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Autore: Roberto Turati    27/06/2021    1 recensioni
Una storia che dedico a Maya Patch, mia amica e mentore.
 
Per capire del tutto questa storia del mio AU, è meglio se leggete la storia di Maya, prima di questa.
Mentre la tribù dei Difensori si sta ancora riprendendo dall'assedio dei Teschi Rossi, Aurora attende con impazienza il ritorno di Lex da Ragnarok per poter continuare ad indagare con lui sugli indizi sparsi per l'Isola. Tuttavia, fa una scoperta inaspettata: rinviene un antico oggetto portato nel mondo delle Arche da un'altra dimensione. Studiandolo, scopre il luogo d'origine del suo defunto proprietario: ARK, l'isola preistorica.
 
Aurora e Lex vi si perderanno loro malgrado. Saranno in grado di trovare un modo per ritornare sulle Arche, nonostante tutti gli ostacoli che ARK riserva per loro?
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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ALL’ALBA, AL VILLAGGIO…

Su richiesta di Oilnats, dopo un primo “punto della situazione” sui loro piani, Lex e Drof avevano passato tutta la notte procurandosi materiali per preparare diversi esplosivi artigianali e avevano avuto poco tempo per riposare. Adesso, all’alba, la curiosità di scoprire come fosse il fantomatico “mostro acido” era l’unica cosa che permetteva a Lex di resistere alla sonnolenza appena percettibile, ma comunque insistente. Alla fine, lui e il padre di Acceber avevano fabbricato sei trappole di barili pieni di polvere pirica. Mentre trasportavano tutto verso l’accampamento che il gruppo aveva allestito nei pressi del villaggio degli Alberi Eterni, sul bordo di una delle alture nella Grande Foresta, il biondo tentò di cavare dei dettagli da Drof:

«Neanche tu sai come useremo queste trappole?»

Drof si strofinò gli occhi e rispose tranquillamente:

«Se lo sapessi, te l’avrei già detto»

«Il tuo amico fa sempre il misterioso?»

«Sì: gli piace spiegare le cose solo quando ogni singolo dettaglio è pronto. Non ho mai conosciuto qualcuno di più meticoloso di lui, in vita mia. Avresti dovuto vederlo quando eravamo dei ragazzini»

Lex fece una sommessa risata. Ripensando al quadro generale, si ricordò che quella notte Odraccir aveva annunciato che il mattino dopo avrebbero messo insieme tutti gli indizi, così domandò a Drof a cosa si riferisse. L’Arkiano, dopo aver lasciato che il suo carnotauro si affilasse il corno contro il tronco di una sequoia, raccontò che era già da due mesi che tentavano di organizzare una caccia al mostro acido. Così, come loro sette erano soliti fare quando si coordinavano, avevano iniziato a raccogliere indizi. Ciascuno aveva indagato in luoghi diversi e su aspetti differenti della creatura e, a breve, avrebbero condiviso tutte le eventuali scoperte.

«Avete fatto così anche per il giganotosauro dell’altro giorno?» chiese Lex, per curiosità.

«Certo – annuì Drof – Chi diceva che non fosse Zanna Rossa, in fondo? Se fosse saltato fuori che era lui, non l’avremmo mai attaccato»

«Capisco. Be’, vediamo cosa salterà fuori adesso»

«Sì»

Poco dopo, entrarono nell’accampamento. C’era molta agitazione: gli amici di Drof andavano e venivano con fare scattante, sistemando le cose più disparate, da riempire le mangiatoie per le cavalcature ad affilare le armi. Tutti salutarono frettolosamente Drof, tranne Aisapsa, la quale si degnò quantomeno di fermarsi e sorridergli. Solo uno non si stava prendendo cura del campo: Ynneb. Il costruttore di trappole stava dormendo, russando rumorosamente su un’amaca appesa a due piccole sequoie accanto alla sua tenda, mentre un deodonte setacciava il terreno intorno a lui per mangiare gli avanzi di due cosce di esperornite. Dopo aver scambiato un’occhiata divertita con Lex, Drof gli si avvicinò e fece ruggire il carnotauro, facendo svegliare di soprassalto Ynneb: urlò dallo spavento e cadde di faccia sul fogliame, facendo grugnire e allontanare il deodonte.

«Guarda qua, il ghiottone della squadra!» scherzò Drof.

«Guarda qua, il padre di famiglia santerello» ribatté Ynneb, seccato.

«Non mi stupisce che siamo sempre a corto di provviste: le mangi tutte tu!» continuò Drof, con un sorrisetto.

«Che c’è? Potrei rimanerci secco da un giorno all’altro, non è mai troppo tardi per mangiare»

«Dimmi, perché è toccato a me e a Lex fare le trappole? Fino a prova contraria, è il tuo lavoro»

«Ogni tanto è bello fare qualcosa di diverso: ho fatto il bagno agli animali tutta la notte ed ero appena riuscito a prendere sonno, accidenti a te!»

Drof scoppiò a ridere:

«Questa è buona!»

Lex prese la parola:

«Se è così, allora anche noi dovremmmo farci una dormita quando avremo finito, visto che abbiamo lavorato tutta la notte, ma sul serio»

«Ben detto» lo supportò il padre di Acceber.

I due raggiunsero quindi il centro dell’accampamento. Una volta lì, Lex notò qualcosa che ebbe subito la sua attenzione: un dinosauro che non aveva mai visto prima. I deinonici e i tropeognati non erano le sole specie uniche dell’ARK terrestre. Accanto al falò, Oilnats stava accarezzando un bizzarro teropode.

Era lungo quattro metri, la pelle era protetta da osteodermi, tutto l’addome fino alla punta della coda, la quale terminava con un folto pennacchio, era coperto da piume morbide. Ai lati del muso, sugli avambracci e sulle caviglie c’erano delle spesse membrane e, al centro del dorso, si trovava una strana protuberanza che pareva grossomodo una pinna di squalo. La curiosità e l’entusiasmo di Lex salì subito alle stelle: si avvicinò ad Oilnats e chiese cosa fosse quella creatura.

«Ah, eccovi qua – esordì Oilnats, serio – Comunque, Lex, questo è un concavenator. Dalle tue parti non ce n’è neanche uno?»

