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Autore: AleeraRedwoods    23/06/2021    4 recensioni
Dal testo:
“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo,
riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.
A caro prezzo.”
(Revisionata e corretta)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Aragorn, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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-Un Teatrale Stratagemma-



    Perso, come un pulviscolo nella notte.
    Il buio e il vuoto si erano spalancati su di lui al pari di enormi bocche mostruose, inghiottendolo intero. La sua mente stanca, ormai satura di ricordi indesiderati, vomitava angoscia e disperazione, senza pietà.
    Quel luogo
    L’animo flebile e disincarnato di Glorfindel si rannicchiò su sé stesso, desiderando di non essere mai esistito.
    Non di nuovo, non quel luogo...
    Era sprofondato nell’incubo di secoli prima. Non pensava che, una volta tornato, avrebbe ricordato la prima volta, la sua prima morte. Forse era parte della punizione, ricordare cosa lo aspettasse solo quando, ormai, era inevitabile.
    Il silenzio lo consumava, il vuoto gli urlava nelle orecchie. Solo, abbandonato. Ed ora era troppo tardi per pentirsene.
    Le pareti coperte di arazzi variopinti si stringevano su di lui, sempre più dettagliate, sempre più immense: le Aule di Mandos.[1] Ogni sensazione, pensiero, suono, tutto pareva finire assorbito dalla vastità confusionaria degli Arazzi di Vairë, la Tessitrice,[2] infiniti quanto le Aule del suo sposo. Una dedalica prigione senza via d’uscita.
    Questa volta, nessuno avrebbe concesso al valoroso Glorfindel la possibilità di tornare indietro. Perché, a dirla tutta, questa volta una possibilità non la meritava affatto.
    Tra singhiozzi arrendevoli, l’anima ferita del Vanyar si aggrappò agli ultimi, terribili ricordi della sua seconda vita. Era stato piuttosto inutile, pensò.
    Penoso. Arrogante. Traditore.
    E, adesso, morto.
    Stava per uccidere Thranduil, per l’amor del cielo, lo avrebbe fatto. -Lo avrei ucciso…-
    Realizzare una verità tanto oscura e vergognosa contrasse dolorosamente la sua anima, oramai ridotta a un’ombra sofferente tra le tante.
    Adesso non avrebbe più avuto importanza, per lo meno.
    Presto le altre anime silenziose lo avrebbero trovato, trascinandolo nella lunga processione attraverso le Aule senza fine: -Non posso sopportarlo ancora, non posso.- Ma devo. Me lo merito.
    Non riusciva a soffocare quei pensieri.
    Nemmeno voleva, in realtà.

    Da quanto tempo era lì? Minuti? Mesi? Anni? Non esisteva dimensione terrena in quel luogo, solo attesa.
    E lui attese. Per tantissimo tempo.
    O per pochissimo?


    Un mormorio fumoso, lontano, lo fece rabbrividire.
    Stavano arrivando le altre ombre?
    -Sia. Rivivere questo è pur sempre un destino migliore di quello che mi attendeva da vivo.- Ringhiò, risoluto.
    E sollevato.
    Sì, di un sollievo ristoratore, finalmente.

    A proposito: perché era morto? Oh, i ricordi cominciavano a svanire. Meglio così. Andava bene, dimenticare.

    D’un tratto, la sua ombra rannicchiata tra gli Arazzi sussultò: mezze voci si sovrapposero attorno a lui, questa volta più vicine.
    -Fai in fretta! Non sento il battito.-
    Glorfindel rimase in ascolto, immobile, sconvolto.
    Era una voce così familiare. Ma a chi apparteneva?
    -Mia signora!-
    -Va tutto bene, Thorin. Stai calmo.- Quell’ultima voce decisa, conosciuta, amata, lo attraversò interamente, come i fulmini e le saette incrinano il legno degli alberi, bruciandoli fino alle radici.
    -Adesso lo riporto indietro.-

    Le parole di Sillen lo strattonarono con violenza da tutte le direzioni, come avessero assunto forma fisica per diventare catene possenti. E Glorfindel ricordò tutto, mentre il passato gli scrosciava addosso come un’enorme cascata.
    -No no no!- Si divincolò, lottando contro la forza di quelle catene di fuoco che cercavano di trascinarlo via: -Non voglio tornare indietro!-
    Nei recessi della sua mente, si vergognò di tutta quella codardia; nella realtà, si ribellò con veemenza.
    Ad ogni modo, a nulla servì il suo opporsi: ancora qualche strattone e la sua povera anima si sarebbe rotta in tanti inutili brandelli, ne era certo.
    Il dolore bruciante si diffuse, sempre di più, invadendolo. Stava per spezzarsi?
    La voce di Thorin era vicinissima, adesso:
    -Lo sento, sento il polso! Sillen?-
 
