fosse soffermato ad ammirarlo.
Io amavo l’odore della pioggia misto a quello dell’erba bagnata; sentire gli steli solleticarmi le dita e percepire un brivido di freddo non troppo intenso lungo la schiena erano per me dei toccasana. Mi permettevano di schiarire la mente dai pensieri nebulosi che non mi permettevano di vedere oltre ciò dove la mia malattia voleva rendermi cieca.
Quindi aprivo gli occhi, verso la luna e le stelle, e inspiravo a pieni polmoni, trattenendo poi quella boccata di ossigeno fino a quanto potevo e infine emettevo uno sbuffo rumoroso, per poi ricominciare daccapo. Non volevo pensare a niente, godendomi solo il potere della natura, e come spesso accadeva potevo persino addormentarmi, rischiando di prendermi un malanno. Però quel giorno sarebbe stato differente, non avrei avuto modo di cadere nel mondo dei sogni, perché ciò che vidi mi catturò la mente e il cuore.
Emisi un lento sospiro e poi smisi completamente di respirare. Davanti a me, a debita distanza, seduto e con il corpo delineato dai raggi della luna piena, c’era un enorme cane nero. Se non ci fosse stata la luce lunare non sarei riuscita a vederlo.
Non potevo a muovere un singolo muscolo ma in tanto il battito del cuore accelerava contro la mia volontà, come se volesse dirmi qualcosa. La frase era chiara: “Sei nei guai”.
Lui mi osservava, vedevo i suoi occhi luminosi riflettersi nei miei. Eravamo soli, distanti e ci guardavamo. Avevo l’impressione che potesse scrutarmi fin dentro l’anima. Di certo sapeva che avevo paura mentre lui di me non ne aveva neanche un po’. Lo capivo solo guardandolo che era calmo e posato, come in attesa. Dovevo essere io la prima a muovermi perché lui avrebbe aspettato pazientemente anche per ore. Non riuscivo più a trattenere il respiro, quindi soffiai via l’aria svuotando i polmoni per poi riempirli nuovamente. In quel lasso di tempo strinsi i pugni e, strappando dei fili d’erba, mi tirai su in piedi lentamente. Il cane non mosse un muscolo e di risposta alzò solo lo sguardo per scrutarmi meglio. Tra noi c’erano circa quattro metri: troppo pochi per tentare una fuga, visto che mi avrebbe raggiunto in un batter d’occhio. Cominciai a indietreggiare lentamente, senza distogliere lo sguardo, e lui rimase fermo, sempre a guardarmi con quegli occhi colmi di una strana luce. Non si trattava del riflesso dei raggi lunari, piuttosto irradiavano di energia propria.
Mentre indietreggiavo ero così concentrata a fissare il mio sguardo nel suo che inciampai in una radice e caddi all’indietro. Vidi il mondo capovolgersi e finii a terra; cercai subito il cane ma sembrava scomparso e così, prima che potessi anche solo alzare un braccio per difendermi, lui spuntò da destra, nascosto dietro a dei cespugli e mi azzannò alla gola.
Il dolore lancinante mi attraverso il cranio e l’intero corpo. Tutto si tinse di nero.
 
Un raggio di sole s’infilò nella mia stanza, passando dalla finestra appena aperta e mi svegliò. Con un sobbalzo mi misi a sedere sul letto, osservandomi intorno, incapace di comprendere appieno l’ambiente che mi circondava. La pelle era ricoperta da uno strato di sudore freddo, non causato dalla pensante calura che aveva sostituito la pioggia del giorno prima. Il cuore martellava nel mio petto come se volesse sfondare la cassa toracica e il respiro mi infiammava i polmoni, che a ritmo inesorabile si riempivano e svuotavano. Ero quasi in procinto di avere un attacco di panico e portai istintivamente le mani alla gola, come per assicurarmi che fosse ancora lì, al suo posto e integra.
