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Autore: Adeia Di Elferas    05/07/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“C'è un'altra cosa...” disse Fortunati, mentre Caterina guardava la lettera che lui le aveva appena consegnato.

“Ossia?” chiese la donna che, tornata alla villa da pochi minuti, si era già sentita riversare addosso un sacco di resoconti e novità, tra cui, per l'appunto, l'arrivo di una missiva da parte di Giambattista Torelli, da Imola.

“Ossia ieri sono arrivati Troilo De Rossi e...” cominciò a dire il piovano, ma la Tigre lo interruppe bruscamente.

“Li incontrerò dopo.” disse: “Adesso voglio leggere questo messaggio e poi devo... Devo...”

Dato che nemmeno lei sapeva che scusa usare per sfuggire, almeno per qualche ora ancora, al confronto con qualcuno giunto fin lì solo per chiederle conto della sua decisione repentina e non condivisa di spostare il suo ultimogenito dalla villa, la Sforza lasciò semplicemente cadere la voce.

Francesco, che in effetti non aveva intenzione alcuna di domandarle cosa dovesse davvero fare di tanto importante, chinò il capo e sussurrò solo: “Io cercherei, comunque, di tenerli dalla nostra parte.”

“Certo.” convenne lei, e poi, dopo aver rotto il sigillo della lettera, decisa ad andare nella sua stanza per leggerla con calma, guardò l'uomo con un'occhiata strana e gli domandò: “Questa sera avresti voglia di passare un po' di tempo con me, magari dopo cena? Stare in convento mi ha fatto riflettere. Voglio qualcuno con cui parlare.”

Ben felice di scorgere quello che – sperava – doveva essere un moto di avvicinamento alla fede o, almeno, all'interrogarsi sulla fede, da parte di Caterina, Fortunati rispose immediatamente: “Ho tutto il tempo che vuoi.”

“Bene.” commentò lei e poi, con un sospiro, si scusò e andò in fretta in stanza, sperando di non incrociare nessuno.

Era da poco passata l'alba: nella villa tutti dormivano ancora. Fuori il cielo era grigio e spirava un'arietta fredda che prometteva tempesta. La Leonessa capiva chi, con quel tempo, preferiva restarsene a letto.

Arrivata a destinazione, chiusasi la porta alle spalle, prima ancora di mettersi a sedere, la donna spianò la missiva davanti a sé e cominciò a leggere. La data riportata era quella del 7 ottobre. In fondo, quel messaggio era arrivato molto in fretta.

Man mano che scorreva con lo sguardo le parole che Torelli aveva vergato per lei, la Tigre avvertiva un senso di estraneità crescente, come se i posti e le persone di cui le veniva scritto fossero lontane e intangibili, quasi irreali.

Venne dunque a sapere che il Valentino avrebbe raggiunto la sorella Lucrecia a Ferrara per San Martino, per presenziare alle sue nozze. E, contestualmente, scoprì anche che il Borja aveva intenzione di recarsi a Imola proprio in quei giorni. La città si stava preparando, dato che Cesare aveva promesso di trascorrervi pochi giorni, ma intensi, tra festeggiamenti e banchetti, ma il clima tra gli imolesi era tutt'altro che allegro.

'Qua in questa rocha d'Imola – le scriveva Torelli – se lavora zorno e nocte, e feste e de ogni tempo, se stima che espenderanno sey, o octo milia Ducati doro'.

L'uomo la informava anche di come fosse tutto in mano a Giovanni Corradini, già Governatore di Imola durante la guerra con il Valentino, finito poi in cella e al momento, a quanto pareva, ristabilito e rimesso al suo posto.

Secondo Torelli, però, l'uomo aveva perso la testa, tanto che, riportava, in un'occasione l'aveva sentito dire che Ottaviano Riario in realtà fosse suo figlio. Era stato lo stesso Torelli a metterlo a tacere, dicendogli che era un grande ingrato a mettere in giro certe voci false e cattive.

L'imolese non si risparmiava anche di sottolineare con la Tigre: 'el paga Vostra Signoria molto bene de ingratitudine'.

