Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: ice_chikay    01/06/2021    2 recensioni
MikasaxLevi
A due anni dalla fine della guerra, Mikasa e Levi si ritrovano insieme ad affrontare le cicatrici e le ferite che la guerra ed i giganti hanno lasciato nelle loro vite. Mentre l'inverno è alle porte, il loro rapporto cambia per sempre... In un mondo popolato di memorie di amici caduti, riusciranno a guarire insieme?
Una storia introspettiva sui miei due personaggi preferiti, ideata e in larga parte scritta prima dell'uscita del capitolo 131, quindi ormai in parte off canon.
Contiene spoiler per chi segue solo l'anime.
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Levi Ackerman, Mikasa Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao a tutti!
Scusate per la luuunga pausa, ma questo periodo è davvero pieno pieno e non ho mai tempo di mettermi a scrivere come vorrei. Sono stata incerta su questo capitolo molto a lungo, non ero mai convinta...ma alla fine ho deciso di pubblicarlo lo stesso, spero vi piaccia!
Almeno - per farmi perdonare il ritardo - è abbastanza lungo!
Se avessi dato nomi a ciascun capitolo, questo si sarebbbe intitolato "Prime volte" ;) 
Spero davvero di avere tempo di scrivere di più nei prossimi giorni, anche perché non mancano molti capitoli alla fine della storia (che ho ben stampata e chiara nella mia mente), quindi non vorrei allungarmi troppo...ma chissà se ci riuscirò! Incrociamo le dita...

Vorrei davvero ringraziare di cuore tutti coloro che si sono presi il tempo per lasciare uno o più commenti: mi avete fatta davvero felice :) 

Il capitolo salta un po' tra i punti di vista di Mikasa e Levi...spero non vi scombussoli troppo!
Detto questo, buona lettura: fatemi sapere cosa ne pensate!


 


XVI
 
 
Passarono altri giorni.
 
La mattina dopo, Levi aveva scritto ad Historia. Una volta imbucata la lettera, avevano smesso di parlare di quello che era successo. Di quello che si erano detti.
 
Arrivò marzo e la neve smise definitivamente di cadere. Arrivò il tiepido sole della primavera, le prime gemme sugli alberi, il canto dei fringuelli tra i loro rami.
 
La certezza della loro separazione li cambiò. Avevano smesso di parlare sia del futuro che del passato. Levi sentiva un peso che gli comprimeva il petto ogni volta che la guardava. Non riusciva più ad allontanarsi da lei. Rivedeva continuamente il suo viso bagnato dalle lacrime, la risentiva digli che sarebbe andata dovunque pur di stare con lui. Non capiva perché lei avesse ceduto così facilmente quella notte: credeva che avrebbe dovuto costringerla, respingerla con frasi velenose, ferirla fin oltre il limite del perdono per convincerla ad andare via. Forse aveva semplicemente capito quello che lui aveva sempre saputo nel profondo: che quella era solo una parentesi nella sua vita, che stare con lui era un enorme errore. Avrebbe voluto ringraziarla per averlo capito, per non averlo privato di quegli ultimi giorni insieme, invece rimaneva in silenzio, troppo spaventato di accorciare ancora quegli ultimi momenti.
 
Non frenava più il suo istinto di toccarla, come per assicurarsi che fosse ancora lì. Cercava di imprimersi nella mente tutte le immagini di lei che svolgeva i suoi compiti: lei che sorseggiava una tazza di tè, lei che ricamava un tovagliolo, lei che annodava distrattamente i capelli che ormai le erano cresciuti fin sotto le spalle, lei che alzava lo sguardo dai fogli che stava scrivendo per guardarlo negli occhi.
 
Pensava che quel dolore gli si addicesse. Era stato troppo felice nell’ultimo periodo, ma non sapeva che farsene di quella felicità. Non era in grado di gestirla, né di capirla. Questa scadenza che era caduta come un fulmine sulla loro vita era molto più comprensibile. Levi aveva sempre perso tutto nella vita: presto o tardi non si aspettava nient’altro che questo. Saperlo, rendeva il suo tocco più leggero, il suo sguardo più caldo, più dolce il modo in cui la baciava, più forte il modo in cui la stringeva.
 
Sapeva che Mikasa provava una sensazione simile. Lo capiva da come anche lei si soffermava a guardarlo di continuo, da come gli stringeva le braccia quando erano a letto, quasi per impedirgli di svanire, dal sorriso tenue che le attraversava il volto, un sorriso che nascondeva una comprensione così profonda che a volte Levi si sentiva trasparente.
 
Cercava di non pensare alla Città Sotterranea, ma era praticamente certo che Historia gli avrebbe confermato quanto contenuto su quelle lettere.
 
 
 


Anche Mikasa si sforzava di non pensarci, ma non poteva credere che Historia avrebbe acconsentito a spedirlo di nuovo là sotto.
Il solo pensarlo le scatenava una rabbia così forte che a volte se ne sentiva sopraffare. Pensare che la loro vita in quella baita aveva una data di scadenza che incombeva le faceva provare un senso di ingiustizia che le sembrava di non aver mai sperimentato prima. Avrebbe voluto battere i piedi per terra e gridare per sfogare quel senso di impotenza.
 
Non poteva neanche credere che Levi fosse così ingenuo da pensare che lei l’avrebbe lasciato andare. Anni prima, in una discussione come quella di quella notte, si sarebbe ribellata, avrebbe gridato, si sarebbe arrabbiata. Alla fine avrebbe solo ottenuto di permettere a Levi di respingerla, di ferirla così tanto che il suo orgoglio non avrebbe retto. Si sorprendeva a pensare a quanto fosse cambiata. Quella notte, dopo un attimo di sgomento, aveva capito che doveva assecondarlo per impedirgli di distruggere il tempo che potevano ancora condividere.
Se c’era una cosa che Mikasa aveva capito, in tutti quegli anni di guerra, era che la vita era breve ed effimera come un soffio di vento. Non sapeva perché, non capiva come fosse possibile, ma adesso stringeva tra le mani un tesoro troppo inestimabile per permettersi di sprecarlo.
 
I giorni in quella baita potevano finire da un momento all’altro, se Historia avesse confermato la missione, perché era sicura che Levi non avrebbe mai voltato le spalle alla loro regina. Mikasa si sarebbe dannata piuttosto che gettarli via.
 
A volte si sentiva vagamente offesa dal fatto che lui credeva davvero che lei l’avrebbe abbandonato. Come poteva essere così cieco? L’avrebbe seguito in capo al mondo ormai, fin nelle viscere della terra se ce ne fosse stato bisogno. E se lui si fosse opposto, avrebbe trovato il modo di convincerlo.
 
Ogni tanto si chiedeva come avesse fatto a non innamorarsi di lui anni prima. Come aveva potuto considerarlo insensibile e ostile? Adesso tutto ciò che vedeva era premura e fascino. Si soffermava ad osservare come i capelli gli ricadevano dolcemente sulla fronte quando si chinava per leggere, come le sue lunghe dita affusolate stringevano gli utensili da cucina, come espirava ad occhi chiusi quando si immergeva nella fonte calda, come le lanciava quel suo sorriso sghembo che gli incurvava un angolo della bocca quando lei lo raggiungeva, come dondolava il piede nervosamente quando toccava a lei pulire qualcosa, cercando di trattenersi dal criticarla.
 
Sperava di non scordare mai il profumo di cotone pulito che era così profondamente suo. Il sapore delle sue labbra, il lieve sentore di tè che le riempiva la bocca quando lui la baciava.
 
