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Autore: Obiter    05/06/2021    2 recensioni
Prendete Sherlock BBC e tutti i suoi personaggi, diminuite drasticamente la loro età anagrafica e metteteli tutti nella London High School durante il loro ultimo anno. (No, aspettate, non dileguatevi. Non è una storia di adolescenti, non sul serio. Okay, tecnicamente lo è, ma il narratore sarà il nostro maturo, disilluso e geniale Sherlock. Sarà forse un po' più insicuro, un po' più impacciato, un po' più con gli ormoni in subbuglio... Ma sarà sempre lui).
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, De-Aging | Avvertimenti: Tematiche delicate
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In questo capitolo assistiamo a un brusco cambio di prospettiva: la voce narrante non è più quella di Sherlock, bensì quella di... Irene Adler. La conosceremo più da vicino e sarà lei a raccontarci in modo indiretto cosa è successo.

 

 

 

È l’alba e io sono stesa sul letto, in attesa che la sveglia suoni.

Sto cercando di pensare a qualcosa di bello, qualcosa che non siano le ketamine o mio padre. Non mi vengono in mente molte cose, ma mi sforzo. Ogni mattina cerco di pensare a tre cose belle che mi aspettano durante il giorno, me lo ha consigliato il mio analista.

La prima è che oggi saltiamo l’ultima ora. La seconda è che ho iniziato un bel libro, e la terza… La terza è un volto niveo e appuntito. Ma non sono molto brava a immaginare, mi considero una donna più da fatti che da parole, e infatti mi alzo dal letto.

Farà un certo effetto sentirlo dire, ma io ogni mattina mi alzo intorno cinque, quando la città è ancora buia e illuminata dai lampioni. Precedo il Sole ma qualche volta precedo anche la sveglia, resto stesa sul letto a guardare il soffitto, cercando per l’appunto di non perdermi nei soliti pensieri negativi.

Fortunatamente, ieri Eloise mi ha sfinito, sento ancora lo strascico di quella intensa seduta sul mio corpo. Mi ha legato per i polsi, costringendomi  a stare a testa in giù in una posizione esplicita. All’inizio è stato umiliante, ma poi la trasgressione mi ha fatto sentirei così libera che mi sembrava di avere le ali ai piedi. In quei momenti, sento che niente può spaventarmi, è davvero appagante. E sto imparando, dice che sono la sua migliore apprendista e che farò della strada. Questo mi riempie di orgoglio, vorrei passare tutte le giornate insieme a lei.

Però… Però sessualmente è un disastro. I dominatori non soddisfano, non è il loro compito. Solo che questo alla lunga diventa penoso da sopportare, soprattutto quando vai a casa e non hai nessuno con cui sfogare tutta la passione che hai in corpo. In realtà avrei dei volontari, mi basterebbe alzare la cornetta per trovarmi uno stuolo di giovanotti prestanti e smaniosi, ma non è ciò che voglio io. O meglio, chi voglio io.

Fortunatamente, ho sempre tante cose da fare e pochissimo tempo per farle, sono sempre di corsa. Noi donne siamo sempre di corsa, perfino all’alba.

Quasi tutte le mattine corro una trentina di minuti sul tapis roulant di casa a velocità moderata, altrimenti pratico lo yoga o a altri meno sofisticati esercizi di stretching. Sono costretta ad allenarmi di mattina presto perché non ho altri momenti liberi durante il giorno e devo farlo, assolutamente. Non sono alta e slanciata come Astrid, devo stare attenta se non voglio assumere una forma rotonda, soprattutto da quando ho abbandonato la danza classica. 

Dopo ciò vado a fare la doccia e a giornate alterne mi lavo anche i capelli, non li metto in piega come vorrei perché il tempo è tiranno, ma mi occorre comunque un’ora buona, perché li passo con cura sotto la piastra. I miei capelli naturali sono ingestibili, ricci, crespi, mi fanno sembrare una pecora e io non li posso vedere. E così siamo già arrivati alle sette e trenta.

