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Autore: Adeia Di Elferas    29/05/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca ascoltava in silenzio il suono del proprio respiro, ora lento e tranquillo, e quello di Troilo, leggero e cadenzato. Sapeva che ormai il tempo stringeva, eppure non poteva evitare di restargli vicina, una mano allargata sul suo petto ampio e coperto da fitti, ma sottili peli rossicci, e la testa appoggiata alla sua spalla, come fosse un cuscino.

Anche il De Rossi non pareva intenzionato a spostarsi, benché fosse conscio anche più della Riario di quanto poco tempo, ormai, restasse loro. Se avesse fatto finta di non accorgersi dei minuti che scorrevano via, alla fine qualcuno sarebbe andato a cercarlo, e non era da escludere che alla fine l'avrebbero trovato e tutto voleva fuorché farsi pescare nel letto della figlia della Tigre di Forlì.

Prima di tutto, avrebbe messo in difficoltà Bianca, e in secondo luogo, si trattava di qualcosa di così personale e importante che non avrebbe sopportato che qualcun altro ci infilasse il naso e potesse spettegolarne.

“Devo andare...” sospirò quindi, muovendosi appena.

Con una reazione pronta e quasi felina, la giovane lo frenò, cercando le sue labbra e baciandole, per poi dire: “Aspetta ancora un momento...”

Man mano che rispondeva ai suoi baci, Troilo sentiva venir meno la volontà di fare il suo dovere e lasciare quella stanza. Avrebbe voluto poter semplicemente restare lì dov'era, senza che nessuno lo cercasse o lo riprendesse per quello che aveva fatto. Sentiva il calore della pelle liscia della Riario contro la sua, il suo sapore e non voleva privarsene.

Il sole di fine agosto entrava dalla finestra quasi con rabbia, come a volerlo scacciare in fretta, ricordandogli che la donna che stringeva a sé era la figlia della Tigre di Forlì, una protetta, per non dire un mezzo ostaggio, del re di Francia, e che fuori da quella villa, l'attendeva la sua vita, i suoi doveri e tutte le persone che, bene o male, dipendevano da lui.

In realtà anche Bianca sentiva il tempo farsi stretto. Non voleva che qualcuno la trovasse lì con il De Rossi, specie sua madre che, per ovvi motivi, non sembrava vedere troppo di buon occhio un uomo che era per lei la personificazione del giogo francese.

Avevano strappato un'ora a tutto quanto, tenendola per loro stessi, e forse era l'unica cosa che avrebbero mai ottenuto. Anche quella consapevolezza li portava a restare incollati l'una all'altro a quel modo.

Bianca non riusciva ancora a credere di essersi presa quel che voleva. Le sembrava ancora irreale, e per quanto la solidità del corpo dell'emiliano fosse sufficiente per farle capire che non stava sognando, non poteva evitare di domandarsi con insistenza se davvero si fossero amati in modo tanto travolgente e improvviso come avevano fatto.

“Adesso devo andare.” ripeté Troilo, smettendo di baciarla e provando quasi un dolore fisico nel provare a scostarsi da lei.

Questa volta, capendo che il De Rossi aveva ragione, la ragazza si arrese e lo lasciò scivolare via dal suo abbraccio. Senza provare la minima vergogna, l'uomo lasciò il letto, e si lasciò guardare, mentre recuperava i propri abiti e si vestiva.

Se la giovane teneva gli occhi blu puntati su di lui, studiandolo nei più piccoli dettagli, nella speranza di ricordarsi ogni minima cosa di lui, Troilo di quando in quando le lanciava un'occhiata, cercando di fermare a sua volta nelle mente quell'immagine impagabile. Nel ripensare, ancora confusamente, a quello che era appena successo, l'emiliano si scoprì a sorridere da solo. La donna che aveva stretto tra le braccia, si diceva, era tutto fuorché una ragazzina. Era decisa, sensuale, sapeva alla perfezione cosa fare e come... E lui ne era rimasto totalmente avvinto.

Ormai l'uomo si era infilato le brache e la camicia, e si stava sistemando meglio il giubbetto quando, colto da un'urgenza improvvisa, si voltò verso la Riario e le disse, con una serietà che le mise quasi paura: “Penserò a te tutti i giorni. Tutte le notti.”

