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Autore: sacrogral    22/06/2021    13 recensioni
…in cui il cavaliere innamorato avrà – minimo – molte gatte da pelare, i ricordi si sovrappongono al presente e il Tempo diventa liquido; non è scontato il lieto fine (lo dico per i partigiani di), anche a causa del pulcino che dovrà fare una scelta grave, e la Morte forse incombe ma forse no.
Naturalmente ‘ctonie’ è per il comandante Rouge, lei sa perché. Il ‘supremo scolorar del sembiante’ è di e per Giacomo Leopardi. Credo che anche lui sappia perché.
Questa storia è il continuo di una storia. X indica davvero ‘dieci’.
Per Gio: warning: i capitoli sono sempre più brevi. E son lento.
Genere: Azione, Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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fatti non foste a viver come bruti

 

…in cui il cavaliere innamorato avrà – minimo – molte gatte da pelare, i ricordi si sovrappongono al presente e il Tempo diventa liquido;  non è scontato il lieto fine (lo dico per i partigiani di), anche a causa del  pulcino che dovrà fare una scelta grave, e la Morte forse incombe ma forse no.

 

Sto correndo, sto correndo come un forsennato, mi manca il respiro, mi cederanno le gambe. Ma non posso fermarmi, non ancora. Mi si spaccano i polmoni, mi cederanno per forza le gambe, mi abbatterò a terra, non ce la faccio. Sento la voce affannata di quell’uomo, dietro di me: “Di grazia, non così veloce, mon ami”. Comprendo a stento ciò che dice. E invece ce la faccio, ce la faccio ancora. Appena vedrò lei mi fermerò, appena vedrò lei che sta bene mi fermerò, e ringrazierò Dio, e farò quel che va fatto, qualsiasi cosa sia. Corro alla cieca, non riconosco niente. Graffi ovunque, pantaloni strappati, camicia a brandelli. Vento in faccia. Devo solo trovarla, in fretta, in fretta. Il vigneto, sotto la luce morta della Luna, appare un cimitero di arbusti contorti, sofferenti. Non sento più le gambe. Ce la faccio, ce la faccio. Come diavolo è potuto accadere?

 

Non ci credeva, André Grandier. Sudato, sfatto, reduce da un’esperienza che non avrebbe saputo definire, da ore che erano durate anni, con la testa vuota nella quale rimbalzavano ancora l’immagine del divin marchese che stringeva la gola di Oscar, e l’immagine di Oscar che Oscar non era, e la voce di Oscar che gli descriveva la parabola della piccola Thèrése nel terrore del suo nome pronunciato, proferito da una sentenza, nell’intorpidimento dell’essere agghindata come una sposina per il sacrificio, nell’incredulità che i grandi fossero seri e nel dolore poi del collo squarciato, del suo sangue raccolto e offerto alla terra inerte, mentre lei debole sentiva la vita scorrerle via; e lui poi, una volta saputo, adesso vedere davanti a sé quello che la Dama – adesso ricordava, adesso ricordava tutto – gli aveva preannunciato, e rivelato come si rivela il proprio destino a un supplice in attesa, meritevole di niente.

“Vedrai la falce nel chiaro di luna, cavaliere innamorato – la considerano sacra, solo con quella celebrano. La vedrai in mano a un vecchio solido che come monolite di pietra si staglierà nell’argento della notte. Vedrai la tua donna luminosa offrire il collo senza tremare, e quasi, ma solo quasi, potrai leggere i suoi pensieri – e questo è un peccato, cavaliere innamorato, perché nel momento della morte Oscar de Jarjayes, la portatrice di Luce, penserà a te”. Lui ascoltava la voce che lo accarezzava, sentiva le labbra a tratti sfiorargli l’orecchio, e privo di ogni volontà – adesso ricordava – si sforzava di tenere a mente quello che dalla mente voleva sfuggire, perché voleva solo far tacere Oscar baciandola e dirle di restare con lui lì – qualsiasi posto fosse – per sempre. 

