Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: time_wings    13/06/2021    2 recensioni
[In revisione]
Da… un capitolo:
“Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che, al crescere della gioia, cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza."

Questa storia, come molte altre, parla di una grande amicizia, di un amore nascosto, di un fratello abbandonato, di difficili addii. Certe cose nascono alla stazione di un treno, altre finiscono nello stesso posto. Dove ci porteranno? Be', avanti.
O… la storia di come “alla fiera dell'angst per due soldi un malandrino mio padre comprò”.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Marlene McKinnon, Regulus Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

29. Nascita e morte (di un amore)

 





Aprile, 1977

Aprile sapeva di addii.
L’orologio emise sette rintocchi, un grido lanciato nel vuoto a segnalare il tempo a un mondo che non ne aveva.
“Ti ho cercato ovunque!”
Remus si voltò a guardare Sirius raggiungerlo dalla collina e correre sul prato. Era una cosa spensierata che suonava stonata e insieme balsamica. Si arrestò sulla costa del Lago Nero e riprese fiato, gli occhi che scrutavano nel vuoto. Era una pozza di fresco tra le montagne, quel lago. Se urlavi queste attutivano i suoni, li facevano sembrare onirici e metallici, provenienti dai versanti invece che dalla tua bocca.
“Mi hai trovato.” Remus gli sorrise e lo osservò sedersi accanto a lui, ravanare con una mano tra le pietruzze della costa, incapace di starsene fermo un minuto neanche se l’avesse minacciato di annegarlo nel lago. In realtà il fruscio delle pietre che si scontravano tra le sue dita aveva qualcosa di rilassante.
Il pomeriggio, sul letto di morte, esalava i suoi ultimi respiri.
Remus lo osservò morire con gli occhi persi sul lago, respirando un’aria feroce che puntava a graffiargli la gola. Pensò che avessero solo un altro anno in quella scuola, che il tempo avesse iniziato a scivolargli tra le dita proprio nel momento in cui aveva creduto che la scuola non sarebbe mai finita.
A volte, quando i ricordi di momenti vivi invecchiavano, si trasformavano in nostalgia. La gioia era una cosa troppo effimera per essere imbottigliata, troppo rapida, fuggevole, istantanea. Eppure Remus avrebbe preferito una vita nostalgica a una vita di rimpianti. C’era stato un momento in cui aveva creduto che il suo futuro sarebbe stato nient’altro che un tappeto di tutte le cose che non aveva potuto fare, di tutti i fallimenti che non aveva potuto evitare e tutte le emozioni intense che non era riuscito a vivere. Dopo sei anni di sorprese, Remus si era scoperto un vincitore contro se stesso, si era riscoperto nostalgico proprio perché aveva dei ricordi.
Il cielo era più scuro, le nuvole più fitte, il tempo sembrava venir divorato da un inchiostro nero permanente, destinato solo a intensificarsi. Non sarebbe arrivato nessun eroe a salvarli. Non avrebbero avuto alcun mantello grande abbastanza da venir drappeggiato su tutte le persone a cui Remus voleva bene. Non avrebbero avuto alcuna Mappa del Malandrino precisa abbastanza da prevenire ogni visita inaspettata. Remus non sapeva cosa fosse la morte, non sapeva che sapore avesse quella degli altri, ma sapeva che l’avrebbe imparato troppo presto.
Se c’era una cosa che tutta quell’oscurità gli aveva fatto notare, tuttavia, era che le stelle brillavano di più in un mondo nero.
“James mi ha fatto fare il Portiere,” lo informò Sirius, all’improvviso, lo sguardo ancora fisso sul lago. “Ha detto che dovevamo passare un po’ di sano tempo tra fratelli, qualunque cosa voglia dire. Se vuoi la mia opinione, voleva solo una scusa per spezzarmi le dita.”
Remus trattenne una risata nel naso. Ci riuscì solo a metà, il resto gli lasciò le labbra in uno sbuffo.
“Tu ridi, ma quel pazzo tira a duecento all’ora. Era più palla avvelenata che quidditch. E si è arrabbiato!” Sirius alzò la voce e l’eco metallico la accolse. Remus pensò che sarebbe stato immensamente liberatorio mettersi a gridare da lì. “Si è arrabbiato perché diceva che non provavo neanche a pararle!” continuò, in un’ingiusta imitazione della voce di James. “Be’, scusami se non provo neanche a pararle, l’ultima volta il mio dito ha fatto così…” e Sirius procedette a tirare indietro la punta dell’indice con la mano sinistra.
“Oh, ti fa male?” domandò Remus, ironicamente tenero.
In cambio ottenne un’occhiataccia. “Sì, cazzo! Guarda qua, ho la mano tutta rossa!”
Remus alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardare il Lago Nero. Senza staccare gli occhi dalla superficie, afferrò la mano di Sirius, se la portò alle labbra e poggiò un bacio tra le nocche. Sentì il suo sguardo bruciargli la pelle per tutto il tempo, disintegrarlo come se avesse superato una linea invisibile che avevano tracciato insieme.
Il fatto era che giocare era bello solo se prima o poi la partita finiva e si potevano incoronare i vincitori.
“Sono guarito” annunciò Sirius, provocando una risata in Remus.
Tornarono a fissare la superficie piatta del lago. Remus aveva ancora la sua mano tra le sue, come se rischiasse di cadere e rompersi. Sentì Sirius espirare sonoramente nello stesso momento in cui allargò le dita e trovò il modo di intrecciarle alle sue, poi mosse il pollice in una carezza impacciata.
“Remus.”
“Sì?”
“Posso baciarti?”
Remus lo guardò, una scintilla ironica si accese nelle sue iridi. “Da quando mi consulti, prima di fare qualcosa?” domandò in un soffio.
Sirius gli fece un sorriso vispo, tipico, generalmente accompagnato a una scrollata di spalle che non arrivò mai. “Da quando so che posso perderti.”
“Questa da che scatola di cioccolatini viene?”
“La smetti di rovinare l’atmosfera?”
“Forse da un biscotto della fortuna?”
Sirius alzò gli occhi al cielo. Remus lo osservò chiudere gli occhi e sporgersi in avanti, deciso quasi in maniera irritante. Lo osservò anche baciare l’aria frizzante di aprile.
Sirius aprì gli occhi di scatto confuso – ferito? Ferito, sì, forse addirittura umiliato.
Ma non ebbe il tempo di fare domande, perché Remus gli prese il viso nella mano libera e lo baciò. Allentò la presa quasi all’istante, ma lasciò la mano sinistra sulla sua guancia, risalì fino allo zigomo e gli sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi lo attirò a sé come se già non fossero stati appiccicati.
Lo sentì sciogliersi sotto il suo tocco e seppe che non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Era diverso da qualunque cosa avesse mai provato con lui ed era diverso da qualunque cosa avesse mai provato in tutta la sua vita. Forse l’intimità non si nascondeva nella quantità di pelle che vedevi, ma in quella di anima che indovinavi.
Si sentì sciogliere anche Remus, ma non l’avrebbe mai ammesso a sua volta. Era una questione che aveva a che fare con il suo orgoglio e con l’ego di Sirius.
Poi dimenticò di rimanere composto.
Prese aria solo un attimo e sciolse le loro mani. Tornò a baciarlo meno incerto della prima volta e infatti fu diverso. Fu uno scontro di labbra più violento, più soddisfacente, in realtà fu solo più disperato, perché avevano il mondo contro. Uno scontro che mirava a dimostrare qualcosa di fumoso e impreciso alla fine di una strada su cui avevano corso troppo e su cui non avevano mai davvero saputo guidare, ma che potevano imparare a gestire.
Sirius si sporse verso di lui e Remus si ritrovò con i gomiti piantati nelle pietruzze, improvvisamente sotto il suo peso. Sirius non gli chiese di più, però, non accennò a muovere i fianchi né a disfargli la cravatta né a suggerire quell’urgenza a cui si erano abituati l’anno prima.
Remus lo allontanò qualche attimo dopo, perché tutto il sangue che gli incendiava la faccia rischiava di fargli esplodere qualche vena. Deglutì a fatica e lo guardò negli occhi. Gli accarezzò una guancia con il pollice per prendere tempo. Le altre dita premevano da qualche parte sul suo collo e sentivano il battito furioso sotto i polpastrelli.
“Cane e zenzero” ammise Remus sulle sue labbra. Non l’aveva mai detto ad alta voce e gli sembrò di non averlo fatto neanche in quel momento. Forse non aveva parlato, forse non era lì davvero, forse era distante, in un sogno che non aveva mai sognato.
“Grazie,” Sirius ridacchiò e tutto divenne reale, “è solo un anno che te lo chiedo.”
“Ora hai la tua risposta.”
“Cuoio e cioccolato” ricambiò Sirius con un’alzata d’occhi, come se gli fosse costato più della sua stessa vita, peccato che Remus non gli avesse chiesto di ammettere proprio niente.
Un sentimento era una faccenda delicata e inafferrabile.
Sirius non sapeva cosa significasse e Remus non sapeva neanche se se la meritasse.
Restava il fatto che esisteva ed era ingombrante.