Lex, dopo qualche secondo passato osservando con la massima attenzione la creatura da vicino, rispose con tono distratto e senza voltarsi:

«No, mai visto prima»

«In questo caso, ti presento Edimetra: è una femmina. Ho fatto un rapido salto nel deserto a prenderla, stanotte, l’avevo lasciata a casa mia. Danno il meglio di loro in mezzo alle sabbie, ma anche altrove si fanno valere»

La concavenator avvicinò il muso al biondo e lo annusò con interesse, così Lex ne aprofittò per accarezzarle la punta del muso e il lato del collo. La creatura, gradendo il gesto, sbuffò smuovendogli i capelli ed emise un gorgoglio soddisfatto. Drof, sceso dalla sella di Onracoel, affermò che l’aveva subito preso in simpatia. Lex, che si stava già ripromettendo di provare il nuovo dinosauro alla prima occasione, cercò di dare altre carezze ai fianchi di Edimetra, ma fu interrotto da Oilnats, che chiamò tutti a gran voce per radunarli e li invitò a seguirlo fino alla sua tenda. Con un sospiro, Lex fece spallucce e seguì i sette Arkiani, consolandosi pensando che, finalmente, avrebbe scoperto qualcosa in più sulla loro enigmatica preda. Lo stratega del gruppo fece accomodare tutti in semicerchio su degli sgabelli, dopodiché prese una tela vuota con un cavalletto dalla sua tenda e la posizionò davanti a loro. Prese uno stilo intriso di inchiostro nero e, con una mano dietro la schiena, si schiarì la voce prima di iniziare il suo discorso.

«Eccoci, dunque. Ognuno di noi si è impegnato per scoprire almeno un dettaglio in più su quel poco che finora sappiamo di questo mostro e siamo riusciti a far tornare i conti, quindi che ne dite di un applauso?»

I sette amici si guardarono in silenzio per qualche attimo, poi Elehcim sorrise e batté le mani un paio di volte. Gli altri, allora, si persuasero e replicarono simbolicamente il gesto, con compiacimento.

«Ma sì, festeggiamoci da soli: non guasta mai» ironizzò Aisapsa, accavallando le gambe.

Oilnats, dopo aver scritto il titolo Mostro Acido in alto sulla tela, indicò Odraccir:

«Cominciamo dalle basi, quello di cui ti sei occupato tu: perché lo chiamano “il mostro acido”?»

L’orbo si strofinò l’occhio buono, prima di spiegare che aveva chiesto a vari cacciatori che avevano avuto la sfortuna di incrociare il mostro acido: quando le armi o le cavalcature riuscivano a ferirlo, dalle sue vene usciva un liquido caustico come l’emolinfa delle artropleure, che ustionava la pelle e corrodeva i materiali su cui si poggiava. Oilnats annuì e scrisse: “Ferendolo, ci si potrebbe bruciare”.

Il secondo turno fu quello di Ynneb, il quale disse che il mostro agiva solo e soltanto di notte, ma nessuno l’aveva mai visto cacciare o lasciare delle carcasse spolpate dietro il suo cammino. Dunque, Oilnats scrisse: “Notturno, ma non sembra cacciare”.

Dopo toccò ad Aisapsa: la domatrice, spostandosi delle ciocche di capelli dietro le orecchie, raccontò che più o meno tutte le vittime non avevano avuto modo di vedere per bene il mostro prima che l’attacco cessasse, a causa del buio e della rapidità degli assalti; aggiunse, però, che dopo grandi sforzi era riuscita ad ottenere un disegno da un ragazzo che sosteneva di aver guardato la creatura sotto la luce della Luna per una manciata di istanti. Detto questo, la donna frugò nella sacca di cuoio che portava a tracolla e prese un papiro arrotolato, che porse ad Oilnats. Egli prese il rotolo, lo aprì e ne osservò il contenuto per alcuni secondi, quindi lo inchiodò alla tela sotto gli appunti. Strofinandosi le guance con interesse, Lex scrutò il disegno al carboncino: il mostro acido ricordava, dalla forma del corpo, un teropode con zampe anteriori ben sviluppate, la testa grossa e triangolare e la coda che terminava con delle grosse spine ricurve. Non capiva perché, ma la raffigurazione non era poi così lontana dall’immagine mentale che si era fatto.

Era il momento di Drof: il padre di Acceber disse di aver capito, ascoltando degli aneddoti più dettagliati possibili dalle vittime, due cose: la prima era che la bestia non attaccava mai per prima, ma solo quando qualcuno la incrociava lungo il suo cammino e, per spavento, la aggrediva per difendersi. La seconda era che il suo vero bersaglio, una volta provocata, erano gli umani, perché le cavalcature venivano prese di mira con molta meno insistenza e le ferite che aveva visto sui malcapitati e sui loro animali lo dimostrava: quei disgraziati erano messi molto peggio delle loro creature. Oilnats fargugliò uno sbrigativo “eccellente” e scrisse: “Attacca solo se provocato e punta gli umani”.

Odraode, dopo un breve sfogo di tosse, confidò di essere stato in alcuni dei luoghi dove si erano verificati gli attacchi e aveva scoperto un dettaglio che non molti dei testimoni avevano rivelato, sempre che ne fossero al corrente: il mostro acido rilasciava uno strano liquido appiccicoso che si incollava facilmente al corpo di chi lo toccava e rendeva difficilissimi i movimenti. Non poteva capire da quale parte del corpo secernesse quella sostanza, ma dai punti su cui l’aveva trovata e le forme delle pozze, ipotizzava che lo potesse lanciare con forza. Prese un barattolo di vetro e mostrò a tutti che conteneva un disgustoso muco verdastro. Oilnats, molto intrigato, se ne impossessò prima di appuntare sulla tela: “Rallenta le prede con la gelatina”.

Elehcim fece una serie di gesti che furono tradotti in simultanea da Odraccir: il muto constatò che il mostro usava grosse gallerie che scavava nel sottosuolo soprattutto per viaggiare, ma anche per avere un vantaggio tattico su prede o aggressori spuntando improvvisamente dal basso, come una purlovia in attesa del suo bersaglio. Aggiunse che aveva trovato svariate buche create sicuramente dal mostro acido quasi solo nella Grande Foresta, con rarissime eccezioni in altri punti di ARK, segno che il territorio della bestia era il bosco di sequoie e che loro ci erano già molto vicini. Con un sorriso soddisfatto, Oilnats scrisse: “Viaggia sottoterra”.