Il momento in cui mi devo vestire è il più rapido, dato che scelgo cosa indossare la sera prima e mi preparo l’outfit fuori dalla cabina armadio, sopra la poltroncina. Poi, una volta vestita alla velocità della luce, passo al make up, non faccio un’opera di restauro per rendermi irriconoscibile, ma mi occorrono comunque dieci minuti abbondanti… Beh, facciamo quindici. La bellezza dopotutto è dedizione, è un’arte che va coltivata e approfondita, esattamente come lo studio. Nel frattempo il mio cellulare si sveglia, inizia a squillare fastidiosamente. Mi arrivano i buongiorno di parecchi ragazzi, mi arrivano delle faccine sorridenti, delle richieste d’amicizia e in generale molte notifiche, tutta gente che ha dei doppi fini. Rispondo (non certo a tutti) con una mano mentre faccio colazione con l’imbuto e poi esco finalmente di casa, i miei genitori hanno divorziato e non ci sono quasi mai, perciò esco chiudendo la porta a chiave, come se vivessi da sola.

Di solito c’è sempre qualcuno che mi viene a prendere, raramente prendo io la macchina. Questa volta c’era Kate, le ho dato un bacio sulle labbra e poi mi sono seduta nei posti dietro. Davanti c’era quel tipo biondo e anonimo con cui stava uscendo. Non ho idea che cosa ci trovi in lui, è così ordinario da rasentare la mediocrità. Tuttavia, questo John Watson pare avere conquistato il cuore anche dell’uomo meno mediocre e più selettivo che io abbia mai conosciuto. Se piace a lui, allora non deve essere così ordinario come sembra. Certo, da come si veste non sembra certo promettente. T-shirt, jeans larghi e consunti, colori che fanno a cazzotti, non mi pronuncio sulle scarpe. Ma perché i ragazzi non si guardano allo specchio prima di uscire?

“Ciao, John” lo salutai gentilmente, forse era la prima volta che gli rivolgevo la parola “Come va?”

Vidi gli occhi di Kate fissarmi stupefatti dallo specchietto retrovisore, le ho fatto l’occhiolino. Watson invece si voltò verso di me con aria perplessa, aveva una tazza di cappuccino in una mano e il cellulare nell’altra.

“Ehi” sillabò, stupito “Tutto bene, tu?”

“Non male” ammetto di averlo abbagliato con un bel sorriso civettuolo “Oggi che corsi frequenti?”

L’ho lasciato parlare, ma solo per ascoltare ciò che mi interessava davvero. Potrei sbagliarmi, ma Sherlock ha modificato la sua tabella oraria per essere sempre in corso con lui. Non si spiegherebbe perché abbia iniziato a frequentare francese, altrimenti.

A un certo punto il cellulare di Watson si illuminò e nello schermo comparve la notifica di un messaggio. Sembro pazza, lo so, ma appena lessi che era un messaggio di Sherlock, un brivido di entusiasmo mi corse sulla schiena. Mi sono infilata con disinvoltura nello spazio tra i due sedili anteriori e ho letto avidamente quello che aveva scritto:

“TROVATO”.

Trovato? Cosa poteva aver trovato? O cosa poteva aver perduto… Sento la curiosità bruciarmi in tutto il corpo ancora adesso. Watson si limitò a rispondergli un “Fantastico!” e poi la loro breve corrispondenza telefonica terminò lì. Presi quindi un’altra strada.

“Ti sei fatto molti amici, ho visto” iniziai il discorso, largheggiando per non destare sospetti “Ti trovi bene qui?”

“Ma sì, dai, non posso lamentarmi” mi rispose laconico, è un tipo di poche parole e, chissà perché, ma io non gli sto molto simpatica.

“Perfino Sherlock Holmes sembra esserti amico, sembrate quasi una coppietta” andai dritto al sodo. Kate alzò palesemente gli occhi al cielo, l’ho intravista sempre dallo specchietto retrovisore. Lei sa, è l’unica che sa.

John si irrigidì e abbassò un attimo lo sguardo, il suo viso si era visibilmente indurito.

“Quindi?” mi domandò a muso duro.

