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Autore: time_wings    06/07/2021    2 recensioni
[In revisione]
Da… un capitolo:
“Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che, al crescere della gioia, cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza."

Questa storia, come molte altre, parla di una grande amicizia, di un amore nascosto, di un fratello abbandonato, di difficili addii. Certe cose nascono alla stazione di un treno, altre finiscono nello stesso posto. Dove ci porteranno? Be', avanti.
O… la storia di come “alla fiera dell'angst per due soldi un malandrino mio padre comprò”.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Marlene McKinnon, Regulus Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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30. Cinque minuti e trentadue

 






Aprile, 1978

Una scintilla schivò ostacoli d’aria con frenesia, puntando all’obiettivo con deviazioni erratiche. Remus ebbe anche il tempo di aggrottare la fronte, poi orientò la bacchetta sul percorso spezzato della scintilla e la illuminò come se fosse stato possibile farle prendere fuoco. Agitò la bacchetta un’ultima volta e una pioggia leggera riversò a terra la sfera di luce, spegnendola. Rimase solo fumo.
Sirius fece schioccare la lingua. “Avresti dovuto pararla. Ti sarebbe esplosa in faccia.”
“Non sono mica stupido.”
“Tocca a te.” Sirius incrociò le braccia al petto e alzò il mento con aria di sfida.
Attorno a loro, la classe del settimo anno di Difesa Contro le Arti Oscure era stata trasformata in un campo di battaglia. In sé, la cosa non era poi così strana: l’ultimo anno corrispondeva anche al livello più avanzato di incantesimi d’attacco e difesa, la differenza era che nello spirito di tutti c’era qualcosa di disperato. C’erano compagni che grugnivano dallo sforzo, fuoco che crepitava in un angolo, incantesimi che fischiavano a velocità elevatissime, eppure, sotto tutto quel rumore, c’era silenzio. Tutti stavano prendendo quella lezione sul serio, perché l’utilizzo che avrebbero fatto di quelle tecniche non era sconosciuto a nessuno.
A rendere l’atmosfera ancora più pesante era la presenza congiunta del professor Slinkhard e il preside Silente. Quest’ultimo era seduto in un angolo, su una sedia di legno mezza rotta, e scandagliava l’aula come in cerca di qualcosa, ignorando totalmente le urla del professore.
“Secondo te perché Slinkhard è sempre così svitato?” domandò Sirius, quando Remus scagliò un incantesimo semplice, ma di cui aveva omesso la formula. Sirius sgranò gli occhi e parò, contando solo sui suoi riflessi. “Impressionante, sai farli anche senza bacchetta, oltre che non verbali?”
“Non quelli di attacco. Sì, comunque, ha bisogno di una camomilla.”
Sirius scoppiò a ridere, poi tirò un incantesimo in rovescio. Brillò in aria per un attimo, prima di sciogliersi in mille scintille che piovvero addosso a Remus.
“La finisci coi fuochi d’artificio?”
“E Silente?” Sirius ignorò la lamentela e si avvicinò di più al suo avversario. Remus alzò le mani per dichiarare pace momentanea.
“Scout” disse soltanto, fermo.
Sirius sbarrò gli occhi. “Intendi che sta cercando qualcosa?”
“Intendo che sta cercando qualcuno” lo corresse. “Se c’è una guerra c’è anche un esercito. Qualcuno lo dovrà combattere.”
Sirius lo considerò con lo sguardo, dalla testa ai piedi. Remus non capì se lo stesse immaginando al centro di una carneficina o se lo stesse vedendo davvero per la prima volta in tutta la sua vita. “Allora dobbiamo metterci in mostra.”
Remus alzò un sopracciglio, scettico. “Davvero? È questo che vuoi?”
“Che altro potremmo volere?”
Per Sirius – due piedi in due scarpe, presente nel mondo appieno e non a metà, entità unica mai divisa da pensieri contraddittori – semplicemente non c’era altra scelta. Remus avrebbe voluto chiedergli se non avesse paura, almeno un po’, se pensare che Silente stesse pensando di reclutarli per combattere lo facesse davvero sentire completamente estatico e non dannatamente spaventato, se avesse ancora intenzione di divorare il mondo anche se era marcio.
Non gli chiese nessuna di queste cose. La risposta gliela leggeva già nella cenere nelle iridi e nel fuoco che vi avrebbe appiccato.
“Sei sporco qua” lo riportò alla realtà lui. Aveva un dito che spingeva nel suo sterno.
Remus abbassò la testa. “Dove?”
Troppo tardi. Sirius rise, tirò il dito verso l’alto e gli colpì il naso.
“Idiota.”
Sirius camminò indietro e alzò entrambe le braccia. Con una gli puntò la bacchetta contro. “Comunque…” attaccò tre volte di fila, rapido, mirando in punti impercettibilmente sempre diversi per eludere la parata con l’ultimo. Remus si mosse con lui e gli sorrise come a dirgli che non poteva fregarlo. “Hai presente quei due?”
Remus si voltò per seguire lo sguardo di Sirius. Lily e James davano spettacolo. Quando tornò a guardarlo, aveva già gli occhi al cielo. “Ho presente”
“Ma non hai presente il mio piano.”
“Perché ho la sensazione che finirà peggio che male?”
Sirius trattenne una risata nel naso e schivò un colpo senza neanche pararlo. “Perché non ti fidi di me. Il piano si chiama l’Evans.”
Remus rispose con un tornado in miniatura e Sirius lo disperse attorno a sé. “Poi ti chiedi perché non mi fido di te.”
“Andiamo, hai sentito quello che ho sentito io, no? Sono passati mesi e non è successo niente!”
Remus si limitò a sospirare. “Va bene, però lo chiamiamo l’Evànce” concesse infine.
Sirius avrebbe riso vittorioso, ma un attimo dopo si ritrovò bagnato dalla testa ai piedi da un attacco di Remus. “Sei proprio un bastardo.”
 