Infine, toccò proprio a lui. Continuando a sorridere, prese dalla sua tenda una mappa della Grande Foresta che aveva riempito di intricatissime linee nere che si intersecavano, attraversando tutti i dintorni. L’uomo rivelò al gruppo di aver svolto, con l’aiuto di Elehcim e della sua concavenator, una lunga e attenta esplorazione della foresta di sequoie e dei percorsi delle gallerie scavate dal mostro acido. Rivelò che, ormai, la creatura aveva formato un complesso labirinto all’interno dei ripiani rocciosi del Nord-Ovest dell’isola e che, grazie a ciò, era riuscito a stabilire quali erano i sei punti da cui la creatura passava più spesso: ogni notte, era quasi certo che percorresse una fra sei gallerie specifiche. Concluse rivelando che era proprio questo il motivo per cui aveva incaricato Lex e Drof di preparare le trappole esplosive.

«Come voi stessi avete detto, il mostro acido attacca solo se provocato – disse – Il che vuol dire che, se noi vogliamo dargli la caccia, dobbiamo obbligarlo ad uscire allo scoperto e affrontarci. Ma è un essere che vive sottoterra: credo proprio che sappia distinguere esattamente quali e quante creature camminano sopra di lui dai passi o dai battiti del cuore, come fanno tutti gli animali scavatori. Cercare di fare da esca o usarne una non lo attirerà, perché non compie il primo passo. Con le bombe, invece, dovrebbe uscire dalla terra su tutte le furie e sarà allora che gli salteremo addosso per farlo a pezzi!»

«Stando attenti a non farci invischiare dal muco» precisò Odraode, rabbrividendo.

«Ovviamente» lo rassicurò Oilnats.

Intanto, Elehcim guardò tutti sorridendo e annuendo come a dire “non c’è di che”, riferendosi al suo contributo con la mappatura delle gallerie. Tutti, apparendo entusiasti ed incoraggiati, si alzarono e si complimentarono col loro amico. Lex doveva riconoscere di essersi divertito ad ascoltare la loro sessione di “raccolta delle prove” come se fossero degli investigatori. Avvicinandosi a Drof con un ghigno complice, gli confidò all’orecchio che, secondo lui, Oilnats poteva anche risparmiarsi quella “segretezza” solo perché voleva fare scena. Drof fece spallucce e rispose:

«Lascia correre: abbiamo visto che è più creativo coi piani quando fa così. Allora, sei pronto per questa nuova caccia con noi, amico?» ammiccò.

«Non devi nemmeno chiederlo» rispose Lex, sorvolando su quell’“amico”.

Ora più che mai, era curioso di incontrare il mostro acido faccia a faccia e di cavalcare a tutti i costi quella concavenator, almeno per la notte a venire.

Dopo un’ultima, breve esitazione, l’equus accettò finalmente di farsi accarezzare il muso e i fianchi da Aurora. La rossa, sotto la costante supervisione a distanza di Acceber, aveva perseverato nella doma per tutta la giornata, seguendo la mandria di cavalli preistorici dovunque si spostasse all’interno della Grande Foresta e continuando ad offrire ortaggi all’esemplare che aveva scelto ogni volta che sospettava che avesse appetito. Col tempo, Aurora gettava le esche a distanze sempre più brevi da sé e l’equus (che era una femmina), un passo alla volta, smetteva di diffidare. Al termine di quel procedimento lungo e faticoso, ma soddisfacente, la creatura accettò la rossa come sua padrona, dimostrandoglielo con quel gesto di fiducia. Poi le girò intorno trottando sbuffando e scuotendo la testa.

«Come sei brava! Hai visto che non ti faccio niente?» sorrise Aurora, con affetto.

«Manca solo una cosa da fare!» affermò Acceber, allegra.

La figlia di Drof montò in sella al gallimimo e invitò la rossa a prendere posto dietro di lei, spiegando che aveva già portato una sella per equus pronta e che l’aveva lasciata all’accampamento sorvegliato dal terizinosauro. Aurora salì sul dorso del dinosauro e fischiò all’equus per dirgli di seguirle: il suo primo comando, che il cavallo riuscì subito a capire. Le ragazze cavalcarono al trotto nella serenità di quell’angolo della Grande Foresta, caratterizzato dal continuo e rilassante sottofondo dei richiami delle creature arboricole. Quando raggiunsero di nuovo la loro tenda, scesero dal gallimimo e Acceber, dopo aver accarezzato il terizinosauro che faceva la guardia, entrò e uscì subito portando la sella in spalla. Si avvicinò all’equus; con delicatezza, gliela poggiò sul dorso, gli applicò le redini e il morso, per poi stringere e assicurare tutte le fibbie. Quando vide che tutto era a posto, si voltò verso Aurora e le indicò il cavallo allargando un braccio, solenne:

«È tutto tuo!»

«Troppo gentile» scherzò la rossa, ridacchiando.

Quando Aurora ebbe montato il suo equus, Acceber fischiò e, con sorpresa della rossa, il terizinosauro e il gallimimo se ne andarono. Vedendo lo sguardo perplesso dell’amica, la figlia di Drof ammiccò e spiegò che voleva festeggiare quella doma in un posto rilassante, solo loro due e la nuova cavalcatura di Aurora; aggiunse che non c’era nessuna accezione romantica nascosta, per scherzare. L’Arkiana entrò ancora nella tenda e mise alcuni oggetti nella sua borsa di cuoio, quindi chiese alla sopravvissuta di spostarsi un po’ più avanti sulla sella dell’equus per permetterle di prendere posto dietro di lei. Una volta preso posto dietro Aurora, Acceber si spostò delle ciocche di capelli dietro le orecchie e si aggrappò alle spalle dell’amica. Allora le disse di seguire le sue indicazioni, così sarebbero andate in un posticino dove lei andava sempre quando faceva qualcosa di importante e si prendeva qualche ora di solitudine per gioire con se stessa. Aurora, intenerita, annuì e iniziò a far procedere l’equus a seconda di quali direzioni Acceber le dicesse di prendere.

Alla fine della cavalcata, scesero giù per un pendio e si fermarono in riva ad uno dei fiumiciattoli che riempivano le strette ma profonde gole che dividevano i ripiani della Grande Foresta: erano in un punto in cui tre torrenti si incontravano e l’avvallamento si allargava. Acceber scese dall’equus e annunciò che erano arrivate. La rossa, allora, scese a sua volta e accompagnò l’equide fino ad una giovane sequoia, per legare le redini ad un ramo. A quel punto, notò che Acceber si era seduta su un masso nel piccolo lago formato dall’affluenza dei tre fiumi, immergendo i piedi scalzi in acqua. La raggiunse e prese posto accanto a lei, ma senza bagnarsi.

«Dunque, che si fa? Vuoi sapere altro sulla mia Isola?» le chiese, guardandosi in giro.