Torelli passava poi a informarla circa il destino di alcune loro conoscenze comuni, ma la Sforza, in tutta onestà, ricordava solo metà della gente di cui si parlava.

L'unica frase che attirò di nuovo la sua attenzione fu: 'Altro non ce de novo, se non che el Valentino se aspecta questo inverno qua a danzare con le nostre Imolexe'.

Quell'accenno alle donne di Imola, seppur messo in un contesto che pareva innocuo, fece rivoltare lo stomaco a Caterina. Poteva immaginare cose tutti si aspettavano che il Duca facesse, con le imolesi...

Richiudendo lentamente la lettere, la donna si chiese come mai le fosse stata mandata. Qualcuno forse si aspettava che lei potesse fare qualcosa? Che potesse intercedere in qualche modo? Non si rendevano conto che, seppur viva e in una bella villa, restava di fatto una mezza prigioniera?

Con un sospiro profondo, decise di non pensarci più. Lasciò il messaggio sulla scrivania e si andò a stendere a letto. Malgrado avesse passato le sue ultime giornate a non far nulla, si sentiva stanchissima. Cominciava a temere che quell'astenia costante l'avrebbe accompagnata fino alla morte. Probabilmente era il risultato degli anni di fuoco a cui aveva costretto il suo corpo, e la prigionia a Roma aveva dato il colpo di grazia.

Con un sospiro, chiuse gli occhi e provò a non pensare a nulla. Prima che potesse accorgersene, si addormentò.

A svegliarla, qualche ora dopo, fu un tuono fortissimo e improvviso, seguito da un subitaneo scroscio di pioggia. Le folate di vento che trasformavano la pioggia in un incessante turbinio erano tanto violente che una spalancò di forza la finestra della stanza della Tigre.

Alzandosi di colpo, per correre a chiudere l'imposta, la donna si rese conto della luce innaturale che pervadeva ogni cosa, e della frequenza, mai vista prima, dei lampi. Il susseguirsi di esplosioni di luce, che trafiggevano il cielo nero, e il rombo sconvolgente dei tuoni, frequentissimi e assordanti, le fecero subito pensare a Giovannino. Di certo era spaventato e magari stava anche piangendo... Se solo avesse potuto correre da lui e stringerselo al petto...

Facendo quanto in suo potere per non pensare al suo piccolo terrorizzato, Caterina cercò di capire che ore fossero, ma la luce grigia e rotta dai lampi non glielo lasciava capire. Uscì allora dalla stanza e vide subito che in casa c'era grande fermento.

“Che succede?” domandò, intercettando Galeazzo che, velocissimo, si stava lanciando al piano di sotto.

“Le bestie!” gridò lui: “Vanno messe al riparo! Dove sono adesso non va bene!”

'Le bestie?' pensò la Leonessa: 'Da quando in qua abbiamo delle bestie alla villa?'. Per quello che ne sapeva lei, infatti, pur avendo una stalla, non aveva alcun animale, cavallo, cane o gallina che fosse.

Senza porsi troppe domande, però, lasciò che il suo istinto prendesse il sopravvento e, facendo quello che avrebbe fatto anni prima alla sua rocca, si lanciò immediatamente alla rincorsa del figlio, in modo da poter dare fattivamente una mano. Non era mai stata capace di restare a guardare quando gli altri facevano lavori di fatica.

Nel momento stesso in cui uscì di casa, sentì la voce di Fortunati, alle sue spalle, richiamarla all'ordine. Le intimava di non uscire con quella pioggia, né di allontanarsi dalla villa, ma Caterina non lo sentiva nemmeno.

L'acquazzone, scrosciante e gelido, accompagnato da tuoni e lampi in quantità tale da assordare e accecare, era l'unica cosa che la Leonessa percepiva. Seguiva Galeazzo, che stava correndo verso le stalle, ma più che ragionare ancora sulla strana questione degli animali – che era sicura di non possedere – si concentrava sul modo in cui i suoi piedi in corsa, più lenti di un tempo, affondassero sul terreno umido, su come il suo respiro accelerasse, mentre l'acqua infradiciava il suo abito e i suoi capelli, frenandola, ma, allo stesso tempo, riempiendola di vita.