**
 
    La stella continuò a trasferire la propria energia nel corpo rigido dell’elfo dorato, concentrata, senza lasciarsi distrarre dall’agitazione del Re dei Nani davanti a lei.
    -Dannazione, è ancora freddo come la morte.- Esclamò questi, apprensivo. Era successo tutto così in fretta che Thorin a malapena aveva compreso quanto fossero stati in pericolo: nulla era stato più sconcertante che vedere il fulgido elfo dorato cozzare al suolo, i capelli splendenti sparsi tra i ciottoli sporchi.
    Picchiettò sulla sua guancia liscia, chiamandolo con insistenza.
    Il tempo, intanto, scorreva quasi più lentamente, scandito dal tintinnare di numerose gocce che si staccavano dal soffitto umido per rimbalzare sull’acqua piatta del lago.
    Sillen chiuse gli occhi, respirando a fondo: doveva moderare la sua energia o avrebbe di certo incenerito qualcosa, pensò.
    Sentiva ondate di calore salire e scendere dentro di lei, dalle sue ossa sino alla superficie della sua pelle dorata. Aveva cessato di brillare e tremare come una fiamma viva da qualche minuto ma ancora stava cercando di abituarsi all’enorme potere che il suo corpo aveva appena accolto.
    Quell’altra si era impadronita nuovamente del suo legittimo posto, scalzando ogni umana debolezza che la stella aveva imparato a sentire propria. Non riusciva nemmeno ad ammettere a sé stessa quanto si sentisse rinata, viva, in quel momento.
    La gioia che avrebbe potuto provare, però, era minata da tutte le conseguenze che la sua scelta imponeva.
    Era fatta, l’Alfiere aveva avuto ragione sin dall’inizio: avevano solo preso tempo, niente di più.
    Le sue dita affusolate si contrassero sul petto del Vanyar, tradendo una rabbia malcelata.
    Lanciò uno sguardo al Re degli Elfi, ritto in piedi e rigido in maniera preoccupante: -Thranduil, stai bene?-
    Riscosso dalla sua voce limpida e insolitamente dura, il Sindar riprese a respirare: effettivamente, non si era accorto di aver trattenuto il fiato, durante quei lunghi istanti concitati.
    -Sto bene.- E cercò di convincersene, frastornato. Si mosse a fatica, dirigendosi anch’egli verso il Vanyar caduto. S’impose con tutte le sue forze di non rivolgersi alla stella inginocchiata al suo fianco, per non turbarla con il proprio sgomento.
    Per quanto cercasse di non mutare la propria espressione, nella sua mente stava avendo luogo una terribile bufera: Sillen aveva riacquistato i suoi poteri, come? Quando?
    Cosa era appena accaduto?
    E soprattutto, perché lei non stava ancora dando le spiegazioni dovute?
    Controllò le mani dell’elfo, immaginando le terribili bruciature che l’arma divina doveva avergli procurato. Invece, la sua pelle era liscia e intatta, non una ferita deturpava il suo corpo.
    Sillen
    Suo malgrado, il Re degli Elfi lanciò uno sguardo alla giovane, soffocando la propria angoscia come meglio poteva: -Non è ferito.- Per merito tuo.
    Un impercettibile spasmo contrasse la mascella serrata della stella: -Una volta brandito, ho imposto all’Alfiere di restituire a Glorfindel tutta la sua energia e lasciarlo illeso.- Confermò, tagliente. L’alabarda fremette, piantata nel terreno dietro di lei, lì dove la stella l’aveva lasciata per soccorrere l’elfo dorato: -E così ho fatto. Ma ci è mancato poco. Qualche secondo ancora e non saresti più riuscita a rianimarlo.- L’apostrofò, sprezzante.
    Finalmente, il petto di Glorfindel si dilatò in un respiro profondo, come per confermare le parole dell’arma.
    -Ce l’hai fatta, è vivo!- Esclamò Thorin, riprendendo immediatamente colore.
    Le mani curative della stella non abbandonarono il Vanyar, seppur tremanti, e Thranduil si avvicinò ancora un poco, cautamente: lei era arrabbiata, la conosceva abbastanza bene da poterlo dire con assoluta e incontestabile certezza. Lo capiva dalla rigidità del suo corpo, dai tratti tesi del volto e, soprattutto, lo avvertiva nel peso contratto del suo silenzio.
    -Sillen, io- Cominciò, serio, ma la Stella dei Valar si lasciò improvvisamente andare in un’imprecazione colorita, che lo spiazzò: -Perché si è comportato così!? Come ha potuto correre un rischio del genere? Farlo correre a tutti noi!-
    Una lacrima inopportuna le scivolò lungo la guancia e lei si affrettò ad asciugarla, con un gesto secco: -Pensavo fosse tutto finito, credevo di avercela fatta e- Singhiozzò, la voce rabbiosamente spezzata.
    Perché quel dannato Vanyar non aveva voluto ascoltarla?
    Perché aveva agito in modo così stupido?
    Per quale motivo aveva cercato di uccidere Thranduil?
    Sillen non riusciva a capire. Guardando il viso pallido dell’amico, cercava con tutta sé stessa di dare un senso a quell’assurda situazione: voleva delle spiegazioni, era suo diritto sapere perché quell’elfo arrogante l’avesse privata del suo futuro. Ne aveva bisogno.
    Il peso dell’Alfiere del Cielo nelle sue mani, pochi minuti prima, l’aveva sconvolta oltre ogni misura, terribilmente reale: reale quanto il suo destino, inevitabile come il domani. Aveva sentito ogni fibra del suo essere entrare in contatto con il potere devastante dell’arma, in un vincolo che non si sarebbe mai più spezzato, fino alla fine dei tempi.
    Da quel momento, tutte le sue speranze di poter vivere almeno un poco di quella semplice vita mortale che aveva sognato erano volate via come cenere al vento.
    Ce l’aveva quasi fatta. Quasi.
    L’Alfiere del Cielo brillò lievemente dietro di lei, attirando la sua attenzione. Le parlò piano, nella mente, suo malgrado contagiato dalle emozioni della propria padrona: -Sillen, so che sei arrabbiata. Credimi, lo sono quanto te. Ma c’è una cosa che forse devi sapere, prima di trarre le tue conclusioni.- La stella annuì, respirando a fondo per riprendere un contegno, mentre la sua energia fluiva nel corpo dell’elfo come se non vi fosse fine.
    Il giorno prima, forse meno, era accaduto l’esatto contrario.
    Cosa li aveva portati a questo?
    L’alabarda, intanto, parve esitare: -Il Vanyar… non so proprio come dirtelo, mi sento un idiota.-
    -Dillo e basta, non devono esserci segreti tra noi, siamo una cosa sola ormai.- Lo incoraggiò distrattamente lei, concentrata su Glorfindel. Thorin e Thranduil, alle sue parole, si scambiarono uno sguardo confuso, poiché nessuno di loro era in grado di sentire la voce dell’Alfiere, oltre alla stella.
    L’alabarda divina sembrò prendere un grande respiro e sciorinò le parole il più velocemente possibile: -Bene. L’elfo voleva ammazzare il tuo amante per gelosia. Ecco, l’ho detto.-
    Sillen aggrottò le sopracciglia: -Gelosia?- Thranduil, al suo fianco, s’irrigidì all’istante ma la stella non lo notò, intenta a rispondere all’arma con parole dure. -So bene che desiderava brandirti dal momento in cui è venuto a sapere della tua esistenza. Voleva dimostrare la sua forza come il pomposo arrogante qual è, ecco la verità. Ed è quasi morto per questa stupida, infantile motivazione.-
    L’Alfiere frenò le sue elucubrazioni, a disagio: -Ecco, è questo il fatto. In parte hai ragione, certo, ma ad averlo spinto è un sentimento di altro genere. Insomma, è geloso di te e dell’elfo.- Specificò. Lei si specchiò nelle lame affilate dell’alabarda, che le rimandarono il suo sguardo confuso: -Geloso di me?-
    -L’ho provocato, quando era sotto la mia influenza. Lui desiderava il tuo… cielo, non ci credo che sto per dirlo… amore o, in alternativa, desiderava essere più forte, per non doverne essere turbato. E ha miseramente fallito, non serve ricordarlo.-
    La stella, pietrificata, sollevò lentamente lo sguardo sul Re degli Elfi: -Lui voleva diventare più forte per allontanarsi da me?- Comprese, sconvolta.
    Thranduil schiuse le labbra, incapace di dire niente.
    Oh. La stella strinse gli occhi a due fessure lucenti: -Tu lo sapevi.- Sibilò. Dinanzi all’espressione colpevole dell’elfo si sentì ferita, tradita.
    -Sì. L’ho capito quando ho scorto la sua luce dentro di te.- Dichiarò lui, serio.
    -E perché non me lo hai detto allora?-
    L’altro sostenne il suo sguardo inquisitorio: -Non è così semplice. Glorfindel è complesso… delicato. Non volevo affrettare le cose.- Era sincero e la stella lo percepiva chiaramente. Anche se faticava a ritenerla una valida giustificazione per un’omissione tanto grave.
    Strinse le labbra, i pensieri che le vorticavano nella mente:
    -State cercando di dirmi che è quasi morto per questo?- Il suo tono era gelido, come lo stridio di schegge d’acciaio contro la roccia.
    L’alabarda tremò appena, investita dall’improvvisa rabbia della sua padrona: -Ascolta, cerca di non andare in escandescenze. Ci sono cose più importanti che dovrei-
    Glorfindel tossì improvvisamente, in uno spasmo dell’addome, calamitando l’attenzione di tutti i presenti. Aprì gli occhi dorati con lievi fremiti e li rivolse su di loro, lentamente.
    Respirava ancora a stento ma, per lo meno, era sveglio.
    Era vivo. Quella consapevolezza riempì di sollievo i compagni, certi che la natura divina dell’elfo avrebbe affrettato la sua guarigione.
    Glorfindel, invece, impiegò diversi secondi per realizzare dove si trovasse: ed era di nuovo lì, con loro. Non sembrava passato un giorno. Anzi, non era passato un giorno.
    Thorin si sporse verso di lui, entrando nel suo capo visivo con voce tonante: -Maledetto, meno male che sei vivo, così posso ammazzarti io!- E si prodigò in una serie d’insulti che avrebbero fatto invidia al più creativo dei Goblin, la voce calda che tradiva tutta la sua gioia.
    L’elfo mosse le estremità, ignorando il nano come meglio poteva. Dannazione, perché era di nuovo lì con loro?
    Sillen allentò i lacci della camicia dell’elfo, per permettergli di respirare meglio, e ignorò orgogliosamente l’esitazione che fece tremare le sue dita: non era il momento di farsi prendere dalla rabbia, né… da qualsiasi altra cosa stesse provando in quel momento. Fece per raggiungere le loro sacche e prendere le erbe medicinali ma non poté tirarsi in piedi perché, subito, la mano fredda dell’elfo le strinse il polso tanto forte da farlo impallidire.
    La stella alzò lo sguardo su di lui, sforzandosi di restare impassibile mentre sondava i suoi occhi dorati: -Glorfindel.- Lui deglutì, sforzandosi di parlare: -Mi hai svegliato.- Constatò, atono. Lei annuì con finta decisione, sentendo il peso della sua azione gravarle improvvisamente addosso: -Certo che l’ho fatto.-
    L’elfo la guardò a lungo, respirando piano, prima di annuire appena, lasciandole il polso con un gesto esausto: -Certo che lo hai fatto.- Il suo tono freddo e cupo risuonò nella grotta, lugubre, lasciandola frastornata.
    L’elfo dorato spostò lo sguardo sul Re degli Elfi, tirandosi a sedere con una smorfia dolorante. Non disse nient’altro, non ne aveva bisogno: Thranduil aveva già inteso i suoi sentimenti, ne era cosciente, e lo conosceva abbastanza da sapere che non si sarebbe intromesso. E un po’ lo odiò per questo, perché adesso il Re lo costringeva ad affrontare Sillen da solo.
    Uno scontro per cui non era pronto. Una resa dei conti che avrebbe preferito barattare persino con la desolazione delle Aule di Mandos.
    Thranduil ricambiò lo sguardo, una maschera di marmo, leggendo ogni pensiero del Vanyar come fosse proprio: era arrivato il momento, dunque. -Sillen.- La stella si voltò verso di lui, interrogativa. -Devo parlarti.- Leggendo l’urgenza nel suo sguardo, lei si tirò in piedi, seguendolo al limitare della grotta.
    -Tu stai bene?- Chiese il Re, quando furono sufficientemente discosti, affondando nelle iridi nuovamente luminose e vive della giovane. Lei annuì, stendendo i muscoli con movimenti misurati, saggiando la propria forza: -Tutto è tornato come prima. Solo, sono più forte.- Sussurrò, più a sé stessa che al Re.
    Si avvicinò improvvisamente, cogliendo l’elfo di sorpresa. Lui la osservò scostargli le vesti umide e posare una mano incredibilmente calda sulla sua fasciatura improvvisata. Un lieve pizzicore si diffuse nel suo ventre e, in pochi attimi, la recente ferita sparì, senza lasciare una singola cicatrice.
    Prima che l’elfo potesse protestare, Sillen lo zittì, con voce ferma: -È meglio così. Dobbiamo tornare a Gondor e non puoi permetterti di essere ferito.- Aveva ragione, naturalmente.
    Gli occhi del Re la studiarono con attenzione, per catturare ogni differenza. I segni della battaglia erano svaniti dal suo corpo e la sua pelle splendeva come rame colato. Le occhiaie violacee erano scomparse, i capelli s’inanellavano in onde scure lungo la sua schiena.  Persino le sue forme erano tornate piene e vigorose, anziché fragili ed emaciate.
    Sì, non vi era alcun dubbio: la Stella dei Valar era tornata.
    Lei fece un passo indietro ma Thranduil, incapace di separarsi così velocemente da quel contatto, prese le sue mani dorate tra le proprie: -Il tuo potere. Come lo hai riavuto indietro?- Chiese, il più diretto possibile. Lei strinse le labbra, ricambiando il suo sguardo teso: -Ha a che fare con la presenza che mi seguiva. E con l’Alfiere e con Glorfindel e… C’è tanto da raccontare, Thranduil. Ma non adesso.- Sospirò, sforzandosi di non urlare tutto ciò che lui ancora non poteva sapere. Strinse le sue dita forti, cercando di apparire rassicurante: -Devo parlare con lui.- Lo avvertì, limpida. -Sì. Lo so.-
    Con un sospiro, l’elfo posò la fronte su quella di lei, chiudendo gli occhi: -Non sarà pronto ad affrontarti.- La sentì annuire debolmente: -Ma io lo sono. E non ho intenzione di lasciar perdere.- Per nulla rassicurato dalla sua determinazione, il Re posò le labbra sulla tempia calda della giovane: -Be iest lin, Sillen. (come desideri)- Dovette sopprimere ogni emozione per riuscire a lasciarla tornare dal Vanyar.
    Era una creatura saggia, forse più saggia di lui, e doveva solo fidarsi di lei: dopotutto, come la ragione imponeva, lui avrebbe accettato l’esito di quel risolutivo scontro, in ogni caso.
    Un fremito gli attraversò la schiena, gelido, mentre osservava la figura della giovane farsi sempre più distante. In ogni caso?
    Tornò a passi pesanti verso il nano, rivolgendosi a lui con voce forzatamente inespressiva: -Confido tu abbia colto i sottintesi del nostro… diverbio.- Cominciò, altero. Thorin sospirò, strofinandosi la faccia con la grossa mano callosa: -Anche un bambino li avrebbe colti, elfo.-
    -Allora concorderai con me che è il momento di uscire di qui. Ci raggiungeranno.- Tagliò corto, il Re. Non guardò più gli altri due compagni, si limitò a voltarsi in silenzio, sparendo laddove Glorfindel e Thorin erano giunti.
    Quest’ultimo, invece, si attardò solo per lanciare all’elfo e alla stella uno sguardo spazientito, prima di seguire il Re con passo veloce e guadagnare l’uscita. Sperò che i due divini si sbrigassero a far tornare tutto come prima: avevano cose più impellenti di cui occuparsi, al momento.
    Sillen li guardò uscire, tesa ma decisa. Non aveva potuto ignorare la rigidità del Re degli Elfi, né il suo muto dissenso, ma sapeva che avrebbe capito, così come lei aveva dovuto accettare il suo tacerle i sentimenti di Glorfindel.
    Ci sono cose che non sempre debbono essere dette.
    Poi, con un profondo respiro, si voltò infine verso il potente Vanyar.

