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Autore: Corydona    21/06/2021    0 recensioni
Come in una partita a scacchi, due fazioni si ritrovano schierate l'una contro l'altra, pronte a dichiararsi una guerra che entrambe non vorrebbero. Da un lato gli Autunno, la cui potenza sembra inarrestabile, dall'altra i Primavera-Inverno, che possono contare su un'influenza senza eguali.
Una situazione di apparente stasi: apparente, perché nell'ombra i sovrani cadono e le successioni al trono sembrano più complicate del previsto. La guerra sarà dichiarata? Termineranno i regicidi? Quale delle due parti avrà la meglio?
Un'antica profezia annuncia la disfatta degli Autunno: si realizzerà? O rimarranno solo vaneggiamenti di un passato caduto nell'oblio?
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Selenia '
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Luciana guardò le porte della stanza richiudersi, dopo aver suggerito a suo padre di riposarsi e che l'avrebbe sostituito lei al capezzale della madre. Ettore aveva annuito: aveva il volto emaciato, come se la malattia che affliggeva sua moglie potesse avere effetti anche su di lui. Il guaritore, giunto quel mattino dal Rosonebro, gli aveva dato delle erbe da far bollire in acqua e da bere per conciliare il sonno. Il re aveva baciato la mano della regina, prima di accomiatarsi da lei e dalla figlia, e con poche parole di riconoscenza aveva ringraziato quell'uomo tarchiato che da ore si stava prendendo cura di lei.

Il guaritore intinse un altro panno nella bacinella di coccio che si era fatto portare. Quel liquido opaco impregnava la stoffa e le dava una sfumatura brillante, unguento mischiato all'acqua a cui era affidato il miracolo per cui Ettore si ostinava a pregare ogni divinità di sua conoscenza. Luciana lo osservava attenta con un misto di curiosità e dispiacere: sapeva che il suo prodigarsi sarebbe stato inutile, che la madre a letto non avrebbe avuto ancora molti giorni davanti a sé.

Lavinia era sommersa da strati di trapunte pesanti, alcune acquistate proprio per quello scopo, il viso esangue e gli occhi gonfi che si posavano spesso sulla figlia, come se la implorasse di alleviarle il dolore. Ma la regina non disse se preferiva alleviarlo con la morte o con la guarigione.

La principessa era stretta da una morsa di rimpianto a vederla ridotta in quello stato e si sentiva in colpa al pensiero di ciò che avrebbe dovuto fare quel giorno stesso. Tuttavia, la sua partenza era fissata per il mattino successivo: non poteva indugiare oltre. Ripensò alla lettera di Melissa, che le era arrivata poche ore prima. Ignorava dove si trovasse l'Autunno, anche se qualcosa nel tono frettoloso con cui le aveva scritto le suggeriva che non si trovava nel Ruxuna; anzi, a essere sincera con sé stessa, doveva ammettere che la credeva impiegata in una di quelle missioni pericolose e delicate che eseguiva per conto della sorella.

Le aveva dato delle istruzioni precise su dove trovare un gruppo di mercenari. La sua lettera era sbrigativa, con quel solito stile asciutto che, complice anche la distanza che separava lei e la Lugupe, restituiva una sensazione di gelida fermezza a chi lo leggeva. Luciana, però, non si abbandonava a quelle elucubrazioni: si fidava del suo istinto e dell'accordo stretto con la maggiore delle Autunno.

Fu distratta dalle sue riflessioni dalla voce della madre, un rantolo strozzato che le graffiò le orecchie.

«Maestà, starete bene, non vi affaticate» disse il guaritore.

«Voglio solo che la smetta» sussurrò lei, a fatica. «Mi sembra di morire.»

Chiuse gli occhi e, se non fosse stato per il lieve alzarsi e abbassarsi delle coperte, chiunque avrebbe faticato nel sostenere che fosse ancora in vita. Luciana si morse il labbro, ma non avrebbe esitato. Nella tasca del suo abito strinse la piccola fiala che le aveva consegnato Melissa, come se questa le potesse restituire la forza per quel gesto a cui non aveva intenzione di sottrarsi. Non si sentiva combattuta, perché non c'erano alternative: sua madre, se anche fosse sopravvissuta a quel morbo, non sarebbe più stata in grado di svolgere appieno il suo ruolo di regina: quell'uomo che tanto si affaccendava tra panni e medicamenti non era stato ottimista su una guarigione totale e aveva avuto uno sguardo cupo nel comunicarlo a lei e a suo padre nel primo pomeriggio.
 

Per fortuna non c'era la vecchia megera... lei si che avrebbe detto di darle il colpo di grazia.