***
 
Luglio, 1995

Luglio sapeva di addii.
L’orologio emise sette rintocchi, un grido lanciato nel vuoto, a segnalare il tempo a un mondo che non ne aveva.
“Ti ho cercato ovunque!”
Sirius si voltò a guardare Remus raggiungerlo dal corridoio a passo rilassato. Era una cosa confortevole che suonava stonata e insieme balsamica. Si arrestò sulla soglia della porta della cucina, gli occhi di Sirius scrutavano nel vuoto di una casa che non aveva mai visto. Era un respiro ben tratto, quella casa. Se urlavi il bosco attutiva i suoni, li faceva sembrare soffi di vento e impressioni provenienti da lontano invece che dalla tua bocca.
“Mi hai trovato.” Sirius gli sorrise e lo osservò sedersi accanto a lui e sfiorare con un dito il legno grezzo del tavolo. Non produsse alcun rumore. In realtà un silenzio così piatto, per la prima volta da sempre, aveva qualcosa di rilassante.
Il pomeriggio, sul letto di morte, esalava i suoi ultimi respiri.
Sirius lo osservò morire con gli occhi persi oltre la finestra, respirando un’aria feroce che puntava a graffiargli la gola. Pensò che potenzialmente avessero troppo tempo, che questo avrebbe sicuramente iniziato a scivolargli tra le dita prima che iniziasse a contarlo.
A volte, quando i ricordi di momenti vivi invecchiavano, si trasformavano in tristezza. La gioia era una cosa troppo preziosa, per essere ricordata, troppo pura, ingenua, debole. Sirius l’aveva sempre cercata, inseguita per istinto naturale, ma la verità era che aveva un prezzo ed era che si poteva baciare. C’era stato un momento in cui aveva creduto che il suo futuro non sarebbe stato altro che nulla muto. Dopo anni di silenzio, Sirius si era scoperto un vincitore contro se stesso, si era riscoperto triste proprio perché aveva assaggiato la felicità.
Il cielo era più scuro, le nuvole più fitte, il tempo sembrava venir divorato da un inchiostro nero permanente, destinato solo a intensificarsi. Non sarebbe arrivato nessun eroe a salvarli. Non avrebbero avuto alcuna promessa affidabile abbastanza da tenerli legati indissolubilmente. Non avrebbero avuto alcuna speranza gialla abbastanza da prevenire ogni momento di profonda e disarmante rassegnazione. Sirius sapeva cosa fosse la morte, sapeva che sapore avesse quella degli altri, ma non sapeva fermarne l’avanzata.
Se c’era una cosa che tutta quell’oscurità gli aveva fatto notare, tuttavia, era che la luna brillava di più in un mondo nero.
“Tè?” gli domandò Remus, all’improvviso.
Era una cosa strana. Ti uccidevano e ti torturavano, ti dilaniavano e ti annullavano, poi un giorno, sull’orlo della follia, vedevi un’immagine stampata su un giornale, diventavi l’assassino in libertà più ricercato del mondo magico, volavi su un ippogrifo e ti ritrovavi un anno dopo in un cottage da qualche parte a nord, tra Manchester e Londra.
E ti offrivano il tè. Il tè!
“Sì, va bene.”
Remus annuì. Lo sbuffare abitudinario del bollitore, il tintinnare quotidiano di tazze e i contenitori dello zucchero – tutto era semplicemente irreale. Era come correre la maratona, tagliare il traguardo e trovarsi immediatamente a cena in un ristorante di lusso a festeggiare. Era come sbattere le palpebre alle undici e scoprire che erano già le cinque del mattino.
Una tazza fumante gli fu piazzata davanti con quella stessa rapidità sconcertante che dodici anni di vuoto assoluto tendevano ad assegnare a ogni altra cosa. Un attimo prima Remus gli proponeva un tè, un attimo dopo poteva già berlo.
Il fumo risalì in onde irregolari verso l’alto. Si arricciavano nei momenti più improbabili, rispondendo a turbolenze e leggi all’apparenza imprevedibili. Il fumo trovò la strada per il suo naso e Sirius sperimentò la prima collisione con il passato.
Si portò la tazza alle labbra e anche una vita intera dopo quella roba era aspra e dolorosa e disgustosa e assolutamente accogliente.
“Da quando bevi tè ai frutti rossi?”
Il problema dei ricordi di tredici anni prima era che tendeva a ricordarli meglio chi non ne avevi altri.
Remus si strinse nelle spalle. “Non ricordo con precisione, ho iniziato…”
“Tredici anni fa.”
Il problema di ritrovare un vecchio amico era che questo sapeva cose che agli era facile nascondere.
“E ora ti piace?”
“Ora non riconosco neanche più il sapore. Sono immune.”
Sirius rise. Era una cosa facile che suonava meno come James e più come il vetro. “Allora te lo dico io. È terribile.”
Remus prese un sorso e lo assaporò platealmente. Poi scosse la testa. “Niente da fare. Monotono, insapore, acqua calda.”
“È un bel posto” commentò dopo un po’ Sirius, ruotando l’indice per fargli capire che si riferiva alla casa.
“È una bettola, ma ha una cantina non male.”
“Per il prossimo mese non ti serve. Ci facciamo un giro nel bosco.”
“Che delinquenza!”
“Che ti aspettavi? Parli con uno che è evaso di prigione.”
Remus per poco non soffocò con il suo té. Sirius sorrise e Remus lo imitò.
Il mondo aveva più di due colori.

***
 
Dicembre, 1977

“Mi rifiuto di crederci.”
Remus, accanto a lui, scrollò le spalle. “È così.”
Sirius incrociò le braccia al petto e scosse la testa energicamente. “No, stai soffrendo del tipico OCHURVAO, te lo leggo in faccia.”
“È russo?”
Sirius si voltò finalmente a guardarlo, incontrando il luccichio ironico delle iridi di Remus. Non dover nascondere l’attrazione era la cosa più comoda del mondo. “No che non è russo.” Quando Remus alzò soltanto un sopracciglio, Sirius decise di cedere al suo lato misericordioso. “Giusto perché sei carino.” Remus non arrossì. Bastardo. “Stai soffrendo del tipico ora che ho un ragazzo vedo amore ovunque.”
Oh no.
Oh, cazzo.
Ragazzo, aveva detto.
Oh no.
Forse Remus non se n’era...
“Eh?”
Sirius si esibì in un
ehm esitante esageratamente lungo. “No, ho detto… Cioè, pensavo che ormai fosse una cosa consolidata. Però posso non dirlo… No, in effetti è stato… lascia stare.”
“No, va bene.”
“Va bene?” Sirius avrebbe voluto avere la decenza di non parlargli praticamente addosso dal nervosismo. ‘Avrebbe voluto’, perché non la ebbe.
Almeno era riuscito a farlo arrossire. Bella vittoria.
“Va bene” mormorò Remus, guardandolo di sottecchi, giusto il tempo per constatare il completo disastro che doveva essere la sua faccia. Bellissima vittoria. “Alla fine si trattava solo di dirlo ad alta voce.”
“Già.”
“Bene.”
Passò qualche attimo di tesissimo silenzio, poi Remus inspirò bruscamente tra i denti e dichiarò così il discorso concluso.
“Comunque non sto soffrendo di nessun…” Remus alzò gli occhi al cielo, come se avesse preso a visualizzare l’assurda frase di Sirius nella sua testa per isolarne più efficientemente le iniziali, “OCHURVAO.”
“Stai soffrendo eccome di OCHURVAO.”
La verità sulla totalità di quella conversazione era che si era svolta in sussurri concitati. Tutta. Interamente. Nessuna parola esclusa, tranne l’
eh?’ sorpreso di Remus, che ad ogni modo non era classificabile come parola.
I ragazzi stettero qualche momento in silenzio, osservando l’ennesimo scambio patetico consumarsi davanti ai loro occhi. James, al tavolo della colazione della Sala Grande, fisicamente a meno di un metro da loro ma spiritualmente nel mondo dello zucchero filato e i pony, accennò col capo in direzione di Lily Evans, in una forma ridicola di saluto. Poi abbassò lo sguardo e sorrise. Sirius lasciò scorrere gli occhi dall’altra parte del tavolo. Incredulo, notò Evans appuntarsi una ciocca di capelli dietro un orecchio, far scattare anche lei lo sguardo in basso e serrare le labbra in un sorriso incompleto.
Sirius guardò Remus, gli occhi sbarrati.
Remus guardò Sirius, l’aria saccente.
“Mi rifiuto di crederci” decretò Sirius, per la seconda volta in cinque minuti.
“Mi sento in dovere di rammentarti,” iniziò Remus e Sirius sentì puzza di presa in giro dall’utilizzo di una parola tanto stupida come ‘rammentare’, “che se l’hai visto anche tu allora soffri di OCHURVAO.”
“Va’ a farti fottere.”
“Con piacere.”
“No, dico davvero, questa cosa non ha senso!” Sirius smise di sussurrare, ma James era troppo preso dall’imbarazzo post-sorriso mattutino per reagire alle sue esternazioni. “Lo odia!”
“Ma no.”
 