L’idea che la loro vita nella baita sarebbe finita le scavava nel petto una cavità sempre più profonda, che si riempiva di uno strano rimpianto languido. Voleva sfruttare ogni istante del tempo che restava loro in quel luogo incantato. Si convinceva che quella missione sarebbe stata davvero l’ultima per loro e che poi sarebbero potuti tornare lì, ma non sempre riusciva a scacciare i presentimenti nefasti che le si affollavano nella mente. Non avrebbe mai sopportato di perdere anche lui. Il solo pensiero di saperlo in pericolo, il solo immaginare che lui potesse essere ferito, o peggio… le mozzava il respiro in gola. Ma finché avrebbe avuto vita, avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per impedirlo.
 
 

 
***
 



 
La mattina del decimo giorno, Mikasa si svegliò con i raggi di sole che irrompevano dalla finestra della camera da letto. La neve si era in gran parte sciolta nei campi davanti alla casa, resisteva solo nel bosco, dove l’ombra delle fronde riusciva ancora a preservarla. Il cinguettio di alcuni uccellini le rubò un sorriso disteso, mentre si stiracchiava. D’improvviso le balenò un’idea nella mente. Scattò fuori dal letto senza perdere tempo.
 
Levi era in cucina e stava versando il tè nelle loro due tazze. Mikasa lanciò uno sguardo distratto all’orologio e capì che era l’ora in cui di solito veniva a svegliarla. Le lanciò uno sguardo distratto mentre continuava a preparare la colazione.
 
«Buongiorno»
 
Mikasa gli si avvicinò, per strusciare la spalla contro il suo braccio sinistro.
 
«Mi è venuta un’idea» sentenziò senza rispondere al suo saluto.
 
Levi le lanciò un’occhiata impassibile prima di dirigersi con le due tazze verso il tavolo, dove aveva già disposto i piatti e le fette di pane.
 
«Devo preoccuparmi?» chiese infine, sedendosi al suo solito posto prima di soffiare sul contenuto della propria tazza.
 
Mikasa sorrise misteriosa: «Forse un po’…»
 
«Tsk»
 
La ragazza continuò, mentre afferrava una fetta di pane: «Hai visto che bella giornata? Perché non andiamo a fare una gita verso i laghi?»
 
Lui sollevò il sopracciglio sinistro e piegò leggermente la testa verso sinistra per guardarla meglio.
 
«E questa idea da dove sbuca? Fa ancora troppo freddo per stare tutto il giorno a cavallo»
 
«Oh dai, coprendoci a dovere non sarà un problema! È ancora presto, dovremmo farcela!» protestò lei, mentre spalmava della confettura sulla sua fetta.
 
«E poi siamo indietro con i registri…non abbiamo più molto tempo per finire» ribatté lui, bloccandosi di colpo quando si accorse dove il discorso li stava portando.
 
Mikasa abbassò lo sguardo.
 
«Proprio per questo voglio andarci» confessò «Non voglio dover lasciare questo posto senza essere andata fin laggiù…» aggiunse poi, a voce bassa.
 
Levi sospirò. Un silenzio teso si espanse tra loro. Il tacito accordo che aveva impedito loro di parlare di quello che sarebbe successo tra pochi giorni scricchiolava sotto le implicazioni di quelle poche frasi.
 
«Non la smetterai di tormentarmi se non ci andremo, dico bene?» chiese infine il capitano, mentre un’espressione rassegnata e vagamente divertita si faceva strada sul suo volto.
 
Mikasa sorrise apertamente «Decisamente no» esclamò, ficcandosi in bocca l’ultimo pezzo di pane.
 
«Mocciosa che non sei altro…» borbottò lui, cercando di nascondere il suo sorriso dietro la tazza di tè.
 
 
 

 
Poco dopo, erano entrambi a cavallo nella stessa direzione che Mikasa aveva percorso quando si era avventurata nel bosco con il meccanismo di movimento 3D di Levi.
La giornata era molto bella: i raggi di sole filtravano tra le fronde degli alberi, molti dei quali non avevano ancora tante foglie sui propri rami. Uccellini e altri animaletti riempivano l’aria con i loro versi, mentre qui e là già si potevano scorgere i primi bucaneve e crochi nel sottobosco ancora in parte innevato. Levi si portò le mani a coppetta davanti alla bocca e vi alitò per riscaldarsi le dita. Mikasa gli lanciò uno sguardo ironico:
 
«Soffri troppo il freddo, si vede che sei vecchio»
 
«Un giorno o l’altro mi offenderò»
 
«Nah…ti piaccio troppo per avercela con me!»
 
L’attimo dopo realizzò cosa aveva appena detto e quasi si morse la lingua. Levi arrossì appena, fissando lo sguardo sulle orecchie del proprio cavallo.
Dopo un altro lunghissimo secondo di silenzio imbarazzante, la guardò di nuovo, sorridendo beffardo:
 
«Un po’ di modestia non ti farebbe male…ultimamente stai diventando un po’ troppo supponente»
 
Mikasa si soffermò ad osservare la benda che gli copriva l’occhio destro. Spesso Levi la indossava quando si allontanavano da casa. La ragazza doveva ammettere che gli stava molto bene: gli dava un’aria poco raccomandabile che gli si confaceva.
 
«Devo aver preso esempio da te!»
 
 


Continuarono a battibeccare a lungo, mentre proseguirono sul sentiero. Superarono l’affumicatoio, dove Mikasa scorse Levi che la osservava con uno sguardo fin troppo esplicito perché lei riuscisse a non arrossire.
Proseguirono ancora, guadando con grande attenzione i due torrenti che si erano ingrossati a causa dello scioglimento della neve.
Quindi svoltarono verso sinistra, invece di continuare nella direzione che Mikasa aveva percorso da sola.
Dopo circa un’altra ora nel bosco, sbucarono su una strada in terra battuta abbastanza ampia da poter essere percorsa con dei carri. Mikasa se ne stupì: non aveva idea che ci fossero altri insediamenti da quelle parti.
 
Levi colse il suo sguardo ed accennò alla sua sinistra con la testa: «C’è un insediamento di pescatori da quella parte. Vieni, per di qua»
 
Si infilò in uno stretto sentiero al di là della strada. Se fosse stata da sola, Mikasa non l’avrebbe mai notato. Proseguirono nuovamente nella fitta boscaglia. Le sembrò di perdere il conto del tempo, ma questa volta non era preoccupata, perché Levi era con lei. Si accorse che la vegetazione stava leggermente cambiando: tra gli alberi c’erano molti più abeti e conifere.
Ad un tratto, le sembrò di scorgere uno strano luccichio tra i tronchi più distanti. Sentì il battito del cuore accelerarle nell’anticipazione. Spronò il cavallo per farsi più vicino a quello del capitano.
 
Sbucarono su un piccolo prato che digradava lentamente verso le acque più azzurre e limpide che Mikasa avesse mai visto. Davanti a loro si allargava un paesaggio mozzafiato: un grandissimo lago incastonato tra foreste di conifere e betulle con delle alte montagne ancora innevate sullo sfondo. Il lago era così ampio che aveva diverse insenature che restavano celate dietro le fronde degli alberi, mentre il sole di mezzogiorno faceva splendere le sue acque. La ragazza si accorse di avere la bocca aperta per la meraviglia.
 
 



Levi ne osservava l’espressione con un sorrisetto appena accennato sulle labbra. Vederle gli occhi che brillavano davanti a quello spettacolo gli strinse il cuore in una morsa: si accorse di provare nostalgia per qualcosa che stava ancora vivendo. Continuò a studiarle il viso, ormai completamente rapito, quasi indifferente allo spettacolo intorno a loro. È che tutto sembrava impallidire davanti a lei. La sua spontaneità, la sua grazia, le implicazioni contenute in quelle iridi misteriose: Levi voleva serbarne il ricordo per sempre.
La prima volta che aveva trovato quel punto panoramico era rimasto a bocca aperta esattamente come lei. Il colore dell’acqua aveva la stessa identica sfumatura degli occhi di Erwin.
 
