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Autore: sacrogral    10/06/2021    10 recensioni
… in cui madamigella la Luminosa si lascerà andare ai ricordi per non soccombere al presente e si scoprirà che il generale Jajayes ha un cuore; e poi che la vendetta può essere un sacrosanto diritto cui è bello rinunciare, e il pulcino arriverà alla conclusione che tutto il Paradiso terrestre non ha lo stesso valore di un bacio solo, e alla fine che la scienza è fatta di dati come una casa è fatta di pietre ma un ammasso di dati non è scienza più di quanto un mucchio di pietre sia casa.
Questa storia è il continuo di una storia. Ma tanto, si sa, le storie parlano sempre di altre storie.
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Generale Jarjayes, Oscar François de Jarjayes
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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… in cui madamigella la Luminosa si lascerà andare ai ricordi per non soccombere al presente e si scoprirà che il generale Jajayes ha un cuore; e poi che la vendetta può essere un sacrosanto diritto cui è bello rinunciare, e il pulcino arriverà alla conclusione che tutto il Paradiso terrestre non ha lo stesso valore di un bacio solo, e alla fine che la  scienza è fatta di dati come una casa è fatta di pietre ma un ammasso di dati non è scienza più di quanto un mucchio di pietre sia casa.

 

Oscar de Jarjayes amava suo padre, di cui era il ritratto, con una pienezza e una forza oltre ogni discussione e analisi critica. E mai una volta lo aveva visto debole. Quella forza, che era pietra preziosa e pietra focaia, intransigenza e rispetto del dovere a sprezzo della vita stessa gli si era impressa nel cuore, e l’aveva desiderata per sé. Soltanto una volta aveva visto il generale Jarjayes preda dell’emozione, e la ricordava benissimo. Avrà avuto una decina d’anni, lei, e suo padre ancora posticipava quel discorso tanto claudicante sullo sbaglio di natura, percependo il terreno scivoloso, mentre madame Marguerite mordeva il freno, mezza pentita e mezza fiera del destino della figlia.  Passeggiavano l’uno accanto all’altra, e Augustin Reyner François de Jarjayes citava Il principe dell’italiano Niccolò Machiavelli, uomo del Rinascimento fiorentino che lui riteneva il più grande politico della storia. La invitava a guardarsi intorno, perché la conoscenza del luogo era requisito fondamentale per vincere una battaglia. Oscar, che al suo confronto era minuscola, beveva le parole del padre come acqua di fonte, le memorizzava, e si guardava intorno.

Debbe il principe per tanto mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra, e nella pace vi si debbe più esercitare che nella guerra: il che può fare in dua modi; l'uno con le opere, l'altro con la mente. E, quanto alle opere, oltre al tenere bene ordinati et esercitati li sua, debbe stare sempre in sulle caccie, e mediante quelle assuefare el corpo a' disagi; e parte imparare la natura de' siti, e conoscere come surgono e' monti, come imboccano le valle, come iacciono e' piani, et intendere la natura de' fiumi e de' paduli, et in questo porre grandissima cura (1) declamava il generale in un italiano zoppicante di cui andava molto fiero; e riassumeva: “È in tempo di pace che l’uomo d’armi si prepara alla guerra. Studia il territorio andando a caccia, esplorando, cavalcando. Così che mai un attacco lo colga di sorpresa e mai il nemico lo trovi in una situazione di ignoranza sfavorevole sul piano della scelta di campo. Mi segui, Oscar?”

“Certo, padre!” si affrettava la bambina che si credeva un bambino, distraendosi e riconcentrandosi in fretta, felice di essere con lui e che lui la istruisse, e temendo tuttavia di non riuscire a trattenere ogni cosa.

Ad un tratto apparvero, lontano, un contadino che arava il suo campo, e un vecchio cavallo attaccato all’aratro. Entrambi molto lenti, procedevano a piccoli passi, e chi li osservava, casuale, poteva aver la sensazione che ammazzassero il tempo. Il generale si interruppe e osservò la scena.