In effetti Lily Evans non lo odiava e Sirius lo scoprì nella maniera più inopportuna possibile.
Le finestre erano aperte. Lasciavano passare l’aria frizzante dell’inverno appena iniziato e il buio della sera inoltrata.
Sirius marciò silenzioso lungo il corridoio e, disinvolto come se gli fosse stato dato appuntamento, raggiunse Remus con passo felpato e scivolò con la mano lungo il suo braccio, intrecciando le dita alle sue. Non si curò eccessivamente del salto di tre metri che Remus avrebbe fatto dallo spavento se la sua mano non l’avesse ancorato al suolo.
“Oh, no” si lamentò lui, quando si fu ricomposto.
Sirius era consapevole del luccichio nel suo sguardo e dei guai che portava con sé e si limitò a scrollare le spalle con aria insolente. L’onda di quel gesto raggiunse anche le loro mani allacciate.
“Il motivo per cui queste ronde durano così tanto è che finisco sempre per trovare gente come te.”
“In realtà sono stato io a trovare te.” Sirius alzò gli occhi al cielo, pensieroso. “Ma adesso che James è Caposcuola non puoi andare in pensione?”
“Resto un prefetto.”
“Ricordami perché hanno reso quel delinquente Caposcuola?”
Remus finse di pensarci su. “Perché a differenza di qualcuno dimostra più di dodici anni?”
“Ti prego.”
“È vero. Ha passato la fine dello scorso anno a dare lezioni ai ragazzi più piccoli.”
“Immaginami al suo posto. Avrebbero imparato a far schiumare le orecchie degli amici.”
Remus sollevò entrambe le sopracciglia con fare eloquente.
“Oh…” Sirius ci pensò un attimo su. “Sì, è vero, ma non mi definirei immaturo, più…” ruotò la mano con aria assorta, fingendo che una saggezza profonda gli ruotasse attorno in spirali di maturità “la variabile stocastica.”
“La variabile di ‘stocazzo.” 
Sirius lo ignorò e si ripeté, in tono solenne. “Sono la variabile stocastica.”
“E io sono un prefetto e devi tornare alla Torre di Grifondoro. Adesso.”
Sirius sorrise, furbo. “Altrimenti?”
Remus sospirò rassegnato. Si era messo in trappola da solo come un fesso. Quando Sirius rise, guadagnò in risposta un triplo salto carpiato degli occhi di Remus. “Non lo dico.”
Sirius ebbe la decenza di guardarsi almeno attorno e constatare l’assenza di occhi indiscreti. “Altrimenti mi punisci?” A questo punto della conversazione, non era un caso che si trovassero al sesto piano e a un passo dal ripostiglio più lussuoso di Hogwarts. Sirius spese solo un attimo a compiacersi di se stesso e i suoi loschi piani di adescamento.
“Sì.” Remus sbatté gli occhi, apparentemente imperturbabile. “Sì, nel senso che passi tutta la notte a strofinare trofei.”
Sirius scosse la testa – gliele serviva su un piatto d’argento! – e rientrò di nuovo in possesso della propria mano. La fece scivolare fino al pomello della porta dello sgabuzzino e la spalancò, cedendo galantemente il passo a Remus, come se non lo stesse invitando tra scope da quidditch vecchie secoli e ingredienti per pozioni. Era il ripostiglio più comodo della scuola perché c’era una poltrona. Generazioni di coppie ribelli ancora non erano riuscite a spiegarsi per quale ragione. “Con piacere. Il trofeo sei tu?”
Remus lo guardò chiudere la porta dello sgabuzzino e si sedette alla poltrona prima che l’ultima lama di luce soffocasse e la stanza sprofondasse nel buio. Qualcosa cadde, Sirius imprecò, poi accese la punta della sua bacchetta e la appoggiò su una mensola. Qualche stringa di luce blu illuminò un lato della faccia di Remus. Sembrava divertito e Sirius gli sorrise.
“Ma lo senti?” Remus inspirò a scatti, accartocciò il viso in una smorfia di disgusto.
“Sì, è tipo puzza di sperma di pipistrello.”
Remus scoppiò a ridere. “Stavo per dire veleno per topi, ma come vuoi.”
“Dirò a Peter di non venire qui.” Sirius si sedette sulle sue gambe e lo baciò, piano. Remus schiuse le labbra all’istante e introdusse una mano nel suo mantello, scivolando su un fianco e sfiorando la pelle sotto la camicia con la punta delle dita. Sirius rabbrividì al contatto e si strusciò su di lui.
“Aspetta.” Remus aggrottò la fronte e scostò il viso di lato.
“Che ho fatto?”
“Shh.”
Sirius si mise in ascolto a sua volta. Un rumore debole di passi gli arrivò alle orecchie. “Ma come diavolo l’hai senti…”