Se fosse tornato nel sottosuolo, quella avrebbe potuto essere l’ultima occasione per vedere ancora quel colore. Sentì il petto contrarsi. Un’ondata di angoscia gli mozzò il fiato, come gli succedeva spesso negli ultimi giorni. L’azzurro del cielo e dell’acqua. Il verde dell’erba e delle foglie. Erano colori inimmaginabili per chi era cresciuto come lui. Per quanti anni fossero passati da quando si era unito al Corpo di Ricerca, Levi non riusciva ancora ad abituarsi alla loro meraviglia.
 
«È… è…» la voce di Mikasa che cercava inutilmente di trovare delle parole, lo distolse da quei pensieri.
 
Sorrise di nuovo.
«Lo so» le rispose.
 
 
Mikasa scese da cavallo e camminò fino a raggiungere la riva delle acque. Sentì il sole scaldarle il viso e sorrise estasiata. Quel luogo era un paradiso. Si accucciò ed immerse le dita nell’acqua gelida. Si voltò verso Levi, che era sceso a sua volta e stava legando le briglie dei cavalli ad un piccolo frassino.
 
«Ci facciamo un bagno?»
 
Levi si voltò verso di lei così velocemente che Mikasa per un istante non si accorse del suo movimento.
 
«Sei completamente pazza…» protestò lui scuotendo la testa.
 
Mikasa scoppiò a ridere. «Scusa capitano, a volte prenderti in giro è troppo divertente!»
 
«Tsk!»
 
 
Mikasa era cambiata da quando era andava a vivere con lui, Levi se accorgeva sempre più spesso. Ripensare a quella mocciosa scontrosa e ostile che aveva conosciuto tanti anni prima e paragonarla a questa ragazza sorridente, che amava prendersi gioco di lui, che a volte scoppiava a ridere apertamente, che si guardava intorno con quegli occhi spalancati e limpidi, sembrava quasi un errore. Aveva un sorriso speciale, che riservava ad occasioni come quelle: le illuminava tutto il volto, facendole brillare lo sguardo. A volte Levi avrebbe voluto saper dipingere, o avere una macchina fotografica, per immortalarla in quei momenti. Per avere una prova tangibile di quello splendore.
 
Da ragazzino, credeva che non avrebbe mai scordato il viso di sua madre, invece ormai tutto ciò riusciva a ricordarne era una pallida imitazione. Sperò con tutto il cuore di riuscire a ricordare il sorriso di Mikasa per sempre, finché fosse stato in vita.
 
«Vuoi mangiare? Si è fatto tardi…te l’ho detto che era lontano» le chiese, ancora vicino ai cavalli.
 
Lei annuì, tendendo il braccio e la mano sinistra verso di lui, per richiamarlo vicino a sé.
 
Levi tirò fuori le proviste da una delle bisacce e le si accostò. Lei nel frattempo si era seduta sul prato asciutto, riscaldato da quel sole stranamente caldo. Il capitano le si sedette accanto, tirando fuori il pane dallo strofinaccio che lo proteggeva.
 
 
Presero a mangiare in silenzio, lasciando che i loro occhi si riempissero di quello spettacolo. Il calore del corpo di Mikasa, pressato contro il suo braccio e la gamba sinistri si irradiava nonostante tutti gli strati di vestiti che indossavano. D’improvviso, una realizzazione gli balzò alla mente, facendogli corrugare la fronte.
 
«Cosa c’è?» chiese Mikasa.
 
«È la prima volta che faccio una gita con qualcuno» confessò, leggermente incerto.
 
Mikasa ingoiò il boccone con enfasi prima di spalancare gli occhi ed esclamare: «Intendi…in tutta la tua vita
 
Levi si limitò a stringersi nelle spalle, adesso leggermente imbarazzato. Era una cosa così normale andare in gita, per gli altri? Si sentì insicuro. Non voleva ribattere con qualche frase sulla Città Sotterranea e la sua assenza di normalità, perché non voleva che lei lo pensasse di nuovo lì sotto.
 
«I miei mi portavano spesso in posti come questo…» riprese invece lei, senza indagare oltre. A quelle parole, Levi si incupì: credeva di averla portata in un posto speciale, invece veniva a scoprire che per lei non era niente di nuovo. Tirò un ciottolo in acqua, mettendoci un po’ troppa forza.
 
«…ma un lago così grande non l’avevo mai visto» concluse lei, appoggiandoglisi ancora di più addosso. Levi si sentì uno stupido quando si accorse di star sorridendo di nuovo.
 
«Sì, neanche io. Oceano escluso, intendo» biascicò in risposta, prima di dare un altro morso al proprio pranzo.
 
 

Finito di mangiare, Mikasa si avventurò sulle sponde, mentre Levi rimase sul prato a guardarla, continuando di tanto in tanto a lanciare qualche pietruzza nell’acqua, per osservare i cerchi concentrici che si formavano sulla sua superficie.
 
Mikasa scomparve. Tornò qualche minuto dopo, con le mani che stringevano un grosso mazzetto di fiori. Levi riconobbe alcuni bucaneve e primule, ma non seppe identificare tutti gli altri. Non appena vide che lanciava sassi nell’acqua, poggiò i fiori accanto a lui e raccolse anche lei un ciottolo.
 
Lo lanciò di piatto, con un secco movimento del polso. Il sasso rimbalzò tre volte sulla superficie dell’acqua prima di affondare. Levi non riuscì a celare l’espressione stupita che si affacciò d’improvviso sul suo volto. Mikasa ridacchiò.
 
«Come hai fatto?» mormorò lui interdetto. Lei sorrise ancora di più.
 
«È un gioco. Eren, io e tutti i bambini lo facevamo sempre da piccoli» trattenne appena il fiato, come tutte le volte che lo nominava, poi ritrovò il suo contegno e continuò: «Alzati, ti insegno»
 
Scelse per lui un sasso piatto e levigato e glielo porse. Gli fece rivedere il movimento corretto, piegandosi sul ginocchio destro. Il suo sasso questa volta fece solo due rimbalzi. Mikasa si strinse nelle spalle, facendogli poi cenno di provare. Levi provò a impugnare il sasso con la mano destra, ma senza indice e medio era praticamente impossibile tenerlo come faceva lei. Con uno sbuffo lo passò nell’altra mano. Erano passati oltre due anni, ma ancora non si era abituato a quel cambio forzato.
 
Provò a imitare il movimento di Mikasa e lanciò il sasso con tutta la sua forza. Quello rimbalzò una…due…tre…quattro…cinque volte prima di affondare. Levi si voltò versò di lei con l’espressione più luminosa che Mikasa gli avesse mai visto. Sembrava un ragazzino che esultava per aver vinto a un gioco.
 
Mikasa gli gettò le braccia al collo, esultando con lui.
 
 
 


Qualcosa di piccolo e freddo cadde sulla guancia di Levi. Un attimo dopo, un’altra goccia d’acqua gli rotolò sulla palpebra sinistra. Poi sulle labbra.
Levi spalancò gli occhi l’istante prima che le gocce di pioggia sporadiche si trasformassero in un temporale scrosciante. Balzò in piedi assieme a Mikasa, che si era risvegliata esattamente come lui.
Si erano addormentati sul prato dopo una sfida all’ultimo sangue di rimbalzo di sassi sull’acqua. Levi non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma il cielo azzurro ed il sole che li avevano illuminati per tutta la giornata erano scomparsi dietro delle nuvole così nere che sembrava già essersi fatta notte.
 
Corsero indietro, cercando di ripararsi dalla pioggia sotto le fronde degli alberi. Il tiepido calore di marzo era stato sostituito da un vento pungente di tramontana, che fece rabbrividire il capitano già zuppo fin dentro le ossa.
 