“No, nulla. È così difficile avvicinarsi a lui che mi sorprendo” gli risposi innocentemente “A stento mi rivolge la parola”

“Beh, forse c’è un motivo se non ti rivolge la parola” replicò lui, secco “Vi comportate tutti da stronzi con lui, sfido chiunque a volere mantenere le distanze”

Il sorriso mi morì letteralmente sulle labbra. Kate si schiarì la voce in quel silenzio denso di imbarazzo e di offese non dette, e cambiò prontamente discorso…

Arrivammo presto a scuola, uscii dall'auto prima di loro e mi avviai velocemente verso l’ingresso. Mi sentivo ferita. Molti mi salutarono e quel bellimbusto di Godfrey Norton mi corse incontro. Che rottura, non lo sopporto. Ha l’aspetto di un tennista abbronzato e si sente un fenomeno, ma se gli chiedessi chi ha vinto la guerra di secessione sono certa che non saprebbe rispondermi. Come mi raggiunse, intavolò subito il discorso più in voga del momento, ovvero la festa di Henry Baskerville. Era da un mese che non si parlava d’altro e pensare che, se fosse stato per me, non ci sarei nemmeno andata.

“... Pensavamo di restare lì a dormire e di tornare con calma il giorno dopo, tanto Henry ha detto che per i suoi migliori amici lo fa volentieri”

E da quando io ero una migliore amica di quel tizio?

“Magari ci fermiamo anche per il pranzo” ha terminato Norton e io ho avuto la spiacevole idea di guardarlo e forzare un sorriso. Non avrei dovuto, l’ho acceso di entusiasmo.

“Senti, Irene, tu… Con chi vai in macchina, poi?”

E infatti. Il prossimo che me lo avesse chiesto si sarebbe beccato un pugno in faccia. E dopotutto con chi va in macchina Irene Adler è una questione molto importante, evidentemente.

“Non lo so, ancora” gli ho risposto gentilmente, ma ho chiuso forte l’armadietto. Se fosse stato un buon osservatore, avrebbe capito che ero irritata.

“Io ho un posto libero” mi propose con slancio, tirandosi il ciuffo biondo “Col Mercedes di mio padre stiamo larghi e ci mettiamo la metà del tempo, c’è anche Seb e la sua ragazza”

Ci sono anche Seb e la sua ragazza, ho pensato tra me e me, ma ho fatto a meno di correggerlo. Gli ho accennato un sorriso e ho alzato una spalla.

“Grazie, ti faccio sapere” gli ho detto in modo affettato “Ora scusami ma devo scappare”

In realtà non dovevo scappare proprio da nessuna parte, naturalmente. Volevo solo togliermelo di torno, lui e quello stupido pallone che aveva certamente nascosto dentro lo zaino.

Sfilai per i corridoi con le spalle dritte e la testa alta, e come al solito sentii gli sguardi di tutti addosso. Tutti vedono solo ciò che voglio far apparire e mi hanno stereotipato, dato un ruolo: io sono la cheerleader. Sono bella e popolare, ma allo stesso tempo sono considerata vuota, frivola, stupida e, diciamolo pure, sgualdrina. Sono circondata da odio, invidia e rancore ma rido e sorrido in un trionfo di ipocrisia. Non mi importa niente di quello che pensano, per quanto sia emotivamente stancante essere circondata da falsi amici. Ma dopotutto sono persone che, con un po' di fortuna, non vedrò più per il resto della mia vita.

Andai in bagno a darmi un’ultima sistemata allo specchio. Mi ricambiò il riflesso di una ragazza dall’aspetto vezzoso e sofisticato, curato in ogni minimo dettaglio. Mi ero anche cosparsa di profumo. Tutto era in regola, ma io, come molte ragazze della mia età, mi soffermavo solo sui difetti e li enfatizzavo come se fossero sotto i riflettori. Mi vedevo le labbra troppo sottili, il seno troppo piatto, i capelli troppo ricci, i fianchi troppo larghi e tante altre sciocchezze che, con il senno di poi, ho capito non esistevano. Ero ben conscia di piacere e di essere reputata bella, ma una parte di me ne era infastidita. Per quanto assurdo potesse sembrare, ero maggiormente aperta alle critiche piuttosto che ai compimenti.

Mi sono domata con le dita un ricciolo ribelle e sono uscita dal bagno immersa nei miei pensieri, ed è stato proprio in quel momento che, finalmente, l’ho visto arrivare. Un sorriso spontaneo germogliò sulle mie labbra.