    Glorfindel rimase in silenzio, seduto sulla pietra fredda. Si prese la libertà di fissare la stella, senza vergogna.
    A che sarebbe servito cercare di nascondere i propri pensieri, oramai? Era chiaro dal suo sguardo, che la stella aveva scoperto tutto.
    Scrutò a lungo i suoi occhi ametistini, concedendosi di fermarsi a riflettere su ciò che era appena accaduto. Sillen aveva riacquistato il suo potere, il quale non era altro che quell’energia densa di rancore che tanto l’aveva spaventata in passato. Non avrebbe mai potuto immaginare un risvolto più insolito.
    E, adesso, ella era padrona dell’Alfiere del Cielo.
    Si sentì un idiota, nel constatare l’immane stronzata che aveva appena compiuto.
    Glorfindel di Gondolin, Glorfindel l’Alto Elfo, Glorfindel l’ultimo Vanyar della Terra di Mezzo. Un idiota.
    A disagio, spezzò quel silenzio insopportabile, serrando i pugni: -Hai intenzione di rimanere lì impalata ad aspettare cosa, precisamente?- L’apostrofò, calamitato dallo sguardo duro e inflessibile di lei. La Stella dei Valar non rispose, le labbra strette in una chiara espressione di disappunto.
    Per qualche motivo, non lo insultò come il Vanyar si sarebbe aspettato. Anche se la tensione del suo corpo suggeriva tutto il contrario. Era davvero spaventosa, così furente.
    Non che potesse darle torto.
    Ed era più bella di quanto ricordasse, senza alcun segno o cicatrice a ledere la sua grazia divina.
    Certo, come se la sua umiliante performance di poco prima e la sua momentanea morte prematura non fossero state delle punizioni sufficienti, per lui.
    Si alzò in piedi, abbastanza stabile, cercando di allontanarsi di qualche passo: -Per quanto tempo sono stato morto?- Chiese, moderando il tono.
    Sillen parlò seccamente, senza emozione: -Pochi minuti.- L’elfo annuì, per nulla sorpreso da quella notizia: -Capisco. Mi è sembrato molto, molto più tempo. Nelle Aule si perde la cognizione di ogni dimensione terrena e…- Si zittì, notando che lei non pareva minimamente intenzionata a fare conversazione.
    Beh, che si aspettava? Le sue scuse? Perché in tal caso non le avrebbe avute. Le meritava ma non le avrebbe avute, maledizione.
    Stette in silenzio quanto più possibile, sotto quello sguardo di ferro, poi cedette, scontroso, tornandole dinanzi: -Avanti, perché stai zitta? Se hai qualcosa da dire fallo oppure- Uno schiaffo violento gli fece voltare di scatto la testa e si ritrovò a fissare il lago sotterraneo alla sua destra, incredulo. Portò una mano allo zigomo, tastandolo appena per avvertire nuovamente quel dolore insolito. Era un dolore caldo, bruciante, reale.
    Si voltò nuovamente, sgranando gli occhi. Sul viso dorato di Sillen scendevano delle lacrime, grandi e luminose.
    Piangeva perché era la prima volta che colpiva davvero qualcuno che amava; piangeva per la rabbia, la paura e la tensione; piangeva perché non aveva idea di come affrontare tutto ciò che stava provando: -Perché non mi hai mai detto niente?- La sua voce tremò appena, prima di tornare dura come la roccia attorno a loro. -Perché non mi hai parlato dei tuoi sentimenti? Hai fatto di testa tua, solo per cercare di allontanarmi!- Alzò il tono e l’elfo indietreggiò appena, colto alla sprovvista. -Ti ho confidato le mie paure per così tante volte! Ho cercato il tuo appoggio senza sapere che stavi soffrendo!-
    A quelle parole, Glorfindel strinse i pugni, rabbuiandosi: -Cosa avrei dovuto dirti? Che mi ero innamorato di te come uno stupido ragazzino umano? Non avevo bisogno di cadere nel ridicolo ancora di più, conosci la mia patetica storia!-
    Sillen storse la bocca: -Reputi un sentimento puro come l’amore una cosa stupida e ridicola?- L’elfo voltò la testa, sottraendosi dal giudizio implacabile di quegli occhi terribilmente luminosi: -Credimi, di puro io non ho proprio niente. Se non ci arrivi, ho ragione di credere che tu sia solo una bambina che è cresciuta troppo presto.- Lei gli puntò l’indice al petto: -Sei tu che stavi scappando dalle tue responsabilità come un bambino.-
    -Tu non sei una mia responsabilità!- Abbaiò lui. -Perché non avrei dovuto tentare?- Cercò di nascondere il turbamento del proprio essere ma sapeva che la sua anima, in quel momento, era esposta oltre ogni precedente. -Ho dovuto fingere, non fare finta di non capire.-
    Lei scosse la testa, i pugni serrati: -No, non eri obbligato a farlo! Hai avuto decine di possibilità per parlarmi di ciò che provavi e non l’hai fatto!-
    Parlarne, diceva. Parlare, e poi cosa?
    -Cosa sarebbe cambiato?- Sibilò l’elfo, troneggiando su di lei con gli occhi ridotti a due fessure dorate: -Cosa avresti fatto, se ti avessi confessato ogni cosa, Sillen?- Lei deglutì, senza però cedere terreno: -Non… non lo so. Ma avremmo cercato una soluzione.-
    -Una soluzione?- Le ringhiò contro, lui. Puntò il dito alle sue spalle, verso l’Alfiere del Cielo: -Quella era la mia soluzione. Mi sarei assunto la responsabilità dell’Alfiere e mi sarei fatto rispedire a Valinor, lontano da qui! Lontano da te!-
    La stella contrasse la mascella, la voce carica di una rabbia sotterranea: -Se solo mi avessi dato ascolto-
    Lui storse la bocca in un sorriso forzatamente ironico: -Oh quanto avrei voluto brandire quell’arma e vincere la battaglia al posto tuo. Prestarmi a questo gesto caritatevole per poi lasciarti in pace a vivere la tua perfetta storia d’amore. Purtroppo non ha funzionato, quindi perdonami se te lo chiedo ma perché diamine non mi hai lasciato morto? Perché mi hai svegliato?-
    Lei fece per colpirlo di nuovo, furiosa, ma l’altro le afferrò il polso. Una recondita parte della sua mente registrò la mancata risposta della sua luce al tocco della stella e la cosa lo fece solo infuriare ulteriormente: lei era così potente, adesso, mentre il giorno prima era lui a permetterle di camminare sulle sue gambe.
    -Te lo dico io perché. Sei solo un’egoista, che si crede tanto superiore da pretendere che tutti quanti si schierino al suo fianco per combattere la sua nobile causa. A prescindere dai loro sentimenti.- Lei ringhiò la sua esasperazione, tentando di liberarsi dalla sua stretta, constatando che, forse, restituire subito al Vanyar tutti i suoi poteri non era stata una scelta ben ponderata.
    -Ma sentiti! Io sarei un’egoista!? Chi mi ha voltato le spalle pur di prendere il controllo dell’Alfiere per il proprio tornaconto? Chi ha messo in pericolo tutti noi perché troppo codardo per affrontare i propri sentimenti?!-
    -Era l’unico modo.-
    -Smettila di ripeterlo! Non era l’unico modo, non lo era affatto!- Lo spinse lei, tanto forte da fargli male. Glorfindel sentì la disperazione attanagliargli le viscere: -Non era l’unico modo? Preferivi questo?- La spinse a terra, violentemente, tenendola ferma.
    Alla vista di quell’improvviso assalto, l’Alfiere del Cielo tremò nel terreno: -Sillen!-
    -No, fermo! Stanne fuori.- Si divincolò lei, nonostante fosse oltraggiata da quella situazione. Rivolse al Vanyar sopra di lei uno sguardo gelido: -Lasciami immediatamente. Tu non lo faresti mai.- L’elfo non le diede retta, pur avvertendo quelle parole pungergli la coscienza: -Sei tu che mi costringi, Sillen. Vuoi che smetta di fingere? Bene. Smetterò.-
    Ormai troppo oltre ogni limite per poter anche solo pensare di fermarsi, Glorfindel premette senza riguardi le labbra contro quelle di lei.
    Dopo un attimo di smarrimento, Sillen sgranò gli occhi, sconvolta da quel gesto improvviso. Presa dal panico, sentì il suo potere montarle nel petto, fino a bruciarle dentro. I suoi occhi divennero luce e una forza incredibile animò le sue membra.
    Ma prima che potesse spedire il Vanyar dritto nel lago, questi si staccò da solo, imprecando. Un sottile rivolo di sangue tinse le sue labbra e Sillen capì di averlo inconsapevolmente morso.
    -Ahia.- Si lamentò lui, soffiando il respiro accelerato fuori dai denti. -Ben ti sta.- Sputò lei, avvertendo con sollievo il proprio potere rilassarsi nuovamente. Suo malgrado, non voleva fargli male, sapeva che niente di tutto ciò che stava accadendo era minimamente sensato, nemmeno per lui.
    -Spostati!- Lo ammonì, di nuovo.
    -Non ho scelto di amarti.- Ribatté l’elfo, senza ascoltarla.
    -Dannazione, lo so! Credi che io sia qui per giudicarti?- Urlò Sillen, di rimando: -Credi che io non mi senta colpevole per ciò che stai provando?- Lo fissò negli occhi, sincera più che mai. Era vero: era stata così superficiale e cieca, ancora una volta, troppo persa nei propri sentimenti per curarsi di quelli altrui. Strinse le labbra, contrita: -Nemmeno io ho semplicemente scelto di amare Thranduil.-
    Glorfindel trattenne un sospiro tremante, ferito. Perfetto, i sensi di colpa non avevano tardato ad arrivare, compagni indissolubili delle amare fitte di gelosia che gli laceravano il cuore.
    Dopo qualche attimo di orgogliosa resistenza, l’elfo abbandonò quegli occhi ametistini, scostandosi con gesti stanchi. Sedette sui ciottoli, tirando indietro i capelli dorati: -Ho fatto tutto questo perché tu potessi vivere la vita che volevi. E, a prescindere da ciò che pensi di me, questo è ancora il mio obbiettivo. Anche se mi hai riportato indietro dalle Aule, troverò comunque il modo di sparire dalla tua vita, per il bene di entrambi. Fosse anche seppellirmi vivo.-
    Lei si tirò a sedere a sua volta. Stette qualche attimo in silenzio, prima di rispondere: -Non sarà più necessario.- Decretò, con voce bassa. Glorfindel si voltò di scatto, il respiro sospeso. Per una frazione di secondo, il suo cuore accelerò: “dillo, Sillen. Non sarà più necessario perché anch’io ti amo. Dillo, ti prego.”
    Vide la stella respirare a fondo, raddrizzandosi, e in quei gesti lui lesse un dolore inaspettato: -Quando ho impugnato l’Alfiere, ho pagato il prezzo.- La mente di Glorfindel si svuotò di colpo:
    -Cosa? Quale prezzo?-
    -Il prezzo da pagare per portare la Pace, quello profetizzato dai Valar.- Chiarì lei, alzando lo sguardo violetto per guardare Glorfindel negli occhi: -Un Bene troppo grande attirerebbe un Male troppo grande, capisci?- L’elfo annuì, lentamente: -Per questo ho cercato di brandire l’Alfiere, perché mi costringessero a partire per Valinor.- Un mezzo sorriso storse la sua bocca arrossata: -Diversamente, non avrei trovato la forza per allontanarmi.-
    Sillen si avvicinò appena, sapendo di essere giunta alla sua verità, una verità che lo avrebbe ferito ancora una volta. L’ultima.
    -Tuttavia, non è così, Glorfindel. Io non posso portare l’Alfiere a Valinor. Nessuno può farlo. Tornerò nel firmamento, come ultima custode dell’arma.-
    Lui sgranò gli occhi. Nel cielo. Lei sarebbe tornata nel cielo infinito. -C-come?-
    Sillen percepì distrattamente le lacrime rigarle le guance, i capelli disordinatamente incollati al viso: -L’Alfiere mi ha rivelato la realtà nascosta nella profezia. Per questo motivo non potevo… non volevo impugnarlo.-
    L’elfo sentì le forze abbandonarlo: …era colpa sua.
    -Non sono qui per giudicarti, Glorfindel. Non potrei. Abbiamo affrontato la medesima situazione, rinnegando il nostro destino e rinunciando a tutto pur di essere felici. Solo, non ci siamo riusciti.-
    Lei non c’era riuscita a causa sua. L’antico elfo sentì il mondo sgretolarsi in coriandoli: aveva fatto di tutto per renderla felice e ora scopriva di essere la sola e unica causa della sua inevitabile infelicità. Aveva osato darle dell’egoista. E, invece, lui stesso l’aveva condannata ad assumersi la responsabilità della salvezza dell’intera Terra di Mezzo da sola.
    Questo non poteva sopportarlo.
    Si nascose il viso tra le mani, sconvolto: -È colpa mia.- Sillen si avvicinò ancora, negando fermamente: -No mellonin, non dirlo.-
    Gli afferrò i polsi, scostandogli le mani da davanti al viso: -Ti prego, guardami.- Glorfindel non riuscì ad opporsi e i suoi occhi corsero febbrilmente in quelli di lei. La stella quasi riusciva a leggere i suoi pensieri caotici, attraverso le iridi chiare: -È stata una mia scelta. Ero consapevole di ciò che sarebbe accaduto. Tu non potevi saperlo.-
    -Se non avessi agito così-
    -Nessuno di noi deve rimproverarsi. Questa è una guerra, Glorfindel. C’è sempre un prezzo da pagare. Per tutti noi.-
    Prese il viso dell’elfo tra le mani, guardandolo negli occhi spaventati: -Devi vivere, hai capito? Devi vivere ed essere libero.-
    Il Vanyar sentì lacrime pesanti colare sul viso, sul collo. Un singhiozzo gli mozzò il respiro: -Mi hai fatto tornare qui solo per vederti scomparire?- Gemette, sopraffatto dalle proprie emozioni. Sillen chiuse gli occhi: era così difficile, così dannatamente difficile. Lo strinse con un respiro tremante, cercando le parole. Ma nessuna parola pareva sufficiente, oramai.
    Quasi aggrappandosi l’una all’altro per non perdersi nelle loro paure, si abbracciarono con forza.
    La stella gli sussurrò, piano: -La guerra non è finita. Pallando potrebbe diventare un nuovo Signore Oscuro e non possiamo permetterlo. Loro avranno bisogno di te. Elessar, Elladan, Elrohir, gli elfi di Gran Burrone, Legolas.- Glorfindel non voleva ascoltare.
    -Tu sei tanto amato, Glorfindel.- La sua voce era una melodia confortante e dolce, quanto dolorosa, insopportabile: -Thorin è così preoccupato per te. Thranduil, è preoccupato. Anche se io andrò via, voi ci sarete, l’uno per l’altro. Vero?- Pareva quasi una supplica, più che un tentativo di conforto.
    L’elfo affondò il viso tra i capelli scuri della giovane, incapace di reagire. Aveva raggiunto la Stella dei Valar per cercare gloria e riscattare il suo valore agli occhi dei crudeli Valar ma era stato capace di attirare solo dolore e miseria. Non meritava l’affetto dei suoi amici, né il rispetto dei giovani guerrieri della Terra di Mezzo. Eppure, annuì contro la sua spalla: -Combatterò questa guerra per te.- Sussurrò.
    Era il minimo che potesse fare. Era così poco. Era niente.
    Dopo lunghi minuti, Sillen gli accarezzò i capelli, asciugandosi discretamente gli occhi: -Vinceremo, sai?- Glorfindel respirò a fondo, raddrizzandosi. Le accarezzò una guancia, guardando il suo viso amato con una dolcezza dolorosa: -Non farmi il verso.-
    Sorrisero, insieme, rotti e feriti come non erano mai stati.
    Come i loro destini.
    Si alzarono, lentamente, prendendosi il tempo per assimilare ciò che era appena accaduto.
    L’Alfiere del Cielo li richiamò poco dopo, con un fastidioso verso, quasi cercasse di schiarirsi la voce. O, per lo meno, il teatrale effetto che cercava di ricreare era quello: -Bene, non che m’interessi impicciarmi dei vostri affari ma avete appena citato l’unica cosa importante in tutto ciò. C’è una guerra in corso, gente. E i nemici marciano su Minas Tirith.- Concluse, quasi annoiato.
    Sillen si voltò di scatto verso di lui: -Cosa? Quando?-
    -Adesso. Sono in molti e gli Stregoni sono con loro. Credo proprio arriveranno alla città ben prima di voi.- La stella lo afferrò con forza, estraendolo dal suolo con un sibilo metallico: -Perché non hai detto niente?!-
    -Ci ho provato, cosa credi? Eravate lì a cincischiare con i vostri piccoli problemi di cuore, che dovevo fare? Scriverti una lettera?- La sbeffeggiò: -Comunque prego.-
    Sillen lanciò un verso esasperato, radunando le proprie cose. Si affrettò verso l’uscita con tanta fretta che i piedi quasi non toccavano terra: -I non morti possono essere tenuti a bada con il fuoco, sono certa che Elessar sarà-
    La sua voce si perse in un respiro interrotto e Glorfindel si girò allarmato verso di lei. Quando la vide, s’irrigidì di colpo: Sillen aveva gli occhi spalancati, di pura luce bianca, la collana luminosa che levitava sul suo petto. Anche l’Alfiere brillò violentemente, trascinato con la stella nella visione che stava avendo luogo nella sua mente.