«Cavolo!» esclamò Mikasa, lanciandogli uno sguardo furtivo. Tornare a casa sotto quella pioggia era impensabile. Levi lanciò uno sguardo verso le nuvole, chiedendosi quanto sarebbe potuto durare quel temporale.
 
«Forse se restiamo sotto gli alberi…» propose lei titubante.
 
Levi sbuffò appena, prima di prenderla per mano. La trascinò vicino ai cavalli. Le lanciò uno sguardo. I suoi capelli erano già grondanti d’acqua. Prima di montare in sella, le sistemò il cappuccio del mantello sulla testa.
 
«Seguimi. So io dove ripararci»
 
Mikasa annuì lievemente, sfiorandosi il cappuccio con la punta delle dita, mentre un sorriso le si accennava sul volto.
 
 
 

Levi la guidò di nuovo per il sentiero dal quale erano sbucati. La pioggia non accennava a diminuire, anzi il buio sembrava aumentare ed i lampi dei fulmini seguiti dal rimbombare dei tuoni diventavano sempre più frequenti.
Levi aveva lo sguardo duro e teso fisso sulla strada davanti a sé, mentre Mikasa – nonostante il freddo pungente – stranamente trovava la situazione quasi divertente. Era quasi come un’avventura. Un’avventura senza pericoli, perché quei rombi e quei lampi di luce non erano segno della trasformazione di qualcuno in gigante, erano semplicemente sintomi di un temporale primaverile. Era anche curiosa di sapere dove lui la stesse conducendo. Che avesse costruito un altro rifugio di fortuna da qualche parte lì intorno? Mikasa si sentì quasi elettrizzata nel pensare a cosa sarebbe successo in un altro piccolo affumicatoio tra i boschi.
 
Sbucarono di nuovo sulla strada in terra battuta. Questa volta, anziché attraversarla e proseguire nel bosco, Levi svoltò a destra, in direzione del villaggio di pescatori di cui le aveva parlato quella mattina. Lanciarono i cavalli al galoppo, sempre più zuppi, finché dopo poco sbucarono su una lunga spiaggia con un molo di legno e diverse barche tirate a secco. Dall’altro lato della strada, c’erano una decina di case di pietra grigia, con tetti in ardesia, alcune delle quali provviste di capanni nei quali Mikasa scorse reti, altre barche e altro materiale per la pesca. Per strada non c’era nessuno, ma molte delle finestre che affacciavano sulla strada erano illuminate. Levi sfrecciò senza indugio verso una delle ultime case: una costruzione a due piani con un capanno e un piccolo giardino. Mikasa notò subito il denso fumo uscire dal comignolo sul tetto, immaginando subito un caldo ed accogliente caminetto acceso.
Levi fermò il cavallo all’altezza del capanno e ce lo spinse dentro, facendo cadere una pila di secchi di latta che fecero un gran baccano, facendolo imprecare tra i denti. Anche stavolta Mikasa lo imitò, sistemando Sid alla sinistra di una piccola barchetta a remi ancora in costruzione che occupava gran parte del capanno.
 
Smontati da cavallo, la ragazza si avvicinò al capitano:
 
«Levi dove siamo?»
 
«Stai tranquilla, conosco queste persone. Chiederò loro di ospitarci finché non smetta di diluviare»
 
Senza ulteriori spiegazioni, lui prese fiato ed uscì di nuovo sotto la pioggia scrosciante, ma Mikasa gli bloccò il polso, tirandolo di nuovo a sé. Guardare il suo profilo affilato contornato dalle ciocche di capelli gocciolanti era troppo per resistere ai suoi impulsi. Prima che Levi potesse chiederle cosa volesse, lo strinse a sé, baciandolo con forza sulle labbra. Levi si staccò lentamente, con un’espressione vagamente apprensiva dipinta sul viso.
 
«Che fai? Ci vedranno dalla casa…» protestò, senza troppa convinzione.
 
Mikasa continuava a guardarlo, completamente rapita. Le labbra leggermente dischiuse, la benda scura che gli copriva parte delle cicatrici, i capelli corvini grondanti: non le era mai sembrato tanto bello.
 
«Non mi importa» sussurrò, premendo il suo corpo contro di lui, prima di iniziare a baciargli il collo. Nonostante la sua riluttanza, Levi li lasciò sfuggire un gemito leggero, che infiammò ancora di più la sua fantasia.
 
«Vieni con me nel capanno…» sussurrò lei mentre infilava le mani tra i suoi capelli.
 
«Mikasa…»
 
«Ti prometto che non te ne pentirai»
 
Si guardarono negli occhi. Mikasa scorse il fuoco ormai divampante nello sguardo di lui, che aveva serrato la mascella e ora le stringeva i fianchi con fin troppa forza. L’istante dopo la sollevò, spingendola contro il muro del capanno, mentre le loro labbra si scontravano. Con la stessa grazia di sempre, Levi la tenne stretta a sé, mentre entrava al riparo. Mikasa si sentiva ardere, non poteva aspettare un momento di più. Si strinse ancora di più a lui, con un’urgenza che soprese anche se stessa.
 
Levi rise appena, senza staccare le sue labbra da quelle di lei. «Tranquilla, non scappo»
 
Fecero l’amore di fretta, contro il muro, spogliandosi appena quel tanto sufficiente, senza mai staccarsi l’uno dall’altra, con un desiderio e un’irruenza che li travolsero come un’onda.
 
Si ritrovarono seduti per terra e ansimanti, ricoperti di polvere, con le schiene appoggiate alla parete del capanno. Mikasa trasse un respiro profondo, appoggiando la testa alla spalla di Levi. Lui sollevò la mano destra per accarezzarle una guancia, mentre cercava ancora di rallentare il ritmo forsennato del suo cuore. Il solo pensiero che a breve tutto questo sarebbe finito, le mozzò il respiro nella gola.  La sola idea di stare lontana da lui era inconcepibile.
 
«Ehi, va tutto bene?» Il ritmo del suo respiro doveva averla tradita.
 
«S-sì…» rispose titubante.
 
L’attimo dopo, Levi le prese il viso tra le mani ed appoggiò la fronte contro la sua. I loro respiri ancora affannati si mescolarono. Mikasa chiuse gli occhi, cercando di imprimere quella sensazione nella sua memoria.
 
«Ti amo» mormorò lui, con le labbra che potevano quasi sfiorare quelle di lei.
 
Mikasa spalancò gli occhi, mentre sentiva il cuore cambiare il suo ritmo. «Cosa?» le sfuggì dalle labbra, il tono allo stesso tempo sorpreso e commosso.
 
Levi non aprì gli occhi e non le diede modo di allontanarsi.
 
«Lo sai che è così» sussurrò poi.
 
Mikasa si sentiva la testa leggera. Sollevò le mani per poggiarle su quelle di lui, che le circondavano ancora le guance. «Levi…» mormorò, incapace di dire altro. Sentiva i battiti del proprio cuore rimbombarle nel petto, provava una felicità così profonda che le sembrava di non poter riprendere fiato.
 
Si sporse in avanti, eliminando quel minuscolo spazio che separava le loro labbra. Lo baciò delicatamente, dolcemente, mentre percepiva ancora la presa di lui sul suo viso, le gocce di pioggia che scivolavano dai loro capelli, il respiro affrettato di lui. Avrebbe voluto che quel momento durasse in eterno.
 
Levi fu il primo a staccarsi. Le lasciò andare il viso ed abbassò lo sguardo, abbozzando un sorriso quasi impercettibile prima di tirarsi in piedi.
 
«Vieni andiamo, prima che ci prendiamo qualche malanno»
 

Corsero sotto la pioggia, mano nella mano, fino a raggiungere la porta della casa. Il capitano suonò il campanello un paio di volte, rabbrividendo mentre delle folate di vento gelido li avvolgevano.
 