Erano mesi, anzi, ormai erano quasi due anni che non si sentiva tanto libera come in quel momento.

Quando arrivò alle stalle, si rese conto che un paio di servi si stavano già dando da fare, e così non fece altro che dar loro una mano. Assieme a Galeazzo, convinse una mula a spostarsi fino al punto più riparato della stalla, fece altrettanto con un cane da caccia e poi, unica a riuscirci tra tutti i presenti, recuperò due galline raminghe e le mise a loro volta al sicuro.

Stava riprendendo fiato, come gli altri, quando vide arrivare in corsa dalla villa un uomo che riconobbe subito come Troilo De Rossi. Di per sé, non le parve una cosa strana, dato che aveva intuito che fosse una persona volonterosa e, a modo suo, generosa. Ciò che la fece accigliare fu notare come, nel giro di meno di un minuto, sotto la pioggia incessante ci fosse anche Bianca, intenta a correre verso di loro sollevandosi appena la sottana con una mano per non inciampare.

“Non c'è bisogno!” gridò Caterina alla volta dell'emiliano e della figlia: “Abbiamo sistemato tutto!”

Proprio mentre diceva così, un suono sinistro fece capire che la tempesta aveva danneggiato una parte del tetto della stalla, proprio laddove fino a poco prima erano gli animali.

“Andrà risistemata...” disse Troilo, arrivando al riparo e sollevando lo sguardo: “Se volete, posso dare un aiuto...”

La Tigre lo guardò di sottinsu, senza dire nulla, poi, quando anche Bianca fu al suo fianco, concesse: “Potrete darmi una mano...”

“Intendete aggiustare il tetto voi stessa?” chiese l'uomo, senza dimostrarsi troppo sorpreso.

“Mia madre ha sistemato di sua mano mura e rivellini – si intromise Galeazzo, affiancando la Sforza e allargando un po' le spalle – se vuole può anche sistemare il tetto di una stalla.”

Il ragazzo, che avrebbe compiuto sedici anni solo in dicembre, in quel momento sembrava molto più grande della sua età. Perfino sua madre, nel vederlo, alto e slanciato com'era, reso un po' più selvaggio del solito per via dei capelli e degli abiti bagnati, provò nei suoi confronti una sorta di reverenziale soggezione. Non era difficile, in quel momento, immaginarselo alla guida di uno Stato o, ancor di più, di un esercito.

“Non volevo insinuare il contrario.” sorrise il De Rossi, con un'affabilità tale che Caterina prese per buona la sua dichiarazione.

“Quando spioverà – gli disse allora – mi aiuterete con il tetto. Per ora andiamo tutti in casa. E qualcuno dovrà spiegarmi come mai possiedo una mula, due galline e un cane.”

“Quando vorrete...” fece Troilo, dopo la mezza corsa sotto l'acqua che li riportò al confortevole asciutto della villa: “Potremmo parlare del vostro ultimogenito. In fondo sono qui per questo.”

La Leonessa non aveva alcuna voglia di intraprendere una difficile e delicata discussione su quello che era successo a Giovannino e sul perché avesse deciso di allontanarlo, perciò, cogliendo la scusa al volo, disse: “Siamo bagnati fino al midollo e rischiamo tutti di prenderci una polmonite. Se siete d'accordo, fare preparare un bagno caldo per chiunque lo desideri, e poi passerei la giornata senza altri pensieri. Di quello di cui dobbiamo parlare, possiamo parlarne anche domani.”

Il De Rossi, che non voleva altro che una scusa per restare lì il maggior numero di giorni possibile, evitando accuratamente di scambiare uno sguardo con Bianca, lì vicina, annuì all'istante e accettò senza indugi: “Siete una donna saggia.” le disse.

“Sono una donna stanca.” lo corresse lei, non riuscendo a tenere per sé quella considerazione.

Detto ciò, Caterina chiese a Galeazzo di dare ordine ai servi di scaldare l'acqua e, scusandosi con tutti, andò verso la sua stanza, in attesa della sua tinozza.

Solo per Fortunati, che l'aspettava ai piedi delle scale, ebbe una domanda: “Che ci fanno quelle bestie nella mia stalla?”