    Erano i Campi del Pelennor, assolati. Tante figure incappucciate camminavano verso la città bianca, tranquille. Tuttavia, il clangore del ferro e della battaglia riempiva lo spazio, in netto contrasto con quell’immagine serena.
    Solo quando fu abbastanza vicina da riconoscere le figure, Sillen si accorse che Elessar era al centro del campo. Qualcuno teneva Andùril tra le mani e la sollevava contro di lui, verso la sua nuca esposta: pareva quasi un’esecuzione.
    La scena cambiò bruscamente e, davanti a sé, Sillen vide solo il volto etereo della piccola Miniel, mentre il sangue le fuoriusciva copiosamente dal naso e dalle labbra. Pallando tirava dei fili invisibili, dietro di lei, costringendola a sollevare le braccia.
    In pugno, Miniel brandiva Andùril.
    La Principessa calò la spada verso la stella, con forza impietosa, il volto inespressivo: -Sillen…-


    -Miniel!-
    E la stella espirò, cadendo carponi a terra. Si asciugò il sudore dalla fronte, mentre Glorfindel si chinava al suo fianco.
    Tornato il suo potere, la stella aveva riacquistato il dono della preveggenza. Talvolta, il destino conserva anche accadimenti utili: avevano ancora un po’ di tempo.
    Con il fiato corto, Sillen fissò la ghiaia sotto di sé: -Dobbiamo sbrigarci. Sono tutti in pericolo.- Glorfindel ascoltò ciò che la stella aveva visto e le sue labbra si tesero in una linea preoccupata: -Possiamo ancora evitarlo?-
    Sillen ricambiò il suo sguardo, tetra: -Dobbiamo.- Poi tentennò, mordendosi con forza la bocca tremante: -Il problema è che le mie visioni si sono sempre avverate. Sempre.-