La porta si spalancò qualche secondo più tardi, rivelando la figura di una donna sulla quarantina, con lunghi capelli castani ricci e dei vistosi orecchini pendenti colorati. Levi lanciò il proprio cappuccio all’indietro, rivelando meglio il suo volto. L’espressione della donna – prima interrogativa – si aprì in un sorriso rilassato.
 
«Capitano! Quanto tempo! Che ci fate qui? Prego, entrate, non restate sotto la pioggia!» la donna si scostò per farli passare, poi si voltò verso il corridoio alle sue spalle e gridò:
 
«Abel! Non indovinerai mai chi è appena arrivato!»
 
Levi e Mikasa entrarono in casa, inondando lo zerbino di acqua e fango.
 
«Mi dispiace disturbarvi. Il temporale ci ha colti di sorpresa, devo chiedervi ospitalità» spiegò il capitano, restando in piedi accanto all’uscio, visibilmente contrariato per il sudiciume che stava portando in casa.
 
La donna scosse il capo con enfasi: «Nessun disturbo, nessun disturbo. Lo sapete che siete sempre il benvenuto in casa nostra» poi, voltandosi nuovamente verso il corridoio gridò ancora: «Ragazzi! È arrivato il Capitano Levi!»
 
Mikasa si tolse il cappuccio e cercò di guardarsi attorno. Si trovavano in uno stretto corridoio, illuminato da una lanterna ad olio che irradiava la sua luce gialla e calda sulle pareti di legno della casa. Scorse una porta in fondo al corridoio ed una sulla sinistra, la seconda delle quali era aperta. Sentì qualcosa muoversi rumorosamente al piano di sopra, ed uno strano grattare che proveniva dalla stanza aperta.
 
«Grazie Debra. Lei è Mikasa, Mikasa Ackermann» rispose Levi, facendole riportare l’attenzione sulla donna. Mikasa si tolse a sua volta il cappuccio ed allungò la mano verso di lei.
 
«Piacere»
 
Il voltò accogliente di Debra si aprì in un caldo sorriso. Mikasa notò che aveva i due incisivi leggermente accavallati, ma il difetto le donava uno strano tocco di fascino. La ragazza si chiese chi fossero quelle persone.
 
«Mikasa Ackermann è un onore avervi a casa nostra, siete la benvenuta. Prego, prego, lasciate i mantelli e le giacche sull’appendiabiti. Vi darò dei vestiti asciutti, se non vi dispiace.»
 
Prima ancora che potesse avventurarsi alla ricerca di abiti asciutti, dalla porta sulla sinistra sbucò un’altra persona. Era un uomo, di circa cinquant’anni, con i capelli ancora biondastri e una barba corta e folta. Ma ciò che attirò l’attenzione di Mikasa fu un altro particolare: l’uomo non aveva le gambe.
 
Erano tagliate entrambe all’altezza delle ginocchia. Al ginocchio sinistro era attaccata una gamba di legno con un puntale di ferro, mentre la destra era lasciata così com’era. Per stare in piedi, l’uomo aveva una gruccia di legno sotto l’ascella, che teneva saldamente con la mano destra.
 
«Che mi venga un colpo Levi! Da quanto tempo era che non passavi? Saranno almeno sei mesi!» esclamò l’uomo, avanzando lentamente verso di loro.
 
«Abel, non dovevi scomodarti» protestò Levi, avanzando nel corridoio per andargli incontro.
 
«Sciocchezze! Un uomo non può neanche andare ad accogliere i propri ospiti?» rispose Abel. L’istante dopo intercettò lo sguardo interrogativo di Mikasa che – colta in flagrante – abbassò gli occhi arrossendo, prendendo a districarsi disordinatamente dal giaccone zuppo.
 
«Abel, lei è Mikasa»
 
«Splendido, splendido. Benvenuti. Venite a riscaldarvi accanto al fuoco, sarete congelati!»
L’uomo rientrò nella stanza da cui era venuto. Debra e Levi provarono a seguirlo, ma la porta in fondo al corridoio si spalancò di botto, rivelando una rampa di scale che saliva verso il piano di sopra. Tre ragazzini si spinsero l’un l’altro nel corridoio, ormai decisamente troppo affollato. Mikasa riuscì a stento a trattenere una risatina: ma quante persone c’erano in quella casa?
 
«Capitano!» i tre ragazzi gridarono all’unisono. Il più piccolo, che doveva avere circa otto anni, scattò in avanti e si avvinghiò alle gambe di Levi, rischiando di fargli perdere l’equilibrio.
 
«Danny fai attenzione!» lo riprese Debra, poi si rivolse agli altri due figli, che dovevano avere circa quindici e dodici anni: «Joshua, Thomas, tornate di sopra e prendete degli abiti asciutti per i nostri ospiti. Di corsa!»
 
I due sparirono di nuovo su per le scale. Il piccolo Danny invece non aveva nessuna intenzione di mollare il capitano, che cercò a fatica di seguire Abel nella stanza.
 
Qualcosa di strano si attorcigliò nello stomaco della ragazza, nel vedere Levi che accarezzava la testa del ragazzino.
 
Finalmente, riuscirono a entrare nella stanza accanto che si rivelò essere un salotto accogliente, ricolmo di mobili e suppellettili. Vi era un camino con un paio di divani grossi e comodi, un massiccio tavolo da pranzo con le sue panche e sul fondo una cucina stracolma di utensili e stoviglie.
 
«Prego, prego accomodatevi!» esclamò Debra, mentre si dirigeva verso la cucina «Metto a fare il tè!»
Senza fermarsi un attimo, si affaccendò intorno ai fornelli e tirò fuori dalla credenza una grossa crostata a cui mancavano già alcune fette.
 
Mikasa si sentiva vagamente frastornata, le sembrava di venir sballottata in giro senza capire molto di dove si trovasse e di chi fossero quelle persone così accoglienti e soprattutto così in confidenza con Levi.
 
Seguì il capitano ed Abel che si avvicinarono al camino. L’uomo si sedette pesantemente su una poltrona con un sospiro, mentre Levi rimase in piedi, rabbrividendo vistosamente mentre il calore delle fiamme iniziava a riscaldarlo. Il piccolo Danny gli rimaneva avvinghiato alle ginocchia. Mikasa sorrise appena.
 
«Danny, lascia stare Levi. Vieni a sederti qui dal tuo vecchio» ordinò Abel al bambino, che eseguì le sue istruzioni con riluttanza.
 
«Allora» riprese il padrone di casa «qual buon vento vi porta?»
 
Prima che Levi potesse proferire parola, come due fulmini i ragazzi più grandi si fiondarono nella stanza, ciascuno stringendo una pila di vestiti asciutti. Joshua – il maggiore – si avvicinò a Levi, mentre l’altro – di cui Mikasa non aveva memorizzato il nome – le si accostò arrossendo vistosamente, prima di porgerle quanto aveva portato. «P-per lei miss…» borbottò ad occhi bassi. Mikasa sentì Abel ridacchiare.
 
«Grazie» rispose lei, cercando di suonare il più cordiale possibile. Venne riscossa dalla voce di Debra che indicò una porta accanto alla cucina: «La dispensa. Potete usarla per cambiarvi. Tornate qui e vi servirò il tè»
 


 
Fecero come era stato loro indicato e in un attimo si ritrovarono in uno sgabuzzino stracolmo di scaffali e vivande varie. Levi rabbrividì ancora, mentre iniziava a togliersi di dosso i vestiti bagnati. Mikasa lo copiò meccanicamente, facendosi scivolare addosso una camicia ed una lunga gonna bordeaux. Era un po’ troppo grande per la sua misura, ma la arrotolò un paio di volte in vita per evitare che le cadesse.
 