“Sono regali...” spiegò lui: “Dalla Romagna la mula e il cane. Le galline ve le ha fatte avere Scipione Riario, che ancora aspetta di potervi incontrare con calma e...”

La donna strinse gli occhi, domandandosi chi mai, dalla Romagna, potesse aver intrapreso una spesa per farle quei regali. Sospirò, dicendosi che avrebbe cercato ulteriori spiegazioni più avanti e poi disse a Francesco che, per quanto riguardava Scipione e anche tutti gli altri suoi partigiani riparati a Firenze, li avrebbe incontrati uno per uno non appena i francesi se ne fossero andati.

 

Lorenzo chiuse le imposte con un movimento secco e poi tornò a voltarsi verso i due legali che aveva interpellato e a cui avrebbe, molto volentieri, messo le mani al collo, per quanto si stavano dimostrando incompetenti.

“Ha sottratto il bambino al mio controllo!” sbraitò, come se quel dettaglio non fosse sufficientemente chiaro ai due avvocati: “Non può passarla liscia!”

Fuori la tempesta continuava a infuriare. Il Medici non ricordava di aver mai visto una giornata simile, a Firenze. Gli avevano anche detto che quella mattina, proprio durante la solenne Messa domenicale, un fulmine aveva colpito il campanile della chiesa di Legri ed erano morte almeno cinque persone, e se ne erano ferite una quarantina. Quella notizia non l'aveva scosso più di tanto, in realtà, gli aveva solo fatto ricordare che, essendo appunto domenica, i legali per la loro consulenza avrebbero per certo voluto più soldi del solito.

“Con tutto il rispetto...” cominciò a dire uno dei due avvocati, guardando l'altro in cerca di sostegno: “Quello che avete cercato di fare, provando a portare via il piccolo...”

“Ho solo cercato di fare quello che era meglio!” sbottò il Popolano, la fronte che, a ogni parola, si imperlava di più di sudore freddo: “Non volevo certo rapirlo! Volevo solo sottrarlo a una madre che ha più volte dimostrato di non essere in grado di badare a lui!”

L'altro legale, schiarendosi la voce, giunse le mani in grembo e, cautamente, fece notare: “Ora che Madonna Sforza non è più prigioniera né dei francesi, né del papa, difficilmente un processo la riterrebbe incapace di curare un figlio... Specie valutando che ne ha altri sei e che tutti e sei, a quel che se ne sa, godono di buona salute malgrado tutte le difficoltà che...”

“Al diavolo!” gridò il Medici, picchiando il piede in terra: “A che gioco volete giocare voi due? Io vi pago! Io devo essere aiutato! Non vi pago per difendere quella meretrice della Sforza!”

Una folata di vento inattesa riaprì le imposte che Lorenzo aveva chiuso poco prima e, mentre l'uomo, borbottando tra sé improperi, andava a serrarla di nuovo, i due avvocati si scambiarono una breve occhiata. Entrambi avevano capito quale fosse il reale fine del Popolano e non lo trovavano né giusto, né legale. Sapevano, in più, che buona parte, per non dire quasi l'intero ammontare dell'eredità pecuniaria del defunto Giovanni Medici era già andata in fumo, e Lorenzo era terrorizzato all'idea che si venisse a sapere. Essere accusato di essersi speso i soldi del fratello morto sarebbe stato un suicidio, per la sua carriera politica, specie dopo che aveva passato buona parte dei suoi anni di propaganda ad accusare il Magnifico di aver fatto altrettanto con lui e Giovanni quando ancora erano minorenni, in attesa di entrare in possesso dell'eredità paterna.

In più, in tutti quei maneggi, c'era anche un'altra componente, molto più personale e impalpabile. I due legali ne erano certi: a muovere realmente Lorenzo, oltre la voglia di incamerare la proprietà edilizie del nipote, dopo quelle pecuniarie, c'era un odio irrefrenabile, irrazionale e violentissimo per la cognata.

Quella consapevolezza li spaventava, perché toglieva ogni freno logico al loro cliente, che pareva intenzionato ad avvalersi di qualsiasi sotterfugio, anche il più infimo, pur di ottenere quel che voleva.

