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Autore: MaikoxMilo    12/07/2021    11 recensioni
Sulla scia del racconto de "Il Piccolo Principe", la storia dell'evolversi del difficoltoso rapporto tra Camus e Hyoga, maestro e allievo, padre e figlio, tra inciampi vari, incomprensioni, modi di essere così apparentemente distanti eppure così simili. Perché proprio come l'aviatore, anche Camus impara a ritrovare sè stesso solo grazie al bimbetto dai capelli color del grano che, un giorno di febbraio lontano, in Siberia, entra nella sua vita, per lasciarci il segno.
DAL CAPITOLO SECONDO:
“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”
Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.
“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.
Imparai a mie spese che 'dritto davanti a sé' era davvero sin troppo limitato!
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cygnus Hyoga, Kraken Isaac, Nuovo Personaggio
Note: AU, Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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2

 

 

Ci misi un po’ di tempo a capire da dove venisse. In effetti, dovetti impiegare tutto il viaggio per tornare all’isba, per estorcergli anche una sola parola da quella boccuccia corrucciata e sofferente che sembrava non appartenere neppure ad un bimbo.

Hyoga Kido, così si chiamava, non era avvezzo a parlare, né tanto meno a rispondere a domande personali che lo destabilizzavano.

Io soffrivo dello stesso problema.

Ma io avevo 14 anni.

Lui 8.

Quindi colui che dei due doveva tendersi di più verso l’altro ero proprio io, cosa affatto facile per me, figurarsi poi con lui, introverso come me.

Lui, a differenza del Piccolo Principe, non mi poneva alcuna domanda, ero io a dover rompere il ghiaccio, anche se non mi rispondeva quasi mai verbalmente, rendendo così impossibile la partenza di un qualsiasi tipo di dialogo tra noi.

Si limitava a fissare davanti a sé, camminando al mio fianco. La borsa che si portava appresso, fin troppo grande per lui, lo sbilanciava, ma non demordeva, rendendolo così simile, almeno su quel versante, ad Isaac. Aveva il nasino sgocciolante e arrossato, dava colpi di tosse secca che non mi piacevano affatto, perché non era la prima volta che il Santuario, o chi per esso, mi mandava un bimbo già malaticcio e, molto spesso, qualora fossero riusciti ad arrivare, non riuscivano comunque a sfuggire da un destino di morte.

Come Svetlan…

Il pensarlo mi diede una fitta, mentre, recuperando la mia naturale compostezza lo osservavo con attenzione, cercando di capire, concentrandomi sul suo respiro un poco irregolare, quante possibilità potesse avere di resistere almeno una settimana. Nonostante la fatica però -lo avevo ben notato da subito- tratteneva a sé la borsa, come se fosse un tesoro preziosissimo.

“Cosa tieni lì, con così tanta foga?” gli chiesi, sperando che mi potesse rispondere, ma il piccolo, per tutta risposta, arrossendo, guardò altrove, tenendosi ancora più stretta la sacca nella paura che gliela potessi estorcere con una azione violenta -con chi diavolo era stato, fino a quel momento, per avere simili paure?!-

“Va bene se non te la senti di dirmelo, puoi tenerla per te, di certo non te la butterò via… - mi ritrovai ad acconsentire, un poco burbero – Ma mi dovresti almeno spiegare perché un russo, con un cognome giapponese, sia stato portato qui per seguire un addestramento da Cavaliere!”

Ancora non mi rispose. Sbuffai e sospirai insieme, e lui, irrigidendosi, non mi nascose il suo mettersi istintivamente sulla difensiva. Pensai per un istante di delegare tutto ad Isaac, ben più portato di me a comunicare, quando finalmente gli occhioni del bimbo, come carpiti da qualcosa, mi osservarono con un inaspettato interesse, ispezionandomi da cima a fondo.

Mi sentii io stesso destabilizzato da quello sguardo innocente e candido che mi rivolgeva, ma feci di tutto per non darglielo a vedere.

“Tu… vieni da un altro pianeta?! O... dal cielo?!” mi chiese ingenuamente.

Fermai quindi i miei passi, un poco stizzito, sospirando per poi chiudere e riaprire gli occhi.

“Voi...”

“E-eh?!”