Nel giro di alcuni interminabili secondi riuscii a riprendere a respirare con più calma e il cuore rallentò la sua corsa. La mente si schiarì, uscendo dallo stato di confusione che l’aveva per imprigionata per quel lasso di tempo. Ero nella mia stanza, nel mio letto e tutto ciò che era avvenuto quella notte si era rivelato essere solo uno strano incubo che sarebbe poi svanito in breve tempo. I dettagli stavano già perdendo i loro contorni, fondendosi con gli altri, in un groviglio di immagini oniriche, sempre più prive di un vero senso logico. Nonostante questo, decisi di controllare lo stato del mio collo allo specchio. Mi alzai dal letto e dopo un leggero sbandamento dovuto alla pressione bassa, potei vedere che ogni cosa era normale; il collo era pallido, come al solito, privo di ferite, ecchimosi e quant’altro. Nulla di ciò che avevo visto era reale. Un incubo, ecco cosa era stato, un sogno strano ma pur sempre un incubo, come ormai ne facevo da anni, quasi ogni notte.
Ovviamente prendevo delle medicine per riuscire a dormire meglio ma avevano solo l’effetto di farmi sentire stordita e perennemente assonata, senza però aiutarmi ad avere dei sonni davvero riposanti; gli incubi si presentavano puntuali, quasi ogni notte, anche se spesso perdevo il ricordo di cosa avevo sognato subito dopo essermi svegliata. Ma la tachicardia, il sudore, l’affanno e l’angoscia, queste cose restavano molto più a lungo, arrivando a rovinarmi intere giornate.
Qualche volta non prendevo i farmaci ma poi, a causa dell’ansia accumulata, ne prendevo una doppia o tripla dose per poter perdere i sensi per qualche ora. Solo in quei momenti riuscivo a non sognare nulla, dormendo per diverse ore di fila. Niente era in grado di svegliarmi. Ma, ugualmente, mi alzavo più assonnata di prima. Quindi non avevo da anni il diritto di riposare come si deve. Ci avevo fatto il callo, andando avanti con le medicine prese in base a come fosse il mio umore e una psicoterapia altalenante e inutile, dove nessuno, dopo anni, era ancora riuscito ad aiutarmi.
Se qualcosa di marcio ti entra nel petto non puoi estrarlo mai più, né con i farmaci né con le belle parole e la buona volontà. È come un seme che s’insinua nella cassa toracica e che con le sue radici, che crescono rapide e forti, ti stringe il cuore in una morsa dolorosa, che alla lunga può anche diventare mortale. Comunemente la gente la chiama “depressione”. Io preferivo definirla come la mia ombra. Non mi lasciava mai ed era sempre pronta a sorridermi ogni volta che la guardavo. Camminavo, correvo e lei mi inseguiva, senza sosta, senza stancarsi mai. Non mi sarei mai liberata di lei ed era giusto così. Sentivo di meritarmi un tormento simile anche se avevo dimenticato il motivo. I medici che mi avevano avuto in cura avevano provato a farmi ricordare ma io non riuscivo ad affacciarmi al di là della preziosa gabbia che mi ero costruita.
Rinchiuse, dietro quelle sbarre dorate, c’eravamo noi. Io e la mia ombra e il tepore che emanavo mi faceva sentire al sicuro. I farmaci davano uno splendido tocco di classe al resto.
 
Cosa potevo fare? Passato la paura, passato il sudore, passato il tremore, era rimasto il nulla. Eravamo soli e potevamo solo sorriderci l’un l’altra.
Strisciando i piedi, mi avvolsi nelle coperte, con in programma di rimanerci per tutta la giornata. La fame sussurrava da un angolo remoto dello stomaco. Chissà da quanto tempo non toccavo cibo… ma non era importante. Ciò che contava era restare immobili, mentre sul pavimento, sotto il letto, il veleno strisciava.
Nero come la pece, esso consuma, cammina e opprime, s’insinua e permane. Duro come il giacchio, freddo e mortale, non puoi combatterlo. Rimane lì.
Veleno che scorre che non riesci a fermare veleno che succhia veleno che morde veleno che uccide veleno che non perdona. Nero come la notte, esso è il ghiaccio del cuore. Nero e freddo. Devi combattere ma… le membra marciscono e cadono a terra, non puoi più camminare. Non ti rimane che strisciare mentre la bocca affoga nel putridume. Senti il cuore sobbalzare e impazzire in battiti furiosi, mentre i polmoni si tingono di veleno, nero.
Succhiando aria pian piano dalla bocca, lasciando gli occhi al di fuori dei lembi del lenzuolo, vidi la luce del sole spostarsi nel suo normale corso della giornata, mentre giacevo tra il sogno e la realtà, dove non ne distinguevo più i confini. Ero perduta, ero sola, ero ignara del dolore di coloro che attendevano il mio risveglio.