***

James avrebbe voluto capire tante cose.
La fluidodinamica era una di queste, ma in cima alla lista spiccavano a caratteri cubitali due voci: il motivo oscuro per cui Remus e Sirius sparivano nel nulla, di tanto in tanto, e l’altro motivo oscuro, ammesso che fosse diverso, per cui i suoi amici si mettevano a sghignazzare all’improvviso e confabulare come se stessero tramando qualcosa.
C’era anche un’altra cosa che avrebbe voluto capire, e questa era una nuova arrivata nella sua lista di domande, ovvero perché la biblioteca fosse improvvisamente sprofondata nel buio.
“Ehm, Potter?” la voce di Lily gli arrivò incerta dal punto in cui l’aveva vista l’ultima volta.
“Non ho idea di cosa sia successo, forse…” tastò il tavolo alla cieca, in cerca della sua bacchetta. Quella, invece, non era nel punto in cui l’aveva vista l’ultima volta. “Tu hai la tua…”
“Non trovo la mia bacchetta!”
Prima che potessero inventarsi qualcosa, James udì un fruscio alla sua destra a cui non avrebbe saputo attribuire una fonte. Le luci si riaccesero nella forma di una serie di dieci candele che formavano fluttuando un semicerchio attorno a loro.
“È…” iniziò Lily, in cerca di parole che corrispondessero ai suoi pensieri.
“Davvero inquietante?” James fornì come opzione. Si voltò verso destra e finalmente riuscì a dare una faccia al fruscio che aveva sentito al buio: al posto della sua bacchetta c’era un mazzo di margherite. Scambiò un’occhiata interrogativa con Lily. “Pix?” tentò poi, ma nessun Poltergeist fece loro visita.
La guardò inclinare il viso su un lato. Una ciocca di capelli le scivolò via dalla spalla e James pensò che non ci fosse luce più bella di quella che facevano quelle candele e il modo in cui le baciava solo una guancia e lasciava in ombra l’altra. I suoi occhi scintillavano come se non avessero aspettato altro che un motivo per farlo. Prese un respiro profondo: se fosse perché non stava respirando o perché con lei farlo sembrava più facile non gli fu chiaro.
Vide qualcosa negli occhi di Lily. Speranza? Aspettativa? Desiderio?
Scacciò quelle fantasie e si concentrò sull’unica realtà su cui avesse davvero posato gli occhi: Lily aveva baciato Dirk Cresswell. Non li aveva mai più visti insieme, non li aveva mai neanche sorpresi a salutarsi e scambiarsi convenevoli. Forse a Lily non piaceva Dirk, ma questo non significava che le piacesse lui. E James era stanco di sperare.
“Be’,” Lily ridacchiò. James captò imbarazzo e lo ignorò. “Potremmo… discutere di nuovi progetti per la scuola.”
“Hai dei progetti?”
“Pensavo a delle lezioni intensive di duelli a frequenza libera, per gli studenti degli anni inferiori al settimo.”
James aggrottò la fronte e ci pensò su, poi scrollò le spalle. “In effetti ci sono un sacco di incantesimi creativi che nessuno tiene in considerazione, quando attacca.”
“Per esempio?”
James si passò distrattamente il pollice sul labbro inferiore, pensieroso. “Ad esempio un Incantesimo Ammutolente, in battaglia, impedisce all’avversario di pronunciare incantesimi. È una cosa facilissima, non ti serve un M.A.G.O. per usarla, ma nessuno ci pensa mai. Se sei messo alle strette e sei al terzo anno puoi proteggerti anche da una maledizione senza perdono, così.”
Lily sembrò sorpresa per un attimo, poi la sua irritante voglia di dubitare ogni cosa premette per uscire. “E gli incantesimi non verbali?”
James sorrise, per nulla irritato dalla critica. “Non tutti i maghi ne sanno fare e soprattutto non con le maledizioni senza perdono. Comunque, prima che l’avversario si renda conto di non poter parlare c’è tempo per disarmarlo.”
Lily avrebbe voluto contestare nuovamente, glielo lesse negli occhi, poi cedette a un sorriso e scosse la testa. “Hai ragione.”
“È una delle mie infinite qualità.”
Lily sbuffò una risata dal naso. “Allora ci stai?”
James si chiese come facesse a non vedere che squadra magnifica formavano, che incredibile armonia di angoli rigidi di lei che lui smussava e caos di lui a cui lei riusciva a dare una forma. “Ci sto” concordò con un sorriso che era certo Lily non avrebbe mai ricambiato.
Fu smentito.
 
***

“Sei veramente brutto.”
Sirius si fermò per qualche secondo davanti allo specchio al quarto piano del castello e inclinò il viso su un lato. Ovviamente non si riferiva a se stesso, aveva gli occhi puntati in quelli del riflesso di James.
“Grazie” mormorò lui, inclinando il viso sullo stesso lato di Sirius e guardandosi negli occhi.
“Oh, no” Sirius si voltò a guardarlo: il vero lui e non il James nello specchio, “hai problemi di autostima?”
“Ho problemi di amici stupidi. Mi spieghi perché siamo qui?”
“Solo per ricordarti che sei brutto.”
Guadagnò un’occhiataccia. Din din.
Quando James non accennò a rispondere con la stessa moneta – e come avrebbe potuto, andiamo? – Sirius roteò gli occhi e, con fare teatrale, afferrò un lembo dello specchio e lo tirò di lato, rivelando un corridoio. “Pronto?”
James sorrise in quel modo in cui sorrideva quando c’era di mezzo Sirius. Sirius sorrise in quel modo in cui sorrideva quando c’era di mezzo James. Si infilarono nel corridoio ampio e profondo. Sirius lasciò scivolare lo specchio al suo posto e il passaggio piombò nel buio. Dal fondo invisibile, come un richiamo, soffiava aria fredda.
Lo percorsero con la disinvoltura di chi l’aveva scoperto e calcato almeno un milione di volte, parlando a loro agio e rincorrendosi quando le battute si facevano più taglienti e a forma di presa in giro.
Sirius fu grato della pace attorno a cui ruotava il loro rapporto. Lo era sempre, ma in quel momento un po’ di più, perché quella che James aveva preso per una semplice escursione era in realtà un complicatissimo diversivo e sapeva che avrebbe funzionato proprio perché la compagnia dell’altro significava rilassatezza.
“Dove stiamo andando?”
“C’eri anche tu quando abbiamo mappato il castello, no? Non lo sai?” Sirius rise al buio. Echeggiò.
“So che stiamo andando a Hogsmeade, ma perché?”
“Ti fidi di me?”
La risposta di James arrivò con un battito di ritardo. Abbastanza in tempo da non mettere entrambi a disagio, abbastanza in ritardo da non perdere il tempo comico. “No.”
“Peggio per te.”
Il vento si impennò, il passaggio si assottigliò nell’ultimo tratto fino a costringere i ragazzi a camminare in fila indiana. Uno scrosciare d’acqua rimbombò tra le pareti. Era impossibile localizzarlo. Fuoriuscirono dal retro di una statua al centro di una fontana, l’acqua zampillava sulle lenti di James, il che risultò in un’imprecazione sussurrata. Sirius rise a voce piena, invece.
Camminarono su dei ciottoli che portavano fino alla cornice della fontana. Erano rialzati, ma non abbastanza da impedire che si bagnassero l’orlo dei pantaloni e dei mantelli, nel tragitto all’interno della vasca.
“Spero ne valga la pena” mormorò James strizzandosi i pantaloni
, una volta approdato a riva.
Sirius ignorò sia la sue parole sia i suoi rimedi contro un’influenza assicurata e si fiondò tra le strade di Hogsmeade come se ne avesse posseduto le chiavi.
 