Non le piaceva doverlo ammettere, ma Luciana stava eseguendo esattamente ciò che la Contessa avrebbe desiderato: se un arto si ammalava di un male pressoché incurabile, era giusto reciderlo di netto. Come si fa con le piante, glielo aveva sentito dire più di una volta quando era bambina, anche se in quei casi si riferiva ai contadini che si erano ammalati di febbre e non riuscivano a coltivare i campi, durante un inverno particolarmente gelido.

La giovane si avvicinò alla madre, le accarezzò il volto reso arido dalla calura estiva e da quella malattia che sembrava consumarla dall'interno.

«Non saresti dovuta andare ai Lupfo-Evoco, il viaggio ti ha indebolita ancora di più» mormorò, dispiaciuta. Non era combattuta, perchè sapeva di non avere alternativa: finché Lavinia sarebbe stata in vita, lei non avrebbe potuto prenderne il posto e il regno sarebbe stato privo di un una figura importante. Il re avrebbe avuto qualche settimana in più, solo in virtù di quella guerra che avrebbe dovuto condurre fino a quando...

Luciana scacciò il pensiero sollevando lo sguardo sulla vetrata spalancata, che si apriva su uno dei giardini interni della sfarzosa villa, a cui non faceva mai visita nessuno. Gli alberi erano ben potati e verdeggianti nonostante la stagione estiva, i fiori brillavano dei loro colori, mentre i raggi obliqui del tramonto tingevano quel quadro di tinte fosche, alla stregua di un presagio da gridare ma che nessuno ascoltava. L'arancio nel cielo era ancora espanso come olio lasciato cadere, da un servitore distratto, sul pavimento della lussuosa reggia del cielo, oscurandone quei diamanti preziosi che toglievano il respiro e le parole di complimento. Così era la residenza dei Lugupe, un luogo che risplendeva di ricchezza, e che avrebbe dato materia per l'ammirazione degli altri nobili, se solo questi si fossero presentati lì.

Ma loro non si degnano di venire, siamo noi a doverli rincorrere per cercare il rispetto che meriteremmo.

Arricciò il naso a quel pensiero e fu tentata di abbandonare il capezzale della madre morente, ma non si mosse da dove era. Non poteva indugiare, era quello il momento migliore per agire, avrebbe approfittato di un momento di distrazione del guaritore, o avrebbe atteso che si fosse allontanato per per avvelenare l'acqua riservata alla regina. Sarebbe stata inflessibile: se lei era scampata alla morte solo grazie all'aiuto delle Autunno, non dimenticava che Alcina Primavera era rimasta lontana. Non poteva rimuovere dalla sua mente il pensiero che quella donna, con cui sua madre aveva cercato a lungo tempo di instaurare un rapporto di fiducia senza riuscirci, quella donna che sembrava averla scelta come sua consigliera le aveva voltato le spalle.

Se i Primavera-Inverno erano troppo deboli per soccorrere i loro alleati, lei non l'avrebbe dimenticato mai. Avrebbe mostrato ad Alcina che cosa significava la lealtà, qual era il vero senso dell'alleanza, che una corte piena di sciocchi a chiacchierare non serve a niente. O che lei fosse stata considerata alla stregua di quei nobili frivoli che si ostinavano a sopravvivere alle spese dei sovrani di Defi?

No, questo no. Io non sono come loro.

Lavinia tossì, vomitando del catarro sulla coperta, e la figlia se ne discostò, inorridita, mentre il guaritore accorreva per ripulire il danno dal suo viso e per rivolgere altre parole di conforto alla regina di Dzsaco. L'uomo le pose sulla fronte dei panni intrisi di quell'intruglio che continuava a mescolare, dopo averle tolto la stoffa leggera con cui le aveva inumidito la pelle.

«Avete già visto qualcosa del genere, nel Rosonebro?» chiese Luciana, con un'espressione disgustata.

«Purtroppo sì, e non solo lì» rispose lui, chinandosi per togliere lo strato superiore delle trapunte che sommergevano la sovrana. Abbandonò quella stoffa pesante a terra e ne prese un'altra ripiegata da una poltroncina. -So che vi sembra di vedere una punizione di Danào in quello che provate, ma dovete fidarvi di me. Alla fine starete bene» mormorò alla malata, che scosse il capo.

«Danào non mi avrebbe punita» biascicò a fatica Lavinia. «Io non ho alcuna colpa.»

Siete voi a non vedere la condanna che è stata per noi l'alleanza con Alcina, pensò la figlia. Se non ci fossi stata io, ora il nostro potere nello Dzsaco sarebbe perduto.