“Non è possibile” disse al nulla “Estelle

e Oscar alzò gli occhi al cielo, per cercare le stelle, prima di ricordare, con uno sforzo, che suo padre, per anni, aveva avuto assegnata una cavalla di nome Estelle, che era con lui in pace e in guerra; e che in tutte le missioni, quando Augustin de Jarjayes le sfoggiava nel ricordo, ormai appariva solo come Estelle, come un commilitone.

Ma suo padre aveva già fischiato forte, e l’eco restituiva ancora il rumore quando il cavallo, alzando le orecchie, dimentico della vecchiaia e pure dell’aratro, cominciò a galoppare come un puledro, portandosi dietro aratro e tutto, mentre il generale Jarjayes fischiava e poi apriva le braccia. E quando la cavalla giunse lì vicino e cominciò a strusciarsi al generale, Oscar vide suo padre per la prima volta piangere, ed erano lacrime vere che iniziavano dagli occhi aperti chiusi e gli gocciolavano nelle guance, per finire nel sorriso della bocca; e cavallo e generale si abbracciavano e si baciavano e si ritrovarono e parlavano fra loro della gioventù e della polvere dei campi di battaglia e Oscar capì che suo padre era capace di amore, e anche di amore per una femmina.

Il generale sborsò senza batter ciglio una cifra esorbitante per portarsi via la cavalla così, su due piedi; e siccome non aveva denaro con sé, lasciò a garanzia un orologio da tasca che aveva ricevuto da uno zio quand’era ragazzo, conscio che quell’uomo avrebbe potuto tenersi l’oro, invece di recarsi l’indomani, a palazzo Jarjayes, a ritirare la cifra pattuita.

Eppure, senza esitare e senza pensare, il generale si portò via la cavalla, e lungo la strada parlò con lei, e neanche fece il gesto di salirle in groppa, teneva appena le briglie a quel vecchio cavallo che gli camminava vicino come ci si aspetterebbe da un cane. E il generale Jarjayes ripeteva che sarebbe vissuta come una regina per tutto il resto della sua equina vita. E così fu.

 

Chissà per quale assurdo motivo, al colonnello Oscar Françoise de Jarjayes alias madamigella Oscar tornò in mente quel pomeriggio singolare, e le lacrime di suo padre viste una sola volta, mentre seguiva senza opporre resistenza alcuna tre sconosciuti nel buio delle vigne, senza neppure pensare a scappare e con una freddezza da vero soldato.

 

E fu allora che vide, fra falò accesi che sembravano fuochi fatui, una piccola folla di uomini radunati, che dovevano essere buona parte dei partecipanti alla vendemmia del Maudit, alla vendemmia del marchese de Sade. Poche le donne, e qualche ragazza –  intravide tre fanciulle in fiore attorno a una quarta dall’aria smarrita e incredula, vestita di bianco. 

Per qualche ragione, si sentiva da questa osservata, con odio. Il capro espiatorio, senza dubbio, il sacrificio da nessuno richiesto  per la terra. La prescelta dall’alea del caso. 

Nessuno era allegro. Oscar pensò che, se qualcuno le avesse detto, anche solo il giorno prima,  che si sarebbe trovata in tal situazione, in tal frangente, a quel ‘qualcuno’ avrebbe dato del pazzo.

Lo scarto logico, pensò lei, era insostenibile. Tutti lì riuniti per fare qualcosa che nessuno avrebbe voluto fare e che non avrebbe giovato – era evidente – a nessuno. Sentiva freddo, pensò che c’era qualcosa di poco decoroso nel morire in maniche di camicia, la camicia ancora macchiata di Maudit e sulla linea purissima che dal collo portava al seno il ricordo della saliva di quell’uomo deprecabile.

Non deprecabile, né repellente, tuttavia, come quella scena da caccia alle streghe, da illustrazione medievale. Vide un vecchio con in mano quella che le sembrò una falce, come quella che la nonna usava per tagliare l’erba da dare ai conigli, pensò. Allora il sangue per nutrire la terra che avrebbe nutrito le viti che avrebbero nutrito il vino sarebbe venuto dal suo collo, si disse, sgorgando a fiotti come acqua da una fonte. Chissà, recidendole la carotide, sarebbe lei riuscita, perché impossibilitata, a non urlare. Trattenere lacrime e istinto, non portarsi la mano alla gola, no, quello sarebbe stato impossibile.

