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Autore: KaienPhantomhive    29/05/2021    1 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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14.

 

Fango

 

 

All’alba del giorno seguente, il mattino salutò con addolorato rispetto la città martoriata di Varsavia.

Molte anime fortunate uscirono dalla veglia durata tutta la notte, riprendendo a vivere, mentre molte altre piangevano i dispersi di del giorno prima sgretolatosi in morte.

Quando il plotone di soccorso irruppe nel nascondiglio dal quale Nataša non aveva avuto il coraggio di allontanarsi, gli uomini dai caschi oscurati la raccolsero, la coprirono con coperte termiche e la condussero sull’elicottero militare con la promessa di riportarla in patria. Non le concessero risposte a nessuna delle domande che pose loro. Né chi fossero, né come avevano fatto a trovarla, né tantomeno cosa significasse la scritta ‘ECHELON’ sotto il logo delle divise: un cerchio a circuiti stampati, con una ‘E’ stilizzata a formare una specie di occhio.

Mentre l’elicottero si innalzava oltre le cime dei palazzi, Nat non ebbe la forza di guardare la desolazione che si estendeva al di sotto e alla quale lei stessa aveva contribuito.

 

*   *   *

 

Ore 14:00.

Clinica militare di Mosca.

 

Nat lasciò l’ambulatorio a piccoli passi, avvolta ancora nella coperta termica che doveva riscaldarla da un freddo che sembrava non volerla più abbandonare. Nella sala d’attesa dell’ospedale – un luogo che ormai iniziava a essere meta fissa – i suoi familiari le vennero incontro per abbracciarla. Sua madre e suo fratello, che non smetteva mai di ringraziare abbastanza per esserle sempre al fianco, e questa volta anche suo padre. Non l’aveva privata della sua presenza come l’ultima volta; ora era lì, per dimostrarle che l’avrebbe protetta, che avrebbero affrontato insieme come una famiglia anche gli orrori della guerra.

Nat si lasciò sprofondare nell’abbraccio di sua madre, piangendo forte a singhiozzi.

“È tutto finito.” – lei l’accarezzò con dolcezza, trattenendo a sua volta un pianto che le costava davvero molto non liberare – “Ora sei con noi, sei a casa.”

Quando ritrovò fiato per respirare, Nat si scostò appena verso suo padre: aveva un volto strano, che non sapeva decifrare. Sembrava crucciato, per nulla sollevato, forse persino deluso…ma nei suoi occhi e nelle rughe che gli solcavano la fronte si leggevano profondo amore e compassione. Lo fissò per un istante e poi lo strinse forte, affondando il viso nel suo forte torace coperto dalla camicia diplomatica che profumava di canfora.

“Sono qui, tesoro mio. Sono qui.” – mormorò lui, chiudendo gli occhi per assaporare quel momento; le regalò un bacio sulla nuca – “Te lo avevo promesso che non ti sarebbe successo nulla.”

L’aveva trovata, l’aveva salvata. Lei non sapeva come c’era riuscito ma era andata così. Quell’uomo era davvero grandioso, era un vero leader e un padre meraviglioso. L’aveva sempre amato moltissimo e si sentì una vigliacca nel pensare che aveva anche solamente osato dubitare di lui. Quando poi si scollò anche da lui si mise a sedere su una poltroncina e guardò verso il fondo del corridoio. Eccolo là. C’era anche lui. Non poteva crederci, le sembrava un sogno. Non era nemmeno sicura che fosse sopravvissuto e vederlo a pochi metri da lei le fece avere un sobbalzo al cuore talmente forte da non riuscire nemmeno a distinguere la gioia dalla tristezza. Gli occhi di Miša si ravvivarono come accesi da un faro e accelerò il passo fino a raggiungerla; lei si alzò appena ma le braccia di lui le erano già intorno.

“Nat!” – esclamò serrandola in un abbraccio dove stava scaricando tutta la paura provata in quelle ore – “Grazie…oh Dio, grazie.”

“Miša…Miša!” – ricambiò il gesto, premendo le mani contro la sua schiena forte e poggiando il mento sulla sua spalla. Non riusciva a fare altro che ripetere il suo nome, la paura di non esserne più in grado era stata talmente grande che ora voleva pronunciarlo fino a convincersi di non stare sognando.