«Quello che vuoi. Nel frattempo…»

Acceber frugò nella sua sacca e ne tirò fuori una damigiana di limoncello: rivelò che era avanzata dalla serata con gli amici di suo padre e aveva convinto Ynneb a regalargliela in segreto.

«Quando vengo qui, mi bevo un paio di sorsi per rilassarmi di più. Vuoi favorire?»

Aurora rifiutò alzando la mano:

«Grazie, preferisco non bere. Non bevo mai, neanche sulla mia Arca»

Acceber fece spallucce:

«Non fa niente, più limoncello per me. Non dirlo a mio padre, però: a volte rompe su certe cose»

«Resterà fra noi» ridacchiò la rossa.

E così le due ragazze passarono tutto il resto del pomeriggio, senza accorgersi della luce che diminuiva sempre di più, parlando del più e del meno come avevano fatto altre volte: Aurora le raccontava dei suoi amici fra i Difensori, Acceber ricambiava con aneddoti esilaranti su suo padre e i suoi amici. La rossa descriveva i luoghi più caratteristici dell’Isola e l’Arkiana faceva altrettanto menzionando angoli di ARK che non le aveva ancora mostrato. Aurora le avrebbe chiesto più che volentieri di mostrarle la Grotta delle Delizie piena di alveari e miele, se solo non fosse stato così tardi. Però anche il Bosco Semprinfiore le sembrava incantevole; avrebbe senz’altro avuto occasioni per esplorare di più in futuro. Toccarono anche lo spinoso (almeno per Aurora) argomento dei giganotosauri, da cui venne fuori che Drof sognava da anni di averne uno tutto per sé, che non fosse una cavalcatura temporanea presa in prestito. Sicuramente sarebbe stato emozionato alla vista del branco di giganotosauri di Nick; entrambe si accorsero di divertirsi da matte ad immaginare le reazioni dei conoscenti di ciascuna all’isola dell’altra, senza nemmeno sapere esattamente perché. A ogni argomento, Acceber beveva un sorso di limoncello o due e diventava via via più “allegra” e chiacchierona. Quando fu sera, entrambe ridevano talmente a crepapelle che singhiozzavano. Alla fine, rendendosi conto che era meglio non alzare oltre il gomito, la figlia di Drof mise via la damigiana e continuarono semplicemente a conversare. Aurora, quasi senza rifletterci, si ritrovò a chiederle come mai stesse festeggiando quel momento come se avesse domato lei l’equus. Acceber ammutolì per vari secondi, così tanti che Aurora iniziò a preoccuparsi. Alla fine, però, l’amica arkiana rispose con tono serio che avrebbe compiuto diciotto anni abbastanza presto, dunque avrebbe dovuto mettere in pratica tutti gli insegnamenti di suo padre per domare da sola la sua prima bestia e meritare il suo innesto. Aiutare Aurora ad addomesicare l’equus l’aveva fatta sentire un po’ più pronta. Aurora annuì e le augurò buona fortuna, visto che aveva intuito già da tempo che per gli Arkiani quell’innesto era molto importante. Onestamente, la incuriosiva il fatto che su quell’isola avesse un grande valore, pur essendo privo di un utilizzo pratico come sulle Arche.

«Sai già cosa addomesticherai?» le domandò, incuriosita.

Acceber sospirò, nervosa, e annuì:

«Sì. Ma non avrò mai il coraggio di confidarlo a mio padre: cercherebbe di farmi cambiare idea»

«Oh? Cos’hai in mente?»

«Domerò un tilacoleo»

«Però, niente male! Mi hanno detto che sono molto utili, agilissimi, forti, resistenti e…»

«Voglio farlo per mia madre. È così che se n’è andata»

Aurora fu colta alla sprovvista: capendo tutto al volo, iniziò a sentirsi in colpa per aver costretto Acceber a dirle qualcosa legato ad un ricordo tragico. Ma fu anche sorpresa dal fatto che avesse voluto confidare a lei ciò che non voleva dire al padre: non era poco.

«Capisco. Scusami» si limitò a dire.

Acceber scosse la testa per rassicurarla:

«Va tutto bene. Anzi, grazie per avermi dato l’occasione di rivelarlo a qualcuno: era da settimane che sentivo il peso di non poterlo dire a nessuno. Be’, avrei potuto farlo senza problemi, ma non mi andava. Otto anni fa, quando mia madre fu uccisa da un tilacoleo in questa foresta, la mia vita non fece che andare in rovina per anni, poi anche mio… no, non me la sento di andare oltre. Possiamo cambiare argomento?»

«Ma certo: non voglio metterti a disagio»

«Grazie, Aurora. Sei un’amica»

«Suvvia, non serve»

«Ora mi fai venire l’impulso di farti una confessione»

Aurora inarcò un sopracciglio, perplessa:

«Cosa?»

Di colpo, con notevole sorpresa della sopravvissuta, Acceber le sembrò in imbarazzo: aveva tirato i piedi fuori dall’acqua, ondeggiava con la schiena, sudava e stava diventando paonazza. Ad Aurora scappava quasi da ridere: di cosa avrebbe mai potuto trattarsi? Qualche pettegolezzo molto più delicato degli altri che si erano scambiate? Un segreto di famiglia? Una tresca di cui non voleva parlare con suo padre? Sforzandosi di non dare a vedere che era divertita per non offendere l’amica, aspettò la rivelazione. Acceber, tuttavia, sembrava temporeggiare:

«Ci siamo appena dette molte cose, ma forse non te ne ho ancora detta una che hai davvero bisogno di sapere»

Aurora reclinò lievemente la schiena all’indietro e fece un sorriso imbarazzato, continuando a non capire. Acceber proseguì:

«Si tratta… ehm… ecco, diciamo che spiega un piccolo dettaglio su questa situazione»

«Va bene, però adesso dimmelo: mi stai mettendo ansia» la interruppe Aurora, agitata quanto lei.

Acceber, che ormai era sul punto di ansimare, sbuffò:

«Te la faccio breve: hai presente…»

Ma non finì la frase. Aurora vide l’espressione dell’Arkiana mutare di colpo: da nervosa e imbarazzata, diventò attenta e preoccupata. Prima che la rossa potesse sollecitarla a sputare il rospo, la ragazza cominciò a guardarsi in giro, sospettosa. Non capendo, cercò di osservare i dintorni a sua volta per distinguere cosa ci fosse che non andava, ma non notava niente di strano. Non le restava che domandare:

«Cosa c’è?»