“Shh!” ripeté Remus, più urgente, poi si indicò un orecchio, mosse la mano a mimare una bocca e Sirius mise insieme tutte le sue doti creative per capire che la risposta stava nei sensi acuti del lupo.
“Grazie per avermi fatto compagnia” la voce di Lily arrivò alle loro orecchie un po’ ovattata dagli strati di mura che li separavano.
“Ma no, mi fa piacere!” rispose Marlene, l’affetto nel suo tono evidente. “Di che volevi parlarmi?”
“Mh, Remus sarà già andato al settimo piano, giusto?”
Sirius lo guardò e sollevò un sopracciglio, una battuta sulla punta della lingua già pronta a uscire, se solo Evans non avesse deciso di fermarsi proprio a qualche metro dalla porta dello sgabuzzino. Remus scosse la testa e lo ammonì con uno sguardo. Sirius annuì, una traccia evidente di offesa sui lineamenti, perché sapeva benissimo quando essere discreto, grazie tante.
“Sì, sicuro, è tardi.”
Sirius avrebbe voluto ridere fragorosamente.
Passò un momento di silenzio. Lily esitava. “Sputa il rospo.”
“Il fatto è che James Potter non mi chiede più di uscire e non sembra più interessato a me.”
Sirius era certo che il cipiglio scettico di Marlene fosse anche udibile, oltre che visibile, perché giurò di averlo sentito.
“E quindi?”
“E quindi non è strano?” il tono di Lily era leggero, incurante, vittima solo dello scarso allenamento a essere improvvisato.
Sirius alzò gli occhi al cielo e mimò con le labbra: ‘Dirk Cresswell’. Remus sorrise.
“Era più strano che continuasse a provarci dopo che l’hai respinto ogni volta.”
Sirius sgranò gli occhi e annuì, in profondo accordo. Roteò un dito accanto alla sua tempia, mimando le rotelle fuori posto di James.
“Sì, hai ragione.”
Passò qualche altro secondo di silenzio, più denso del precedente.
“Lily.” Marlene parlò con calma, la voce appena udibile, con una porta di mezzo. “Ti conosco da sette anni.”
Evans liberò una risata, trasparì tutto il disagio che il tono leggero di prima aveva scarsamente provato a nascondere. “Già.”
“Se ti chiedesse di uscire diciamo… domani, tu che gli risponderesti?”
Sirius e Remus si guardarono, gli occhi sgranati, le gambe ancora attorcigliate.
“Non lo so. Forse...”
Sirius si schiantò la mano destra sulla bocca e con la sinistra colpì ripetutamente Remus, che invece lasciò cadere la testa all’indietro sullo schienale della poltrona. L’aria nello sgabuzzino sembrava la stessa che si respirava sugli spalti di una partita di quidditch particolarmente avvincente.
“Questa me la devi spiegare.”
“È che non lo so, davvero! Ieri in biblioteca mi ha ripetuto gli ibridi magici e allora io gli ho corretto una cosa e lui ha sorriso e ha urlato che avevo ragione e poi si è appuntato qualcosa sulla sua pergamena, onestamente non ho neanche idea di cosa e… non lo so.” Si lasciò scappare un grugnito esasperato. “Lo detesto, ecco qual è il problema, mi fa così arrabbiare!”
“Lily,” Marlene rispose dopo qualche secondo, il tono indeciso tra una risata e qualche grammo di serietà. Optò per una via di mezzo. “Sei proprio stupida.”
“Ehi!”
“Di’ la verità, la spilla da Caposcuola ti ha fatto perdere la testa.”
“Marlene.”
I passi delle ragazze presero ad allontanarsi verso le scale che portavano alla Torre di Grifondoro.
“E la divisa da quidditch.”
“Marlene.”
“Il fatto che ogni santa mattina si sbrodola con il latte.”
“Che schifo.”
Marlene azzardò un’altra attraente caratteristica di James, ma le sue parole si persero nella distanza. L’ultima cosa che Remus e Sirius riuscirono a distinguere, nell’eco dei corridoi, fu la risata di Lily.
“Comunque,” iniziò Remus. La sua voce nel nuovo silenzio sembrava provenire da lontano, farsi strada a pugni nella densità del buio, “ho messo un Incantesimo Silenziatore. Semplicemente, volevo che mi facessi ascoltare.”
Ecco perché.
Sirius incrociò le braccia al petto, un broncio sulle labbra. “Perché me lo stai dicendo, allora?”
“Per ricordarti che fai sempre casino.”
Sirius increspò le sopracciglia, proprio offeso, ma distese la fronte quando Remus ridacchiò e lo baciò. “Comunque ho un piano.”
“Ma non mi dire.”
“Sarà meraviglioso, dobbiamo aggiornare Pete.”
“Possiamo farlo dopo?”
Sirius sorrise tutto canini e furbizia, mosse appena i fianchi, più un’allusione che un tocco. “Certamente” disse, e aprì un bottone alla sua camicia.