 
**
 
    Sotto il cielo terso, la Principessa di Gondor e di Arnor marciava in silenzio, ordinatamente schierata tra le fila dei suoi numerosi sudditi. Sotto all’ampio cappuccio che la celava al mondo, i suoi occhi fissavano l’orizzonte, vitrei come specchi appannati, mentre il suo giovane viso non accennava l’ombra di un turbamento. Sembrava quasi serena.
    Disgraziatamente, quella era solo una tragica illusione: dentro di sé, Miniel urlava. Sentiva tutto, vedeva ogni cosa, ma non poteva fare niente.
    Dopo giorni di marcia, il dolore ai piedi si era fatto quasi insopportabile e mai, nemmeno per un secondo, aveva potuto fermarsi a riposare. La schiena dritta mandava fitte atroci, così come il collo, le spalle, le gambe. Il mantello le pesava addosso, caldo e soffocante. Le bruciavano le interiora, private di acqua, cibo e riposo.
    E la peggiore tra quelle torture era la consapevolezza che sua madre stesse soffrendo i suoi stessi patimenti. Sentiva il profumo dei suoi capelli bruni, accanto a sé, ma non riusciva a volarsi.
    Nemmeno un fiato poteva lasciare le sue labbra, serrate da quell’arcana magia. Mamma, mamma... Nella sua muta disperazione, solo le lacrime erano libere di scivolarle sul viso e fu grata che, per lo meno, la Regina non potesse vederle.
    Solo pochi giorni prima, le due sovrane erano a Belfalas, a guardare il mare, sognando di tornare a casa. Non avevano lontanamente immaginato che vi sarebbero tornate in quelle condizioni.
    Era accaduto così in fretta… Miniel nemmeno aveva compreso come l’elfo dai capelli neri, colui che si faceva chiamare Maestro delle Illusioni, fosse apparso in città, a Dol Amroth. A quanto pare, aveva il dono di rendersi invisibile. E, troppo velocemente, le cose erano degenerate.
    Gli abitanti di Gondor avevano cominciato a comportarsi in modo insolito, subito in pochi, poi in molti. Prima che potessero rendersene conto, i casi isolati divennero la normalità e, in meno di tre giorni e tre notti, infiniti frammenti neri come l’ossidiana si erano conficcati nelle loro carni, distruggendo le loro volontà.
    Persino le forti volontà delle nobili Signore di Minas Tirith caddero. L’ultimo gesto che Miniel aveva compiuto da sé era stato sollevare le mani verso sua madre, che brandiva una lama elfica contro le loro stesse guardie ormai succubi della magia oscura. Semplicemente, l’elfo invisibile era apparso dietro l’inerme Principessa e aveva spinto a forza un frammento nella sua schiena, incatenando a esso anche l’impavida Regina.
    Inoltre, a nessuno era dato sapere quale sorte fosse toccata al Principe Imrahil,[3] unico baluardo rimasto contro quell’assalto improvviso. Privato della propria guida, il popolo di Belfalas non aveva potuto fare altro che guardare: l’unica cosa certa era che le persone possedute non si sarebbero fermate dinanzi a niente e nessuno. A costo di uccidere… o di essere uccise.
    Da quel momento, un lunghissimo cordoglio di esseri privi di arbitrio aveva marciato verso Gondor, prima sotto terra, poi in superficie, indisturbato.
    Erano tutti vivi ma schiavi.
    Quando non era sopraffatta dal dolore, Miniel pensava a suo padre, a Minas Tirith, e a tutte le false lettere che l’elfo oscuro le aveva fatto scrivere per ingannarlo. In quelle occasioni, la sua mano copiava diligentemente il melenso dettato del Maestro delle Illusioni, mentre la sua volontà soggiogata le imponeva di modificarlo: scrivi che è una trappola, che non è vero, che sono tutti in pericolo, che ci hanno catturate! Padre ti prego, devi capire! Le esplodeva la testa e le frasi piene di allegria si scrivevano dinanzi ai suoi occhi, minando ogni sua speranza una parola dopo l’altra. “Il mare è bellissimo, mi manchi, ti voglio bene, mamma è felice.”
    L’elfo le sorrideva, quasi affettuosamente: -Ti leggerò le lettere di risposta, non vedo l’ora! Dopotutto, è come se fossi io il suo bambino, non trovi?- Sghignazzava, mentre lei non poteva nemmeno negare o arrabbiarsi.
    Suo padre non avrebbe sospettato nulla, lo sapeva.
    Lo sapeva quando fissava il suo vecchio e leale corvo prendere il volo verso Nord, gracchiando con quel suo familiare timbro rauco; lo sapeva quando immaginava il suo povero padre aggrapparsi a quelle brevi lettere, l’unico mezzo che poteva avvicinarli.
    Così, Miniel camminava e piangeva, sopportando un dolore che nessuna ragazzina avrebbe mai dovuto sopportare.
    Quando la paura si faceva tanto densa da minacciare di soffocarla, volgeva la mente all’unica certezza che possedeva: se Pallando aveva preso tutti loro come ostaggi, significava che gli alleati potevano ancora vincere la battaglia, che lo Stregone aveva paura. A confermare i suoi sospetti vi era anche il fatto che, nonostante avesse tutti loro ai suoi ordini, Pallando si fosse portato appresso una massiccia retroguardia di non morti. Erano molti, ne sentiva il fetore sin dalle prime fila.
    Ad un tratto, il suo udito fine di mezzelfo colse delle voci, poco distanti. Aveva intuito, a grandi linee, da dove provenissero e a chi appartenessero. Dopotutto, non aveva di meglio da fare che prestare attenzione agli altri membri di quella silenziosa folla.
    Per prima, sentì la ormai familiare voce del Maestro delle Illusioni, dietro di lei, sulla destra: -Calmati, mio caro Alatar. Smettila di agitarti inutilmente.- Le parve di vederlo, sornione come un grosso gatto, appollaiato sul suo mannaro in putrefazione. Una voce più profonda e incerta le giunse dal lato opposto: -Le Aquile ci hanno avvistati subito, quando siamo usciti dalle gallerie. In queste ore, a Minas Tirith avranno avuto tutto il tempo per preparare una difesa. O peggio, un attacco.- Alatar.
    Se avesse potuto, Miniel avrebbe urlato.
    Si era fidata dello Stregone Blu, tempo prima, come tutti gli altri, e ancora s’incendiava al pensiero di come egli avesse ferito la Stella dei Valar. Tuttavia, non poteva fare a meno di pensare che in fondo, molto in fondo, lui potesse non essere del tutto malvagio. Forse l’avrebbe aiutata. Forse il suo tradimento era frutto di un grande malinteso e lui, presto, avrebbe abbandonato il fianco del fratello per liberare tutti i cittadini innocenti. Se solo lei fosse riuscita a voltarsi e incontrare il suo sguardo...
    Intanto, la sgradevole voce di Pallando aveva messo a tacere la concitata apprensione dell’altro stregone: -Certo che hanno provveduto, non sono degli sciocchi privi di ragione! Ma pensa, fratello mio, perché dovremmo preoccuparcene? Credi verseranno pece bollente sulle loro famiglie? Su tutta questa povera gente?- Rise, una risata disgustosamente soddisfatta: -Li abbiamo in pugno, Alatar. Lascia che vedano. Lascia che si preparino inutilmente, credendo di potermi affrontare.-
    Era pregno di una sicurezza spavalda, inarrestabile. Terrificante. E Miniel pregò che Sillen fosse pronta a tutto ciò che stava per abbattersi su di loro.
    Qualche fila dietro, Saedor aguzzò la vista verso Nord-Est, laddove numerose Aquile erano sospese in volo: -Manca ormai poco. Minas Tirith è di fronte a noi.- Gracchiò, concentrato.
    Pallando strinse nel pugno il sacchetto con i pochi, ultimi frammenti, rimasti inutilizzati: -Stiamo impiegando più energia che mai, insieme. Sapevo che gli Stregoni e i Maestri, finalmente uniti, avrebbero mosso una schiera di viventi senza difficoltà. Inoltre, non dimenticate che il Palantir ci garantisce il controllo, finché anche un solo frammento di esso sarà utilizzabile.-
    Lhospen si stiracchiò languidamente sul collo della sua oscena cavalcatura: -Non sono mai stato così in forma, in effetti. Questa sarà la volta buona per mettere la parola fine sopra questa inutile città di moralisti senza speranza.- Sbuffò, attorcigliandosi una ciocca corvina attorno al dito affusolato.
    Alatar respirò a fondo: la resa dei conti, giusto? Non poteva fare a meno di dubitare di ciò che stava per fare. Prima di tutto, ora era il cattivo. O pressappoco. E, in secondo luogo, non gli sarebbe piaciuto il finale di tutta quella storia. Di questo, a dire il vero, ne era abbastanza certo. Le ultime parole, però, toccavano alla Stella dei Valar.
    Strinse forte il bastone ricurvo, luminoso affianco al suo compagno più scuro: gli Stregoni Blu, in carne e ossa, erano infine tornati nelle terre dell’Ovest.
 