Ne era valsa la pena, glielo leggeva nella risata.
La strada correva via, lontana come spaventata. Il vento rombava, ronzava, strillava, fischiava, soffiava nelle orecchie e accanto a lui, ma aveva una consistenza più densa di quella che si poteva sperimentare su una scopa. Sirius lo sapeva anche se volare non era il suo forte ed era sicuro che James, seduto sul sellino dietro di lui, stesse facendo gli stessi paragoni.
Respirò quel vento e la promessa che gli sussurrava, qualcosa su un futuro che viveva alla fine di quella strada, immerso tra montagne scozzesi senza nome che avrebbero scalato a mani nude pur di rimanere in vita.
Non importava quello che dicevano Peter e Remus, non importava il clima grave che si respirava a scuola, non importavano le raccomandazioni dei genitori di James, non importavano le opinioni di tutti quelli che, in sette anni di amicizia, avevano detto a James e Sirius che non erano invincibili.
Loro erano invincibili.
“Sto respirando così tanto” James urlò contro il vento, sollevando, in un momento di spericolatezza, le mani dai fianchi di Sirius, “che credo di non respirare.”
Sirius rise, andavano così veloci che la sua risata si sparse su due chilometri.
Erano invincibili perché erano vivi, ed era impossibile negare questa verità a cento all’ora nel bel mezzo del nulla, su una motocicletta che avevano costruito insieme. Non potevano essere altro che vivi, perché erano insieme e il verde degli alberi aveva una tonalità più vibrante, il gracchiare dei corvi un suono più squillante, l’odore di gomma che bruciava l’asfalto aveva sapore di scintille.
Sirius sentì un vuoto nel petto, simile a quello della caduta, ma al gusto di qualcosa che mischiava la velocità alla libertà. Non avrebbe saputo dargli un nome o riconoscerlo in un mare di altre emozioni intense o semplicissime, ma seppe che da vecchio, con pesi, responsabilità e bagagli, avrebbe voluto provare nostalgia di quel momento e di quello specifico incastrarsi di respiri.
Aprì la bocca e per un attimo pensò che avrebbe pianto, invece gridò. Un suono cristallino che rotolò come una risata. Qualcosa gli esplose nel petto, nel bel mezzo di quel vuoto, quando urlò anche James.
“Voliamo?” gli domandò Sirius e avrebbe sentito la sua risposta da qualche parte nel sangue anche se James non l’avesse verbalizzata.
Poi la moto volò.
 
Atterrarono qualche minuto dopo su un promontorio, la notte a un passo dall’annullare i colori in cielo. In lontananza, Hogsmeade era l’unica fonte di luce, perché una collina copriva i tetti appuntiti di Hogwarts.
Sembrava che fosse calato un velo, una coperta trasparente ma filtrante. La differenza fra vita e morte.
Loro due, soli, sull’orlo di quel mondo.
Sirius affondò una mano in tasca e si accese una sigaretta. Guardò James, un’intesa che non aveva mai avuto bisogno di parole, ma lui parlò perché non era proprio capace di evitarlo.
“Non importa cosa accadrà” James gli sorrise come se fosse stato a un passo dallo sganciare una bomba puzzolente, uno scherzo esilarante che avevano messo a punto insieme, “io sarò sempre dalla tua parte.”
Sirius soffiò fuori del fumo e fece schioccare la lingua, come se fosse stato a un passo dallo sganciare una battuta un po’ arguta, un sorriso beffardo che James sapeva di meritare. Invece distolse lo sguardo e disse: “Lo so.”