«Levi» sussurrò poi, mentre lo guardava infilarsi in dei pantaloni di fustagno un po’ troppo grandi ed in un maglione color crema infeltrito. Si distrasse un attimo quando scorse gli addominali definiti che scomparivano sotto gli strati di stoffa. Erano strani quegli abiti addosso a lui, ma come al solito era perfetto con tutto. «Chi sono queste persone?»
 
Levi sogghignò appena, sollevando un angolo della bocca. «Temo che ti toccherà essere socievole per una volta»
 
Mikasa sbuffò: «Senti chi parla…»
 
Levi riprese: «Conosco Abel da una vita. Da dopo Shiganshina si sono trasferiti qui. È stata una delle prime comunità fuori dalle mura. Sono pescatori»
 
«Sì, questo l’avevo capito…» borbottò la ragazza in risposta, cercando di fare chiarezza in quelle poche informazioni che il capitano le aveva appena dato.  
 
Levi si strinse nelle spalle: «Ogni tanto vengo a trovarli. Dai, fatti coraggio e torniamo di là» la canzonò di nuovo.
 
 
 

Al tè e crostata seguirono una quantità spropositata di spuntini che condussero tutti verso una cena a dir poco sontuosa. Mikasa e Levi non mangiavano così tanto da…beh, forse da mai. Debra aveva cucinato diversi sformati, un pasticcio di pesce, delle alghe fritte francamente deliziose ed un dessert cremoso alla panna, il tutto senza neanche sapere in anticipo che avrebbe avuto degli ospiti per cena. Visto che la pioggia non accennava minimamente a diminuire, i due proprietari di casa avevano decretato praticamente da subito che Levi e Mikasa avrebbero passato la notte nella stanza degli ospiti, con grande eccitazione dei loro figli.
La serata era animata da una conversazione fittissima. La famiglia di pescatori e Levi non avevano praticamente mai smesso di parlare di avvenimenti e persone di cui Mikasa non sapeva assolutamente nulla. Si limitava a stare seduta accanto al Capitano, strizzati su una delle due panche insieme al secondogenito – Thomas – mentre ascoltava il suo delle voci, il suo della sua voce. Era così strano sentirlo parlare così liberamente, vederlo sorridere insieme ad altre persone, mentre le sue guance prendevano colore, un po’ per il caldo quasi opprimente nella stanza, un po’ per l’alcool che Debra continuava a versargli nel bicchiere senza ascoltare proteste. Era la prima volta che lo vedeva così. Si chiese chi fosse davvero Abel. C’erano così tante cose che non conosceva del passato di Levi che a volte si sentiva insignificante. Lui praticamente sapeva tutto della sua vita, la conosceva da quando era una ragazzina ed aveva conosciuto quasi tutte le persone importanti della sua vita. Si rese conto per l’ennesima volta di non sapere quasi nulla di lui. Attorno a lei gli altri continuavano a chiacchierare e a ridere, ma Mikasa si sentì d’improvviso completamente sola. Cosa ci faceva in quella casa? Chi erano quelle persone? Che senso aveva che lei fosse lì?
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, ora giunte in grembo, che giochicchiavano con il lembo della sua camicia. Si sentiva fuori luogo. Non aveva praticamente aperto bocca per quasi tutta la sera, limitandosi a sorridere mestamente alla conversazione altrui e a rispondere quando veniva interpellata direttamente. Era di troppo, come sempre.
 
Quasi sussultò, quando la mano destra di Levi si poggiò sulle sue, stringendole appena. Non aveva distolto lo sguardo dagli ospiti, stava continuando a parlare di una qualche esplorazione che aveva compiuto mesi prima, eppure Mikasa seppe all’istante che aveva percepito che qualcosa non andasse in lei. Le strinse la mano sinistra con maggior decisione e lei sentì il cuore che aumentava il suo battito.
Senza bisogno di parlarle le stava dicendo tutto quello che contava: che lui la voleva lì, che lei era importante, che sapeva quanto fosse a disagio, ma che non era sola, perché c’era lui lì con lei. Sospirò appena, alzando lo sguardo verso di lui. Levi le lanciò uno sguardo di sbieco, abbozzando un sorriso che la rassicurò ancora di più, prima che una domanda del piccolo Danny gli facesse voltare il capo. Ma non lasciò andare la sua mano.
 
Mikasa ripensò a quello che era successo nel capanno, qualche ora prima. A quello che lui le aveva detto con un filo di voce. A quelle parole che l’avevano lasciata senza fiato, così incredula e felice che non era riuscita neanche a rispondere. Sapeva che lui provava per lei forse lo stesso trasporto che lei provava per lui, ma sentirselo dire chiaro e tondo era un’altra cosa.
 
La voce di Abel la riscosse dalle sue riflessioni: «Allora, Mikasa…eri nel Corpo di Ricerca. Conoscevi anche tu mio cugino Farlan?»
 
Lo sguardo della ragazza scattò in alto, verso il padrone di casa, mentre un’espressione incredula le si dipingeva sul volto, facendole spalancare gli occhi. Sentì la presa di Levi sulla sua mano farsi d’improvviso quasi troppo ferrea.
 
Prima che avesse modo di rispondere, il capitano si intromise, con un tono secco: «No, è troppo giovane. Non era ancora nell’esercito»
 
Mikasa si schiarì la voce: «Purtroppo non ne ho avuto il piacere» mormorò l’istante dopo. Levi lasciò andare la sua mano.
 
«Levi ti ha mai raccontato di come lui e mio cugino mi abbiano salvato la vita pagandomi il passaggio per la superficie?» proseguì Abel, evidentemente indifferente alla strana sensazione di disagio che si era appena propagata tra gli altri commensali.
 
«Abel» intimò il capitano, con un tono imperatorio che non ammetteva repliche. Mikasa gli lanciò uno sguardo preoccupato, mentre vedeva la sua fronte aggrottarsi.
 
«Che c’è» protestò Abel, mollando una manata sulla spalla sinistra di Levi così forte che avrebbe fatto cadere chiunque altro giù dalla panca «Ancora restio a farti riconoscere i tuoi meriti. Cazzo, Levi, se non fosse per te intorno a questa tavola non ci sarebbe seduto nessuno!» esclamò bonario, buttando giù un altro sorso enorme di birra.
 
Levi abbassò lo sguardo. A Mikasa non sfuggì lo stringersi della sua mascella. Raramente le era sembrato così a disagio.
 
Si scambiò uno sguardo preoccupato con Debra e Joshua – palesemente imbarazzato dalla mancanza di tatto del padre – e prima che questi potesse riaprire bocca, Mikasa lo precedette:
 
«Debra, potrei avere un altro po’ di dolce? Era squisito!» esclamò con fin troppo entusiasmo «Potresti spiegarmi la ricetta?»
 
La donna colse al volo l’occasione e si lanciò in una lunga e complessa digressione culinaria che distrasse anche il marito.
 
Mikasa faceva finta di ascoltare, ma teneva d’occhio Levi, che sospirò lentamente, prima di alzare lo sguardo verso di lei. La ragazza lesse nei suoi occhi un tacito ringraziamento, che le colorò appena le guance.
 
 
 
 

La serata proseguì senza altri intoppi e finalmente giunse l’ora di andare a letto. I ragazzi salirono al piano di sopra dopo qualche lamentela poco convinta –  visto che stavano morendo di sonno – e Levi si alzò per seguirli, immediatamente copiato da Mikasa.
 
«Conosci la strada!» li salutò Debra, alludendo alla camera degli ospiti, prima di alzarsi a sua volta ed andare ad aiutare il marito, che oltre a non avere le gambe ormai sembrava piuttosto sbronzo.
 