Nei momenti più lucidi prendevo delle pillole per annebbiare la mente e smettere di pensare, perché sennò il veleno non mi avrebbe lasciato in pace. Avevo smesso di combattere da tempo, dove le giornate si erano fuse tra loro, dando luogo a un’unica esistenza fatta di sogni e incubi, con qualche barlume di realtà, dove ogni tanto mi nutrivo e andavo in bagno. Solo in alcune notti, di nascosto, uscivo all’aperto, quando tutto taceva, per respirare e immaginare di vivere davvero. Ma rimanevano dei barlumi di luce che, come candele al vento, si spegnevano rapidamente.
 
E fu in piena notte che mi svegliai, in preda agli affanni e sudata. Avevo di nuovo ricevuto visite indesiderate nel sonno, trasformando il mio riposo in un incubo.
Mi alzai velocemente dal letto e andai in bagno, senza accedere nessuna luce e cercando di fare meno rumore possibile. Nessuno doveva sapere che mi ero alzata. Come un’ombra, ritornai in camera dopo essermi sciacquata la faccia, afferrando poi dal comodino il beauty-case, che usavo per tenere le medicine, e inghiottendo tre pillole di sonnifero insieme a un sorso d’acqua. Tornai a letto, sistemai i cuscini e chiusi gli occhi, in attesa dell’effetto degli psicofarmaci.
Forse sarebbe stato meglio leggere un po’, perché ci mettevano sempre un po’ di tempo prima di aiutarmi a piombare in un sonno profondo. Se avessi usato le gocce da lasciare scorrere sotto la lingua avrei ottenuto un effetto immediato, ma il loro sapore mi faceva letteralmente vomitare, quindi bisognava aspettare. Un buon libro era la soluzione migliore.
Accessi la piccola lampada sul comodino e presi uno dei romanzi che vi erano impilati, e mi immersi nel mare di parole e frasi, che come sempre si trasformavano in nitide immagini di sogno.
Il tempo cominciò a scorrere più velocemente e mentre mi lasciavo cullare dalle pagine di quell’appassionante racconto, sentivo le pillole che iniziavano a intorpidirmi i senti, offuscando leggermente la vista e rilasciando la i muscoli della pancia. Lungo tutto il corpo potevo percepire un leggero senso di pesantezza. I movimenti erano rallentati e tutto appariva più semplice; il fiume di pensieri, che di solito mi ottundeva i sensi e affollava la mente, era svanito. C’eravamo solo io e il libro, come dentro una piccola bolla.
 
Non mi accorsi di essermi addormentata, ma quando mi svegliai compresi subito di non trovarmi più nel mio letto. Ero fuori, nei campi incolti vicino a dove abitavo, da sola, a notte fonda. Ero dove il cane mi aveva aggredito. Dentro di me dubitavo fortemente che fosse stato solo un incubo, anche se non avevo prove; niente ferite sul collo e zero ricordi di ciò che era successo dopo.
Gli steli d’erba, mossi dalla leggera brezza, mi facevano il solletico sulle braccia nude; questa volta la luna era coperta dalle nuvole, quindi tutt’intono era molto più buio. Ma io ero comunque in grado di tornare indietro, senza perdermi e senza cadere nei piccoli fossi.
Dentro di me sapevo di essere osservata, potevo percepire il potere di quello sguardo nascosto dalla notte oscura.
Certa di non essere in un incubo, mi alzai, guardandomi intorno, mentre il respiro cominciava ad accelerare. Ero completamente scoperta; tra me e casa c’erano almeno cento metri e correre non sarebbe bastato, anche se ero abile a destreggiarmi nel percorso sconnesso. Solo poco dopo, muovendo il primo passo incerto, mi resi conto di essere scalza. Avevo camminato nel sonno? Perché ero fuori? Qualcuno mi aveva chiamato, mentre dormivo? E io avevo risposto?
Non avevo mai avuto episodi di sonnambulismo, ma questo era palesemente il secondo di seguito. Ma in quel frangente a preoccuparmi c’era un solo pensiero fisso, dovevo scappare, tornare a casa, nel mio letto, prendere altre pillole e dormire, assicurandomi di rimanere a letto, magari legandomi il piede con lenzuolo.
Formulai tanti pensieri, velocemente e senza un nesso logico.