«L’hai sentito?» chiese Acceber.

«Scusa, cosa dovrei sentire? C’è il rumore dell’acqua che copre tutto, ma per il resto non ho sentito nulla. Aspetta, è perché non si sente nulla?»

«No. Ho sentito un fruscio, come il rumore di un argentavis quando scende in picchiata, ma più forte. Non era normale»

«Acceber, ora mi stai spaventando. Che significa?»

«C’è…»

La sua frase fu improvvisamente interrotta da una cacofonia di bramiti spaventati provenienti dal fitto della foresta. L’equus cominciò a nitrire e a scalpitare, cercando di liberarsi dalla corda. Aurora impallidì e scattò in piedi.

«Cosa sono?» chiese, sussurrando.

«Megaloceri: qualcosa li sta terrorizzando»

«Ce ne andiamo?» la supplicò Aurora, tesa come una corda.

«Sì, è meglio»

Senza perdere tempo, le ragazze raggiunsero la cavalla e la figlia di Drof, stando attenta a non farsi colpire da un calcio mentre scalpitava, la sciolse mentre Aurora la accarezzava e le sussurrava per calmarla. Ma l’equus non si calmò per niente. Anzi, contro le aspettative delle due, appena fu libero si diede alla fuga senza dare loro il tempo di montare in sella.

«Cosa?» sobbalzò Aurora.

«Dannazione! Qualunque cosa sia, la spaventa a morte!»

Acceber partì all’inseguimento. Non tanto per raggiungere l’equus, che era già arrivato in cima al crinale, ma più per cercare di capire dove stesse andando e sapere dove iniziare a cercarlo. Aurora, che non voleva assolutamente rimanere da sola, andò a prendere la torcia che avevano acceso mentre chiacchieravano e iniziò a seguirla di corsa. All’improvviso, si ritrovarono la strada tagliata da una piccola mandria di megaloceri che fuggivano. Emersero dal fronte boscoso al galoppo, passando davanti alle due ragazze; scesero giù dal pendio, attraversarono a enormi balzi il laghetto e sparirono sul lato opposto, dopo aver risalito il dislivello con un agile balzo.

«Dobbiamo andarcene! Tra poco il loro inseguitore sarà qui!» esclamò Acceber.

La figlia di Drof intimò alla rossa di starle accanto e cominciò a guidarla attraverso il sottobosco, ma non andarono lontano: di punto in bianco, una femmina di megalocero che era stata separata dalla mandria spuntò da dietro un fitto arbusto e, troppo affrettata per notarle, continuò la sua corsa in direzione di Aurora. La rossa se ne accorse troppo tardi, sarebbe stata travolta; ma Acceber, che aveva dei riflessi molto veloci e si era fermata un attimo per accertarsi che l’amica fosse ancora vicina a lei, se ne accorse in tempo e, nella frazione di secondo che aveva per agire, decise di intervenire. Diede uno spintone ad Aurora, gettandola fuori dalla traiettoria dell’erbivoro in fuga, e si raccolse su se stessa per limitare i danni.

«Ah!» gridò subito dopo.

Aurora era confusa: un secondo prima aveva visto un megalocero correre verso di lei, adesso era sdraiata sulla ghiaia. Quando si rialzò, sentì un grido e un tonfo. Si guardò intorno e si sentì mancare: Acceber era a terra, gemente e dolorante. Stava raggomitolata, stringeva i denti e teneva una mano premuta su un fianco. Ad un metro da lei la femmina di megalocero, caduta a sua volta, scalciava a vuoto per rialzarsi. In preda al panico, Aurora gattonò dalla figlia di Drof e, sforzandosi di essere delicata, la aiutò a mettersi seduta.

«Oddio! Stai bene?!»

«Aaaaah! La mia costola… aaaaah!» gemeva Acceber.

«Ce la farai?» le domandò Aurora, quasi soffrendo per lei.

«Lo spero… ma fa male… aaaaaah!»

Il megalocero riuscì finalmente a piantare gli zoccoli sul terreno e ad alzarsi. Ma, d’un tratto, le due ragazze sentirono un fruscio nel bosco: stavolta anche Aurora era riuscita a udirlo. Percepì il fischio del vento che veniva sferzato da qualcosa che planava molto velocemente. Una grande ombra sfrecciò a mezz’aria, sopra le loro teste. E una creatura che non aveva mai visto piombò sull’erbivoro, schiacciandolo a terra con una possente zampa armata di spaventosi artigli uncinati, che fecero a brandelli i suoi fianchi e gli strapparono un bramito agonizzante. Entrambe le ragazze sobbalzarono, terrorizzate.

«Dobbiamo scappare!» esclamò Acceber.

Provò ad alzarsi, ma emise subito un gemito di dolore e cadde in ginocchio, tenendosi un braccio premuto sulle costole. Aurora la aiutò a tornare in piedi, ma non poté fare a meno di osservare quell’incredibile bestia per quei pochi attimi che poteva concedersi. Nonostante il terrore, era anche meravigliata: quella creatura somigliava molto ad un drago orientale. Aveva un imponente corpo da lucertola affusolato e robusto allo stesso tempo. Aveva una testa lunga, con denti piccoli e appuntiti. Gli artigli con cui stava facendo a pezzi il megalocero erano impressionanti e, osservandone la forma, Aurora intuì che gli servivano per scalare le pareti. Aveva le scaglie verde acqua, gli occhi dorati e lunghe piume arancio sulla testa, sulle zampe anteriori e sulla punta della coda. La rossa non avrebbe mai pensato di vedere una bestia così spaventosa e così magnifica al contempo.

La creatura sfilò gli artigli dalla carne della preda e la uccise con un forte morso alla gola, per poco non le staccò la testa. Allora la prese per i fianchi e cominciò a portarla via, in cerca di un posto dove mangiarla… ma si accorse di loro. Aurora si sentì come pietrificata, tanto che allentò la presa su Acceber senza accorgersene. Il drago delle rocce le fissò per alcuni secondi, poi lasciò il megalocero e cominciò ad avvicinarsi con aria attenta. Aurora ebbe come la sensazione che lo sguardo della creatura non fosse tanto famelico, quanto incuriosito. Mentre si avvicinava, il rettile contraeva con forza le narici, annusando le due umane. Alla fine, si trovò a meno di tre passi da loro e si fermò, alzando la testa per squadrarle dall’alto: anche così, il suo modo di essere minaccioso e regale al contempo spiazzava Aurora. Quando il drago inclinò la testa ed emise un gorgoglio, la sopravvissuta chiuse gli occhi e si riparò il capo d’istinto, aspettandosi che stesse per spalancare le fauci e divorarla. Ma, poco dopo, si rese conto che non era successo niente: il rettile piumato le stava solo fissando con quei terrificanti occhi dorati.