Bianca non rispose, abbassando appena lo sguardo. Il lenzuolo la celava solo in parte, lasciando libera anche una gamba, ma la giovane sembrava non sentire il bisogno di coprirsi di più. Troilo ne seguì le curve generose e fresche, la linea gentile del polpaccio e quella più decisa della coscia e poi ne indagò il viso, cercando una spiegazione a quel silenzio.

“Ti prego – soffiò, accorato, avvicinandosi al letto – dimmi che non finisce qui.”

“Non so nemmeno se tornerai...” ribatté lei, mostrando, per la prima volta quella mattina, un'incertezza e un timore che la facevano tornare a essere la diciannovenne che era.

“Farò tutto quello che posso per tornare qui.” promise lui, sedendolesi accanto e stringendola a sé per qualche istante.

“Ma starai attento...” lo pregò lei, deglutendo: “Non voglio che mia madre finisca in qualche pasticcio per colpa mia.”

“E in che pasticcio potrebbe finire?” si informò lui, accigliandosi.

“Se pensassero che noi due siamo amanti, insomma, se lo sapesse qualcuno, potrebbero credere che tra te e mia madre ci sia qualche tipo di accordo e... Non lo so.” fece lei, sollevando una spalla.

Troilo capiva la sua ansia. Non sarebbe stato assurdo se i francesi, scoperta quella relazione, avessero impedito a lui di occuparsi di nuovo della questione e, anzi, avessero accusato Caterina di aver in qualche modo corrotto uno dei suoi custodi offrendogli la figlia. Sulla Leonessa di Romagna, in fondo, si era detto tutto e il contrario di tutto: perché non credere anche a una cosa simile?

“Faremo tutto con attenzione.” dichiarò lui, e poi, dando un rapido bacio a Bianca, ribadì, per la terza volta: “Adesso devo andare.” e si alzò dal letto.

“Stai attento.” si raccomandò lei, per poi alzarsi a sua volta e seguirlo fino alla porta, la pelle che si accapponava appena, malgrado facesse caldo: “Verrò anche io a salutarti, fuori...”

Il De Rossi fece un cenno d'assenso con il capo e poi, dopo che la ragazza gli ebbe ravviato i capelli rossicci con la mano, in un gesto affettuoso che sembrò a entrambi il più naturale possibile, le diede ancora un bacio, che aveva il sapore di un arrivederci, più che di un addio.

La Riario fece molta fatica a lasciarlo andare, ma alla fine lo fece. Attese di vederlo uscire e poi si vestì a sua volta. Doveva ricomporsi, prima di uscire dalla propria camera, e doveva anche trovare un modo per non tradirsi, quando l'avesse salutato, assieme agli altri, fuori dalla villa.

Soprappensiero, si sedette un momento alla piccola scrivania che stava accanto alla finestra. Prese da uno dei cassetti la boccetta di pozione concentrata che sorbiva ormai da giorni con regolarità, forse proprio nella speranza di poter ottenere quel genere di incontro con Troilo. Si preparò la dose del giorno e la bevve.

Le scappò un sorriso, quando si ricordò di come avesse informato il De Rossi della sua premura, e di come lui si fosse sorpreso del fatto che esistesse davvero una pozione in grado di scongiurare le gravidanze indesiderate. Bianca aveva fatto presente che sua madre Caterina aveva saputo anche creare una pozione in grado di far dormire un uomo tanto profondamente da farlo sembrare quasi morto, affinché un cerusico potesse operarlo senza causargli dolore, ma quella notizia aveva comunque impressionato l'uomo meno rispetto alla prima.

Si asciugò i lati della bocca con il dorso della mano, e poi, lentamente, si avviò al letto e gli diede una sistemata. Passò con delicatezza le mani sul guanciale su cui Troilo aveva lasciato la sua impronta e poi cedette anche alla tentazione di annusare le lenzuola, per imprimere una volta di più il ricordo del loro odore nella sua mente.

Era in uno stato emotivo molto strano. Da un lato si sentiva all'apice della gioia, perché sentiva, nel profondo, che il De Rossi non era un uomo come tutti gli altri, non per lei, almeno. Dall'altro lato, invece, si trovava sul baratro della disperazione, perché era ben conscia del fatto che forse non l'avrebbe davvero rivisto mai più.