Levi le sorrise prima di uscire dal salotto, con Mikasa al suo fianco che lo osservava in silenzio. Sospirò. Era stanco, anzi esausto. Niente di quella giornata era andato nel verso giusto, non vedeva l’ora di gettarsela alle spalle, sempre se fosse riuscito a chiudere occhio. Non avrebbe dovuto acconsentire alla gita fino al lago, tanto per cominciare. Sapeva che era troppo lontano per andare e tornare in giornata, soprattutto col meteo instabile di marzo. Non avrebbe dovuto chiedere ospitalità ad Abel e Debra, il modo in cui lo guardavano gli faceva stringere le viscere fino a provocargli la nausea. A volte si sentiva in colpa ad evitarli, era affezionato ai ragazzini e poi gli sembrava irrispettoso nei confronti di Farlan, ma era più forte di lui. E poi l’errore più grave di tutti: aver detto quelle parole a Mikasa nel capanno.
 
Si morse il labbro inferiore mentre saliva per le scale e camminava verso la stanza più in fondo al corridoio. La camera che gli si aprì davanti era semplice e pulita: vi era un letto matrimoniale con una trapunta azzurra, una stufa di porcellana accesa nell’angolo, un paio di sedie e un piccolo guardaroba. La finestra dava sul retro della casa, verso gli alberi che circondavano l’insediamento. Fuori continuava a piovere imperterritamente. Si stupì vagamente del fatto che Debra non gli avesse neanche chiesto se andasse bene per loro condividere la stanza. Erano diventati così palesi?
 
Si lasciò cadere pesantemente con la schiena sul letto, espirando rumorosamente con lo sguardo fisso sul soffitto, il più lontano possibile da Mikasa, che chiuse la porta alle sue spalle.
 
«Che è successo ad Abel»
 
La sua voce richiamò la sua attenzione. Era una domanda, ma dal tono sembrava più un ordine a parlarle. Si complimentò interiormente con lei per aver preso il discorso del loro passato così alla lontana, ma ovviamente non le disse nulla in merito.
 
Si sistemò le mani dietro la testa, sospirando di nuovo. Chiuse gli occhi solo per un istante. Pessima idea. Una serie di immagini poco piacevoli gli vorticò nella testa immediatamente. Riaprì gli occhi di scatto, poi con un gesto stizzito si sfilò la benda dal viso, lasciando respirare le sue cicatrici. Mikasa come al solito non gli mise fretta: rimase a braccia conserte appoggiata allo stipite della porta.
 
«Lo chiamavano il Morbo del buio» disse alla fine, sentendo la sua voce più roca di quello che avrebbe voluto. Mikasa rimase in silenzio, aspettando che approfondisse. Era quasi snervante quanto fosse diventata abile nel leggerlo.
 
«Ne soffrivano in tanti, credo dipendesse dalla mancanza di sole. L’unico modo per salvarti, se ti prendeva, era salire in superficie. Iniziava dalle gambe, poi proseguiva a tutto il resto del corpo. Alla fine morivi coi polmoni incancreniti e senza più nessun arto.»
 
Mikasa annuì e prese a togliersi gli stivali con noncuranza. Levi sbuffò: quell’indifferenza era tutta una tattica e lui lo sapeva bene, non le avrebbe dato la soddisfazione di guidare ancora questo tira e molla.
 
Riprese: «Quando Abel salì in superficie era troppo tardi per le sue gambe, ma almeno è sopravvissuto»
 
Mikasa lasciò andare un sospiro soddisfatto quando i suoi piedi furono finalmente liberi, poi andò ad appoggiarsi con i gomiti sull’alta spalliera di legno in fondo al letto, puntando il suo sguardo su di lui, che continuava a fissare il soffitto.
 
«Tua madre è morta così?»
 
Questa non se la aspettava. Si voltò di scatto verso di lei, senza riuscire minimamente a nascondere la sorpresa che gli accese il volto. Lo stupì anche il tono di lei: così tranquillo, come se gli avesse chiesto una cosa qualunque. Come se la morte di sua madre fosse un argomento che avesse mai trattato con anima viva prima d’ora.
Si voltò di nuovo, con gli occhi nuovamente verso il soffitto, mentre gli sembrava di sentire il suo respiro accelerare un po’ troppo.
 
«No»
 
Mikasa non insistette. Non gli chiese nient’altro, rimase semplicemente appoggiata al letto, pensando a chissà cosa. Levi gliene fu vagamente grato, come diavolo erano finiti a parlare di sua madre, poi?
Il fatto che lei però non si spostasse da lì lo mise leggermente in allarme: l’interrogatorio non era ancora finito. Si passò faticosamente la mano destra sugli occhi. Voleva solo che quella dannata giornata finisse.  Allo stesso tempo si sentiva in collera con se stesso perché chissà quanto tempo gli era ormai rimasto da trascorrere con lei: giorni? Una settimana, un mese? E non riusciva a mettere da parte il suo cazzo di carattere neanche per cinque minuti.
 
«Scusa» mormorò «Sono solo stanco»
 
 


Si misero a letto senza altre parole.
 
La stanza era buia, illuminata vagamente solo da qualche stella temeraria che stava facendo capolino tra le nuvole sfilacciate.  Il calore della pesante trapunta e la morbidezza del materasso e dei cuscini fecero sospirare Mikasa di piacere, mentre si accoccolava meglio. Levi rimase steso a pancia in su, con gli occhi aperti e la mente che vagava senza sosta. Quella immobilità lo innervosiva, avrebbe preferito alzarsi ed uscire di casa, ma si sentiva davvero troppo stanco per farlo davvero. Si chiese per l’ennesima volta cosa sarebbe successo una volta che Historia avrebbe confermato la sua missione. Il pensiero di tornare lì sotto forse per mesi lo fece rabbrividire. Non era più quello di una volta: era mezzo cieco, col ginocchio fottuto e la mano destra che non poteva più usare i pugnali come prima, era certo che non sarebbe mai più tornato in superficie una volta scesa quella scala di pietra. L’idea di non poter rivedere mai più il cielo lo lasciò come sempre senza fiato. Si costrinse a trarre un profondo respiro, ma gli sembrò tremolante e incerto.
 
«Levi…»
 
La voce di Mikasa lo fece sussultare, era certo che si fosse ormai addormentata. Si voltò verso di lei, che lo stava guardando accoccolata sul fianco destro. Sul volto aveva un’espressione indecifrabile, che a Levi sembrava dolce, ma anche misteriosa.
 
«Sono qui» sussurrò.
 
Mikasa allungò il braccio sinistro e gli accarezzò la spalla, come per cercare la conferma alle sue parole.
 
«Riguardo a prima, nel capanno…» riprese lei. Levi si irrigidì all’istante. «Anch’io ti a…»
 
La interruppe: «Non dirlo»
 
Mikasa sospirò. «Perché?»
 
«Perché non dovresti»
 
Si scostò dal tocco di Mikasa, ma sentiva ancora il suo sguardo su di lui. Alla fine, si mise a sedere con le gambe fuori dal letto, dandole le spalle.
 
«Cosa non dovrei, dirtelo o essermi innamorata di te?» Stava ancora sussurrando, ma il tono della sua voce si era acceso. La stava facendo arrabbiare. Levi non rispose, si limitò a fissare le proprie mani, poggiate sulle ginocchia. Sospirò. Sapeva che questo momento sarebbe arrivato dall’instante in cui aveva realizzato cosa si era lasciato sfuggire nel capanno. Era stato più forte di lui, quelle parole erano scappate dalle sue labbra senza che la sua volontà potesse fermarle. E poi non era certo di volerle davvero fermare: presto si sarebbero separati, probabilmente per sempre, per quanto fosse egoista, una parte di sé voleva che lei lo sapesse.
 
La sentì alzarsi dal letto e girarci intorno, finché non si trovò in piedi davanti a lui. Levi tenne lo sguardo basso, sperando con tutto se stesso che lei decidesse di far cadere il discorso ed altrettanto convinto che non l’avrebbe mai fatto ormai.
 