Immobile, nello stupore generale, Oscar de Jarjayes sentì il vento che le staccava la stoffa della camicia dalla pelle e guardò, rapida, il cielo trapunto di stelle, pensando che sarebbe stata l’ultima immagine da portare con sé varcando la linea del grande mistero che, prima o poi, tutti abbraccia.

E udì il normanno, con aria esaltata, fare un annuncio: “C’è un cambio di programma, il Cielo e la Terra ci hanno mandato un segno, la piccola Lorraine è salva, non è lei che la Grande Madre vuole…”

 

Il piccolo Foret non poteva sapere che quello era l’Eden, primo perché nessuno pensa di vederlo coi propri occhi, poi perché siam tutti incerti sul fatto che esista davvero; eppure lì si trovava in anima et corpore, come si suol dire e anche se il suo corpo era steso nel pavimento opaco della Disperazione, quattro uomini a pregare per lui ciascuno alla sua maniera, e si guardava intorno stupito, vedendo ogni cosa per la prima volta; se fosse vissuto in un altro secolo e avesse avuto un’altra vita avrebbe definito l’esperienza lisergica. Ma adesso saltellava felice in mezzo ai fiori, canticchiava fra sé e sé, ignorando l’Albero del Bene e del Male, libero di essere un bambino. E come un bambino fu attratto dalla cosa che, fra tutte, giudicò la più interessante: una ragazza, imbronciata, seduta fra i narcisi e i lillà. Era Thèrése, e lo aspettava.

Lo squadrò da capo a piedi e poi viceversa.

“Ti immaginavo diverso. Ti pensavo alto, biondo e intelligente. Invece sei magrolino, basso e con l’aria dello scemo. Ma va bene lo stesso. Mi hai sentita e mi hai risposto”.

“Sì” disse Foret, limitando a questo, per il momento, il suo non molto pregnante intervento. Aveva sul volto la medesima espressione di stupore che aveva avuto André Grandier poco tempo prima e quella stessa notte, nello stesso tempo, e se lì la parola “tempo” può avere ancora un valore.

“Mi annoio” disse la ragazza, che a Foret sembrava bella anche se era un po’ grassottella, un po’ imbronciata, con i capelli un po’ stopposi; e aveva uno squarcio rosso che le attraversava il collo da parte a parte, ma al pulcino sembrava quasi un monile “Per questo ti ho chiamato, per questo ho fatto delle cose brutte. Ma anche a me – gridò d’improvviso – anche a me è stata fatta una cosa brutta!” e assunse un’espressione ancora più imbronciata.

“Quale cosa brutta?” chiese Foret.

La ragazza sembrò innervosirsi.

“Ma insomma, sei proprio lento! Ti sembra una cosa bella, questa?” accennò al collo “Mi hanno squarciato la gola per raccogliere il mio sangue, per offrirlo alla Terra, davanti ai miei genitori che piangevano ma non hanno fatto niente, perché il Fato sceglie, il Fato vuole… il Fato, il Fato… io non l’ho visto né sentito parlare, il Fato – so solo che è uscito il mio nome da quel bossolo coi nomi delle vergini da poter offrire in sacrificio, et voilà!

“Anche tu sei vergine?” disse Foret, senza pensare, e immediatamente arrossì.

“Macché vergine” ridacchiò la ragazza “Dalle mie parti, si comincia a rotolarsi sul fieno quando appena si sa parlare… ma che ne sanno, loro? Gli adulti se ne dimenticano, e se una ragazza è bella e giovane pensano che valga di più se è vergine, e tutti lo credono!” terminò, fra l’amaro e il divertito.

“Ah ecco” mormorò Foret, in imbarazzo per quell’anche che avrebbe voluto non aver detto.

“Ma alla fine ho vinto io, che li ho maledetti e ho maledetto il loro vino, col mio sangue impuro e con la mia anima pesante; e loro che mi hanno fatto morire e diventare una strega – hysteron proteron, avrebbe detto il marchese – loro pagheranno, pagheranno tutti” concluse, soddisfatta e livida.

Foret si svegliò d’improvviso.