**
 
    Gimli pressò bene l’erba della Contea nel fornello della sua lunga pipa, bofonchiando: -Sarebbe ora di pranzo e noi siamo qui a fare la guardia a barili d’olio puzzolente.- Elessar gli rivolse un sorriso teso, seduto sulla balaustra delle mura della Città dei Re:
-Ti informo che Pallando sarà qui a momenti. Non abbiamo tempo per goderci un pranzo, amico mio.-
    L’altro scrollò le spalle, tentando ostinatamente di scrutare l’orizzonte soltanto per rinunciare di nuovo, troppo basso per vedere oltre la balaustra merlata: -Beh, probabilmente sarebbe stato l’ultimo pranzo della nostra vita, maledizione!-
    Legolas, dal canto suo, non distolse lo sguardo dall’esercito nemico, che avanzava senza provocare alcun rumore: -Continuo a pensare che ci sia qualcosa di strano. A che scopo far indossare mantello e cappuccio alle schiere di non morti?- Anche Elessar trovava quel dettaglio insolito ma che spiegazione potevano darsi loro, quando nemmeno conoscevano le capacità del nemico?
    -Forse i suoi nuovi cadaveri sono sensibili alla luce del sole.-
    L’elfo scosse la testa, turbato: -Sento che c’è qualcosa che non è come dovrebbe essere. Abbiamo bisogno di scoprire cosa.- Al suo fianco, Gimli gli strinse brevemente un braccio, tentando di confortarlo: -Niente è come dovrebbe essere, orecchie a punta. Siamo ad un passo dalla morte e della Compagnia partita per La Contea non c’è traccia. Quello di cui abbiamo bisogno è un miracolo.- Nemmeno il Re degli Uomini poté ribattere.
    In effetti, dalla notizia dell’arrivo dei non morti, la paura degli alleati aveva avvolto la Città Bianca, più terribile di qualsiasi cattivo presagio: le schiere erano disordinate, spaventate al punto da essere a malapena controllabili.
    Come biasimarli? Da quanto sapevano, la loro unica speranza si trovava sin troppo lontano, a giorni di cammino dal campo di battaglia, introvabile persino dai corvi più esperti.
    Presto sarebbero morti tutti, dal primo all’ultimo, e la disciplina sembrava il minore dei problemi.
    Il Re degli Uomini serrò la mascella, impotente e incredibilmente stanco, lasciando vagare lo sguardo attorno alle mura. I soldati erano disposti in due grandi ali, a destra e a sinistra, in un disperato tentativo di accerchiamento.
    Gli Ent svettavano come un piccolo bosco dinanzi alle porte della città, brandendo grossi massi e tronchi; le catapulte erano pronte, la pece infiammabile nuovamente disposta nei Campi del Pelennor.
    Certo, come se il nemico potesse cascare nello stesso tranello due volte. Ma che altro potevano fare? Quella era la loro unica e ultima difesa, prima dell’inevitabile scontro frontale: dovevano prendere tempo, quanto più tempo potevano, e sperare nell’arrivo risolutivo di Glorfindel e gli altri.
    Anche se nessuno poteva offrire loro la certezza che sarebbero sopravvissuti sino a quel momento.
    Landroval atterrò al loro fianco, spaventando i soldati lì attorno con la sua minacciosa e imponente mole: -Re degli Uomini, il nemico è alle porte. Siamo in posizione.- Elessar annuì, alzandosi in piedi. Sistemò l’armatura, su cui riluceva l’Albero Bianco di Minas Tirith: -E pronti ad accoglierli.-
    Con un sospiro e un mezzo sorriso, guardò negli occhi i suoi più cari amici, i compagni di una vita: -Sono onorato di essere qui con voi, mellon. Non mi avete mai abbandonato.-
    Legolas gli sorrise con calore e Gimli si raddrizzò, nascondendo la commozione: -Come ai vecchi tempi, ragazzo. Come sempre.-
    Gli stendardi dei popoli liberi svettarono contro il cielo azzurro, come vele colorate sferzate dal vento. Uomini, nani, elfi, aquile ed Ent, uniti contro un solo nemico.
    O almeno, così credevano.