«Non fare niente» sibilò Acceber, con un filo di voce.

Aurora la guardò con la coda dell’occhio, troppo spaventata per muovere il capo: era costretta a ricambiare lo sguardo di quel drago, che sembrava indeciso su cosa fare con loro due. Il predatore si leccò via il sangue del megalocero dalle gengive e delle gocce di saliva caddero sul viso della rossa. Nonostante il disgusto e l’odore, non si azzardò a togliersi quella bava calda e fetida con una mano: forse la creatura si sarebbe arrabbiata e l’avrebbe ammazzata senza darle il tempo di pensare. Constatò che Acceber aveva ragione: non le restava che rimanere ferma e sperare che il drago piumato decidesse di mangiare il megalocero al posto loro.

A quel punto, il rettile abbassò il muso, accostò le narici alle guance della rossa e iniziò ad annusarla con attenzione. Il suo cuore era praticamente sul punto di scoppiare: non riusciva a reggere quella tensione: perché ce l’aveva con lei? Perché lo incuriosiva così tanto? Era tesa come mai prima di allora: i suoi muscoli fremevano, le sue gambe erano tese. La ragazza era pervasa dall’impulso di scattare in piedi e correre via, il più lontano possibile, nell’oscurità della foresta di sequoie, ma doveva resistere. Se avesse tentato la fuga, avrebbe condannato entrambe. Doveva resistere, lasciarlo fare, trattenere il respiro. La paura era tale che non si sentiva più le braccia e le gambe; era fradicia di sudore, stava stridendo i denti. Chiuse gli occhi: non aveva nemmeno più il coraggio di guardare. Gli sbuffi del naso del predatore le travolgevano il volto e le muovevano la chioma come un vento caldo. Si sentì mancare, quando il drago emise un ringhio che le penetrò le ossa.

All’improvviso, quello stallo terrificante fu interrotto: da qualche parte nella foresta, ci fu un tonfo profondo come un tuono. Era come se qualcosa di molto pesante si fosse schiantato al suolo, non molto lontano da lì. Aurora, stupita, aprì gli occhi e vide che, adesso, anche il drago sembrava teso; si guardava attorno con gli occhi sgranati. Le sue piume si drizzarono, facendolo apparire più imponente: sembrava un segno di allerta. Tutto d’un tratto, il terrore di Aurora fu spazzato via dalla confusione e dalla perplessità: cosa stava succedendo? Pochi secondi dopo, la rossa udì un rimbombante suono ritmato: era come un tamburo, ma profondo e potente, tanto che le scuoteva le membra. Dopo quello strano battito, sentì la voce di Acceber che sussurrava:

«È lui!»


Appena sentì quel rumore ritmato, il drago dimenticò le due umane e si allertò. Cercando di rendersi più minaccioso, drizzò tutte le sue piume e tese i muscoli, pronto a reagire. Presto, iniziò a sentire un odore che aveva già avvertito altre volte e che aveva imparato a riconoscere come una minaccia: era quello della creatura che dominava sull’isola e che aveva sempre cercato di dargli la caccia. Sapendo che l’avversario aveva capito dove si trovava, il drago si preparò a trovare un punto più adatto per prepararsi allo scontro. Prima di muoversi, però, diede un’ultima occhiata alle due umane e vide che quella coi capelli rossi stava aiutando l’altra ad allontanarsi. Ormai non avevano più importanza, però.

Si girò di lato e, con un energico balzo, si avvinghiò con gli artigli al tronco della sequoia più vicina. A quel punto, diventò invisibile e iniziò a planare veloce come il vento sul sottobosco, fino ad aggrapparsi ad un albero più gigantesco. A quel punto, annusò l’aria con attenzione, per capire dov’era il suo sfidante in quel momento. Non sentendo più alcuna traccia, però, vide un’occasione per scappare. Quindi si diede la spinta e riprese a sfrecciare aggraziatamente in mezzo alle sequoie finché, all’improvviso, un’enorme massa non si abbatté su di lui dall’alto e lo sbatté a terra. Sconvolto e spaventato, il drago perse il controllo del suo mimetismo e tornò visibile, iniziando subito a dimenarsi per liberarsi dalla presa dell’animale che gli era appena saltato addosso dalle fronde. Iniziò ad agitare gli artigli a caso, cercando di colpire qualunque cosa, ma l’avversario gli stava schiacciando la testa per terra e gli impediva di vedere dove colpiva. A un certo punto, il drago si sentì afferrare in due punti diversi della schiena e fu sollevato come se non avesse peso. Volteggiò in tondo per due volte, poi fu lasciato andare e andò a sbattere col fianco contro una sequoia.

Non riuscì a muoversi per il dolore per alcuni istanti, ma alla fine riuscì ad alzarsi e, finalmente, si voltò per guardare l’aggressore in faccia: Kong, il re di ARK. Il gorilla lo fissò per alcuni attimi scoprendo le zanne e stringendo gli occhi, mentre sbuffava con forza facendosi tremare le labbra. Dopodiché si alzò in piedi ed emise un assordante ruggito rauco che risuonò per l’intero sottobosco, battendosi i pugni sul petto. Il drago scoprì i denti a sua volta e rispose alla sfida agitando le piume. Kong pestò i pugni a terra e partì alla carica, prendendo la rincorsa per tirargli una spallata. Il rettile saltò di lato all’ultimo, raggiungendo un altro albero e scalandolo fino ai rami. Girò su se stesso, volgendo il muso verso il terreno, e osservò lo scimmione: aveva colpito il tronco con la spalla e si stava ancora riprendendo dall’impatto. Il drago colse l’occasione: si tuffò dal tronco della sequoia e scese in picchiata sul Megapiteco, con gli artigli tesi in avanti. Lo investì alla massima velocità e lo scaraventò a terra, affondando le unghie nelle sue spalle. Kong emise un lamento e il drago delle rocce lo azzannò alla gola. Prima che iniziasse a serrare le fauci, però, il primate gli appoggiò un piede sull’addome e lo spinse via. Con un ringhio di sorpresa, il drago piumato volò all’indietro e cadde sulla schiena, ritrovandosi senza fiato. Dopo alcuni istanti di confusione, riuscì a rigirarsi e notò che un alberello stava per investirlo in pieno. Con uno scatto, riuscì a passare sotto la pianta prima che lo colpisse. A quel punto, Kong fece un balzo e alzò i pugni, pronto a schiacciargli la testa. Il drago lo schivò con un saltello e lo scimmione atterrò al suo fianco, scavando due solchi con le nocche. Il rettile sferrò una vigorosa zampata, sferzandogli il fianco destro e lasciando delle profonde ferite che impregnarono di sangue la pelliccia nera del primate.