Sospirò più e più volte e, alla fine, non potendo far altro, uscì dalla camera, e, mostrando una certa disinvoltura, andò verso l'ingresso della villa, già pronta a dire addio – sperando che non fosse per sempre – all'uomo che amava.

 

Caterina teneva in braccio Giovannino che, benché ormai già abbastanza pesante, non aveva sentito ragioni e si era aggrappato al suo collo finché la madre non aveva ceduto e se l'era stretto a sé. Gli altri figli della Tigre erano al suo fianco, Galeazzo in primis, e in ultimo era schierato anche frate Lauro.

Troilo era appena montato a cavallo, dopo aver controllato che i propri bagagli fossero ben assicurati alla sella. Aveva spiegato alla Leonessa di come probabilmente gli altri francesi che l'avrebbe accompagnato lo stessero già attendendo al limitare di Firenze e aggiunse che avrebbe fatto meglio a partire all'istante, prima che ai soldati fosse venuto in mente di andarlo a cercare.

“Non voglio turbare la vostra tranquillità oltre.” disse, chinando il capo in segno di rispetto verso la donna: “Ho già disturbato io a sufficienza. Ora non siete una prigioniera: meritate di essere lasciata in pace.”

La Sforza rimase un po' sorpresa da tutta quella gentilezza, che sembrava genuina, ma dovette anche ammettere con se stessa che il De Rossi, in tutto il suo soggiorno, non era mai stato con lei né sgarbato, né invadente né tanto meno autoritario.

L'uomo si raddrizzò in sella e poi, in modo molto formale, salutò tutti i figli della Tigre. Caterina notò come Troilo si fosse soffermato qualche istante di più nel porgere i suoi omaggi a Bianca. Vide anche lo strano gioco di sguardi che intercorse tra i due, e il modo repentino in cui la figlia arrossì e l'uomo deglutì, trattenendo con difficoltà un sorriso.

Per una frazione di secondo, la donna si domandò se ci fosse qualcosa, sotto a tutti quei messaggi silenziosi, ma poi scartò l'idea: l'ipotesi più verosimile era che il De Rossi, uomo maturo, più o meno suo coetaneo, trovasse Bianca, una giovane donna di nemmeno vent'anni, gradevole e che, parimenti, Bianca trovasse lui interessante. Tutto sommato, Troilo non era affatto un brutto uomo, e la ragazza aveva passato molto tempo lontano dal mondo, stando in convento mesi, per non provare per lui anche solo un vago interesse.

Qualsiasi cosa che andasse oltre a quello, secondo la Tigre, andava evitato, specie in quel momento. Sua figlia aveva una situazione molto delicata e se si fosse compromessa, anche solo a parole, con un uomo di re Luigi...

“Vi ricorderò nelle mie preghiere. Ogni notte.” salutò infine il De Rossi, con un inchino plateale che non gli fece perdere l'equilibrio in sella solo in virtù delle sue abilità da cavallerizzo.

Non appena aveva risollevato la testa, l'uomo aveva cercato di nuovo lo sguardo di Bianca, ma quella volta la Sforza non se ne avvide, perché Giovannino, reso un po' insofferente forse dal sole che li colpiva appieno, aveva cominciato a protestare. Anche tutti gli altri presenti, chi per un motivo, chi per l'altro, si erano persi quell'occhiata.

Solo la Riario aveva colto quell'attenzione e, non potendo esprimersi a parole, aveva solo fatto un cenno, in modo tale che lui capisse, e aveva pensato, più forte che poteva, come se così anche Troilo potesse sentirla: 'Anche io penserò a te ogni notte'.

Con il fiato che gli mancava nel petto, mentre faceva di tutto per non ripensare alle voce piena di Bianca, alle sue mani giovani, ma decise, al suo seno pieno e al modo in cui l'aveva tenuto stretto a sé, come se non esistesse altro al mondo, il De Rossi strinse le labbra e poi, dando di speroni al cavallo, lasciò la villa di Castello, giurandosi che ci sarebbe tornato e che l'avrebbe fatto presto.

 

Alessandro VI, le sopracciglia sollevate in un'espressione di distaccata sorpresa, ripiegò con calma la missiva appena arrivata da Napoli.