«Allora guarirete» la rassicurò l'uomo, con un sorriso accennato.

Luciana non riuscì a trattenere un'altra smorfia, l'ennesima da quando era tornata al palazzo reale: tutto lì le sembrava finto e insulso. E in quelle stesse parole che il guaritore pronunciava con tenerezza vedeva una tragedia annunciata: sua madre non sarebbe sopravvissuta a lungo. Che lui le addolcisse l'attesa della morte con quella vana promessa, almeno lei era sollevata da un peso che non avrebbe saputo portare. Era certa di non saper fingere che tutto sarebbe andato per il meglio, e il volto emaciato della sovrana la metteva a disagio.

«Andate a chiamare qualcuno che si sbarazzi di quella» ordinò al guaritore, asciutta, indicando la coperta abbandonata sul pavimento.

«Come desiderate» disse lui, chinando il capo. Sembrava abituato a obbedire all'istante, anche quando il suo dovere glielo avrebbe dovuto impedire.

Niente di più facile per sbarazzarmene.

«Maestà, non vi affaticate» si raccomandò l'uomo, prima di uscire dalla stanza e di richiudersi la porta alle spalle.

«Madre, chiudete gli occhi, vi aiuterà» aggiunse Luciana con un soffio di voce. Si alzò dal letto per avvicinarsi al comò dove era posato il bicchiere d'acqua per la regina, quando lei la richiamò.

«Non allontanarti da me.»

«Non mi sto allontanando, vi predo l'acqua. Avete sete?»

«Sì...»

La principessa trasse un profondo respiro. Da quel momento non sarebbe più tornata indietro: estrasse la fiala facendo appena strusciare le stoffe del suo abito tra di loro, poi la stappò senza che quella emettesse un suono e versò la polverina nel bicchiere già pieno, che ruotò per mescolarla. Strabuzzò gli occhi al vedere che in pochi istanti l'acqua era tornata limpida, senza lasciare traccia del veleno versato. Ripose la fiala nella tasca e tornò dalla madre, che si alzò con fatica appoggiando la schiena ai cuscini accatastati alle sue spalle, e che le rivolse un sorriso spento. Luciana, tuttavia, comprese il sentimento di benevolenza che voleva trasmetterle.

«All'alba partirò per il Pogudfo» le disse, mentre lei beveva. Dovrò stare via alcuni giorni... spero di metterci molto poco.»

Lavinia le restituì il bicchiere vuoto, con le labbra inumidite che brillavano alla luce del sole che la colpiva in pieno viso, ma la donna non si schermò da quel bagliore che le fece sbattere più volte gli occhi. «Il Pogudfo... Il Tirfusama è di lì.»

La figlia annuì, anche se con un lieve fastidio. Di tutto quello che aveva detto, aveva colto solo la sua destinazione? E vi aveva associato Giampiero?

«Lui ha provato a fare tutto quello che ha potuto» sussurrò la regina, scivolando sotto le coperte. «Fai bene ad andare a scoprire le sue origini.»

«Siete in errore» ribatté lei, con voce fievole. «Non vado lì per lui.»

«Dovresti.»

La doppia porta della stanza si aprì e ne sbucò il guaritore accompagnato da una serva, entrambi con il viso arrossato. Avevano l'aria di chi avesse corso per non impiegare troppo tempo, eppure alla principessa sembrò che l'uomo si fosse assentato per un tempo interminabile. O meglio: per quello che a lei era stato sufficiente per avvelenare la madre.

«Lì» indicò semplicemente Luciana, puntando il dito sulla coperta gettata a terra. La ragazzetta la raccolse, senza far caso al sudiciume che vi si trovava, e se ne andò senza fare rumore.

L'uomo riprese il suo posto tra Lavinia e la finestra e notò il bicchiere che la giovane ancora stringeva tra le mani.

«Le avete dato dell'acqua?» domandò, con una premura che Luciana iniziava a trovare stucchevole.

«Mi sembrava che ne avesse bisogno» mentì.

Lui annuì, come se volesse confermare quella falsa impressione, poi si rivolse alla regina. «Maestà, ora devo...» si interruppe da solo, vedendo che la donna si era improvvisamente addormentata. Le posò una mano sulla fronte con un sospiro rassegnato. «Ha ancora la febbre.»

L'erede di Dzsaco si rese conto che la regina non era spirata solo perché quello spesso strato di coltrici si abbassava e innalzava ritmicamente, come se chi vi si trovava sepolto respirasse con frenesia.

Sembra tumulata viva dalla sua stessa malattia. Una tomba infelice.

   
 
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