Sherlock camminava a passo molto svelto, con il naso sepolto in un libro e il cappotto che gli cadeva alle spalle come un mantello di altri tempi. Mi superò senza nemmeno degnarmi di uno sguardo, le sue ampie falcate avevano un che di austero ed evitavano ogni ostacolo con una grazia rara in un uomo, come se avesse delle antenne in mezzo a quei morbidi riccioli. Pareva totalmente immerso nella lettura, ma io tanto sapevo che mi aveva visto, lui mi vede sempre.

Decisi di andare a salutarlo, anche per vedere cosa stava leggendo quel giorno. Una volta l’ho sorpreso con un libro sulla coltivazione della cannabis, un’altra con un manuale di farmacologia e un’altra ancora con un saggio sui sottomarini della seconda guerra mondiale. Mi fa sorridere, sembra davvero pieno di interessi e curiosità, ma nessuno dei suoi passatempi pare contemplare un’attività che si possa fare in due, non so se mi spiego.

Appena lo salutai con la mia migliore voce flautata, la sua schiena si aprì e si raddrizzò come una vela. Si voltò verso di me e mi puntò i suoi occhi diffidenti e scrutatori addosso.

“Adler” mi disse solo, senza l’ombra di un sorriso. Poi prese subito un’altra strada, tanto per farmi intendere che l’avevo disturbato e che non voleva avermi tra i piedi.

Quanto mi fa sospirare…
 

Devo ammetterlo, mi fa soffrire questo suo ostinato gelo, ma col tempo ho capito che è solo un meccanismo di difesa, un baluardo dietro cui si nasconde, non una forma di ostilità o disprezzo nei miei confronti. Lui è speciale, è forse la persona più spontanea e genuina che io abbia mai conosciuto. Il suo sguardo è diretto e schietto come una doccia fredda, ma è del tutto privo di cattiveria o invidia. Non parla per ferire, parla per dire la verità, che a volte è dura, ma è pur sempre la verità, bisogna saperla accettare e io l’accetto.

Accetto di essermi perdutamente innamorata di lui, così tanto da starci male, da soffrire e gioire allo stesso tempo. E accetto il fatto che lui sembra non ricambiare il mio sentimento, e dico sembra, perché in realtà non so bene che cosa gli passi per la testa. Noto i suoi sguardi fulminei e trattenuti, vedo come si irrigidisce in mia presenza e la fatica che fa a parlarmi, non sono cieca. Ho cercato di avvicinarmi e incoraggiarlo, ma è stato inutile, forse controproducente. L’ho solo reso più allarmato e sospettoso. Crede che io sia sempre animata da intenzioni crudeli e che mi avvicini a lui solo per fargli del male. Non si concede nemmeno il beneficio del dubbio e sarebbe interessante capire perché. O percepisce me irraggiungibile o percepisce se stesso irraggiungibile. Propendo per la seconda, si sente una fortezza inespugnabile e si comporta come tale. E io non so mai se è meglio ignorarlo o essere spudorata. Ammetto che mi comporto in modo contraddittorio, un giorno sono ispirata dall’idea di ignorarlo e un altro da quella di provarci. Forse lo confondo… ma non è facile nemmeno per me!

E dire che credevo di essere omosessuale. Non ho mai avuto un fidanzato, non sul serio. L’ultima volta che sono stata con un uomo (“uomo”, che parola grossa) fu proprio la mia prima volta. Fu un’esperienza traumatica, orribile, ero troppo piccola e non ero pronta per farlo, non volevo farlo, ma chi era con me se ne infischiò. Lo considero uno stupro e da allora non ho più visto un uomo nudo in vita mia, il solo pensiero mi ripugnava. Ho cominciato a frequentare le ragazze e mi sono resa conto di quanto siano migliori sotto ogni punto di vista. Lo penso orgogliosamente tuttora, anche se, piano, piano, man mano che osservavo Sherlock e le sue complesse nonché stravaganti letture, la curiosità di conoscerlo aumentava, così come aumentava la consapevolezza di quanto fosse meravigliosamente intelligente e lontano, assorto in un potente flusso di pensieri. Capii subito che era diverso, che non era semplice, lineare e banale come tutti gli altri. I videogiochi, il pallone e temo anche il sesso per lui non esistevano, era in un altro mondo che solo pochi privilegiati avevano la possibilità di conoscere.