Giovanni Tommaso Carafa era stato gentile a informarlo con tanta solerzia della morte di Giovan Francesco Sanseverino, sopraggiunta, così si diceva, il 2 settembre. La staffetta era stata velocissima: ci aveva messo un paio di giorni appena, per raggiungere Roma... Probabilmente il Conte di Maddaloni – perché ormai il suo titolo era al sicuro – aveva sborsato una bella cifra, per avere un servizio del genere.

Rodrigo si appoggiò con pesantezza allo schienale del suo scranno e puntò per un istante gli occhi verso le fiammelle delle candele. Rimase così finché la luce troppo diretta non gli rese impossibile vedere altro e così poi dovette attendere qualche minuto, prima di riacquistare una vista normale.

L'unica cosa che stonava, per lui, in quella lettera, era l'inciso con cui Carafa faceva presente che il corpo del defunto condottiero sarebbe stato trasportato il prima possibile a Roma, affinché, come desiderato anche da Giulia Sanseverino, moglie dello scrivente e sorella del morto, venisse tumulato in Santa Maria del Popolo, in rispetto al suo valore.

Chiaramente il Borja avrebbe preferito scansare quell'incomodo, ma non aveva alcuna voglia di scatenare un malinteso solo per colpa della sua pigrizia. Inoltre, il corpo di Giovan Francesco non era l'unico bagaglio scomodo in arrivo dalla città partenopea...

Sapeva che suo figlio Cesare sarebbe tornato a Roma nel giro di pochi giorni, gliene aveva dato annuncio da un po' di tempo. Non gli aveva chiesto il permesso: gli aveva proprio mandato una semplice notifica di una decisione già presa.

Quell'arroganza di fondo che aveva sempre contraddistinto Cesare lo atterriva, invece di farlo infuriare. Era come se un bambino difficile da tenere a bada si fosse trasformato da un giorno all'altro in un uomo capace di tutto, e il pontefice aveva il terrore di scoprirsi incapace di gestirlo.

Benché fosse già sera e negli appartamenti di Alessandro VI le candele fossero accese da parecchio, fuori, su Roma, il sole morente gettava ancora una luce rossastra e slavata, tipica di un tramonto di fine estate, o, ancor meglio, di inizio autunno.

Il papa, avvicinatosi alla finestra, guardò l'orizzonte e si chiese come doveva sentirsi, il sole, ogni sera, quando cedeva il suo trono a qualcun altro... A intuito, poteva dire che a lui non sarebbe piaciuta affatto, come sensazione.

L'uomo si stava lasciando scivolare in pensieri che gli piacevano via via sempre meno, fin quando non sentì bussare alla sua porta.

Un po' irritato per quell'interruzione, ma anche sollevato, perché la sua mente gli stava mostrando scenari che iniziavano seriamente a spaventarlo, il papa si voltò verso l'uscio e chiese, con una specie di ringhio: “Che c'è?!”

Quando il cubicolare che aveva bussato finalmente entrò, Rodrigo era già sul piede di guerra, e stava borbottando qualcosa sul fatto che il Santo Padre, in quanto tale, andava disturbato solo ed esclusivamente in caso di gravissima necessità. Al che, l'altro, allargando un po' le braccia e poi giungendo le mani sul petto, come in preghiera, gli assicurò che così era e che se l'aveva disturbato era stato solo per obbedire a un suo espresso ordine.

“Sono arrivati i documenti?” chiese allora il Borja.

“Sì, è appena arrivato il messo da Belfiore, con il contratto di matrimonio di Madonna Lucrecia controfirmato dagli Este.” confermò il cubicolare, con un sorriso.

Era stata tanta e tale la pena che il pontefice si era dato per quelle trattative, che fino all'ultimo gli erano parse appese a un filo, che la sua prima reazione fu un attonito silenzio, e poi, come in uno scoppio improvviso, si mise a ridere di gusto e si abbandonò a un paio di volgarissime esternazioni di sollievo.

“Adesso voglio vedere questo benedetto messo!” esclamò Rodrigo, dando una manata sulla spalla del domestico: “Dov'è? Dimmelo! Devo vederlo e rallegrarmi assieme a lui!”

“Ma io credo che il messo sia stanco morto...” provò a tamponare l'altro, che si spaventava sempre un po', davanti agli improvvisi cambi d'umore del papa.