«Levi…» il tono spazientito di lei lo fece quasi sorridere, poi Mikasa espirò lentamente e si inginocchiò davanti a lui, per cercare di guardarlo negli occhi. Gli afferrò le mani con forza. Levi non fece nulla per liberarsi, ma tenne gli occhi il più lontano possibile da lei.
 
«Perché non dovrei?» stavolta la sua voce era dolce. Levi poteva immaginare perfettamente il sorriso triste sul suo volto senza neanche doverla guardare. «Perché non dovrei amare la persona migliore della mia vita? La persona che mi è sempre stata accanto, che mi ha sempre aiutato…anzi, che ha sempre aiutato chiunque avesse intorno? Che mi ha reso la persona che sono oggi? Che mi ha sostenuto quando il mio mondo è crollato in pezzi? Che mi abbia donato una nuova casa, una nuova vita quando pensavo che sarebbe stato impossibile per sempre?»
 
Levi chiuse gli occhi. Voleva dirle di fermarsi, di smettere di parlare, ma la sua gola era completamente secca. Sentire quelle parole gli stava stringendo qualcosa dentro. La certezza di quanto tutto questo fosse sbagliato lo schiacciava. Non avrebbe mai dovuto farla restare, non avrebbe mai dovuto permetterle di innamorarsi.
 
«Perché non dovrei amare l’unica persona al mondo uguale a me?» proseguì lei.
 
Levi spalancò gli occhi, cogliendola di sorpresa. Vide le sue guance arrossate, gli occhi a mandorla leggermente lucidi. Le rivolse uno sguardo duro, prima di tornare a fissare le loro mani.
 
«Questo non dirlo mai. Tu non sei come me.»
 
Si accorse che le sue mani avevano iniziato a tremare. Fece un respiro tremolante, sotto lo sguardo di Mikasa che era rimasta improvvisamente in silenzio.
 
«Mikasa, io…» respirò di nuovo, incerto su come continuare. Incerto di voler continuare. Il terrore di esporsi lo colse alla gola «…non sono la persona che tu pensi, ok?»
 
La sentì stringergli le mani, che continuavano a tremare. Imprecò interiormente: quand’era diventato così debole?
 
«Ci sono cose che ho fatto… nell’esercito e anche prima, nel sottosuolo…la mia anima è macchiata. Per sempre. Quindi non dire che sei come me. E non pensarlo nemmeno»
 
Cercò di imprimere un po’ di forza nel suo tono di voce, ma non era certo di esserci riuscito. Trasalì quando lei gli accarezzò la guancia sinistra e voltò la testa per cercare di allontanarsi dal suo tocco.
 
«L’hai fatto per sopravvivere. Anche io a nove anni…ho ucciso delle persone che avevano ucciso i miei genitori e volevano farmi del male. Questo fa di me una persona da disprezzare?»
 
Levi sbuffò sprezzante. «Mikasa, ho ucciso persone perché mi avevano sfiorato nel modo sbagliato. Sai come ho pagato il passaggio di Abel in superficie? Non sono una brava persona. È per questo che Erwin mi ha voluto con sé…perché sono un criminale. E ho continuato ad esserlo anche sotto il suo comando»
 
E continuerò ad esserlo sempre.
 
«Levi, io so chi sei» La sua voce era ferma. E bellissima. «Lo so più di chiunque altro.»
 
Mikasa si alzò e si sedette sul letto accanto a lui. Levi continuò a tenere lo sguardo lontano da lei.
 
«Niente di quello che mi potrai dire mi farà mai cambiare idea su di te.»
 
Qualcosa di strano si mosse dentro di lui. Com’era possibile tutto questo? Com’era possibile che lei lo amasse a prescindere?
 
«Qualunque cosa tu abbia mai fatto e qualunque cosa farai non potrà mai cambiare quello che provo per te. Non puoi fare niente per impedirmelo» continuò a mormorare lei.
 
«Anche se dovessimo separarci…anche se dovessi cacciarmi via…Levi, non smetterò mai di amarti»
 
Il suo sguardo scattò in alto senza che Levi potesse impedirlo. La guardò, completamente sconvolto. Il suo cuore gli sbatteva con forza contro le costole. Mikasa lo guardava con quello stesso sorriso, triste e bellissimo, che lui aveva immaginato sul suo viso quando non aveva il coraggio di guardarla. Si accorse di non poter parlare.
 
«Ti amerei anche se non lo meritassi. Ma non è così»
 
Si chiese come fosse possibile, come fosse possibile che lei sapesse sempre trovare le parole giuste per parlargli. Come fosse possibile che provasse amore per qualcuno come lui. Era troppo bello e allo stesso tempo troppo terribile per essere vero. Levi non sapeva se sarebbe mai stato in grado di accettarlo.
 
Mikasa si mosse verso di lui, appoggiando la propria fronte sulla sua. Il suo profumo lo avvolse, confortante ed elettrizzante come sempre. Levi chiuse gli occhi e lasciò che lei gli prendesse di nuovo le mani.  
 

«Spiegami come diavolo fai…» mormorò
 
La sentì sorridere appena, prima che la sua voce dicesse: «A fare cosa?»
 
«A rigirarmi sempre come più ti piace» Si ritrovò a sorridere impercettibilmente anche lui.
 
Aprì gli occhi e vide che lei lo stava già guardando, con un ghigno appena accennato sulle labbra.
 
«Te l’ho detto Capitano Ackermann, ti conosco troppo bene»
 
Levi rimase in silenzio.
 
«Questo ti spaventa?» mormorò lei, titubante, senza allontanarsi. Levi sussultò. Annuì lentamente, mentre il suo cuore riprendeva di nuovo ad accelerare. Ammettere a voce alta il terrore di saperla capace di conoscerlo veramente, di sapere chi fosse davvero era troppo.
 
«Levi…spaventa anche me. Che tu veda dentro di me e d’improvviso capisca…che non sono altro che la mocciosa che hai sempre pensato. Che ti renda conto di esserti illuso su di me…mi fa così paura che a volte non riesco neanche a respirare»
 
Il tremolio della sua voce lo fece scattare. Le prese il viso tra le mani, chiuse di nuovo gli occhi.
 
«Questo è impossibile Mikasa» le rispose.
 
Lei gli prese le mani e le abbassò. Allontanò il viso dal suo e sollevò le palpebre. La luce della luna che stava sorgendo illuminò i loro volti. Mikasa abbozzò un sorriso, mentre il suo sguardo magnetico si ancorava all’unico occhio di lui che poteva ancora vederla.
 
«È impossibile perché mi ami?»
 
Levi trattenne il fiato. Scrutò la sua espressione calma. Era giunto il momento di mettere da parte tutto il resto.
 
«Sì. Perché ti amo»
 
E allora il viso di lei si aprì in uno di quei sorrisi che lo lasciavano senza fiato. La vide arrossire appena, abbassare le ciglia per nascondersi per un attimo, i denti bianchi che facevano capolino tra le sue labbra distese. Sollevò di nuovo lo sguardo e questa volta il sorriso si trasformò in un’espressione birichina.
 
«E mi amerai per sempre?»
 
Senza capire come fosse possibile, Levi si accorse di star sorridendo a sua volta.
 
«Adesso non allargarti, mocciosa» borbottò, tirandola verso di sé per stringerla. Affondò il viso nell’incavo del suo collo, tra i suoi capelli setosi. Inspirò lentamente, mentre la sentiva ridere. 


 

Sono stata così indecisa! Volevo che si dichiarassero esplicitamente, ma temevo che fosse troppo "presto" o troppo fuori dai personaggi...però alla fine come al solito mentre scrivevo le cose mi sono un po' sfuggite di mano e la situazione si è evoluta così eheh...spero vi sia piaciuto :) 

Grazie ancora per i commenti...ma ne aspetto di nuovi! :) 
Buona festa della Repubblica a tutti!

Chikay

 
   
 
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