    Nel bel mezzo dei Campi del Pelennor, Pallando avanzò senza esitazione, solo, lasciando il mannaro e proseguendo a piedi.
    A guardarlo, pareva un vecchio mendicante appoggiato al suo bastone sporco.
    Scrutò attentamente i livelli verticali della Città Bianca, che si innalzava contro il fianco della montagna, e sorrise: -Che piacere conoscervi, finalmente.- La sua voce riecheggiò tra il silenzio dei due eserciti come un’eco stonata.
    Indifeso, esposto, eppure così sicuro di sé.
    -Re Elessar.- I suoi occhi si piantarono in quelli grigi del Re degli Uomini, che pareva una sentinella di pietra scolpita sulle mura della città. Tuttavia, non era il Re colui che lo sguardo di Pallando stava cercando: i suoi occhi lattiginosi corsero tra i soldati, sui bastioni, attorno ad essi.
    Quando, evidentemente, non trovò ciò che sperava di vedere, il viso dello Stregone si contrasse un poco, come un vecchio foglio incartapecorito: -Dov’è la Stella dei Valar, se posso chiedere?- Elessar serrò la mascella, teso: -Credi che io non possa bastare per rispedirti nelle tue maledette terre?- Esclamò, più risoluto di quanto non fosse in realtà.
    Pallando alzò gli occhi al cielo: -Non lo credo. Sono certo che tu non possa bastare, Re degli Uomini. Né tu, né tutti i tuoi amici.- Concluse, quasi deluso.
    -Ebbene, ella non si mostra? Le voci che sono giunte sino a Mordor sono vere, dunque. La tanto acclamata stella ha perso i suoi divini poteri.- Sorrise, ferino: -Poco male. Lei non m’interessa, tantomeno voi.-
    Detto questo, allargò le braccia, con fare magnanimo: -Ora, arrendetevi o dovrò marciare sulla vostra città.-
    Nemmeno finì la frase che una freccia, precisa e letale, puntò la sua fronte rugosa. L’intera folla trattenne il respiro, sconvolta da quell’improvviso attacco. Tuttavia, con un bagliore bluastro, la punta affilata della freccia si conficcò nel vuoto, a pochi centimetri dal bersaglio.
    Pallando la saggiò tra le dita, curioso, e Legolas, poco distante dal Re, strinse più forte il suo fidato arco: non lo aveva colpito.
    -Devo dedurre che non avete intenzione di ragionare.- Convenne, lo stregone. Elessar lo vide sollevare una mano, mentre l’altra spezzava senza remore la freccia dell’elfo. Al suo richiamo, altre cinque figure si staccarono dal gruppo di non morti, avanzando con sicurezza.
    Dall’alto delle mura, i tre compagni sentirono la rabbia rivoltar loro lo stomaco quando riconobbero Alatar, in piedi accanto al fratello. Lo stregone traditore li guardò con un’indecifrabile espressione sul viso, assorto. Pareva quasi estraneo alla scena, pur essendovi al centro.
    Pallando lasciò che i Maestri si avvicinassero, seguiti da due figure incappucciate: -Lasciate che vi spieghi cosa accadrà adesso.- Cominciò, con tono conciliante.
    Il suo modo di fare innervosiva i soldati, spiazzati dalla sua baldanza. Quel vecchio cialtrone emanava potere da ogni poro, come un agglomerato di malvagità, e calamitava l’attenzione come il più abile dei cantastorie.
    -Re Elessar scenderà dalle sue belle mura e verrà qui, offrendomi la sua testa. Se lo farà, risparmierò la città e mi limiterò a sottomettervi.- Fece una lunga pausa, che non fece altro che accrescere l’impazienza dei soldati.
    Era un gioco, per lui.
    Le sue parole penetrarono nell’animo di Elessar, lasciandolo spiazzato. Come diamine poteva pensare che avrebbero accettato una simile condizione? -Fintanto che un solo soldato respirerà, Gondor non verrà sottomessa.- Scandì, cercando di donare coraggio al proprio esercito.
    Ma Pallando ghignò, attirando nuovamente su di sé tutti gli sguardi. -Bene, la seconda opzione: se non lo farà, ucciderò tutti, a partire dall’amata Principessa e dalla bella Regina elfo.- Dichiarato ciò, lo stregone indicò con un ampio gesto le figure incappucciate che, con movimenti quieti e tranquilli, scoprirono il capo.
    E la situazione precipitò senza freni.
    L’esercito si agitò in un vociare concitato, costernato, oltraggiato.
    Elessar, bianco in volto, non poté articolare un’altra parola.
    Non era possibile, non era reale. Illusioni, ecco tutto.
    I visi candidi delle Signore di Minas Tirith, così reali e vivi, non potevano trovarsi lì.
    Fu Legolas a dar voce ai suoi pensieri, gridando con sdegno per sovrastare il caos sceso tra le truppe: -Menti, vile mostro! La Principessa e la Regina sono lontane da qui. Non circuirai i nostri cuori con le meschine illusioni dei tuoi servi!-
    Pallando ascoltò attentamente, senza scomporsi, osservando i soldati approvare le parole del Principe del Reame Boscoso. Con calma, lasciò che lo scompiglio si attenuasse, lasciando posto a un brusio costernato, confuso dal suo paziente silenzio.
    Si schiarì la voce, apprestandosi a portare dinanzi a tutti un sacco di cuoio, fino ad ora rimasto appeso al fianco del suo mannaro. -So bene che i vostri concittadini sono migrati a Dol Amroth e dintorni, Re Elessar. Dimentichi che ho sempre avuto un’efficiente spia tra voi.- Alatar non distolse lo sguardo, nemmeno quando tutti rivolsero gli occhi furenti verso di lui.
    Pallando non lasciò loro la possibilità di dire niente, riprendendo la parola: -Dunque, ho agito di conseguenza. Ho chiesto al Principe Imrahil di sottomettersi, concedendomi la sua testa. Oppure, avrei ucciso tutti i suoi sudditi.-
    Elessar strinse Andùril, rifiutandosi di credergli: -Se così fosse stato, lui avrebbe combattuto e tu saresti morto!- Urlò, rabbioso, senza riuscire a staccare gli occhi dai visi delle due dame.
    La sua vita, tutta la sua vita.
    Lo stregone, per nulla impressionato dalla sua nobile tempra, aprì il sacco di cuoio: -Temo tu ti stia sbagliando, saggio Re.-
    La sua mano dalle unghie ricurve riaffiorò dalla sacca, estraendone un panno azzurro: lo stendardo di Dol Amroth, il Cigno d’Argento. Con un gesto teatrale, Pallando lasciò cadere il vessillo, che si srotolò, rivelando la reliquia conservata al suo interno. Subito, tra le urla e la confusione, Elessar nemmeno riuscì a riconoscere ciò che stava fissando: era la testa mozzata del Principe di Dol Amroth, i lunghi capelli neri sparsi a terra e gli occhi vitrei rivolti al cielo.
    -Non è vero. Non è reale.- Ripeté, senza però crederci davvero.
    Le urla di Éomer, esplose come tuoni alla crudele vista del padre della sua amata moglie, gli straziarono il cuore.
    In pochi secondi, poi, tutte le fila nemiche si mossero, scostando i cappucci scuri dal viso. Eccoli, tutti loro, tutti gli abitanti della città, la gente di Gondor. I soldati gridavano nomi e preghiere, suppliche e maledizioni.
    Era un incubo, un dannatissimo incubo.
    Lhospen sorrise, deliziato dalla disperazione degli eserciti alleati: -Sapevo che il suo drammatico discorso avrebbe fatto un certo effetto.- Mormorò, mordendosi le labbra.
    Alatar taceva. Così doveva andare, non c’era altro modo. Nonostante tutto, però, le bugie del fratello lo confondevano: perché mentire su Imrahil? Egli era stato assassinato da Lhospen, non aveva accettato di sottomettersi. Presto, una volta distrutta la resistenza a Gondor e uccisi gli abitanti, Pallando sarebbe comunque tornato a Belfalas per concludere il lavoro, per estinguere ogni essere vivente. E così avrebbe fatto per ogni regione della Terra di Mezzo e oltre, con un esercito di non morti sempre più immenso e inarrestabile.
    Era la cosa che suo fratello desiderava, liberare i viventi dalle sofferenze della vita stessa. Non serviva mentire, poteva uccidere tutti velocemente e senza ulteriori sofferenze.
    Il maggiore, intanto, avanzò di un passo, rivolto al Re degli Uomini: -Vuoi ancora combattere, Re Elessar? Voi tutti, volete farlo?- Il silenzio calò di nuovo tra i presenti, lasciandogli il centro della scena: -Sappiate una cosa, allora. In diversi membri di questa folla- E indicò i cittadini di Gondor con uno svolazzo della manica blu: -sono impiantati dei frammenti del mio Palantir. Tutti loro sono ancora vivi, in vero. Vivi e vegeti. Se siete intelligenti, come voglio credere che siate, saprete bene come annullare il potere di un frammento. Non è forse così?-
    La tensione era palpabile.
    Gimli imprecò a mezza voce, stringendo l’ascia rabbiosamente: -Bastardo.- Al suo fianco, Elessar scosse la testa, completamente perso in un vortice inarrestabile. Non poteva davvero credere che i soldati avrebbero ucciso tutta quella gente innocente, anche se fosse servito a privarlo dei frammenti.
    No, non poteva… Non potevano uccidere la sua famiglia.
    -Uccideteli e io sarò, un frammento alla volta, più debole di quanto sono ora. Non vi sembra un buon affare?-
    Fu allora che Alatar capì davvero le intenzioni di suo fratello. Lo vide nei suoi movimenti misurati, nel suo ego appagato da quella situazione: stava recitando per il puro gusto di farlo. Il suo meschino gioco psicologico destabilizzava l’avversario, lo portava a dipendere dalle sue parole, dalle sue azioni, come un pifferaio circondato da piccoli topi. Un gioco perverso da cui Pallando, Lhospen e persino Saedor traevano piacere.
    Una vendetta verso coloro che li avevano dimenticati.
    La testa mozzata di Imrahil era un pretesto, una prova in più che convincesse Elessar a fare la stessa fine del Principe, pur di liberare la sua gente e le persone che amava.
    Deglutì, sforzandosi di mantenersi saldo. Era così che doveva andare.
    Elessar strinse la pietra della balaustra tanto da far sbiancare le dita: -Hai detto che vuoi la mia testa?!- Gridò, fuori di sé. Legolas si affrettò a trattenerlo ma l’altro lo spinse via: -L’avrai! Ci sottometteremo se li lascerai in vita!- Pallando non aspettava altro: -Lo giuro. E per dimostrarti che dico il vero, libererò la Regina.- Elessar si sporse dalla balaustra, il cuore in gola.
    Gimli afferrò Legolas di scatto, impedendogli di raggiungere nuovamente l'amico: -Deve scegliere, non possiamo fare nulla, capisci!?- L’elfo scosse la testa, strattonando con forza, fino a trascinare il nano a terra con sé: -NO, NO! Lasciami!- Le sue proteste disperate, per quanto terribili, non fermarono Elessar dall’abbandonare le mura di gran corsa, scendendo giù per le scale.
    Per sicurezza, Pallando legò le mani di Arwen con una spessa corda, avanzando di qualche passo con lei appresso. Con un fendente secco del suo bastone nero, lo stregone recise l’influenza del frammento di Miniel, liberando la Regina dal maleficio. E Arwen crollò a terra, boccheggiando: -Miniel- Tese le braccia tremanti, tentando di raggiungere la figlia ancora spietatamente soggiogata. Invece, Saedor tenne stretta la corda per impedirle di avvicinarsi, tirandola indietro al pari di un cane disobbediente.
    Pallando, annoiato da quella scena straziante, fece segno alle guardie di Minas Tirith: -Qualcuno venga a prenderla.- Ordinò.
    Velocemente, mezza dozzina di guardie abbandonarono le loro lance, correndo in soccorso dell’amata Regina: -Mia signora!-
    -Eccoci signora, siamo qui.-
    La tirarono su, portandola via senza indugio, ignorando le sue deboli proteste con il dolore nel cuore. Alle porte della città, venne loro incontro il Re, trafelato. Strinse la Regina, crollando in ginocchio con lei: -Ti prego…- Sussurrò questa, piangendo, aggrappata alle sue braccia. Elessar nemmeno sapeva per cosa lo stesse pregando, se ella desiderava che non andasse, che restasse vivo, oppure che le rendesse sua figlia, che si sacrificasse per lei. Forse nemmeno Arwen avrebbe saputo dirlo.
    Lo tenne stretto a sé con le poche forze che le rimanevano, prima di sentire le sue mani allontanarla con gentilezza. Lui le posò un bacio sulle labbra, veloce, disperato, prima di avanzare a testa alta verso la loro unica figlia.
    Giunto davanti al nemico, non ebbe occhi che per la piccola Miniel: -Sei al sicuro, figlia mia. Andrà tutto bene.- Le disse, fiero nella sua armatura. Saedor lo fissò con il grande occhio nero, quasi ringhiando il suo disprezzo e Lhospen posò dolcemente le mani sulle spalle della Principessa: -Papino ha scritto tante belle lettere per me, quasi mi sono affezionato.- Civettò: -Peccato che deve morire.-
    Il Re si costrinse a rimanere immobile, volgendo lo sguardo su Pallando: -Ora sono qui, lasciali andare.- L’altro negò con un cordiale cenno della mano: -Io ho te, non la tua testa. Sono stato piuttosto chiaro.- Senza pensarci due volte, Elessar sguainò Andùril, posandola sul collo forte: -Bene, così sia.- Odiava doverlo fare di fronte alle lacrime mute di sua figlia ma non aveva più tempo.
    Serrò i denti, caricando il colpo, quando Pallando sollevò le mani: -Cielo, no!- Lo riprese, scocciato. -Non sono così crudele, non ti lascerò compiere questo sacrificio da solo.- Gli spiegò, come parlando ad un bambino. -Da’ la spada a tua figlia, avanti.-
    Il suo sorriso pietrificò il corpo del Re. -No, te lo puoi scordare.- Sibilò, fremendo di rabbia. Lo stregone scrollò una mano con fare sbrigativo: -Non te lo sto chiedendo. È un ordine.- Prima che Elessar potesse lanciarsi contro di lui, Saedor e Alatar lo placcarono, costringendolo in ginocchio. Il Re sentì la spada cozzare al suolo e, dal basso, vide le mani bianche della Principessa stringerne l’elsa.
    Sollevò il viso, fissando la sua bambina negli occhi. S’impose di non tremare, trasmettendole più sicurezza di quanta non avesse: -Va bene così, amore mio.- Poi, sgranò gli occhi, preoccupato: Miniel perdeva sangue dal naso e dalle labbra, copiosamente.
    -Cosa le succede, cosa le stai facendo?!- Si dimenò, rivolto allo stregone. Fu Alatar a parlare, a mezza voce: -La sua mente cerca di ribellarsi all’ordine imposto al suo corpo. Devi lasciare che agisca in fretta, o morirà.-
    Elessar lo fissò di traverso, rabbioso: -Maledetto traditore, miserabile, infame!- L’espressione dell’altro non cambiò, subendo quegli insulti senza battere ciglio. Nessuna reazione, niente. Con un sospiro disperato, il Re perse le forze, arrendendosi all’evidenza. Era la fine, la fine di ogni traccia di umanità, persino per loro. Per lo meno, tutti gli altri sarebbero sopravvissuti.
    Si concentrò sulle sensazioni, godendo in modo quasi trascendentale dell’erba pungente sotto di sé, del sole caldo sulla pelle. Le grida disperate di Legolas erano l’unico suono a riempire l’aria ma lontano, in luoghi migliori, gli uccelli stavano di certo cantando. Andava bene così. Estel, Granpasso, Aragorn, Elessar… aveva vissuto abbastanza.
    Socchiuse gli occhi, rilassando i muscoli: -Miniel, ascoltami.- La vide così immobile, dinnanzi a sé, da parere una triste statua: -So che sarà doloroso ma voglio che tu sappia che non è colpa tua. Pensa a qualcosa di bello.- Deglutì, sorridendo appena: -Pensa a quanto siamo stati felici, noi due.- Chinò la testa, arrendevole, e Pallando si voltò verso la Principessa: -Basta con questi inutili discorsi. Che la sua testa rotoli lontano dalle sue spalle.-
    A quel semplice, terribile ordine, Miniel non poté far altro che muoversi. Impugnò più stretta l’elsa di Andùril, la spada che aveva candidamente ammirato sin da quando era una bambina. Mai avrebbe potuto immaginare che sarebbe stata lei ad alzarla contro il suo amato padre.
    Sollevò le braccia, i muscoli che chiedevano pietà a causa del peso del ferro, mentre il caos si scatenava nella sua mente affaticata. Ne sarebbe morta, sarebbe impazzita.
    Provò, tentò disperatamente e con tutte le sue forze di fermarsi, anche se sapeva, dannazione sapeva, che sarebbe stato inutile. Il silenzio attorno a lei riempiva le sue orecchie e il fiato scendeva senza il suo permesso nei suoi polmoni, dandole la forza per caricare il colpo.
    Infine, con orrore, sentì le braccia calare con fredda sicurezza sulla nuca esposta del Re. Fermati, ferma! NO, NO!
    -NO!- In una frazione di secondo, all’improvviso, una forza enorme e soverchiante la investì, calda come un raggio di sole, lasciandola di stucco: prima che colpisse suo padre, la spada affilata era stata violentemente sbalzata lontano. Miniel non riuscì a seguire la sua traiettoria ma sentì il sibilo del filo che tagliava l’aria, fino a conficcarsi nel terreno.
    Le sue orecchie si erano sgradevolmente tappate, tanto era intensa la pressione attorno a lei, e l’aria ancora friggeva di energia residua.
    Lei aveva urlato, nella sua mente, ma non era suo il grido che aveva squarciato il silenzio. Suo padre era salvo! Anche senza voltarsi, Miniel percepì la tensione di Pallando, dietro di lei. Sì, qualcuno era appena intervenuto per salvarli, ne era certa.
    Elessar espirò di scatto, sconvolto, girandosi verso di lei con la stessa confusione a velargli lo sguardo.
    Dopo pochi secondi di smarrimento, l’intera valle cominciò a vociare, tra grida agguerrite e speranzose.
    -Maledetta.- Sibilò lo Stregone Blu, avanzando di qualche passo, gli occhi fissi nel cielo terso sopra di loro.
    -Pallando! Sono qui per te!- La voce di Sillen riecheggiò nei campi e scivolò tra gli eserciti alleati, infiammando gli animi. L’Alfiere del Cielo catturava i riflessi del sole, accecando i presenti, mentre la Stella dei Valar giungeva a dorso d’aquila, una divinità dall’armatura lucente.
    Lhospen e Saedor si schierarono immediatamente davanti allo stregone, in sua protezione, l’attenzione rivolta alla stella.
    Elessar, stupito di trovarsi improvvisamente libero, sgranò gli occhi, affrettandosi per non perdere l’occasione: -Sono tornati!- Afferrò le mani fredde della figlia, tirandosi in piedi per trascinarla via di peso: -Miniel, mi senti? Sillen è qui!- Sorrise, trionfante, riprendendo Andùril e allontanandosi dai nemici.
 