“Stanco morto, va bene, ma è vivo, quindi lo posso vedere!” continuò per la sua strada il Borja: “E nel mentre – soggiunse, come se ci avesse appena pensato – voglio che si facciano sparare bombarde, cannoni e tutto quanto! Voglio che si facciano spari e fuochi come il giorno della mie elezione!”

“Ma Santità...” cercò di farlo ragionare il cubicolare: “Sta scendendo la notte, il popolo di Roma potrebbe spaventarsene...”

“E invece che se ne rallegrino!” sbottò Alessandro VI, abbandonando per un solo istante il radioso sorriso che lo stava facendo diventare paonazzo: “E che si avvisi mia figlia, che anche lei è stata tanto in pena... Che sappia che ormai è sulla via più diretta per diventare Duchessa di Ferrara!”

 

“Che cosa sono?” chiese Caterina, guardando le due missive che frate Lauro le aveva appena messo davanti al naso.

“Sono lettere...” rispose lui, pleonastico, ben sapendo, comunque, che non era quello il senso della domanda della Tigre.

La Sforza si era svegliata prestissimo, quel giorno. Si era sottratta a degli incubi tremendi che l'avevano riportata dapprima tra le grinfie di Girolamo Riario, poi nelle segrete di Castel Sant'Angelo e infine tra le spire viscide di Cesare Borja. Quando aveva lasciato il suo letto, umido di sudore, non aveva potuto far altro che cambiarsi e poi lasciare la sua stanza, cercando qualcosa con cui distrarsi.

Aveva finito per andare a sedersi fuori, sui gradini della porta che dava sul retro della villa. C'era ancora buio, anche se in lontananza il sole di inizio settembre si sfilacciava scontrandosi con la punta degli alberi. I suoi occhi si erano proprio messi a fissare il bosco, un'entità così viva e presente che sembrava, anche se con una certa discrezione, voler circondare per intero quella dimora. Era come se quelle piante la chiamassero a sé e lei, che aveva sentito fin dal primo momento gli occhi di qualche servo addosso, sapeva di non poterle raggiungere.

Si era allora messa a pensare ai suoi figli, in particolare a Giovannino, il più piccolo, e a Bianca, che le era sembrata cresciuta in modo impressionante, da quando le aveva detto addio a Forlì. Era diventata una donna, questo era ovvio, ma, anche se era sempre stata matura, per la sua età, la Tigre non aveva potuto fare a meno di sorprendersi, nel trovarla tanto indipendente e sicura di sé. Ciò che, però, la stava agitando più di quanto, forse, avrebbe dovuto, era il continuare a ripensare al modo in cui la Riario e il De Rossi si erano guardati, il giorno in cui l'emiliano aveva lasciato la villa...

“Quando sono arrivate, queste lettere?” chiese Caterina, prendendo le due missive dalla mano del frate e guardandolo di sottecchi.

L'uomo, vestito come sempre da frate, ma con addosso anche una sorta di cappa scura, con cui si riparava da quello che, evidentemente, per lui era un gran freddo, si mise a sedere accanto a lei, senza chiederle il permesso.

La donna, infastidita sia da quel gesto, sia dalla mancanza di una risposta da parte di Bossi, si corrucciò e cercò di capire da sola da dove venissero quei messaggi. Uno, lo intuì all'istante dalla grafia, era di Fortunati. L'altro, invece...

“Questa missiva è già stata letta.” disse piano la Leonessa, alzando la lettera che, aveva capito senza difficoltà, era stata scritta da Giovanni da Casale.

Frate Lauro sollevò le spalle e ribatté: “Io non ho letto proprio nulla...”

“Forse non voi – concesse la Sforza, indicando il piccolo sigillo rotto e risistemato alla meno peggio – ma qualcuno l'ha fatto...”

“Quella lettera – spiegò il frate, che era stato imboccato, all'alba, dal messaggero che era arrivato da Cascina – Pirovano l'ha spedita a Fortunati, che ha pensato fosse il caso di farvela avere.”

La donna deglutì e guardò di nuovo la missiva di Giovanni da Casale. Ritrovarsi per le mani qualcosa che lui aveva toccato, vedere le parole che lui aveva vergato la stava mettendo in agitazione. Per lei quell'uomo era morto e sepolto da molto tempo.