“Io…non hai idea della paura che ho avuto.” – che bello poter poggiare la propria guancia sui capelli dell’amica, sapere di poter stringere il suo corpo ancora pulsante di vita – “Non dovevo lasciarti. Non volevo.”

“Mi dispiace…mi dispiace…” – disse poi lei, tra calde e amare lacrime che le scendevano copiose, mentre voleva sprofondare sempre di più nel corpo del suo amico.

“No, non devi.” – la rassicurò lui, scuotendo la testa – “Non hai nessuna colpa. Ora è tutto a posto, ok?”

Ma non lo era.

Lei lo sentiva dentro, l’indicibile segreto di cui si era macchiata. Le dispiaceva del casino combinato, le dispiaceva di aver messo tutti in ansia ma più di tutto le dispiaceva – anzi la faceva inorridire – ciò che aveva fatto: concedere le proprie labbra a Zeitland Dietrich. Non aveva mai baciato alcun uomo prima d’ora e Miša non era mai stato un serio oggetto di desiderio ma si rese conto che dopo tutto il bene fatto, dopo tutti gli anni spesi assieme, dopo tutto ciò che li aveva uniti forse avrebbe dovuto essere lui il suo primo ragazzo. Aveva sempre immaginato il suo primo bacio sotto un albero in un pomeriggio caldo, o magari sfiorati da una leggera neve di quegli inverni rari nell’eterno surriscaldamento globale del 2050. Aveva sempre sognato che il primo bacio tanto difficile da strapparle avesse avuto il sapore delle ciliegie o il profumo del vischio. Qualcosa di speciale, insomma. Invece il suo primo gesto d’amore fisico sarebbe per sempre rimasto nella sua memoria come un’esperienza stordente, surreale e consumata nella sporcizia di un pavimento ammuffito tra irrefrenabili ondate di un trasporto ferino. Con un Nazista. Era disgustoso a pensarci, ma le aveva dato un incredibile piacere, sul momento. Pensò di essere davvero una figlia degenere e un’amica indegna e si sentiva imbrattata di una vergogna inconfessabile, come se nuotasse nel fango.

“Sono stata sporcata…” – le venne da gemere disperatamente, piantando le dita nella schiena di Miša, per non lasciarlo andare – “…sono stata sporcata!”

 

*   *   *

 

Stesso giorno. Settore-12; Golgotha.

 

Guten Tag, mein Oberstleutenant!”

Zeitland fu accolto da un dottor Schultz particolarmente di buon umore – “Ho saputo dell’ultima vittoria sulla Terra. Niente di meno, dallo Schwarz Ritter del Quarto Reich.”

“La ringrazio.” – e si sedette al tavolo dell’ambulatorio.

Schultz prese la solita cartellina per il check-up periodico: “Dopo un risultato del genere il nostro piccolo appuntamento è solo una formalità. Cercherò di fare in fretta.”

Come da rito, le prime due domande attennero alla forma fisica e psicologica in cui versava il suo interlocutore, che rispose positivamente senza tentennamenti. Poi venne la terza: “Ha avvertito bisogni sessuali nell’ultima settimana?”

Zeitland ne rimase interdetto.

“Questa domanda viene dopo, di solito.” – si tirò indietro sulla sedia, come se improvvisamente nulla quadrasse più.

“Non si preoccupi.” – Schultz sventolò una mano e sfoggiò il più conciliante dei suoi sorrisi pronti. – “Risponda alla domanda.”

Il giovane gerarca rivide nella sua mente la scena consumatasi nella cantina di Varsavia e, guardando il proprio riflesso sulle lenti degli occhiali di Schultz, avvertì un indescrivibile senso di allerta.

“Nessuno.” – rispose dopo qualche secondo.

Gut. E…” – il medico annotò la risposta, scorse la lista di domande sulla sua tabella e poi chiese ancora – “…sente il bisogno di ricorrere a una dose di NBZD?”

Un’altra domanda anticipata.

“Non capisco davvero perché sta-”

“Si limiti a rispondere, per favore.”

Di nuovo, Zeit non poté replicare prima di un paio di secondi: “No. Non mi serve. Grazie.”

E Schultz si premurò di aggiungere un altro sorriso: “Ottimo.”

 

*   *   *

 

Poco dopo, Zeitland contemplava la volta stellata da sotto i vetri della cupola geodetica che copriva la serra privata dei Ratsmiglieders. L’odore penetrante dei roseti artificiali blu e neri gli riempiva le narici. Abbandonatosi su un divano – la giacca sbottonata e la cravatta allentata – si era dato all’attività che più lo distingueva: l’elucubrazione in solitudine.