“Se ti fiderai delle persone giuste forse arriverai in tempo. Se sarai abbagliato dalla rabbia e dal pregiudizio vedrai solo la falce calare, e resterai paralizzato vedendo madamigella la Luminosa perdere i suoi colori, nel supremo scolorar del sembiante, guardando te con sguardo d’amore” aveva riso, la voce di Oscar “Il demiurgo cui dobbiamo tutto il caos ha già pensato queste parole per il finale, le ha pensate a lungo, ne va quasi fiero, mentre lotta con i suoi demoni, come tutti. Ma anche lui teme e rispetta il Vero Amore. Puoi convincerlo a non rinunciare al lieto fine” ed era musica di clavicembali, ed era arpeggio, la voce di Oscar “oppure no, giovane eroe. Ha talmente timore di diventare scontato che magari ci regalerà un finale col botto, degno della Rovina della casa degli Usher” e lui, sognante: “Di cosa, Oscar?”; e lei: “Non puoi saperlo, di cosa. E non sono Oscar, tienilo a mente. Oscar sta per prendere una decisione importante, ma in queste ore ha pensato tante cose, oh, tante cose. E non se n’è ancora resa conto, manca poco, principe senza terra, ma tutti quei pensieri portano solo a te. Se sarai bravo, mentre la luna splende indifferente in cielo e la terra indifferente dorme sotto di essa, se sarai bravo avrai la tua ricompensa, altrimenti avrai solo il corpo di Oscar cui dire addio, prima di dir tu stesso addio alla vita, cavaliere innamorato, lapidato e smembrato da quella brava gente pregante” e rise ancora, rise come Oscar – e lui pensava che non ci sarebbe riuscito, che non avrebbe trattenuto niente tranne il profumo delle rose che cadevano su di loro, che accarezzavano lei, rosa fra le rose.

E adesso, sovrapponendo la disperazione alla tensione dei muscoli irrigiditi e alla paura di esser stato lento – sempre lento, nella sua vita, sempre – e anche al terrore adesso di non riuscire a muoversi più, e neppure a parlare, mentre quello davanti a cui si incantava era – ma lui non poteva saperlo, tu non puoi saperlo, cavaliere innamorato – un notturno di William Turner, un dipinto di Salvator Rosa, oppure un Trionfo dipinto dalla stessa mano che aveva – chissà quando e con quale maestria – dipinto la Disperazione una sera, nel tempo in cui ancora era possibile che uomini e dèi si incontrassero, che gli angeli più o meno caduti camminassero sulla Terra; e adesso, paralizzato, sovrapponendo l’impazienza alla paura che gli faceva inumidire torace e schiena, mentre vagamente percepiva la brezza notturna che raffreddava il sudore a lui, immobile e incredulo nel momento, mentre ricordava quel supremo scolorar del sembiante, mentre si risvegliavano – ma lui non poteva saperlo, tu non puoi saperlo, cavaliere innamorato – forze ancestrali e ctonie, in altri tempi e in altri luoghi, e lui portava con sé il profumo di quelle rose che con lui erano, impazienti, in attesa di sapere se sì, se ce l’avrebbe fatta o meno, lui con il suo amore inutile e dannato, se ce l’avrebbe fatta un accidente di volta in più, a salvare la sua donna, o se l’avrebbe ancora perduta fra le spine, nella maledizione dell’Uruboro e dell’eterno ritorno, lasciando un rimpianto sul volto di quelle rose – alle donne solo i baci si possono rubare, avrebbe senza dubbio e fuori tempo detto Gobemouche – ma forse anche quella catarsi di momenti perduti che tanto piace alle rose, che impreziosisce col dramma i lunghi viaggi. E allora, mentre un vento si alzava terrificante e forse quei pazzi lo avrebbero preso per un segno di approvazione della Terra, un cenno di assenso alla morte che vince sulla vita per generare altra vita e poi altra morte, lui così consapevole che ogni primavera antica è irrecuperabile ma pure consapevole che il suo corpo si stava riempiendo di voci, e tutte dicevano: “Muoviti” e che nella lotta eterna fra Amore e Morte alla fine vince chissà, forse nessuno, o forse il Tempo che rimane a guardare, sornione, le vestigia di una tragedia annunciata, una tragedia che dura un batter di ciglia; e sotto la luce fredda di una luna bambina e spietata, davanti al riflesso del raggio sulla falce sacra, finalmente Andrè Grandier urlò e scattò, fermando proprio sul momento dello scatto privo di pietas il braccio di un vecchio austero e compassato, e ricevendo – ma lui non poteva saperlo, tu non puoi saperlo, cavaliere innamorato – uno sguardo da Oscar Françoise de Jarjayes, eburnea e immobile e bella come non lo era mai stata, uno sguardo terribilmente e spaventosamente innamorato, e privo in maniera paradossale di dubbio. 

E lui, correndo incontro a lei senza sapere neppure dove andava, la terra a fare attrito ai piedi e le mani in avanti in maniera patetica, sudato e graffiato e esausto ma capace di concentrare la forza in un punto solo, non aveva gridato: “Fermi” o “In nome di sua Maestà” o qualche altra sciocchezza da soldato, aveva gridato, solo e come sempre, il nome di lei.