Accantonando per un istante quella lettera, aprì quella di Fortunati. Il piovano la metteva a parte, con toni molto vaghi, probabilmente per paura di intercettazioni, di quello che stava facendo per Baccino, dandole una speranza, dopo tanti 'non so' e 'non possiamo'. Le chiedeva se tutto stesse andando bene e se Troilo De Rossi infine se ne fosse andato lasciandola tranquilla. Solo nelle ultime righe alludeva al messaggio di Pirovano. La pregava di leggerlo, di non lasciarsi accecare dall'odio e avvelenare dall'orgoglio e sottolineava come fosse importante fare pace con il proprio passato, se si voleva vivere serenamente il proprio futuro.

Quelle poche frasi bastarono a Caterina per prendere una decisione in fretta.

“Prendete.” disse, ridando entrambe le lettere a frate Lauro.

“Questa non la leggete?” chiese lui, sollevando quella scritta da Giovanni da Casale.

La Tigre scosse il capo e poi, fredda, chiese: “Potreste gettarle in quel braciere?”

Bossi non eseguì subito l'ordine. Si prese qualche istante, cercando di capire. Ovviamente sapeva, come quasi tutti, che Pirovano era stato colui che, formalmente, per primo aveva dichiarato la resa a Forlì, tuttavia non comprendeva quell'evidente astio da parte della Leonessa.

Alla fine, però, con un sospiro, si alzò e raggiunse uno dei due bracieri che illuminavano l'alba, posto appena accanto alla scala. Senza troppi indugi, vi lanciò dentro le due lettere e le fissò, mentre si accartocciavano e bruciavano, svanendo per sempre.

Stringendosi un po' di più nella sua cappa scura, lanciò uno sguardo a Caterina. La donna era immobile, fissava il suolo, e il suo profilo sembrava di nuovo quello della ragazzina che lui, tantissimi anni prima, aveva accompagnato da Milano fino a Roma. Quel giorno, come allora, c'era nei suoi lineamenti una sofferenza profonda e complessa, impossibile da decifrare al primo colpo.

“Mia signora...” cominciò lui, usando un tono cauto che di rado aveva adoperato nel rivolgersi a lei.

“Se vuoi dirmi anche tu che devo perdonare, che devo dimenticare e tutte quelle altre belle storie che piacciono tanto a voi uomini di Chiesa, puoi anche risparmiare il fiato – lo interruppe lei, alzandosi di scatto – quello che ho passato nella mia vita e Roma mi basta e avanza come espiazione per i miei peccati, senza bisogno che qualche pretucolo da nulla mi dica cosa devo o non devo fare per salvare la mia anima!”

Mentre la Leonessa se ne andava, quasi di corsa, Bossi rimase immobile. Era certo di aver sentito la sua voce cedere sul finale e di aver anche intravisto una lacrima scivolarle sulla guancia. Sapeva che la milanese aveva in parte ragione. A che titolo lui poteva dirle cosa fare? Era stato preso prigioniero a sua volta, era vero, ma per così poco tempo e in condizioni decisamente migliori... E poi non aveva certamente i suoi stessi trascorsi... La cosa migliore che poteva fare era lasciarle i suoi tempi, farla sbollire e limitarsi a far quello che poteva per aiutarla nelle questioni pratiche, lasciando quelle spirituali a chi ne sapeva più di lui.

E allora perché quella rabbia, così dolente e violenta, lo aveva scosso? Perché non riusciva a far a meno di pensare che lui, come frate, avrebbe dovuto correrle dietro e cercare assieme a lei di lenire quelle ferite?

Con un sospiro pensate, Bossi si strinse ancor di più nelle spalle, finendo ad assomigliare a una cornacchia spelacchiata, e, rivolgendo il volto al sole ormai nascente, inspirò a fondo l'aria di quel 5 settembre 1501, chiedendosi per quanto ancora sarebbe durata, quella calma apparente.

 

La sera prima, proprio quando stava per mettersi a dormire, Lucrecia aveva sentito una serie di cannoneggiamenti e botti che, sulle prime, l'aveva spaventata a morte. Aveva lasciato all'istante il suo giaciglio e aveva dapprima guardato fuori, non capendo che stesse accadendo, e poi aveva cercato qualcuno a cui chiedere.