***
 
Una delle cose più divertenti del mondo, secondo il sadico punto di vista di Sirius Black, era godersi lo spettacolo che sapeva diventare Remus Lupin quando era a disagio per qualcosa per cui nessuno era a disagio.
Quindi, quando Remus tornò in Sala Comune ansimando come un matto per aver corso per quella che Sirius era certo fosse solo una rampa di scale, quasi scoppiò a ridere. E rischiò di farlo davvero quando si ricordò che il motivo per cui si trovava in quella situazione era il loro stupidissimo piano da Cupido.
Non rise, però, perché Sirius ci teneva alla sua vita.
Remus mosse due dita come a invitarli con urgenza a liberare la Sala e Sirius si guardò attorno con disappunto. Tre compagni notturni stavano ancora studiando non troppo lontano da loro.
“Oh no, Peter!” si lamentò, un tono teatrale e decisamente più alto del solito. Peter strabuzzò gli occhi, accanto a lui, e aggrottò la fronte. “Hai dato gas ai motori, eh? Cos’hai mangiato?”
I ragazzi alzarono gli occhi dai loro libri nello stesso momento in cui Peter arrossì. “Io non ho fatto nessuna…”
“Santo cielo, che puzza!” Sirius si rivolse ai compagni Grifondoro come se fossero stati dei superstiti. “Se volete un consiglio, sgomberate prima che arrivi da voi.”
“IO NON HO FATTO NIENTE!”
Ma i tre compagni si alzarono con una tripletta di espressioni di disgusto, imbarazzo e compassione.
Sirius incrociò le braccia al petto e annuì con fare esperto. “È la frase tipica dei colpevoli.”
E, nessuno ne fu sorpreso, i ragazzi lasciarono vuota la Sala Comune.
Remus li raggiunse pratico e, solo con un gesto della mano, indicò loro di nascondersi nella nicchia a muro sulla rampa di scale che portava ai dormitori. Il piano era stato semplice ma funzionale: Sirius aveva evitato per tutto il pomeriggio che James mettesse piede nel dormitorio, mentre installavano le fontane, costringendolo quindi a partire per le ronde senza neanche cenare.
“Ma che ti salta in mente?” sussurrò Peter, arrabbiato. La combo sussurro e rabbia aveva un effetto più buffo che minaccioso.
“Non sapevo che fare, ho improvvisato!”
“E non potevi improvvisare senza coinvolgermi?”
“Oh, andiamo Pete, chi si sarebbe mai messo a urlare ‘attenzione, attenzione! Vi comunico che ho appena reso questa stanza irrespirabile con una scorreggia’? Dovevo dare per forza la colpa a te!”
Remus, nei pochi centimetri quadrati che avevano a disposizione, si voltò a guardarli seccato. Non doveva distinguere molto dei loro visi nel buio – era esattamente il motivo per cui erano nascosti lì, in fondo – ma Sirius fu sicuro che non ne avesse bisogno, per guardarli male. “La smettete? Non funzionerà mai se ci scoprono, cosa che accadrà, se continuate non chiudere la bocca.”
“Scusa” risposero i ragazzi in coro.
Tuttavia il loro infallibile piano non funzionò per un altro motivo. Un motivo di tipo… pratico.
A varcare la soglia della Sala Comune Grifondoro fu solo Lily Evans, in tutto il suo solitario splendore.
Remus, Sirius e Peter la guardarono aggirarsi per la Sala Comune per qualche altro secondo, prima di accettare il fatto che James non sarebbe arrivato nei minuti successivi. Uscirono allo scoperto uno a uno. Venir fuori dalle ombre era una questione che poteva lasciare sconcertati quelli costretti a fare da spettatori, quindi non fu una sorpresa il fatto che Lily fece un salto fin quasi alla Torre di Astronomia.
“Ma da dove saltate fuori?!”
Sirius ignorò la domanda. “Dov’è James?”
Lily lo guardò come se fosse stupido. Sirius pensò che la sua valutazione fosse del tutto sbagliata. “Ha detto che… voleva farsi una doccia, perché?”
“James che si fa una doccia?” intervenne Peter. Il fatto che fosse genuinamente sorpreso la diceva lunga sull’igiene personale del loro amico.
“Già.”
Adesso doveva fare la doccia?”
“Il bagno dei prefetti a quest’ora è molto tranquillo.”
Sirius scosse la testa, come se Lily avesse preso a parlare un’altra lingua. “Ma c’è il coprifuoco!”
“Non ci credo,” Lily si portò una mano al petto, sconvolta, “Sirius Black ha questa parola nel suo vocabolario.” Lui alzò gli occhi al cielo. “Scusa, è che credevo non lo sapessi, visto il numero di volte in cui sei nei corridoi fuori orario.”
Sirius assottigliò gli occhi e la guardò scambiare un’occhiata divertita con Remus, prima di dirigersi verso le scale per i dormitori. Non le rispose a tono soltanto perché Remus lo spinse indietro di peso.
Lily augurò una buona notte a tutti, ricevendo mormorii indistinguibili in risposta.
Quando i ragazzi udirono la porta chiudersi, qualche piano più su, seppero che una giornata intera di complotti e diversivi era risultata comunque in un fallimento.
Per fortuna, però, quando ti chiamavi Remus Lupin avevi sempre un piano B. Quella notte forse Lily e James non si sarebbero dichiarati amore eterno, questo non significava che non ci fosse spazio per altri tipi di confessioni.
 