“Indi ragion per cui è per colpa tua che la sorella di Gobemouche sta male. E che a Parigi il vino maudit fa tanto male, e Michel mi ha detto che ero un ritardato, e anche che pure madamigella Oscar sta andando a certa morte, e che Sanson e fra Etienne e pure il dottor Lassone e anche Joss è triste e pure cupo”

“Sì” disse lei, orgogliosa “ Io ho subito una grande ingiustizia, pensavano che non contassi nulla e non potessi nulla, invece la Signora coi capelli rossi che crede nell’amore mi ha detto che non conta il sangue blu perché il sangue è rosso per tutti, conta la giustizia e conta la distanza dall’amore vero… così almeno ho capito. E sono diventata una strega, perché non posso andare in Paradiso ma nemmeno all’Inferno, e allora sto in questo giardino”.

“Chiaro!” disse Foret, per il quale tutto questo era chiaro davvero “Ma io voglio bene alla sorella di Michel e anche a madamigella Oscar per cui ne voglio anche a André, e non mi piace che tutta questa gente che non ha fatto niente di male e son brave persone e madamigella Oscar ha pure liberato Bernard quando faceva il Cavaliere nero ma di notte adesso stanno male e perché la causa è che tu vuoi la vendetta. Ma le cose non stanno mai come sembra che stanno”.

Thèrése prese a saltellare in mezzo alle giunchiglie, e fu distratta da una fenice che volava libera in quel cielo che i lapislazzuli dei fiamminghi non avrebbero potuto riprodurre.

“Cosa vuoi dire?” chiese poi.

“Intendo” disse Foret, con lo sguardo vacuo e preveggente “che tutti sfuggono monsieur Sanson perché è il boia di Parigi, e nessuno immagina che è una brava persona; e che tutti pensano che fra Etienne sia un esaltato ubriacone, e invece è una brava persona; e Joss che è brutto e avaro, e nelle serate storte butta fuori dalla Disperazione due uomini per volta a forza di braccia, è una brava persona e mi vuol bene. Intendo che madamigella Oscar non parla molto e ha gli occhi sempre tristi, ma ha un mondo dentro fatto di profondità e di raffinata delicatezza. Oscar de Jarjayes manca di uno strato di pelle, anche se è un soldato, e percepisce la realtà con più forza degli altri, e possiede una sensibilità fatta di gesti e di silenzi, non di grida e di esternazioni volgari, né di rimorsi patetici, e neppure di acredini prive di indulgenza. 

E forse i Greci avevano torto quando affermavano che è nel momento della morte che si vede come davvero si è vissuto, ma io non lascerò che la pur giusta rabbia di una ragazzina innocente anche se non vergine provochi dolore e sangue in una Parigi che in un giorno non lontano dovrà affrontare fiumi di dolore e fiumi di sangue e violenza; una Parigi in cui la morte farà sembrare innocenti tanti colpevoli e farà sembrare colpevoli tanti innocenti; perché le Rivoluzioni son belle e son giuste, ma solo da lontano, e ne dovrà passare di acqua sotto la Senna perché si arrivi alla giusta prospettiva. Ma la vita, piccola Thèrése, è solo una, a te l’hanno strappata ma tu non la strapperai ad altri, perché non serve a nulla, non è dalla vendetta che si misura un essere umano. E non la strapperai a nessuno, perché tu sei buona, e la tua anima è lieve e senza peso”.

La ragazza lo guardò fisso e le sembrò bello.

“Ma chi sei tu?” gli chiese, dimentica del Paradiso terrestre.

“Cos’ho detto?” disse lui stupito, e poi “Io sono Foret il bastardo”.

E nell’Eden mitico, a due passi dall’Albero della vita, nella Natura lussureggiante che l’uomo non conosce e che rimpiange con nostalgia e struggimento, Foret il bastardo diede e ricevette il primo bacio della sua vita.

 

“La scienza è fatta di dati come una casa è fatta di pietre” pensò il dottor Lassone “Ma un ammasso di dati non è scienza più di quanto un mucchio di pietre sia casa” concluse.

Forse avrebbe bruciato i suoi appunti, e i suoi grafici.

E congiunse le mani, accanto agli altri disperati, accanto a Foret morente.

 

(1)    N. Machiavelli, Il principe, cap. 14 – Quod principem deceat circam militiam

  
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