E fu così appunto che, per l’eternità incastonata in un diamante che rifulgeva della luce dello sguardo di Oscar de Jarjayes, la falce si fermò a mezz’aria, paia d’occhi che sembravano centinaia si voltarono verso un uomo, quasi un ragazzo, che correva nel buio gridando un nome e la cosa più evidente era la macchia chiara della sua camicia provata da giornata di sofferenza, insieme allo sguardo – nessuno ci fece caso –  concentrato, monomaniacalmente fisso sulla vittima che era vittima consenziente, capro espiatorio, doveroso tributo, ma al tempo stesso donna di carne, felice di vederlo in modo palese, mentre quell’incongrua felicità faceva ululare le ninfe nella Francia di fine Settecento, più ellenica della Grecia antica, più medievale di Siena e Lucca, e più eterna di Troia che aveva visto crescere Ettore, domatore di cavalli.

 

“Se resterai con me non sarò più arrabbiata” dichiarò Thèrése tutta seria, commossa per la quella sua anima definita “leggera e senza peso”.
Foret si guardò intorno di sottecchi, pensò che il posto era bello, e pensò che rimanendo lì avrebbe anche ottenuto altri baci, forse. Perché quella cosa del bacio gli era proprio piaciuta.

“Non vedrò più Joss le petit e neppure fra Etienne con la sua collana di chicchi di legno e neanche il dottor Lassone che è sempre stanco e nemmeno monsieur Sanson che è sempre cupo, per cui non vedrò più Gobemouche che gioca con le parole e ha la faccia strana?” domandò pensieroso, e pensò anche a sua madre, e a quel padre che un giorno se n’era andato a Lione e non era più tornato e alla gente che da allora lo chiamava Foret il bastardo.

“No” confermò caparbia la ragazzina “Però vedrai me e tutti gli animali del mondo, e vedrai anche le piante e i fiori che nessuno ha più visto da tanto tempo. Potremo fare il bagno nel fiume che la Dama mi ha detto che si chiama Eunoè e toglie ogni ricordo brutto e lascia solo la felicità. Da sola non l’ho fatto, perché voglio tenermi tutti i ricordi brutti, per far male alla gente cattiva. Ma adesso che ci sei tu, non voglio più questo. Mi aiuterai ad imparare di nuovo ad essere leggera e quindi buona”.

“Va bene” disse Foret, pensando che, alla fine, il dottor Lassone e anche il boia Sanson e fra Etienne e Michel Gobemouche e persino Joss avevano tante cose da fare, e a volte lui dava loro tanto da fare, soprattutto quando alla Disperazione entrava qualcuno che Joss chiamava “un maleducato” – è un impoli, un maleducato, pulcino. Dimentica – e lui dimenticava, però si erano dovuti alzare in due o anche tre per spiegare a quel signore la buona educazione, e a volte il padre di Hortense finiva la spiegazione con una pedata nel didietro, e Gobemouche con un colpo a mano tesa dietro la collottola, e questo poteva dar lavoro ai suoi amici, disturbare. 

In quel posto così incantevole non avrebbe disturbato.

Thèrése sorrise.

E fu allora che, nell’Eden fatto per la vita, si presentò loro una Signora vestita di nero da capo a piedi, che faceva seccare i fiori che toccava con le vesti.

Madame” si inchinò Foret, mentre la Morte gli sorrideva, abituata a lui. 

Thèrése la riconobbe e la osservò con una certa diffidenza.

“È un posto nuovo e bello, un posto che non è fatto per me e io non son fatta per lui” si guardò intorno la donna “Tanto che è buffo tocchi a me venire a prendervi per sistemare le cose” e osservando ancora quel luogo senza tempo, mentre gli animali fuggivano istintivamente, compresi in una paura mai prima provata così, e il cielo sembrava di colpo meno limpido, disse ancora: “Forza, bambini. È tempo di tornare a Parigi”.

 

André Grandier, immemore di tutto, fece quello che non aveva mai fatto in vita sua: aggredì un vecchio. Storse il polso a quello che sembrava il sacerdote celebrante, si impossessò della falce definita sacra, la scagliò lontano nel buio. E solo poi si voltò verso Oscar Françoise, adesso in piedi, pallida come prima, ma con l’espressione dolce. André intravide l’espressione dolce di lei prima ancora di rendersi conto di non aver fatto niente, se non quello che un romanziere mediocre chiamerebbe “un’entrata in scena spettacolare”, e di aver forse ritardato di un quarto d’ora, di venti minuti, una cerimonia cui presiedevano più di una decina di uomini, senza contare le donne. Ma intanto quella falce che riluceva alla luce fredda della luna, in quel cimitero di viti era lontana, si disse, e Oscar era viva davanti a lui e non era stato lento.

“Uccidiamo anche lui!” gridò il normanno, incitando gli altri. Le ragazze si stingevano fra loro. 

“Blasfemia! Blasfemia!” fece eco un uomo bruno e tarchiato, con una torcia in mano.  