James rientrò in dormitorio che aveva ancora i capelli umidi. Sirius diceva che quello era il momento esatto in cui prendevano vita e gli impedivano di addomesticarli. Forse aveva ragione e forse glielo avrebbe rinfacciato ancora una volta.
Ma quando varcò la soglia del dormitorio, Sirius non gli rinfacciò proprio niente. Scattò in piedi come se le molle del suo letto fossero state compresse e gridò, a voce un po’ più alta del socialmente accettabile, “Va bene!”
Remus, dal suo letto, sollevò un sopracciglio, cauto. James incrociò il suo sguardo abbastanza a lungo per intuire che lui ne sapeva qualcosa ma non per capire cosa.
“Va bene?” domandò James, chiudendo la porta senza dare le spalle a Sirius. 
“Va bene. È il momento. È giunta l’ora.”
Peter alzò gli occhi dalla sua guida avanzatissima sugli Scacchi dei Maghi. James si ricordò che sapeva leggere. “Volete già andare a dormire?”
“No, c’è stata una… riorganizzazione, una disomogeneità di rapporti interpersonali che va affrontata.” Sirius scambiò uno sguardo con Remus, che invece chiuse gli occhi ed esalò un respiro pesante, sconfitto, esausto, consapevole. Consapevole del fatto che avrebbe dovuto prendere le redini di una situazione che James non aveva capito e di cui cercava indizi in ogni sguardo e tono di voce.
“Puoi parlare in una lingua che capiamo?”
“L’unica lingua che capisci tu, Pete, è quella con cui ti mando a…”
“Davvero?” lo interruppe Remus. “Vuoi insultarlo adesso?”
“Se lo merita.”
“Tu meriti almeno una ventina di detenzioni, ma come vedi non c’è cosa più ingiusta della giustizia.”
“Io continuo a non capire niente” si intromise James. Intanto i suoi capelli stavano prendendo effettivamente vita ed eccoli che già s’apprestavano a sfidare le leggi della gravità.
“E adesso te lo spiego” Sirius distese una mano davanti a sé e rassicurò James come se avesse avuto le chiavi del mondo in tasca e un accesso a ogni porta. In realtà non aveva neanche le chiavi del bagno dei prefetti, per quanto ritenesse questa cosa un oltraggio. “Vi stavo dicendo che a un certo punto nel tempo abbiamo ristrutturato le fondamenta, ricostruito i pilastri, abbiamo riedificato…”
“Non ci credo.”
“Abbiamo tipo cambiato gestione…”
Remus si schiaffeggiò le guance con entrambe le mani e prese il timone di quella nave bucata. “Peter, James, io e Sirius stiamo insieme.”
Poi passarono i secondi. I famosi interminabili secondi che toccavano a tutti quelli che facevano questo genere di confessioni normalissime in un mondo in cui non erano ritenute normali.
Peter tagliò la tensione alzando una mano come a prenotare la parola. Poiché tutti lo guardarono in attesa che la prendesse, si decise a vuotare il sacco: “Sì, no, dicevo… Non siamo sempre tutti insieme? Voglio dire, non ci stacchiamo un minuto. Non posso neanche farmi la doccia senza che mi scambiate il bagnoschiuma con la crema depilatoria.”
Remus sollevò un sopracciglio. “Pete, io ti difendo, ma un po’ te lo meriti.”
Altri tre, quattro, cinque, quindici secondi di silenzio. Forse Remus voleva strapparsi i capelli dalla testa. Forse Sirius non l
avrebbe fatto neanche a pagarlo, ma era teso. Un pochino. Non si notava. Era teso?
“AAAAAAAH!”
Remus guardò James. James guardò Remus. Sirius guardò James. James guardò Sirius. Peter li guardò guardarsi.
“Non sapevo fossi masochista” fu l’unico commento di James, rivolgendosi a Remus con le sopracciglia aggrottate. Sembrava che stesse tentando di capirci qualcosa.
“Una volta al mese per sette anni, adesso a tempo pieno.”
Sirius alzò un dito. “Io sono qui, eh.”
“Da quanto tempo?” domandò Peter.
“Un anno e mezzo di temporeggiamenti.”
James allargò le braccia. “Ma perché io non so mai quello che succede in questo dormitorio?”
“Perché sei un abile osservatore” commentò Sirius, stringendosi nelle spalle.
“Tu credi di sapere tutto, eh? Lo sapevate che Pete ha baciato Mary?”
“Pete ha baciato Mary?” chiese Sirius, forse aveva optato per una dislocazione mandibolare in piena regola, altrimenti non si spiegava.
Remus guardò Sirius e James bisticciare sulle verità nascoste di quel dormitorio e fare battute che avrebbe voluto dimenticare sui lati più intimi della sua relazione, in una dimensione – una bolla – tutta loro in cui potevano essere lupi mannari e innamorati senza finire tra gli emarginati della società. E forse la differenza tra il ragazzino di dodici anni pietrificato davanti alla scoperta che i suoi amici sapevano della sua licantropia e il mago adulto che prendeva parola con sicurezza e la offriva lui, la verità, stava tutta là: nello spazio di una scelta.

***
 
C’era un momento dell’anno preciso e brevissimo, fatto solo per chi sapeva coglierlo. Era il momento in cui il cielo si spaccava, il tepore si infilava tra le crepe fra le nuvole, soffiando sulle cime delle montagne e iniziando a sciogliere testardo la neve da lì. I colori si facevano più vividi, il sole più caldo, ma solo un pochino.
E, quando qualcuno lo notava, poi lo facevano tutti.
La prima persona a vedere la primavera del 1978 fu Lily Evans. Puntò un dito oltre le finestre, qualche minuto dopo la fine delle ultime lezioni della giornata e, per il resto del pomeriggio, le montagne scozzesi furono di tutta la scuola.
I compagni si riversarono nel cortile, al Lago, in cima alle torri e in qualunque posto che non fosse al chiuso. C’era chi aveva rimandato le scampagnate con la sua dolce metà, chi aveva afferrato scope e ginocchiere e aveva eluso i divieti di volare con la scopa per il perimetro della scuola, chi invece amava andare a correre. I Malandrini, invece, avevano l’Evànce.
“Fermo fermo fermo. Alt!” Sirius afferrò James per le spalle e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Gettò un’occhiata alle spalle del suo amico e incrociò gli sguardi urgenti di Peter e Remus. Serrò le labbra e mosse due dita in una sollecitazione troppo evidente di fare in fretta!
“Ma che…” James fece per voltarsi, ma Sirius gli schiaffeggiò una guancia e lo costrinse a guardarlo. 
“Ehi!”
“Seguimi.”
Si infrattarono in un muro ad angolo. Sarebbe quasi sembrato equivoco se Sirius non avesse avuto la faccia di uno che era stato costretto a gestire la parte più difficile del piano e a farci anche i conti.
James, spalle al muro, osservò Sirius guardarlo come se stesse prendendo le misure per la bara. “Tutto bene?”
Il ragazzo incrociò le braccia al petto. “No.”
James sollevò un sopracciglio e deglutì confuso. Sirius non aggiunse altro e lui non gli pose ulteriori domande.
“Questo vale almeno una vita di Burrobirre” mugugnò Sirius, affondando le mani in una tasca e tirando fuori una bottiglia di gel e un pettine a denti larghi.
James sgranò gli occhi, inorridito, e scosse la testa energicamente. “Scordatelo. Non ci pensare neanche.”
“Credi che a me faccia piacere? Siamo sulla stessa barca.” Sirius stappò la bottiglia di gel e se ne lasciò cadere qualche goccia sul palmo di una mano. Tante gocce. Quello era James Potter, d’altra parte.
“Ma perché?” la domanda fu posta con la stessa disperazione di un condannato a morte in cerca di grazia.
Sirius non rispose. Sfregò le mani tra loro e fu costretto a lottare con quelle di James e una tonnellata di gel tra le dita. Gli schiacciò una mano in testa e iniziò a pasticciare seguendo precisamente nessun ordine logico. Qualche volta si sentì audace abbastanza da tentare di districare i capelli con il pettine. Al terzo slancio di audacia il pettine si incastrò.
“Secondo te sanno pensare? Hanno libero arbitrio?”
James si arrese alla sua tortura. “Me lo chiedo da diciotto anni.”
“Secondo me sì.” Sirius tirò il pettine via dai suoi capelli. James, a braccia conserte, serrò solo un occhio in segno di fastidio, ma non si lasciò scappare neanche un lamento.
“Sì, infatti.”
“Ci siamo” annunciò Sirius, dopo qualche minuto di silenziosa creazione divina.
Non c’erano per niente, in realtà. I capelli di James consistevano a quel punto di una massa informe spaventosamente simile a un buco nero e una serie di punte impregnate di gel che seguivano gli stessi percorsi casuali di prima ma in maniera più… rigida e appuntita per colpa del gel. In più puzzavano di sostanze chimiche. Il look finale assomigliava a quello di un pulcino artificialmente spelacchiato e lisciato in maniera decente solo su una zona limitatissima.
“Ci sei riuscito?”
Sirius considerò le sue opzioni per qualche secondo, poi annuì deciso. “Sì.”
Non era vero.
James sorrise e a Sirius fece pena.
 