Kong urlò, su tutte le furie, e colpì il muso del lucertolone con un violento manrovescio. Il drago rimase rintronato quando cadde al suolo e iniziò a vederci doppio. Cercò di alzarsi, ma era troppo stordito per mantenere l’equilibrio. Il gorilla gli afferrò la coda, lo sollevò e lo sbatté per terra, sollevando un nugolo di polvere, foglie e aghi di sequoia che coprivano il sottobosco come un tappeto. Il drago, dolorante e senza fiato, guardò negli occhi il gorilla, che si fermò per alcuni momenti per rivolgergli un secondo ruggito minaccioso. Si rizzò ancora in piedi e alzò al massimo le braccia, pronto a schiacciargli il cranio; ma il rettile, ritrovando le energie, scattò e gli azzannò la gamba sinistra, per poi strattonare. Il Megapiteco perse l’equilibrio e cadde, finendo lungo disteso sul dorso.

Il drago non aveva alcuna intenzione di continuare a combattere: era troppo malconcio e stanco, non poteva sopravvivere a quello scontro. Così, prima che Kong tornasse in piedi, ricominciò a mimetizzarsi e si sbrigò ad arrampicarsi sulla sequoia più vicina. Una volta che fu in cima, si voltò in una direzione in cui il percorso era sgombro di ogni ostacolo e prese a planare. Percorse centinaia di metri sfrecciando nell’aria, infine atterrò su un pinnacolo roccioso, dove si fermò per riprendere finalmente fiato e controllare le sue ferite. Sobbalzò quando sentì nuovamente il ruggito del Megapiteco. Immobilizzandosi, prese a guardarsi in giro e ad annusare l’aria. Poco dopo, lo individuò: lo scimmione sembrava aver perso le sue tracce. Lo vide in lontananza, intento a saltare con agilità da una sequoia all’altra dondolandosi sulle fronde con le braccia. Ogni tanto si soffermava su un tronco e osservava la foresta con sguardo vigile. Il drago piumato stava immobile, pronto a reagire se avesse dovuto. Alla fine, però, il gorilla gigante passò oltre e scomparve nel fitto della Grande Foresta. L’aveva seminato. Capendo di essere scampato al pericolo, il drago abbassò le piume e ricominciò ad aggirarsi per il bosco, in attesa di un posto sicuro per nascondersi e riposare fino all’alba.

«Come va? Fa tanto male?» chiese Aurora, mentre aiutava Acceber.

La figlia di Drof annuì, stringendo i denti: si sforzava di non gemere troppo, perché parlare o respirare a fondo le procurava delle fitte. Dopo che il rettile sconosciuto era scappato, le ragazze avevano cercato di allontanarsi il più possibile e Aurora illuminava il sottobosco con una torcia, tenendo d’occhio gli arbusti in cerca degli occhi gialli e brillanti di un eventuale branco di troodonti. Seguendo le indicazioni dell’amica, la stava accompagnando in direzione del villaggio degli Alberi Eterni, ma procedevano molto lentamente: la rossa doveva aiutare Acceber a stare il più rigida possibile, a causa della costola fratturata. Prima di quel momento, un paio di volte, l’Arkiana si era piegata in avanti per il dolore senza accorgersene o aveva premuto troppo con la mano sul punto infortunato e non aveva potuto fare a meno di urlare. Ogni volta, dalla foresta erano provenuti dei versi o dei richiami poco rassicuranti ed entrambe non osavano muovere un muscolo finché non tornava il silenzio.

«Cerca di resistere, prima o poi arriveremo» cercò di rassicurarla Aurora, sorridendole.

Proseguirono per vari minuti finché, quando passarono accanto ad una sequoia caduta completamente marcita e vuota, Acceber non ce la fece più e la supplicò che si fermassero un po’. Aurora non poté che acconsentire e la aiutò a sedersi lentamente sul tronco, sempre facendo in modo che tenesse la schiena dritta. La rossa si sedette accanto alla ragazza, continuando a tenere la torcia bene alzata per illuminare bene i dintorni. Rimasero in silenzio per diversi minuti e Acceber, non dovendosi più sforzare, riuscì finalmente a respirare più piano. Quando Aurora la guardò in faccia, vide che la sua espressione era un po’ meno sofferente. Allora ripensò a quello che era successo quella notte e la ringraziò per averle fatto da scudo prima che il megalocero la investisse. Acceber le sorrise e fece spallucce, per rispondere che non c’era di che. La rossa sospirò e diede un’altra occhiata in giro per accertarsi che fossero ancora sole. Dopodiché, ripensò alla loro conversazione e si ricordò che Acceber non aveva finito di “confessarsi”. Così, con tono innocente, le domandò cosa volesse rivelarle prima che fossero interrotte. Acceber si irrigidì, colta di sorpresa. Guardando la sopravvissuta con un’espressione interdetta, aprì bocca, ma non riuscì a dire niente. Si serrò le labbra e Aurora la incoraggiò, dicendole che non c’era problema. Alla fine, però, la giovane Arkiana mormorò:

«Sai una cosa, perché… ah… non ne parliamo… con calma… ahia… al villaggio?»

Dopo un attimo di riflessione, Aurora si rese conto di quanto inadatta fosse quella situazione per chiacchierare, quindi le diede ragione e si scusò per averla fatta parlare. Acceber sembrò sollevata per non aver dovuto rispondere. Restarono ferme ancora un po’, dopodiché Acceber sussurrò di essere pronta a proseguire. Allora la rossa la aiutò ad alzarsi e, sorreggendola, fece i primi passi nel sottobosco… ma si immobilizzarono quando udirono un richiamo parecchio vicino a loro, che fece raggelare loro il sangue. Veniva dalle loro spalle. Pareva un misto fra il latrato di un cane e una risata. Le due ragazze si voltarono e la torcia di Aurora illuminò un paio di occhi in mezzo agli arbusti. Acceber sussurrò qualcosa in arkiano, mentre dall’oscurità emerse, a passi cauti, uno ienodonte, una iena del Cenozoico grande come un leone.