***
 
Marzo, 1996

Sirius lo baciò alla fine di una battuta, un gesto imprevedibile che Remus aveva previsto.
Aveva detto che non aveva mai mentito, neanche un giorno della sua vita, e Remus era scoppiato a ridere, trascinando anche Sirius.
E poi lui lo baciò.
Le dita erano ancora strette attorno al bicchiere di Whiskey, la risata che moriva sulle loro labbra, la sedia che gemeva sotto il cambiamento di peso. Lo baciò come se si fosse chinato a raccogliere una forchetta caduta a terra, come se una sveglia fosse suonata a ricordargli che la vita non aspettava nessuno, specialmente i codardi. Lo baciò come se fosse stato semplicemente ovvio, come se, rileggendo un libro, non ci si aspettasse certo di vedere il finale cambiare.
Remus lo guardò allontanarsi un paio di secondi dopo. Aveva gli occhi ancora chiusi, come se aprirli avesse potuto confermargli che era stato tutto un miraggio. Remus respirò sulle sue labbra e gli assicurò così che il mondo non era ancora crollato. Sirius sollevò piano le palpebre e Remus pensò che non avesse idea di cosa gli passasse per la testa.
Avrebbe voluto disperatamente saperlo, però.
Avrebbe voluto infilargli una mano nelle viscere, ravanare da qualche parte nel famoso secondo cervello e ricordargli come funzionava una cosa innata come la vita. Avrebbe voluto dargli un colpo in testa, asportargli ogni ricordo e guardarlo dormire come gli esseri umani erano nati per fare. Avrebbe voluto trascinarlo di peso via da quella casa, da quella busta di plastica in cui l’avevano costretto a respirare, e guardarlo sgretolarsi nella nebbia e volare via come polvere. Avrebbe voluto ferirlo e mostrargli che sanguinava proprio come tutti gli altri.
Invece Remus strinse la mascella e lo guardò, severo, perché quello che aveva davanti non era un uomo ma neanche il ragazzino con cui era cresciuto. Era una via di mezzo, bloccata da qualche parte nel tempo.
Sirius alzò un angolo della bocca in un sorriso consapevole. Ancora una volta, Remus non aveva idea di cosa, esattamente, fosse consapevole. “Mi guardi come se ti avessi tradito” sussurrò e Remus avrebbe voluto ricordargli che era quello che aveva creduto per la totalità della sua vita adulta.
Invece si sporse in avanti e lo baciò come Sirius non aveva avuto il coraggio di fare.
Deciso e consistente. Non uno sfiorarsi di labbra, non uno scontrarsi di esitazioni. Lo baciò come era giusto che lo baciasse: veramente.
Stringhe di luce strisciavano dalla stanza accanto in tagli sorprendenti, illuminando vetro di bicchieri, angoli di gomiti e pezzi di tavolo. La penombra amplificava il silenzio in un modo che sembrava far rimbombare alti gli schiocchi delle loro labbra.
Remus si scostò il tempo di guardarlo e porgli una sola domanda muta e priva di punto interrogativo. Sirius trovò il modo di rispondere annuendo. “Però” aggiunse e una traccia di furbizia gli oscurò le pupille “possiamo andare nella mia stanza? Ho sempre voluto farlo lì per dispetto a mia madre.”
“Sì,” Remus rise, un suono strano nel buio opprimente di quella casa e di quel tempo, “andiamo.”
Era una stanza buia come tutte le altre in cui Remus non aveva mai messo piede, ma giravano attorno a quella stanza – a quella situazione – almeno da una settimana, ormai. Remus si appiattì contro la porta e lasciò che Sirius gli baciasse una guancia e scivolasse facile lungo la mascella e il collo, in un percorso che funzionava a memoria olfattiva o forse solo a bisogno. Remus ebbe modo di dare un’occhiata alla camera, così.
Era una stanza buia e fuori infuriava il temporale. Dalle sbarre alla finestra entravano striscioline di luna sporca di pioggia e luce di lampioni filtrata di grigio. Colpivano superfici distinguibili a stento, ma distinte abbastanza perché sperassero di non inciampare. Da qualche parte c’era una sedia, da qualche altra un letto. Sulle pareti, se ci si sforzava, si intravedevano vecchi poster e bandiere colorate sbucciate e divorate dagli acari e dal tempo.
Era una stanza buia ed era una stanza non vissuta. Mai come in quel momento Remus sentì, fino in fondo alle ossa, quanto male facesse a Sirius stare lì; in un posto congelato e insieme vittima del tempo, a ricordargli che era anche lui così. Congelato e vittima.
“Sei davvero distratto” gli fece notare Sirius. Non sembrava annoiato, ma si allontanò per un’occhiata. Le iridi riuscivano a catturare una sola goccia di luce, ma bastava per costruirci sopra uno sguardo “se vuoi mi…”