“Oh, Lily!”
Al limitare del cortile lastricato e a pochi passi dal viadotto,
James si avvicinò alla panchina su cui sedeva la ragazza. Lily gli sorrise e lui, mentre si avvicinava e prendeva posto accanto a lei sulla panchina, giudicò tutte le coincidenze della sua giornata come un po’ troppo sospette.
“Che ci fai qui?”
Lily si strinse nelle spalle. “Marlene…” alzò gli occhi dalle pergamene che stava consultando e cercò di trattenere una risata. “Che hai fatto ai capelli?” Un sorriso riuscì a sfuggire ai suoi tentativi di reprimerlo.
James allargò le braccia. “Sirius” offrì come unica spiegazione. A Lily sembrò bastare.
“Senti, per le lezioni intensive…”
Ma, prima che Lily potesse terminare la frase, due fontane di coriandoli esplosero ai due lati della panchina.
C’erano due dettagli interessanti della faccenda: il primo era che due fontane ai lati di una panchina non c’erano mai state, il secondo era che in genere le fontane non avevano niente a che fare coi coriandoli.
“Ma che diavolo…”
Anche James non riuscì a concludere la sua frase, perché un mazzo di gigli bianchi e rosa gli cadde dal cielo meticolosamente impacchettato di azzurro.
C’erano due dettagli peculiari della faccenda: il primo era che i fiori in genere non cadevano dal cielo, il secondo era che impacchettare di azzurro fiori rosa e bianchi era la scelta più stupida che James avesse mai visto fare.
“Lily, ti giuro che io non c’entro nie…”
A quanto pare James e Lily erano destinati a non finire nessuna delle loro frasi. Qualcosa in cielo fischiò, sfidando la gravità e puntando al cielo. Lily si voltò di scatto a dare un’occhiata.
Un’esplosione di fuochi d’artificio disegnò la sagoma di un cuore rosso nel cielo cobalto della prima sera primaverile dell’anno.
Uno strappo di pergamena levitò davanti agli occhi di James giusto il tempo che lo leggesse: “Chiediglielo adesso” poi bruciò su se stesso e si dissolse in una colonnina di fumo, a qualche centimetro dai capelli di Lily, ancora voltata a osservare i fuochi d’artificio.
James si guardò attorno alla ricerca di un oggetto ben identificato che doveva assomigliare alla sagoma dei suoi dannati migliori amici. Cercò di richiamare l’ultima volta che aveva visto il suo mantello dell’invisibilità in giro per il dormitorio e, quando gli saltò alla mente l’immagine del mantello lanciato per metà nel suo baule aperto, fu certo che non li avrebbe mai individuati.
Tornò con gli occhi ai fuochi d’artificio e alla cascata di cuori ridicoli che sapevano più di sfottò che di sostegno.
E poi la verità scoccò. Il suo corpo si orientò sulla risposta corretta un momento prima che anche il suo cervello ne prendesse coscienza. Per questo ebbe un momento soltanto in cui tremò e si chiese perché.
Lily aveva detto che era stata Marlene a portarla lì. Lì dove erano posizionate le fontane. Lì dove erano caduti i fiori. Lì dove la vista sul cielo illuminato dai fuochi era perfetta, incorniciata dalle mura della scuola. Lì dove i Malandrini avevano organizzato uno scherzo alle sue spalle. Se Marlene sapeva di dover portare Lily , era perché il pezzo di pergamena bruciato non era una presa in giro, ma un suggerimento.
Lily si voltò a guardarlo, il viso inclinato su un lato. Sorrideva. “Hai gli occhiali sporchi.”
“Davvero?” riuscì a chiederle lui.
Lei rise e glieli sfilò. A James sembrò di vivere quell’esperienza in terza persona. La guardò strofinare l’orlo della sua camicia contro le lenti. Non si chiese perché non avesse usato la magia. Lily completò l’opera e glieli rimise come se non avesse saputo farlo da solo.
“Meglio?”
No. Erano più sporchi di prima. “Sì.”
Lily lesse tra le righe e scoppiò a ridere.
James pensò ai suoi capelli e a quanto dovesse sembrare brutto accanto a lei. Sul serio, qualunque cosa avesse fatto Sirius non poteva essere un favore.
Quello fu l’ultimo pensiero che il suo cervello riuscì a elaborare, poi fu cristallizzato in favore del black out più totale, perché Lily si sporse in avanti e lo baciò. Poteva aver perso la testa, ma ebbe la prontezza di ricambiare.
Le emozioni di James Potter erano un’accozzaglia di sentimenti semplici o dignitosi abbastanza perché il mondo potesse guardarli. Quelli più complessi, aggrovigliati, inspiegabili e ingombranti venivano abbandonati da qualche parte sul fondo, mascherati da altri privi di profondità.
Tutti sapevano che gli piaceva Lily Evans. Era un battuta, una leggenda, ‘le fatiche di James Potter’, l’aneddoto della scuola, ma nessuno aveva mai visto il desiderio disarmante, quella tendenza verso una felicità che aveva visto, che doveva esistere perché quando la guardava gli sembrava che ne valesse la pena. Qualunque cosa fosse, questa pena – crescere, vivere, arrampicarsi sulle vette del pianeta –, valeva qualcosa se c’era anche lei. Sembrava la strada giusta, sembrava il futuro e sembrava la cosa che ti faceva sorridere quando eri stanco.
Quel bacio fu una dimostrazione matematica.
Era almeno cinquanta volte meglio di come l’aveva sognato, a essere del tutto onesti. James aveva baciato altre ragazze, ma non aveva mai sentito le trombe, le orecchie otturate come sott’acqua, le stelle cadenti in cielo. Altro che trombe, quella fu una sinfonia, mille metri sotto il livello del mare e dieci fottute stelle che esplodevano in cielo.
Quello fu assolutamente fuori di testa, l’ultima striscia per completare un cubo di Rubik.
Qualche secondo dopo, James si scostò. Tirò una bella boccata d’aria e cercò la fronte di Lily con la sua. “Non respiro, credo di star morendo.”
Era buffo. Non doveva essere attraente e virile, ma non gliene poteva fregar di meno: stava per esplodere.
Lily però si mise a ridere e gli rubò un altro bacio sulle labbra. Innocente, sì come no: benzina sul fuoco.
“James?” Lily si tirò indietro e lo guardò negli occhi, un sorriso sulle labbra vispo quasi in maniera irritante. “Speravo di raggiungere una specie di pace.”
Lui sollevò un sopracciglio. In un mondo in cui Lily l’aveva baciato, James non sentì più il bisogno di cercare trucchi per impressionarla. Non sentì il bisogno di impressionare più nessuno, a dire la verità. “Una pace?”
“Una pace.”
James ricordò brevemente la prima volta che le aveva chiesto di uscire, due anni prima. Non fece in tempo a sgranare gli occhi.
“Possiamo parlarne davanti a una Burrobirra, la prossima volta che andiamo a Hogsmeade.” Lily confermò i suoi sospetti.
Ignorò il fatto che avesse scimmiottato la sua voce e decise di stare al gioco. “Mi stai chiedendo di uscire?”
“Sì.”
“Non lo so, Evans, sono Caposcuola, devo controllare la mia…”
“Allora non fa niente, fa’ finta che non abbia detto…”
“NO! SONO LIBERO, quando vuoi. Anche adesso.”
Lily rise, James avrebbe voluto guardarla male, ma il problema era che non riusciva a smettere di sorridere.
“‘fanculo Dirk Cresswell” mormorò attraverso una risata.
“Non ho capito.”
“Niente.”
 