Temeva, per assurdo, che i francesi avessero messo a sacco Roma, o che suo fratello Cesare, per impedirle di andarsene, avesse cinto la città con il suo esercito... Ogni spiegazione, anche la più fantasiosa e assurda, le pareva logica e credibile.

Perciò, quando una delle sue dame, già informatasi di tutto per vie traverse, le spiegò il vero motivo di tutto quel fracasso, la Borja fu in un primo momento allibita, e poi se ne dimostrò non solo sollevata, ma addirittura entusiasta.

Sapere che, infine, le trattative del suo matrimonio erano andate bene, le tolse di corpo la stanchezza e dalla mente ogni paura. Si sentiva un vulcano, un fiume in piena... Se non fosse stata notte, avrebbe chiesto di poter partire all'istante per Ferrara.

E invece sapeva di non potere, così incanalò tutta quell'energia in qualcosa, a suo modo di vedere, costruttivo. Era la sua rivincita, anzi, la sua rinascita, e doveva essere in grande stile.

Passando quel che restava della notte del tutto insonne, la giovane preparò e organizzò quello che, per lei, sarebbe stato il primo tassello del mosaico della sua nuova vita.

La mattina del 5 settembre tutto era pronto per mettere in scena ciò che lei per prima aveva chiesto di poter inscenare. C'era voluto il benestare del papa – dato senza una minima esitazione – e la collaborazione di tutto il Vaticano, ma alla fine ogni cosa era stata predisposta alla perfezione.

Lucrecia era interamente vestita d'oro riccio tirato. Ad accompagnarla, oltre a un corteo di cinquecento persone, tra dame e cavalieri, c'erano molti Vescovi e gli ambasciatori di Francia e Spagna.

Sotto al sole ancora caldo del 5 settembre, il pesantissimo abito metallico che indossava era quasi una prigione, ma alla ragazza andava bene così. Tutti dovevano vederla trionfante e dorata, tutti dovevano avvertirne l'aura regale, per non dire di santità.

Il tragitto a cavallo fino a Santa Maria del Popolo le parve lunghissimo, ma se lo godette come se stesse conquistando passo dopo passo un mondo nuovo, come quello di cui, ultimamente, aveva sentito parlare anche suo padre.

La scalinata, per quanto breve, fu una vera sfida, ma da lì, non appena fu in vista dell'altare maggiore, una forza nuova la trasportò avanti, sospingendola come il vento sospingeva le vele dei naviganti che avevano infranto la barriera delle Colonne d'Ercole.

Arrivò alla pala d'altare, donata a quella chiesa proprio da suo padre. Si inginocchiò e si mise a pregare, quasi senza accorgersi che lei sue preghiere, da invocazioni si stavano trasformando via via in affermazioni di potere e mezze minacce perfino nei confronti di Dio stesso.

Le ore passavano, e tutto il corteo aspettava con il fiato sospeso. Quando finalmente la giovane decise che fosse tempo di tornare nella casa del padre, Roma era già cinta dall'abbraccio incandescente di un tramonto insanguinato.

Per l'Urbe, intanto, la voce si era sparsa in fretta, rimbalzando da un palazzo all'altro e quando Lucrecia sollevò lo sguardo, appena fuori da Santa Maria del Popolo, vide due immense file di gente a farle da corridoio, indicandole la strada.

Issatasi sul cavallo, con i musici e i guitti di corte che alleggerivano l'aria con i loro motteggi e i loro canti, la Borja si godette quel breve viaggio di ritorno. Il campanone del Campidoglio suonava a festa e in lontananza, emblema massimo dello sfarzo di cui era capace Alessandro VI, da alti steli di legno si alzavano i fuochi d'artificio che, scomposti e chiassosi, andavano a esplodere in cielo.

“Duchessa di Ferrara!” gridavano in tanti: “Duchessa! Duchessa!” anche se ancora non poteva chiamarsi tale: “Viva il papa! Viva la Duchessa!”

Non era ancora calata la notte, che i primi messaggeri già stavano partendo alla volta di Ferrara, per elogiare la bellezza della figlia del papa, il suo portamento, il suo abito d'oro, e per far sapere a tutti, in particolare ad Ercole, che Ferrara aveva di fatto una nuova Duchessa, e si chiamava Lucrecia Borja.

   
 
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