Ho iniziato a immaginarmi insieme a lui, a sognare mentre mi spiegava le brillanti teorie di qualche scienziato o mi dimostrava questo e quell’altro assioma. E poi ho iniziato a vederlo con altri occhi, a sognarlo in altri modi, a sospirare… Oggi vorrei vedere la sua espressione perennemente concentrata sciogliersi e sentire le sue spalle rilassarsi tra le mie braccia, ne sento quasi il bisogno io per lui.

Entro la fine dell’anno gli parlerò in modo esplicito, anche se l’idea di un no da parte sua mi annichilisce. E un no sembra così plausibile! Preferirei restare nella dolce ma inconcludente illusione di piacergli, piuttosto che rischiare di sbattere la testa contro il muro della realtà, però… Però, quante cose mi perderei, se non ci provassi? Quanti baci, quanta gioia, quanto sesso?

Non sono una di quelle signorine perbene che aspetta il principe azzurro, anche se, a dirla tutta, credo di averlo trovato.
 

***

La festa di Henry Baskerville è stata come l’avevo immaginata: un’esibizione senza fine di soldi, un ammasso indistinto di gente, di alcol, di musica martellante e di luride mani che mi hanno palpato il sedere mentre ballavo. Col passare delle ore, il party è degenerato ulteriormente. Sebastian ha sboccato dentro la piscina, Godfrey Norton ha perso i pantaloni ed è rimasto in mutande, una preziosa statua d’ottone a forma di mastino è stata ammaccata e Kate e John Watson finalmente si sono mollati. E tre deficienti ci hanno provato insistentemente con me, ma io non c’ero per nessuno. Ho ballato tutto il tempo, incurante degli sguardi famelici di chi cercava di approcciarmi. Mi sono sballata, ma in realtà dentro di me ero mortalmente triste, quella era solo una facciata.

Sherlock non c’era.

L’ho immaginato a casa da solo e ho provato un fortissimo disagio. Avrei voluto essere con lui, tra le sue braccia, ascoltare la sua voce e non quella cacofonia di urla e schiamazzi.

Ho provato a chiedere a Watson di lui con nonchalance, ma lui mi ha liquidato dicendo che alla fine non era venuto perchè aveva avuto i suoi buoni motivi.

Mi sono odiata. Sarebbe stata l’occasione perfetta, avrei potuto presentarmi da lui e dirgli la verità.

Fu uno dei miei più grandi rimpianti.

Il giorno dopo era domenica e quando siamo tornati tutti a casa, io non potevo nemmeno immaginare quello che era successo. Lo seppi solo due giorni dopo, quando arrivai a scuola e vidi diverse auto della polizia parcheggiate nel cortiletto. In quel momento pensai a un semplice caso di spaccio di droga, qualcuno che era stato beccato con le mani nella marmellata. Certo non Sherlock, pensai tranquillamente tra me, lui non è il tipo che si fa beccare. E infatti la polizia non era lì per un caso di spaccio, ma per un altro motivo, che diede inizio alla settimana peggiore di tutta la mia vita.

Come entrai, sentii dentro di me ciò che era accaduto prima ancora che me lo dicessero, come se avessi percepito nell’aria la portata drammatica e angosciante di quella disgrazia. L’ingresso era pieno di poliziotti e io vidi con la coda dell’occhio Molly Hooper che piangeva a dirotto.

Sherlock era sparito, non c’era traccia di lui da ormai tre giorni. Era stato visto l’ultima volta dai vicini di casa, che l’avevano sentito suonare il violino nel tardo pomeriggio, e poi basta, si erano perse le tracce.

I tre giorni divennero quattro, cinque, le lezioni furono sospese e alla polizia si aggiunsero degli altri agenti speciali. Molti studenti vennero sottoposti a interrogatorio, non io.

L’ottavo giorno io avevo esaurito le lacrime, il mio corpo non ce la faceva più. Decisi di muovermi.

Uscii e lo andai a cercare, non sapevo dove, non sapevo come, ma ero certa che se fossi uscita e mi fossi immischiata in qualcosa di pericoloso, lui sarebbe comparso a salvarmi. Temeva che qualcuno mi picchiasse, aveva confuso le sedute con la mia dominatrice con qualcosa di violento e  crudele e quanto lo posso amare, per questo? Quanta dolcezza cela dietro quell’armatura?