“Gliel’ha chiesto lei?” Sirius sgranò gli occhi e scosse la testa. “Perdente” ma sorrideva.
“Il tuo commento è davvero maschilista” lo riprese Remus. Nessuno aveva capito perché tutti stessero sussurrando.
“Soprattutto perché a te l’ho chiesto io” si aggiunse Marlene, ricordando i vecchi tempi. La parola chiave era ‘vecchi’.
Remus scoppiò a ridere.
“Porca paletta” aggiunse Peter, perché questo era ciò che aveva da dire a riguardo.
“Già” si accodò Marlene.
“L’Evànce è andato in porto. La nave è salpata. L’aquila è tornata alla base.”
Passò qualche secondo di silenzio. La privacy di James e Lily non era un loro problema, evidentemente, perché non si erano spostati di una virgola dal loro nascondiglio.
Alla fine Remus prese di nuovo la parola: “Tu non me l’hai mai chiesto.”
Sirius si voltò a guardarlo, le sopracciglia accartocciate. “Tu non me l’hai mai chiesto.”
Remus non rispose. Sirius addolcì lo sguardo.
“Vuoi uscire con me e portarmi a fare i bisogni, domani pomeriggio?”
“Sai che ti dico? Meglio se non me lo chiedi.”
“Va bene.”
“Va bene.”
Peter sospirò. “Va bene.”