Quella visita psicoattitudinale lo aveva messo a disagio, per la prima volto dopo moltissimo tempo. Aveva fatto bene a mentire? E prima ancora: aveva mentito? Un bacio non-del-tutto-consensuale si poteva considerare desiderio sessuale? Non aveva mai baciato una donna. Non ci aveva nemmeno mai pesato, in realtà. Così preso dall’essere il migliore, così rinchiuso nei rituali di sopravvivenza della vita sulla colonia lunare, che non si era mai posto il problema di cos’altro potesse desiderare il suo corpo o il suo spirito. Sapeva solo di essere un figlio della Luna, nato in un popolo cacciato dal proprio pianeta d’origine. Erano loro le vittime, non i terrestri! Avrebbero avuto la vendetta che meritavano! A lui bastava andare avanti con questa convinzione. Ma adesso, dopo essersi sentito strappato in due tra le voglia di uccidere la pilota della Machine nera e quella di farla sua, iniziava a chiedersi di cos’altro sarebbe stato capace. Era lei la ragazza di cui sempre parlava Arya? Perché proprio lei, tra le infinite casualità della vita, aveva dovuto incrociare la sua strada?

 

“Ma guarda chi si vede.” – la voce di Adler Jung ruppe il silenzio – “È permesso?”

Ma il permesso se lo era già preso, seguito dalla sagoma più minuta di Helena Heathfield.

“A che ora il ‘bel principe addormentato’ ritiene opportuno alzarsi?” – chiese lei, aggirandolo.

Uno sbuffo spazientito fu l’unica risposta che ricevette. Helena si divertì ad avvicinarsi a passi leggeri e con una mezza giravolta si sedette sul bracciolo del sofà, accavallando una gamba: “Per essere uno che ha appena aggiunto un Paese al nostro Asse non sembri molto felice. È successo qualcosa, laggiù?”

“No. Nulla.” – nel giro di mezza giornata aveva imparato bene a mentire senza suonare innaturale.

“Nemmeno quando sei stato sconfitto sembravi così di pessimo umore.” – insistette lei, davanti a quell’atteggiamento incomprensibile – “Sei certo che non ci sia niente che dovremmo sapere? Siamo i tuoi compagni di squadra. Potremmo aiutarti, se parli.”

Era sinceramente preoccupata per lui, ma la sua voce suonava sempre troppo petulante e sempre troppo poco empatica.

“Ho detto che non c’è nulla di cui parlare.” – Zeit capì che il suo ritiro meditativo era finito e si alzò, ricomponendosi.

“Non insistere, Helena. È chiaro che il nostro amico vuole restare un po’ con i suoi pensieri.” – la frenò Adler, ma intanto sogghignava intrigato – “Ad ogni modo, Zeitland, perfino Albrecht e il Kaiser sono rimasti molto colpiti dal tuo lavoro. Fossi in te ne sarei lieto.”

“Ovvio che lo sia.”

Era ormai quasi fuori dalla serra, quando la voce allegra del suo collega lo raggiunse: “Tienici aggiornati, eh!”

Quella frase suonò più come una minaccia che una richiesta.

 

*   *   *

 

Giorno seguente. Ore 9:00.

Quartier Generale del Corpo di Difesa Nazionale Russo (pista di decollo).

 

L’aria tremava e ondeggiava come un fluido, sotto il calore dei repulsori verticali dell’enorme apparecchio militare- un Tupolev Tu-95NZ quadrimotore – dai quasi sessanta metri di apertura alare. Si stava sollevando dal suolo molto lentamente, la gabbia metallica sulla quale Freya era stata ancorata con spessi tiranti.

Il Presidente Novikov osservava la scena direttamente dalla pista, il soprabito nero scosso dal vento. Si voltò verso i due uomini alle sue spalle

 

Una macchina di servizio si era fermata al margine della pista e Natasha Novikov ne era uscita in tutta.

“Che cosa sta succedendo?!” – chiese a voce molto alta, cercando di sovrastare il frastuono prodotto dall’aereo.