Da cosa sto fuggendo e perché? Ho così tanta paura, ma di cosa? Per la mia vita? Per il dolore che provai al collo?
Il cuore perse un battito e potei percepire le pupille dilatarsi ancor di più, per osservare la fonte di rumore leggero e costante. Il suono di passi sui rami secchi e l’erba incolta. Una figura nera era a poca distanza da me, in qualche modo era riuscita ad avvicinarsi velocemente, senza che io me ne accorgessi. Sembrava impossibile, ma questa era la realtà dei fatti.
Rimasi immobile, in piedi, di fronte al grosso cane nero che la volta scorsa mi aveva azzannato al collo.
«Sai chi sono?» disse, non con la bocca, ma tramite la mente.
Esitai a rispondere; ero intorpidita dal sonno e dalle pillole, troppo stanca per rimanere incredula.
«No, ricordo solo che mi facesti del male».
«Non hai alcuna ferita sul tuo corpo… o almeno, nessuna inferta da me» sussurrò l’animale, con le parole che scivolavano sinuosamente nell’aria, fino a dentro la mia testa.
Mi guardai un attimo le cicatrici che avevo sulle braccia nude, ora con gli avambracci rivolti al cielo. Era possibile scorgerle nitidamente, anche al buio. Dei bianchi sorrisi storti, alcuni ancora rossi e incrostati di sangue e altri pallidi e sfumati.
«Cosa vuoi da me?» dissi, quasi in lacrime. Avrei voluto uccidere quel cane, farlo in tanti piccoli pezzi, Avrei voluto che soffrisse, almeno la metà di quanto soffrivo io ogni giorno.
I morsi, i tagli, i graffi, i pugni, il cibo e le pillole, erano solo fughe dal vero dolore. Erano appagamento malsano per sfuggire alla realtà, per restare sempre nel sogno, lontana dall’incubo della realtà.
«Tu mi hai chiamato, mentre sognavi. E sono venuto, per nutrirmi del tuo dolore. Il cuore conferma, il battito accelera, il sangue scorre, il respiro vibra; tu hai paura, ma soprattutto sei piena di dolore. Ecco, ti ho morso, prima che tu potessi morire.»
«Ma era solo un sogno… anche questo è un sogno!» alzai la voce alla fine, come per convincere anche me stessa. Non ero più certa di nulla, ma l’animale stava dicendo la verità. In quella notte, inconsciamente, silenziosamente, io avevo premeditato di togliermi la vita. Avevo tutto l’occorrente nel marsupio che tenevo con me. Sola, seduta nel campo, sotto la luce della luna, avrei tinto di rosso l’erba.
«Mi hai chiamato, per salvarti. Mi hai evocato, dal profondo del tuo cuore ormai spezzato. Io, azzannandoti, ho portato via la tua ombra.» continuò l’anima, o almeno così decisi di definirmi a quella creatura, perché di terreno non aveva nulla.
«Ma io soffro ancora, faccio incubi orribili… sto così male.»
«Lo so, ecco perché sei di nuovo qui, di fronte a me. Io diventerò la tua nuova ombra e mi nutrirò del tuo dolore, sottraendotelo. A questo punto, saremo entrambe felici.».
Non riuscivo più a pensare. Eravamo l’una di fronte all’altra e ci guardavamo negli occhi, anche se era troppo buio per vederli.
Ciò che mi si presentava davanti era un’occasione troppo allettante. Anni di farmaci, da cui ormai ero dipendente, anni di terapie inutili, anni di nulla. Tutto sarebbe cambiato, anche se ciò avrebbe determinato il perdere me stessa come entità singola.
Non comprendevo appieno la situazione, però sapevo che non sarei più stata io l’artefice della mia vita. Saremo stati Noi.
Mi sedetti con le gambe incrociate, alzai lo sguardo al cielo, non avendo più paura. Respirai a pieni polmoni e buttando fuori l’aria, risposi: «D’accordo. Diventiamo una cosa sola. Tu sarai la mia ombra.»
A quel punto l’anima, senza dire altro, mi saltò addosso e io non opposi resistenza. Mi lasciai azzannare alla gola e, mentre percepivo del liquido caldo e denso scorrermi sulla pelle, persi i sensi.
 
Dove finisce il sogno, inizia il dolore.
Dove inizia l’incubo, sorge il sole
 
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