“Rendetevi conto che c'è comunque la consistente possibilità che le vostre accuse si ritorcano una volta di più contro di voi e che...” cominciò a dire uno dei due legali, ma il Medici non aveva più voglia di sentire quei discorsi, a suo modo di vedere troppo catastrofisti e pedanti.

“Vi do qualche giorno, anzi, prendevi pure qualche settimana – concesse il Popolano, tornando a guardare i due uomini – ma voglio che formuliate un'accusa alla Sforza che sia sufficiente per aver certa la vittoria del procedimento.”

Gli avvocati, con il volto grigio di chi aveva capito ormai da tempo di aver a che fare con una testa più dura di un muro, annuirono e fecero per alzarsi.

“Il mio nome, qui a Firenze conta ancora molto.” ricordò loro il Medici, sollevando il tozzo indice, a mo' di ammonimento: “Quella donna, invece, è solo una sgualdrina. Io ho salvato la patria, lei, invece, l'unica volta in cui ha avuto a che fare con la Signoria, è venuta qui a picchiare il pugno davanti al Gonfaloniere. A chi credete che daranno credito?”

“Non sta a noi dirlo.” tagliò corto uno dei due e, in modo più sbrigativo del dovuto, entrambi salutarono, raccolsero le loro carte e si affrettarono a raggiungere la porta.

Rimasto solo, Lorenzo si massaggiò a lungo la fronte. Gli era venuta un'emicrania tremenda e più ci pensava, più il dolore aumentava. Gli capitava spesso di recente, in particolare quando pensava a cose spiacevoli come quell'annosa questione.

Forse i suoi legali avevano ragione, forse una giuria fiorentina avrebbe preferito accontentare una madre sola e vinta che non un uomo come lui, potente, ricco e invidiato da molti. La Tigre aveva dato modo di dimostrare la sua cocciutaggine, ma il Popolano pensò una cosa a cui non aveva mai pensato prima: la Sforza era reduce da una sanguinosa guerra e da una tragica detenzione. Lui stesso l'aveva vista cambiata, pur conoscendola superficialmente. Tutti quelli che avevano avuto modo di incontrarla gli avevano riferito che poco aveva della belva feroce di cui tutti avevano parlato per anni...

Sarebbe stato troppo ottimista pensare che fosse possibile stancarla per vie traverse, fino a portarla a rinunciare da sola a tutto quanto?

Probabilmente no, Lorenzo se ne rendeva conto. Tuttavia, che cosa gli sarebbe costato provare?

In fondo aveva già in parte provveduto a renderle sgradevole il soggiorno alla villa di Castello imponendole dei servi scelti da lui... Sarebbe stato davvero del tutto inutile accollarsi i costi fissi della servitù, ma, in cambio, monopolizzare tutto il resto?

“Dove stai andando?” Semiramide, appena rientrata a casa, si stava asciugando lentamente il viso, in atteso di andare a cambiarsi l'abito infradiciato dalla pioggia.

Il marito non l'aveva nemmeno notata e, se lei non avesse parlato, probabilmente le sarebbe passato accanto senza neppure vederla, tanto era assorbito dai suoi rancorosi pensieri.

“Devo scrivere delle... Disposizioni.” fece lui, laconico, soffermandosi, tuttavia, a dare un'occhiata generosa alla donna che, arruffata per colpa del brutto tempo, gli parve tornata giovane e fresca come il giorno in cui si erano sposati.

“Se riguarda nostra cognata – ribatté lei – allora preferisco non saperne nulla.”

Il Medici detestava quando la moglie chiamava la Leonessa 'cognata', ma finse che non fosse così.

“Si tratta di economia domestica – la corresse – una cosa di cui dovresti occuparti tu.”

“Se è l'economia domestica di nostra cognata – subodorò lei, capendo subito di aver fatto centro, per via delle orecchie del marito, diventate subito rosso fuoco – allora non dovremmo occuparcene né io, né tanto meno tu.”