“No, scusa” Remus scosse la testa e sorrise, distogliendo lo sguardo dalla stanza, le pareti e i tempi congelati e concentrandosi su di lui. Lo spinse indietro, dove per caso era riuscito a scorgere il letto. Era troppo grande per una persona e troppo piccolo per due.
“Guarda che lo sento anch’io.”
Remus si abbassò su di lui, lo sentì infilare le dita nei passanti dei pantaloni. Poi si chinò a lasciargli un bacio appena sotto l’orecchio, quasi inconsistente. “Cosa?” sussurrò.
“Il peso.”
Ancora una volta, Remus non fu sicuro di saperlo leggere. Il peso di cosa? Il peso del mondo intero? Il peso di quella casa? Il peso di un amore spento che tentavano disperatamente di riaccendere? Il peso della capacità, di quella guerra, di non finire mai davvero?
Aveva una risposta, però, una risposta sincera e univoca a tutte quelle domande.
“Fai finta che non ci sia.”
Sirius rise in uno sbuffo. Remus riconobbe almeno lo scetticismo. “Va bene,” concesse poi, a sorpresa. Remus riconobbe almeno la fiducia.
“Va bene,” ripeté senza motivo, metà cervello che già cedeva sotto le mani di Sirius, passate dai passanti ai bottoni. Remus morse da qualche parte tra il collo e la mandibola e abbassò i fianchi. Con una mano, sfiorò l’orlo della sua maglietta, le dita si infilarono a sfiorargli la pelle, sentì i muscoli contrarsi dove lo toccava.
Un lampo di luce si intrufolò nella stanza, illuminò un comodino impolverato per una frazione di secondo, poi tornò il buio. Un tuono rimbombò nella notte, rimbalzando tra i palazzi di Grimmauld Place e raggiungendo anche l’apparentemente inesistente numero 12. Per la maggior parte delle persone, quel luogo non esisteva, un errore sotto forma di fantasma tra i numeri 11 e 13. La pioggia rimbalzava sui tetti, si accumulava nelle grondaie, scivolava lungo le finestre e ticchettava sulle pareti in un ritmo urgente e insieme rilassante: un promemoria sommesso della fine del mondo.
Almeno per mezz’ora, però, finsero che nulla esistesse, che neanche loro, in fondo, esistessero: scarti della società, chiusi da soli nella decadenza di un posto che per la maggior parte del mondo non esisteva.
Remus lo baciò piano e a fondo, catturando ogni sospiro sorpreso di Sirius, quando disegnava brividi con la punta delle dita sui suoi fianchi. Contò quattro costole, poi Sirius alzò il bacino di scatto e Remus si dimenticò di continuare a contare.
La verità sui minuti successivi era che furono di dilaniante splendore, una sublime realtà fragile come una ragnatela tesa e nuda nella pioggia, destinata a spezzarsi e per questo bellissima finché resisteva. Per tutto il tempo il cielo, là fuori, continuò a borbottare, lampeggiare e scrosciare.
Remus non ricordava più niente, dopo la condanna ad Azkaban si era costretto a dimenticare ogni cosa: il modo in cui Sirius serrava le palpebre, il sorriso strafottente quando definiva biascicando ‘fottutamente paradisiaca’ qualcosa che Remus faceva, l’increspatura delle sopracciglia, il gemito lungo e basso un attimo prima di venire, la più disarmante tempesta nelle sue iridi, le volte in cui riusciva a chiedergli di guardarlo.
Non ricordava più niente, non avrebbe saputo elencare nessuna di quelle abitudini ad alta voce, ma ogni suo gesto ne aveva miracolosamente mantenuto il ricordo. Sapeva cosa fare per una sorta di automatismo innato.
Il mondo era destinato a cadere, crollare su se stesso, implodere, venire divorato da un’onda alta tre anni luce, collassare in cocci di sogni che ancora non avevano avuto nemmeno il tempo di venir sognati.
Però, però.
Però le persone erano anche capaci di intrecciare le dita a quelle di un’altra mano, di infilare la testa nella curva del collo di un altro essere umano e allora forse, se potevano fare una cosa tanto innaturale come scagliare un incantesimo omicida, potevano fare qualcosa di al contrario innato come amare. Perché il corpo umano era disegnato per fare questo, in fondo: amare. Era scritto nella quantità di guancia che entrava nel palmo d’una mano.
Remus si lasciò cadere accanto a lui sul letto, il buio intermittente del temporale concedeva a lame di luce di tagliare la stanza a metà e ritirarsi subito dopo per l’attacco successivo.
Il letto era ancora troppo grande per una persona e troppo piccolo per due.
Rimasero spalla contro spalla, il sudore che si asciugava nei punti in cui non si toccavano, e rimasero lì a fissare un soffitto che non vedevano, ma che di sicuro li stava soffocando.