    Gli altri membri della nuova Compagnia, intanto, affiancarono la stella, rapidi. -Che vile stratagemma. Degno di lui.- Ringhiò Glorfindel, guardando i cittadini caduti nelle mani dello stregone. Un abominio. Avevano volato come non mai per raggiungere la città e la visione di Sillen era apparsa davanti a loro senza filtri.
    Thranduil strinse gli occhi a due fessure, concentrato: -Gli elfi oscuri e Morinehtar sono con lui. Non dobbiamo abbassare la guardia.- Thorin, seduto dietro al Vanyar dorato, strinse impulsivamente l’ascia, per nulla intimorito: -Dannati tutti loro! Non hanno onore! Marciranno come i cadaveri che comandano!-
    Sillen studiò la situazione, tesa: -Thranduil ha ragione. Mi occuperò io di Pallando ma gli elfi si metteranno in mezzo, dovrete coprirmi.- Pallando era suo, suo soltanto.
    Loro annuirono, risoluti. -E Alatar?- La domanda di Thranduil aleggiò tra di loro come uno scomodo fardello.
    Alatar… La stella lasciò che i suoi occhi si posassero sullo stregone, freddi. Come ad attenderla, Alatar ricambiò lo sguardo, troppo lontano perché lei potesse decifrare la sua espressione ma abbastanza vicino perché il suo cuore accelerasse dolorosamente. Lui stava assistendo a tutto ciò, senza battere ciglio? Aveva davvero finto, per tutto il tempo passato con lei?
    Purtroppo, la realtà davanti ai suoi occhi era tanto orribile quanto inequivocabile. -Ha deciso da che parte stare.- Sibilò, Sillen. Non riusciva nemmeno a immaginare cosa sarebbe accaduto se non fosse arrivata in tempo: Miniel, la spada, Elessar.
    Ma infine, era giunta la resa dei conti.
    Serrò la mascella, ricomponendosi: -Hai commesso un grande errore a presentarti qui, oggi.- Decretò, solenne, rivolgendosi nuovamente a Pallando.
    -Non credere che tu possa fare la differenza, Sillen. Anche se hai riacquistato i tuoi poteri, sei inutile. Saedor ha già dimostrato la tua debolezza.- La derise, lo stregone.
    Lei storse la bocca, infastidita. Illuso. Lei non aveva solo riacquistato i suoi poteri. -Proviamoci, Alfiere.- Sussurrò, rivolta alla propria arma.
    L’alabarda si scaldò, tra le sue mani: -Impiegherò molta energia, il Palantir è un oggetto potente. Quando avrò finito, non potrò intervenire per un po’. Credi di farcela da sola?- Lei annuì, impugnandolo più saldamente: -Sono pronta.-
    L’Alfiere del Cielo brillò più intensamente, come un faro nella notte, e Sillen si lasciò cadere a terra. Il peso del suo atterraggio incrinò il terreno intorno a lei, mentre i suoi occhi divenivano pura luce bianca. Pallando indietreggiò automaticamente, fissando l’arma tra le mani di lei. -Come ho detto- Lo apostrofò, Sillen. -Hai commesso un grande errore a venire qui.-
    Con un colpo potente, conficcò la testa dell’Alfiere difronte a sé, nella terra arida. In pochi secondi, il suolo cominciò a tremare.
    Pallando si voltò, sconvolto, guardando lingue di luce correre tra l’erba come saette, oltrepassandoli, dritte verso gli abitanti di Gondor. Uno ad uno, i frammenti dentro questi cominciarono a saltare in aria, in lampi bluastri.
    -Ora, Sillen!- Le gridò l’Alfiere, nella sua testa. La stella lo impugnò saldamente, estraendolo dal terreno. Piantando i piedi, costrinse ogni muscolo a tendersi oltre il sopportabile: -I tuoi giochetti sono finiti, Pallando!- Gridò, sferzando l’aria con una forza tale da mandare a gambe all’aria chiunque si trovasse dinanzi a lei. La falce di luce scaturita dall’Alfiere tranciò di netto l’energia bluastra che legava gli animi dei cittadini ai frammenti, liberandoli dalla loro influenza.
    Privi del loro legame malefico, i frammenti caddero a terra, in un lieve baluginare blu. Anche Miniel cadde a terra, respirando forte, e il Re corse a sorreggerla: -Padre!- Singhiozzò lei, tremando dalla paura e dal sollievo. Sillen, con il fiato corto, richiamò l’attenzione di Elessar: -Andate! Non sono riuscita a estrarre i frammenti dalle carni dei non morti, Pallando li userà per attaccare.- Si frappose tra i due e gli elfi oscuri, che si avvicinavano velocemente. -I soldati devono combattere! Portate i cittadini dentro le mura.-
    Lui non se lo fece ripetere due volte, richiamando le guardie e Sillen tornò a concentrarsi sul suo unico obbiettivo. Prima che Lhospen e Saedor calassero su di lei, i suoi compagni li intercettarono. Glorfindel atterrò sul Maestro delle Illusioni, rotolando nell’erba, mentre Thranduil e Thorin tentavano di evitare la frusta avvelenata del Maestro dei Velenti.
    Davanti alla stella, oltre la via spianata, Pallando sorrise: -Allora avanti, Stella dei Valar. Combattiamo.-



 
[1] Le Aule di Mandos, o Aule dell’Attesa, sono il regno dell’omonimo Vala, Signore del Destino e Giudice delle Anime. Questo luogo, situato in una zona indefinita a Nord di Valinor, è composto da immense Aule silenti: nessuno sa quante siano, né quale sia la loro effettiva estensione. Qui si ritrovano le anime degli Elfi (e, temporaneamente, degli Uomini) dopo la morte del loro corpo mortale, in attesa di ritornare in vita o di affrontare il proprio Fato.
 
[2] Gli Arazzi di Vairë la Tessitrice: ella è una regina tra le Valie, sposa di Mandos e abitante delle sue Aule. A lei spetta il compito di rappresentare la storia di Arda, tessendo i suoi arazzi, che vanno a ricoprire i muri delle Aule del marito. Con il passare del tempo e delle ere, i suoi arazzi si espandono e andranno a rivestire tutte le pareti delle Case dei Morti, fino alla fine dei tempi.
 
[3] Il Principe Imrahil è sovrano di Dol Amroth e padre di Lothíriel, a sua volta moglie di Éomer e regina di Rohan. Nella mia storia ricordo che sono entrambi elfi, mentre Tolkien li rappresenta come discendenti della stirpe dei Dùnedain. Inoltre, Imrahil sarebbe zio acquisito di Faramir e Boromir ma, per motivi di trama, ho preferito non mantenere questa parentela: l’idea di renderli elfi mi è pure tornata utile XD



N.D.A

EHM. Ciao a tutti, bentrovati <3 Quanto tempo mamma miaaaaa
Scusate, scusate davvero se sono sparita T-T Ben 5 mesi sono passati =w=

Dunque, mi sono laureata (YEEEH) con mia grande soddisfazione! Purtroppo, non so se per colpa della stanchezza o a causa del “rilassamento post-tesi”, mi sono svuotata di ogni iniziativa. Ho lasciato la ff per un bel po’, fino a quando, rileggendola, ho realizzato che no, non mi piaceva. Ci sono stati momenti in cui ho seriamente pensato di cancellarla o modificarla completamente. Credo di essermi spaventata dopo aver compreso che la storia si stava rivelando forse troppo ambiziosa per un’autrice alle primissime armi come me! E tutt’ora sono convinta di aver messo su un progetto che nella mia mente suonava in un modo, senza pensare che avrei dovuto fare i conti con le mie sole capacità e che esse, ovviamente, lo avrebbero fatto suonare in modo diverso. Non so se mi sono spiegata ahahah Per fortuna, non ho cancellato niente e, piano piano (e con l’aiuto prezioso di Chiara, ti voglio bene <3), ho ritrovato la vera motivazione, il filo conduttore che mi ha sempre spinta a continuare questa storia. Voglio a tutti i costi vederla conclusa!! Ed ecco il capitolo su cui lavoro da più di tre mesi XD Mentirei se dicessi che mi soddisfa pienamente, non è così. Ma esiste, mi permette di continuare questa avventura, quindi è benvenuto e benvoluto!
Spero sia lo stesso anche per voi <3

Fatemi sapere cosa ne pensate, mi è mancato tornare su EFP :3
Nel frattempo spero siate stati tutti bene, in questi tempi rocamboleschi!

Un abbraccio e un grande grazie a chi è tornato su questa storia ancora una volta <3

Con affetto,
la vostra
Aleera

 
 

   
 
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