L'uomo schiuse la labbra, ma le riserrò all'istante, facendo un gesto stizzito con la mano. Voltò le spalle alla moglie e, evitando con grandissimo sforzo di trasformare anche quella breve schermaglia nel pretesto per un furioso litigio, raggiunse la sua stanza.

Prese il necessario per scrivere e, alla luce di una candela, cominciò a spiegare come avesse deciso, nell'attesa di una migliore risoluzione giuridica, di provvedere lui stesso al pagamento della servitù di Caterina, dato che si trattava di personale da lui scelto e a lui rispondente, ma in cambio avrebbe gestito l'intera economia della villa.

“Non si dovranno più comprare lenzuola, tovaglie e forchette – borbottò tra sé, elencando alcuni degli articoli che la Sforza aveva lamentato come manchevoli, al suo arrivo alla villa – e quelli che s'hanno avranno a che bastare. E che si aggiustino, si rammendino e si rifondano, nel caso in cui siano rotte, strappate o dai becchi storti.”

 

Poco per volta la tempesta si era placata e, arrivata la sera, era rimasta solo una fitta, ma tranquilla pioggerella.

Caterina aveva schivato per tutto il resto della giornata tanto i figli, quanto gli ospiti, e aveva fatto in modo che il bagno, ordinato dopo essersi raffreddata sotto al diluvio, durasse molto più del necessario. Aveva anche mangiato in stanza, rifuggendo la compagnia di chicchessia. Non sapeva nemmeno lei dire come mai avesse dei momenti del genere e poi, invece, ne vivesse altri di profonda inquietudine, che la facevano scappare dalla solitudine, alla ricerca della compagnia di un essere vivente qualsiasi.

Aveva provato a ragionarci, ma si era solo detta che, forse, gli eventi degli ultimi due anni erano stati per lei così traumatici da mettere in crisi un equilibrio che era già in partenza più che precario.

Una volta che fuori fu buio, la donna si mise ad aspettare, sperando che Fortunati non avesse dimenticato la sua richiesta. Forse, cominciò a temere, quando le parve che fosse venuto tardi, il fatto che lei avesse trascorso la giornata come un'eremita aveva fatto pensare al piovano che avesse cambiato idea e che non avesse più intenzione di passare la serata in sua compagnia a parlare.

Era quasi sul punto di andarlo a cercare, quando sentì bussare alla porta. Disse subito di entrare pure e così Francesco, silenziosamente, le si presentò.

“Se hai ancora voglia di parlarmi di quello su cui hai riflettuto mentre eri in convento...” fece lui, sollevando un po' un sopracciglio, già immaginandosi che la donna l'avrebbe cacciato via.

“Sì, ti stavo aspettando.” sorrise lei.

L'uomo, rassicurato dall'espressione accogliente di Caterina – un'espressione che di rado aveva illuminato il suo volto, negli anni passati – fece un paio di passi avanti e poi rimase fermo, come a chiedersi dove potesse sistemarsi.

“Siediti vicino a me.” disse la Leonessa, sistemandosi sul letto e facendogli segno accanto a lei.

Un po' titubante, il fiorentino fece come lei gli diceva, ma fu bene attento a restare a una certa distanza da lei, come se non volesse, per nessun motivo, che la situazione diventasse fraintendibile.

La donna notò quell'attenzione. Non le diede fastidio, ma nemmeno le fece piacere. Si era convinta che, con quello che avevano passato, tra loro ci fosse un grado di confidenza nettamente maggiore rispetto a quello che Francesco sembrava volesse mantenere.

“Mi hai vista nuda – sussurrò lei, non riuscendo a trattenersi, alludendo a quando lui l'aveva soccorsa e aiutata a lavarsi, all'indomani della sua scarcerazione a Roma – ed eri meno imbarazzato di adesso... Non mi dirai che hai paura a starmi vicino...”

Quasi a cercare una conferma, la Sforza sollevò una mano e, senza preavviso, gli accarezzò per pochi istanti la guancia, a quell'ora ispida per colpa della barba che stava ricrescendo in fretta.

L'uomo trattenne un sussulto, e Caterina poté solo sussurrare: “Non avere paura di me, ti prego, tu no...”

Come a volerla rassicurare all'istante, il piovano, compassato e vestito di nero come sempre, si sistemò meglio, avvicinandosi un po' di più a lei.