La verità su quei minuti, invece, era che fecero solo male. Perché forse, da qualche parte in tutto quel buio, avevano ancora sedici anni e le mani che profumavano del muschio della Foresta Proibita, i polmoni pieni delle corse lungo la collina, l’aria così pulita da sembrare rigida, irrespirabile contro la velocità di una motocicletta che correva. Forse, da qualche parte in tutto quel buio, Remus aveva vent’anni in più e le mani sporche del sangue mensile che sacrificava alla luna, ricolmo di dolore e rancore e rabbia fin quasi a scoppiare e sopravvissuto per miracolo. L’ultimo Malandrino per dodici anni, pallido riflesso della vita che avrebbe potuto avere e che invece gli era scivolata come sabbia tra le dita. Forse, da qualche parte in tutto quel buio, Sirius era più giovane di lui, vittima di una vita che non gli era affatto scivolata tra le dita, ma che era stata invece congelata. Non era che la somma di tutti i ricordi che era riuscito a nascondere alla furia dei Dissennatori e niente di più.
“Cuoio e cioccolato,” sussurrò Sirius, a ridosso di un tuono. Non ansimava più, ma il respiro gli tremò comunque sull’ultima parola.
“Non dirlo. Non puoi saperlo.”
“Lo so e basta.”
È una delle lezioni più difficili da mandare giù, una delle cose più difficili da accettare: a volte amare non basta. Esistono cuori troppo fragili per certi tumulti, storie troppo dolorose, ricordi e corpi irreparabili. A volte amare è un rischio troppo grande.
“Non voglio stare qui.”
“Qui nel letto?”
Sirius rise. Remus lo sentì scuotere la testa energicamente. “No, qui mi piace, credimi. Intendo…” alzò un braccio perché Remus potesse vedere la sua mano ruotare. “Intendo qui.”
“Ne abbiamo già parlato, non puoi…”
“Davvero, non lo dico per lamentarmi o per rendervi le cose difficili. Non mi riferisco nemmeno al fatto che odio questa dannata casa.” Si interruppe. Remus percepì quell’elettricità statica che precedeva sempre una coltellata. Si annidava anche negli istanti sospesi in cui la luna lo chiamava. “È che sappiamo per esperienza che chiudersi in casa e affidarsi a un Incanto Fidelius non è la chiave per la vittoria.”
Remus lasciò quelle parole macerare nell’aria. Questo era il motivo per cui non lo voleva così vicino: apriva ferite cicatrizzate. 
Divorati da un passato pieno di affetti, amici e giorni dorati, erano rimasti in due in un futuro incerto e grigio, una tempesta che infuriava oltre la finestra.
Fuori tempo, fuori fase, fuori ritmo come metronomi regolati per melodie diverse che avevano la fortuna di scoccare all’unisono solo quando il caso glielo concedeva.
Oh, l’universo era stato crudele. Li aveva separati al punto che, una volta riuniti, neanche la colla più potente del mondo potesse nascondere le crepe.
Era il volto desolante di un amore irreparabile.
“Non puoi fare altro, però.”
“Grazie per il premio di consolazione” ribatté Sirius. Non con amarezza, ma con ironia: il ritratto dell’arrendevolezza.
“Quello lo chiami consolazione?”
“Eh,” Sirius ridacchiò. Era un suono che aveva perso ogni traccia di James ed era completamente vetro, “sei un po’ arrugginito, Lunastorta. Hai perso il tocco.”
“La prossima volta toccati da solo.”
Remus lo sentì sorridere anche al buio. “Vuoi guardare?”
C’era qualcosa di rotto, nell’aria. Se fosse tensione o pezzi che non si incastravano più, Remus non lo sapeva. Ma si concesse di ridere attraversando quella crepa, qualunque cosa significasse.
Nessuno dei due parlò più per un po’, ma, inesorabilmente, Sirius si avvicinò un po’ di più al petto di Remus e, senza incontrare proteste, vi appoggiò la testa. Remus si arrotolò una ciocca dei suoi capelli attorno al dito e poi la lasciò cadere.
Il silenzio non urlava più, tagliato di tanto in tanto da un’auto che sfrecciava sulla strada, da quei suoni della notte di cui nessuno si chiedeva mai la provenienza, interrotto dal battito del cuore di Remus che risaliva fin tra le tempie e che Sirius doveva sicuramente riuscire a distinguere in quella posizione.
Voglio scappare da tutto questo, pensò di dire. Oppure Ubriachiamoci di nuovo o Mi mancano i vecchi tempi o Quando ti guardo vorrei mettermi a urlare o Ho paura, me la faccio addosso o Mi mancano James e Lily o Non abbiamo mai avuto abbastanza tempo. Oppure Ti amo ancora.
“Cane e zenzero,” sussurrò Remus in quel silenzio. Sapeva che Sirius non stava dormendo, sapeva che non era sveglio, sapeva anche che l’aveva sentito. Osservò l’ombra della sua testa accoccolarsi più vicino alla sua, vi depositò sopra un bacio, poi si lasciò abbracciare dal sonno.
Se avesse saputo che quello sarebbe stato l’ultimo bacio, forse gliene avrebbe dato un altro.