***
 
Marzo, 1998
Peter Minus aveva indossato il Cappello Parlante per cinque minuti e trentadue, ovvero lo stesso tempo che ci aveva messo a crescere.
Generalmente ‘crescere’ era un processo lento e graduale, ma Peter era passato dal tenero ragazzino incapace all’ago della bilancia in una manciata striminzita di secondi. Cinque minuti e trentadue e il domino di cause-effetto si era attivato in direzione della morte di un amico, l’incarcerazione di un altro, il compimento di una profezia, la fine di una guerra e dodici anni da topo.
La verità era che niente, proprio niente, durava solo il tempo in cui si realizzava. Al mondo non era mai esistita alcuna causa, ma solo effetti concatenati. Conseguenze.
Alla fine del mondo sarebbero rimaste fiamme e conseguenze.
La vita galleggiava sempre in medias res: non era che un piombare continuo in circostanze già avviate. Non esisteva un punto di inizio, solo un costante ritrovarsi a metà di una storia. A seconda di dove si iniziava a guardare, gli eventi si srotolavano in una parvenza fitta di dettagli così fini da non lasciare a nessuno il modo di guardare le cose dall’alto e prevederne l’esito, sedotti da distrazioni che rendevano impossibile distinguere il tratto che univa i puntini.
Peter Minus era il prodotto delle conseguenze.
E, alla fine della sua storia, non aveva trovato l’amore.
Alla fine della sua storia c’erano delle scale che portavano in basso, in un buio incompleto. Non si chiese cosa mancasse, a quel buio, non si chiedeva più niente, perché il mondo sapeva di sabbia e di grigio.
Forse avrebbe fatto meglio a farlo.
“State indietro,” disse, la voce tremante e l’inquietudine stipata da qualche parte in un cuore umano e non di leone. “State lontani dalla porta. Adesso entro.”
Quando spalancò la porta, un attimo dopo. Peter vide solo tre sfere luminose fluttuare nel buio. Il silenzio squillava nelle orecchie come un orologio antico.
Gli ultimi cinque minuti e trentadue della sua vita iniziarono nell’istante successivo, quando due paia di braccia gli si scagliarono addosso con violenza ostinata. Una mano gli finì in bocca, un’altra gli strinse quella con cui impugnava la bacchetta.
Questo significava solo una cosa: aveva ancora una mano libera.
Senza rifletterci, Peter la ancorò alla gola del ragazzo davanti a lui. Un silenzio fatto di mani che impedivano di parlare riempì la stanza di gemiti interrotti e gorgoglii.
“Che succede, Codaliscia?” la voce di Lucius Malfoy risuonò dall’alto, un’eco nel corridoio che sembrava porre la stessa domanda più volte.
“Niente!” ribatté Ron Weasley, imitando la sua voce. “Tutto a posto.”
Harry Potter boccheggiava attorno alla morsa della sua mano d’argento, colpendola invano con intensità calante. “Mi vuoi uccidere, Codaliscia? Dopo che ti ho salvato la vita? Sei in debito con me.”
Ma Codaliscia era in debito con tutti, il che significava anche non essere in debito con nessuno. Niente era colpa sua, niente era merito suo. Era il prodotto delle conseguenze che avevano aggrovigliato così stretto il futuro da rendere quel nome – Codaliscia – qualcosa di completamente diverso dal modo in cui era nato.
Era un’altra vita, quella in cui tre ragazzi gli versavano addosso un barattolo di cervelli di topo conservati in una sostanza di cui non aveva mai conosciuto la provenienza, quella in cui quel nome veniva scritto a caratteri eleganti su una pergamena ripiegata più volte, testimonianza della loro grandezza. Era un’altra vita, quella in cui baciava Mary MacDonald senza un briciolo di quella vecchia paura, chiedendosi perché mai dovessero combattere. Una vita in cui scopriva, con amarezza, che lei provava in realtà qualcosa per James, che non era mai riuscito a liberarsi una volta per tutte della sua ombra. Una vita in cui, una volta trovato il coraggio di affrontare i suoi amici, era stato nuovamente oscurato da una nuova, brillante idea di James.
Perfetto, geniale, eccezionale, straripante di onore, amore, vitalità. Un passo avanti ma anche una stupida mano tesa indietro per non abbandonare nessuno.
E adesso stava soffocando suo figlio.
Vide prima gli occhi di Lily guardarlo sorpresi, poi realizzò di aver mollato la presa sulla gola di Harry. Sconcertato a sua volta, cercò di rimediare all’errore divincolandosi con più decisione.
“Questa la teniamo noi, grazie” sussurrò Weasley, sfilandogli la bacchetta dalla mano ancora umana.
Poi Peter percepì qualcosa di metallico muoversi, costringendo il suo corpo a seguirlo a filo. Spostò lo sguardo da Harry Potter alla mano d’argento: le dita erano contratte, come vittime di un crampo. Si mossero verso la sua, di gola, senza che potesse governarle. Poi strinsero.
“No…”
Peter distinse come da lontano Ron e Harry tentare di aiutarlo.
Cadde in ginocchio, la realtà svaniva agli angoli, bruciata come una fotografia non ancora sviluppata quando si scontra con una lingua di luce.
Cinque minuti e sedici e respirare non gli parve più una cosa tanto naturale. Con uno spicchio di coscienza, riconobbe che quella era una punizione, il conto salato che distingueva il lato giusto da quello sbagliato in una guerra: la rapidità con cui un regalo diventava una corda da impiccato.
Cinque minuti e ventuno e la paura si impennò. Questo era quello a cui non si era mai arreso, il punto cruciale della sua paura. In onore della vita aveva sacrificato l’amicizia, rinunciato alla fiducia, all’amore e alla sicurezza. Per sfuggire alla morte aveva riorientato assi terrestri e tradito le sue ombre.
Cinque minuti e trenta e Peter Minus era prossimo a un ricordo, uno scorrazzare di zampette di topo nel cortile della scuola, disperso nella trama di un tempo che esisteva per lui quasi solo all’indietro. Peter, Pete, Codaliscia, Scorza, poi Codaliscia di nuovo, smarrito da qualche parte tra il Voto Infrangibile che aveva suggellato e l’Incanto Fidelius che non aveva onorato.
Cinque minuti e trentuno e Peter non voleva morire. Aveva una paura fottuta. Era una cosa viva, pulsante, fisica. Aveva il volto della delusione, poi del disappunto, poi della rabbia cieca. Si trasformava in quello di tutte le persone che l’avevano ferito, successivamente in quello di tutte le persone che l’avevano abbracciato, consolato, ascoltato, anche solo sfiorato. Infine si trasformava in tutte le persone che lui aveva ferito, in tutte quelle che aveva tradito. Al mondo esistevano gli esploratori, persone speciali che non appartenevano a nessun luogo. Poi c’erano gli opposti degli esploratori: quelli che vivevano con lo zaino in spalla, ma senza alcuna mappa; quelli che scalavano montagne solo nei sogni; quelli che sapevano vivere sulla soglia del via anche per anni, senza mai trovare il coraggio per partire. Non era lui ad avere paura, non l’aveva mai avuta. Possedere qualcosa era un atto troppo forte, troppo decisivo, la quintessenza dell’autoaffermazione. Era sempre stata la Paura ad avere lui e ancora non voleva morire. Non voleva morire. Non voleva morire. Non voleva morire!
Non voleva-
Cinque minuti e trentadue e il mondo si spense.
Peter Minus non era il prodotto delle conseguenze. Era il prodotto delle sue scelte.
Lo siamo tutti.








 
Ntdlciaaaao ma SBAGLIO o è passata una vita? Ma soprattutto perché lo faccio notare? Questo capitolo è stato scritto un anno fa, un mese fa e pure ieri. Immaginate che stress vederlo crollare a pezzi con questa COMICITA' MA CHI ME L'HA CHIESTA.
Voi non avete idea che peso assurdo sia scrivere 'sti capitoli andando cinquantasette volte al minuto a cercare altre scene dei vecchi perché è il momento di riprenderle.
Non ho niente da dire, la direzione è chiara a tutti, la vedete tutti, io forse un po' meno. Mancano tre capitoli e uno sputo e anche se so che state facendo 4-1=3 ci tengo a gongolare dicendovi che invece avete fatto male i vostri conti e che a 200k parole superate mi conoscete abbastanza da sapere che fare previsioni, con le mie cose instabili, ci porterà tutti in un burrone.
That being said, crediti a This is Us. Il concetto del "contrario di un esploratore" è ispiratissimo al loro "il contrario di un astronauta". Crediti pure a The Raven Cycle perché "alla fine del mondo sarebbero rimaste fiamme e conseguenze" è palesemente copiato ispirato a "Segreti e scarafaggi. Ecco cosa rimarrà alla fine di tutto" grazie Maggie le tue metafore sono la mia vita. La scena della moto, invece, è stata rigorosamente scritta ascoltando "io ci sarò" di Max Pezzali perché la ascoltavo quando andavo veloce in macchina.
Bene signori, ci vediamo presto o tardi non lo so, ci vediamo presto se non passo l'esame.
Grazie tantissimissimissimissimo per aver letto e atteso, impazzisco quando penso che qualcuno sta andando davvero fino in fondo con questo delirio.
Adieu,

El.

 
   
 
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