“Ci sono altre novità?” gli chiese la Tigre, quasi che, cambiando discorso, volesse farlo rilassare un po' di più.

“Hanno eletto un nuovo Doge.” rivelò lui: “Leonardo Loredan. Dicono che abbia fatto festeggiamenti degni di un papa, più che di un Doge...”

Caterina fece uno sbuffo e commentò: “Ogni volta che viene eletto un Doge o un papa tutti si sprecano a dire quanto sia più vanaglorioso del precedente...”

Comprendendo che quell'argomento alla Sforza interessava solo relativamente, Fortunati provò a cambiare strada: “Cosa te ne pare dei due che ci hanno mandato per dirimere la questione di Giovannino?”

“Il francese non l'ho ancora visto.” ammise la Leonessa: “Il De Rossi, invece...” lasciò cadere la voce con un'alzatina di spalle, a indicare che il suo giudizio a riguardo dell'emiliano era momentaneamente sospeso.

Non poteva dire che Troilo le dispiacesse. Era un uomo di bell'aspetto, dai modi gentili, affabile, anche se non eccessivamente estroverso. Aveva un tocco elegante. Però c'era qualcosa che l'aveva lasciata perplessa fin dal principio. Forse era il modo in cui la guardava... Caterina era sempre stata abituata a essere guardata in un certo modo, da tipi come lui. Non riusciva a capire se la variabile del caso fosse lui, o se fosse lei a essere cambiata così tanto da non aver più alcun potere sugli uomini che la circondavano.

Distogliendosi dai propri pensieri, tornò a fissare Fortunati e, per una frazione di secondo, in lui intravide ancora quello sguardo che non aveva trovato nemmeno una volta nel De Rossi, e si convinse che fosse l'emiliano a non essere interessato e non lei a non essere più interessante.

“Come ti sei trovata in convento?” chiese Francesco, schiarendosi la voce, facendo del suo meglio per allontanare da sé la tentazione di avvicinarsi ancora di più a lei.

Anche se voleva restare presente a quello che si stavano dicendo, il raccoglimento di quella camera, la pioggia che picchiettava contro la finestra e la presenza concreta e terrena di una donna per cui lui avrebbe dato la vita senza esitazione lo stavano facendo confondere. Non capiva a fondo l'istinto che lo voleva più vicino a lei, che gli faceva desiderare un suo abbraccio, un suo bacio, perfino, o anche...

“Mi sono trovata bene.” rispose Caterina, risvegliandolo dal suo circolo caotico di congetture.

“Bene, bene...” Francesco annuì con forza, incrociando poi le braccia sul petto: “Hai incontrato tua nipote?”

Fu la volta della Tigre di annuire: “Sono stata con lei poco, perché... Non me la sentivo più di tanto, non subito. Però Cornelia è una bella bambina, sembra anche molto sveglia. Cercherò di starle vicina, quando potrò...”

La Leonessa non voleva parlare della nipote, perciò, dopo quelle poche frasi, passò a descrivere al piovano la vita quotidiana delle Murate, o, almeno, ciò che aveva visto lei.

“E poi c'è una cosa...” era indecisa se parlarne o meno con Fortunati, ma siccome lui sembrava rapito dal suo racconto, provò a spiegarglielo con le parole più delicate che riuscì a trovare: “Mi sono resa conto che se quelle monache vogliono un uomo, ce l'hanno.”

Siccome il fiorentino si era accigliato, senza capire, la Tigre raccontò di come avesse notato un manovale, che si occupava dei giardini, e di come alcune delle suore avessero per lui dei riguardi difficili da fraintendere. Sorvolò su come si fosse anche chiesta, senza mai volersi dare una risposta, se Bianca, nei lunghi mesi passati in mezzo alle monache, con Giovannino e Cornelia a cui badare, si fosse mai lasciata tentare al punto di consolarsi come facevano le altre abitanti delle Murate.

“In fondo le capisco.” concluse, notando come le gote e il collo del piovano si fossero fatti color porpora: “Anzi, ci sono momenti in cui vorrei avere... L'intraprendenza che aveva prima.”