A pochi metri da lei, suo padre stava finendo di stringere le mani di altri due uomini in soprabiti scuri: uno dei due era di certo asiatico, l’altro sarebbe potuto provenire da qualunque altra parte del mondo occidentale. Accortisi dei lei, si scambiarono un ultimo cenno di assenso con Novikov e si congedarono, oltrepassandola. Prima che fossero troppo distanti, Nat riuscì a scorgere un paio di loghi, rispettivamente sul tesserino plastificato appuntato sull’impermeabile dell’asiatico e sulla ventiquattrore del caucasico: SEONG-WANG ELECTRONICS e REINFOLD HEAVY INDUSTRIES. Corea e America? Forse.

“La prendono in custodia.” – suo padre la guardò duramente; il tono era calmo ma anche lui doveva sforzarsi per farsi udire – “Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha reputato le sWARd Machines ‘non idonee alla difesa internazionale’. La sigilleranno fino a nuovo ordine.”

“Ma non possono!” –si oppose lei, ma preferì attendere che l’aereo fosse alto nel cielo terso e che il suo rombo si fosse affievolito prima di riprendere – “Non possono privarcene così, come faremo ora a difenderci?!”

“Il nostro Paese si arrangerà come può.”

“Non puoi permettere che me la portino via!”

Quelle parole sorpresero profondamente Novikov, ma provò a mantenere il suo distacco: “Da quando hai iniziato a considerarla come una tua proprietà?”

Nat non si era nemmeno resa conto di ciò che aveva appena detto.

Avrebbe voluto replicare, ma sapere che i suoi stessi sentimenti riguardo quella storia si erano contraddetti da soli la fecero tacere.

Suo padre parlò per lei: “Con un po’ di fortuna i Paesi alleati potrebbero sviluppare delle nuove Unità da affidare a soldati professionisti. La guerra non deve essere una faccenda personale. Ringrazia il Cielo per potertene tenere lontana, almeno per adesso.”

Le stava dicendo che avrebbe combattuto ancora. E ancora e poi ancora, fino a quando lei o i suoi nemici non sarebbero stati più in grado. Le andava bene, ormai. Aveva rinunciato all’idea di poter vivere in serenità quindi quella breve pausa che le si prospettava sarebbe solo stata un’occasione per meditare su quanto accaduto.

Quei mostri la stavano cambiando, rovinando la vita e costringendo a fare cose terribili che per sempre le avrebbero marchiato a fuoco i suoi incubi. Doveva combattere per uscire da quell’inferno. Avrebbe atteso per la prossima occasione. Avrebbe atteso per quando sarebbe stata più forte e allora avrebbe avuto la sua rivincita.

 

*   *   *

 

Sala del ‘Mond-Rat’. Settore-1. Stessa Base.

 

La seduta straordinaria di quel giorno aveva acceso un’aria di trepidazione tra i membri del Consiglio Lunare. Come sempre la stella a sette punte mancava di un trono, che ora era tenuto d’occhio con crescente interesse.

“Vi porto grandi notizie, Membri del Consiglio!” – esordì il Kaiser – “Dopo mesi di ricerche, la Commissione di Ritrovamento delle Machines ha individuato il luogo di sepoltura del Drago delle Maree!”

Compiaciuta del suo operato, Katrina Winter lanciò un’occhiata verso il condotto d’ingresso dell’ultimo seggio: la settima colonna di marmo bianco stava emergendo emerse dal baratro sottostante, fermandosi poco sopra la piattaforma centrale. Qualcuno scese. Risuonarono i passi di tacchi neri e stivali di pelle blu. Dei pantaloni aderenti e gessati sotto una giacca barocca color blu cobalto e dai polsini a sbuffo. Rose grigie appuntate sui rever assieme a catenine dai decori marini. Un piccolo strascico di morbidi nastri pieghettati dello stesso tessuto dei pantaloni, fissato con dei bottoni sulle code della giacca, ondeggiava a ogni passo. Una mascherina dorata a ricami blu nascondeva gli occhi e gli zigomi di un piccolo volto contorniato da corti capelli neri dalle punte turchesi.

Quella figura si fermò al centro della stella: era minuto come potrebbe esserlo un ragazzino, e nemmeno molto alto, ma nessuno lo guardò con sufficienza. Se il Kaiser voleva la sua presenza significava che quel tipo doveva essere molto speciale.

“Diamo il benvenuto all’ultimo membro del nostro Consiglio e nuovo pilota della Divisione Marine Klee. Il Quarto Soggetto Qualificato, il Meister del Drago delle Maree! Accogliamo...Ninagal!”

 

   
 
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