“Blasfemia” ripeté un coro.

Oscar de Jarjayes scosse la testa, e avrebbe voluto dire molte cose. Avrebbe voluto dire che no, finiva davvero lì, perché nell’improbabile possibilità di una fuga, quello che avrebbero ottenuto sarebbe stato lasciare al proprio destino quella bimba diffidente e incredula che qualcuno potesse scientemente prendere il suo posto; avrebbe voluto dire che lei aveva visto già troppi bambini morire – la contessina de Polignac, ma anche il piccolo parigino – così le aveva raccontato la sua versione, il piccolo Foret: Io però mi ricordo ancora di Pierre, che era molto amico mio, e che il duca della Germania – si chiama così anche se è francese – gli aveva detto che lo perdonava, per aver cercato di rubargli una moneta e lo aveva lasciato andare ma poi, mentre tornava dalla mamma, ecco che quello gli aveva sparato e alla schiena, come non si fa coi cristiani e nemmeno coi bambini, e me la ricordo come piangeva la signora sua mamma e anche Gobemouche e Joss e fra Etienne e monsieur Sanson che non c’erano, se lo ricordano lo stesso; e la macchia del sangue di Pierre che poi è diventata sempre più scura e tutti ci passavano accanto e nessuno la calpestava e tutti ci facevano il volto nero quando la vedevano e anch’io, e io non so tanto bene cos’è l’odio però quello lo odio ma tanto pure io, e alla fine la macchia l’ha lavata il cielo perché se aspettava gli esseri umani era ancora lì – un piccolo parigino di nome Pierre dunque, che da solo valeva il sacrificio di tutti, ammazzato nemmeno in nome della terra ma in nome di niente, solo perché il duca della Germania poteva; e allora, disse Oscar con gli occhi che André riusciva a vedere anche nel buio, allora non serve a niente neppure discutere né dibattersi, ché tutto è già stato deciso da tanto tempo, e lei non avrebbe più sopportato di vedere morire ragazze e ragazzini, restando con le mani in mano, potendolo evitare.

Però son felice che tu sia qui, André Grandier, mio amico da sempre, mio attendente e mio soldato. Sono felice anche se non so come finirà anche per te, che sei sempre con me e che non so come abbiam fatto a passarne tante insieme, perché se le metto tutte in fila par impossibile. E non so se mi ami ancora, André Grandier, nipote di nonna Marie, tu che, se ci penso, sei tutto il mio passato concentrato in una persona sola, e sei il mio presente senza futuro, e anche il mio futuro avrei voluto che fossi. Perché ci sto pensando da mesi, forse da anni, e mi son chiesta se mai avrei avuto il coraggio di dirti che ho fame di vita, e anche che adesso sono stanca della guerra, a una vita di donna tornerei, a un vestito da sposa o qualcosa di bianco (1) ma solo con te accanto. Perché alla fine l’amore chiama amore, si desidera quello che si ha sempre davanti agli occhi, solo che il desiderio ha tante forme e tanti tempi, e per qualcuno è più difficile che per qualcun altro. Desiderare vuol dire non essere libero, significa consegnarsi a qualcuno. O così lo è per me. E io che ho tanto desiderato essere libera avrei adesso tanta voglia di consegnarmi a te, vada tutto come vada, vorrei chiederti se mi ami ancora e vorrei chiamare qualcuno ‘amore’ per la prima volta. E vorrei anche dirti che ho sognato tanto i tuoi baci, quei baci che sempre mi dicevo che non sarebbero tornati, mentre li sognavo. Vorrei che tu mi dicessi che quei baci possono tornare.

E mentre un cerchio si stringeva attorno a loro, nessuno dei due che accennava un movimento di difesa, e neppure un movimento verso l’altro, André Grandier, senza sapere ciò che faceva, senza che quello che faceva avesse costrutto, sentendo i pensieri di lei che forse erano solo quello che lui voleva sentire, immobile, sporco, mormorò soltanto, a voce impercettibile: “Io ti amo, Oscar Françoise”, a occhi aperti, per morire guardando lei, sicuro quindi di non sentire neppure dolore.

 

E fu allora che, mentre già il cavaliere innamorato sentiva addosso quelle mani grandi e contadine e temprate dalla vita, e le voci gli sembravano solo un ruggito di bestie, nel caldo freddo della vigna spettrale, tutti udirono una voce che sembrò provenire da un altro tempo, tanto sembrò, per differenti motivi, aliena:

Un moment, s'il vous plaît” disse il marchese de Sade “E scusate il ritardo”.

 

(1)    Fabrizio de André, Giovanna d’Arco, 1972 (trad. dal poeta/cantautore Leonard Cohen)


 
  
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