«Ha sentito… i miei lamenti» sibilò Acceber, dolorante.

Aurora, spaventata e madida di sudore, iniziò a puntare la torcia verso lo ienodonte per tenerlo a distanza, sforzandosi di non mostrare troppo la sua paura. Nel frattempo, lo osservò bene: lo spazzino non sembrava molto in forma. A dire il vero, le sembrava piuttosto malconcio: aveva il pelo arruffato e assente in alcuni punti, era pieno di cicatrici ed era molto magro, tanto che aveva i fianchi infossati e la sopravvissuta poteva contare le sue costole. Puzzava di marcio e morte, non che si aspettasse altrimenti. La rossa cercò di riflettere, pensando a un modo per allontanarlo senza rischiare troppo. Prendendosi cura dei cuccioli nella stalla della base dei Difensori, le era stato spiegato spesso come si comportavano le varie specie delle Arche e gli ienodonti non facevano eccezione; le era stato detto che di solito agivano in branco e che attaccavano solo gli animali feriti o deboli e, comunque, soli. Intuì che quell’esemplare dovesse aver perso il suo branco o che lo avessero scacciato e, ritrovandosi da solo, si era ridotto in quello stato perché faticava a cacciare. Ma ora aveva trovato due prede deboli e non aveva esitato a farsi avanti.

«Se solo… avessi tenuto… oh… le armi!» gemé Acceber, stringendo i pugni.

Purtroppo, invece, le aveva lasciate sulle selle del gallimimo e del terizinosauro, che ora erano al villaggio degli Alberi Eterni. Toccava ad Aurora difenderle. Raccogliendo tutto il suo coraggio, fece un passo avanti e agitò ad ampie bracciate la torcia, sfiorando il muso dello ienodonte con la fiamma. Nel frattempo urlava, cercando di spaventarlo. Lo ienide uggiolò e fece dei passi indietro, intimidito dal fuoco. Convinta che stesse funzionando, Aurora si sentì più determinata e si avvicinò ancora con sicurezza, sventolando la torcia con ancora più forza.

«Via! Sparisci!» esclamava, a pieni polmoni.

Ad un certo punto, però, le cose cambiarono: lo ienodonte piegò le orecchie all’indietro e prese a ringhiare, sbavando e fissandola con uno sguardo che sembrava posseduto. La rossa perse tutta l’audacia e, sconvolta da quegli occhi famelici, indietreggiò tenendo la torcia vicina a sé. Aveva perso credibilità: adesso era la iena preistorica ad avere il coltello dalla parte del manico. Si vedeva che era troppo affamata e disperata per farsi scoraggiare da una patetica fiaccola.

«Attenta!» la avvertì Acceber.

Subito dopo, lo ienodonte fece un piccolo scatto e tentò di colpire Aurora con una zampata che la rossa evitò con un saltello all’indietro. La sopravvissuta fece un altro tentativo di agitare la torcia, ma questa volta il canide provò ad azzannarle il braccio al volo. Lo spavento fu tale che, per poco, Aurora non lasciò cadere la fiaccola. A quel punto, capì che non poteva fare più niente e che lo ienodonte si era convinto che nulla gli potesse impedirgli di sbranarle. Quando lo vide tirare fuori la lingua e tendere i muscoli delle zampe, si accostò ad Acceber e provò a farle da scudo in qualche modo. Lo ienodonte emise un lungo verso gutturale seguito da una “risata” beffarda e le ragazze si prepararono al peggio. Tuttavia, prima che lo ienodonte attaccasse, udirono un nitrito. Proveniva dalla sinistra delle due sventurate.

Sia loro, sia lo ienodonte si voltarono sorpresi in quella direzione. Lo spazzino rizzò le orecchie, allarmato. Sentirono i tonfi di un galoppo, poi il fruscio del sottobosco che veniva agitato. Ed ecco che, dal buio, apparve l’equus di Aurora. La cavalla raggiunse lo ienodonte a passo di carica, gli si parò davanti e, dopo essersi impennata continuando a nitrire, gli pestò gli zoccoli in testa. Lo ienodonte gemé, frastornato, e barcollò. Fece un timoroso tentativo di contrattaccare, ma all’equus bastò sbuffare e raschiare gli zoccoli sul terreno per scoraggiarlo. Alla fine, dopo un ultimo uggiolato, la iena si voltò e fuggì, scomparendo nella notte.

«Oh! Sei tornata! Brava cavalla! Bravissima!» esclamò Aurora.

Sollevata e incredula, si avvicinò alla sua cavalcatura e le accarezzò il muso, ridendo quasi con isteria per la gioia e per lo spavento appena passato. L’equus sbuffò con affetto, agitandole i capelli, e strusciò il naso sulle sue guance. Acceber, avvicinandosi lentamente e col sorriso sulle labbra, le poggiò una mano sul fianco:

«Pare che… ahia... sia tornata appena… ha capito che il lucertolone era andato via. Poi ha sentito che eri in pericolo… sai che… vuol dire?» chiese.

«Be’, se non fossi stata mangiata da un giganotosauro il mio primo giorno sull’Isola, ti direi che vuol dire che ho una fortuna impossibile qualunque cosa faccia» scherzò Aurora, allegra.

Acceber scosse la testa a occhi chiusi, sghignazzando:

«No. Vuol dire che… ti voleva già bene… prima che finissi di addomesticarla. Sei stata proprio fantastica… con questa doma. Ah, che male!»

«Oh, ti ringrazio! Comunque, adesso smetti di sforzarti: ti stai facendo male per niente»

«Sì, ora torniamo... al villaggio»

«Certo»

Allora, senza perdere altro tempo, Aurora aiutò Acceber a montare in sella senza infastidire troppo la costola rotta, quindi prese posto davanti a lei. Dopo un’ultima carezza alla sua cavalla, continuando a tenere la torcia sollevata, la rossa spronò l’equus e iniziò a cavalcare nella direzione indicata dall’Arkiana. Una volta arrivate, la rossa non avrebbe dovuto fare altro che portare Acceber da qualche guaritore e aspettare il giorno dopo, sperando che Lex non avesse problemi nella caccia al misterioso mostro acido. Ma, per ora, doveva concentrarsi sul tragitto.

ANGOLO AUTORE

Un enorme ringraziamento all'unica e inimitabile Maya Patch per aver realizzato, tra tutte le altre fanart e con tantissimo anticipo rispetto alla stesura di questa scena, la bellissima immagine di Kong che affronta il drago delle rocce che potete ammirare in questo capitolo! 

   
 
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