“Che intendi?” domandò Francesco, non sicuro di aver capito bene.

Comprendo il disagio che Fortunati stava provando, la Sforza finse di buttarla sul ridere e rispose, cercando di assumere un tono allegro e scherzoso: “Che sei un bell'uomo, e se io fossi com'ero prima, probabilmente finiresti per passare il resto della notte qui nel mio letto, ma sotto le lenzuola.”

Il piovano riuscì a emettere una mezza risata di cortesia solo dopo un paio di lunghissimi minuti, e tanto fu sufficiente a Caterina per decidere di interrompere lì il loro dialogo.

“Ti ho fatto fare tardi...” gli disse, alzandosi: “E per parlare di nulla, alla fine... Solo una perdita di tempo.”

“Per me, stare con te non è mai una perdita di tempo.” ci tenne a far notare lui, alzandosi.

“Se sei d'accordo...” cominciò a dire lei, per poi fermarsi.

“Se vuoi io posso venire qui anche domani sera.” l'anticipò lui: “So che non è facile, aprirsi, specie in questioni legate alla fede. Se vuoi, io ti ascolterò.”

Contenta che l'uomo avesse centrato il punto senza che lei dovesse dire altro, sorrise e lo ringraziò di cuore: “Sei molto importante, per me, adesso.”

Il piovano avrebbe voluto controbattere con un'affermazione di egual entità, ma riuscì solo a chinare il capo e, già quasi alla porta, a dire: “Sono felice che tu non sia morta a Ravaldino.”

Lasciatolo uscire, la donna lasciò che quelle parole si sedimentassero nel suo animo. Tante volte aveva maledetto il suo destino per non averla fatta morire nella sua rocca, mentre combatteva, e altrettante aveva maledetto anche Giovanni da Casale, che per lei era sempre stato il simbolo vivente del tradimento e della viltà, per aver dichiarato la resa rendendola prigioniera.

Si andò a coricare sul letto, ancora vestita e senza risvoltare le coperte. Fissò il soffitto, inseguendo le ombre disegnate dalla luce delle candele. Era stato un bene, in realtà, che fosse sopravvissuta alla guerra. Aveva avuto modo di rivedere i suoi figli, di curarsi di loro, poteva combattere per l'eredità di Giovannino, poteva ancora godere della vita e...

Scoppiando a piangere senza preavviso, la Tigre si girò sul fianco, raggomitolandosi su se stessa, preda di uno sconforto immenso e che lei per prima non riusciva a giustificare. Era felice di essere viva, eppure, era disperata all'idea di non essere morta in battaglia, affianco ai suoi uomini, nella sua rocca, prima di cadere nelle mani di Cesare Borja.

Il dolore che le era stato inflitto, la paura che aveva provato, le umiliazioni, gli stenti, le ferite e ricadere nell'incubo che aveva già vissuto una volta per colpa di Girolamo Riario... Era un prezzo equo da pagare, per essere ancora viva?

Con il pianto che pian piano si acquietava, assieme con la pioggia che si stava spegnendo nella notte silenziosa della villa di Castello, Caterina si strinse al cuscino, lasciando che la stoffa asciugasse le sue guance incandescenti.

La parte razionale di sé diceva che sì, ne era valsa la pena, che ora era tutto alle sue spalle e davanti a sé aveva solo la vita, senza più guerra e senza più pericoli.

La parte più oscura, profonda e ferale di lei, invece, diceva che no, non ne era valsa la pena, e che sarebbe stato mille e mille volte meglio cadere in battaglia, così come avrebbero voluto fare suo padre e suo nonno, e invece l'uno era morto in una congiura, ignaro e disarmato, mentre l'altro di malattia, in un letto, come un vecchio...

Queste due componenti del suo spirito, entrambe presenti ed entrambe vivissime, si mordevano e si graffiavano l'un l'altra, dilaniandola e gettandola nel più profondo sconforto.

Quella notte, la Tigre si rese conto di essere fatta di vetro: sembrava dura, coriacea, tagliente, e invece le bastava un nonnulla, anche solo una piccola caduta, per rompersi in mille pezzi.

   
 
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