Se era morto, sarei morta anche io, di crepacuore come un cigno.

Mi inoltrai per strada, nel centro di Londra. Ero molto debole e debilitata, non avevo mangiato o dormito granché in quei giorni, mi veniva solo da piangere e da vomitare. E poi pioveva e faceva freddo, non c’era molta gente in giro.

Tremavo sotto il cappotto, i miei capelli non erano mai stati così ricci e scompigliati da quando ho memoria. Ho camminato senza meta per quasi otto chilometri, ho fatto venire le dieci di sera, nella speranza che lui comparisse da un momento all’altro e mi dicesse “Adler”, come è solito chiamarmi. Non ho mai avuto il piacere di sentirgli dire il mio nome, di vederlo sorridere verso di me, di sentirlo godere dentro di me. Non potevo rassegnarmi.

Ho attraversato un ponte, sono passata di fronte a un pub aperto dall’aspetto lurido e poco accogliente, continuando a far scattare lo sguardo ovunque. Muovermi, avere l’idea di fare qualcosa per cercarlo - anche stupido, come camminare a zonzo per le vie di Londra - mi faceva sentire più tranquilla, mi infondeva un senso di pace generale che dopo quei giorni d’agonia mi sembrava come una manna dal cielo.

Arrivarono le undici e trenta, io ero esausta, ma non avevo intenzione di tornare a casa, non sapevo nemmeno dove fosse casa mia a dire il vero, mi ero probabilmente persa. La disperazione di non vederlo da nessuna parte iniziava a farsi sentire, ma mi ripetevo che Londra era grande e che mi mancava almeno un altro intero giorno di cammino, per non dire due. Se Sherlock mi avesse visto da sola, di notte, in queste condizioni, mi sarebbe venuto incontro, di questo ne ero certa. Lui è tanto protettivo. E quante volte gli dirò che lo amo, quando lo vedrò. Glielo dirò cento volte, duemila volte, non mi staccherò mai più da lui, e poi lo bacerò, ci farò l’amore fino a farmi venire i crampi. Questo pensiero mi rifuse di dolcezza, fu come benzina per i miei piedi doloranti.

Camminai più velocemente e mi inoltrai in una via un po' più animata. Le finestre erano tutte sbarrate, le tapparelle abbassate, ma c’era gente in giro… Beh, gentaglia. Brutta gente, tossici e senzatetto dall’aspetto minaccioso. Indietreggiai inquieta, forse era meglio cambiare percorso. Ma ecco che all’improvviso una mano grande e calda si poggiò sulla mia spalla, mi voltai subito di scatto, travolta da un’improvvisa gioia immensa, ma di fronte a me c’era un uomo orribile e unticcio, che mi sorrideva con una bocca gialla e sdentata.

“Cosa ci fa un bel fiore come te tutto solo a quest’ora?”

Oh, me lo aspettavo. Sarebbe dovuto succedere, dopotutto. Una diciottenne sola e carina di notte che genere di gente può incontrare? Ma non fu quel tizio il motivo che mi portò alle lacrime. Ebbi come un crollo nervoso per la delusione, perché la gioia istantanea ma tanto impetuosa di prima venne oscurata immediatamente da quella losca figura.

Guardai dietro di lui, guardai a destra e a sinistra con rapidità, nel buio scorsi altre figure che si avvicinavano. Iniziai ad avere paura, ma era una paura rassegnata, di chi era pronto al male. Non ero armata, avevo solo la mia forza che era tutt’altro che straordinaria. Le mie gambe e i miei piedi erano stremati, avrei potuto correre ma non avrei resistito a lungo. Sperai solo che mi picchiassero e derubassero e basta, anche se avevo i miei seri dubbi.

A un certo punto una mano fredda mi afferrò forte il braccio, in modo brusco. Mi voltai spaventata e poi trasecolai.

“Cosa ci fai qui? Sei impazzita o cosa?” mi rimproverò Sherlock, conciato in modo irriconoscibile “Hai bisogno di un TSO, Adler. Parlo sul serio”

 

   
 
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