 
otEiDleN: ci ho messo più tempo a scrivere 'sta scemità che il capitolo.
Weeeeeeee, come va? Questo ritardo è dovuto al fatto che dovevo correggere l'acronimo, quello che sembra russo e che, vi prego, non fatemi ripetere, e ogni volta che ci pensavo dicevo "... vabbé correggo il capitolo domani". Ecco come sono passate due settimane. Ragazzi, mi dispiace, ma veramente non ce la facevo.
Comunque questa cosa poteva essere gestita in 850 modi e io ho scelto il più rischioso, ovvero schiattare tutto in un capitolo. Il fatto è questo: questa storia ha cambiato forma milleduecento volte. Almeno la metà di quello che avete letto finora diverge dal percorso iniziale, ma avrei tradito il senso di tutto se avessi cambiato lo scorrere di questo e i prossimi capitoli. Sono stati plottati insieme al primo (veramente l'ultimo è stato scritto insieme al primo) e volevo rimanere fedele all'idea iniziale. Ho paura ma lo lascio qua comunque AHAHAHAH
Detto ciò amici, grazie per la fedeltà, scusate per l'angst però ci siamo quasi, la fine del tunnel è vicina e non vi preoccupate ché le idiozie non sono finite: questa storia esiste proprio per entrambe.
Grazie mille per aver letto, a questo punto veramente vi vorrei abbracciare uno a uno perché vi siete sorbiti una cosa infinita e io ancora non ci credo, quando leggo numeri diversi da "0" nel quadratino delle visualizzazioni <3
A presto,

El.

 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: time_wings