“Usa il Voi, sarò il tuo maestro, come ti ho detto alla locanda di Pavel…”

“Oh…”

Lo avevo pungolato intenzionalmente per vedere se avrebbe reagito in maniera forte o temperata, in modo da sondarne il temperamento, ma lui, tirando su con il naso, si limitò a pormi nuovamente la domanda in tono più formale.

“Voi… venite dal cielo?!”

“No, dalla Francia, sono nato là… a Nizza!” risposi in fretta, un poco secco, lasciando cadere il discorso.

La Francia… era vero che mi aveva dato i natali, ma ormai era patria mia non meno che la Germania o la Spagna, con cui non avevo mai avuto nulla da spartire, ormai non avevo più nulla di quel bambino corrucciato e sfuggente che veniva strappato dalle braccia della madre, se non… la mia versione bionda, davanti a me, perché Hyoga sembrava molto affine al mio carattere. Ciò rendeva tutto molto più complesso.

“Un Francese in Russia...” riprese lui dopo un po’, perplesso, infastidendomi mio malgrado.

Era chiaro dovesse essere stranito dal fatto che io fossi lì, non meno di me nel constatare che era Russo ma aveva un cognome giapponese, e che la sua candidatura a Cavaliere mi era, sì, arrivata dal Santuario, ma in maniera del tutto diversa dal solito.

“Ca-mus! - ripeté il mio nome, sbagliando ovviamente accento come ormai ero abituato facessero tutti, dalla Grecia alla Siberia. Vidi distintamente le sillabe del mio nome rimbalzare in quella sua testolina da una parte all’altra, come se dovesse rimuginarci sopra, poi annuì tra sé e sé – Suona strano, ma mi piace!”

“Non deve piacerti, è un nome, un dato di fatto, null’altro...”

“Però suona bene, si può spezzare, come il mio, farebbe così: Hyo-ga, come il t… cioè il vostro Ca-mus! Vedete?”

Suona bene perché sbagli accento, lo dici alla giapponese, con quell’IU finale e prolungato… lo pronunciassi in francese sarebbe tutta un’altra storia!

Mi ritrovai a pensare senza aggiungere nient’altro, se non il suono dei nostri passi nella neve. Tuttavia sembrava quasi che a Hyoga avessi inconsapevolmente schiacciato qualche pulsante di avviamento, perché riprese a parlare.

“Sapete... mia madre mi raccontava che chi ha un colore di capelli così appariscente deve venire dal cielo o… o da un’altra dimensione!”

“E tua madre… dove sarebbe? Sa che sei qui?”

Avevo affinato lo sguardo nel tentare di carpirlo. Di nuovo. Sebbene avessi già intuito che sarebbe stato un argomento dolente. Qualcosa nel suo tono non mi era piaciuto, fino a diventare certezza, perché, proprio in quel momento, lui guardò altrove, una vena di malinconia gli attraversò gli occhi per poi diffondersi a tutto il corpo.

Capii immediatamente che quello, molto più della sua apparente fragile costituzione, lo avrebbe ucciso. Faticò a continuare ma non si arrese, sembrava che alcuni argomenti lo facessero intestardire più di altri, lo compresi già da quel breve dialogo. La madre era di certo uno di quelli.

“Non importa… la mamma mi ha raccontato tante, tantissime, cose, ed io pensavo che, oltre il mare, lo avrei incontrato, lo immaginavo con i capelli come… come i vostri!”

“Chi, Hyoga?! Di chi stai parlando?”

Ma lui scosse il capo, gli occhi lucidi, sul punto di piangere, come a dire che non era importante. A quel punto, quasi meccanicamente, mi ritrovai ad asciugargliele quelle lacrime, prima che esse scivolassero lungo le sue guance pallide. Nonostante mi indisponessero, nonostante le considerassi sinonimo di debolezza, la mia mano si era protratta comunque nella sua direzione, annullando così la distanza fisica tra noi.

Ancora non sapevo bene. Tuttavia ero già in grado di riconoscere la manifestazione di un rimpianto.

Rimorsi, malinconie varie, ricordi che sfociano in pianto… avrebbe dovuto imparare a scacciarle via il prima possibile, altrimenti lo avrebbero schiacciato: era la Legge della Siberia, era la legge stessa del Mondo!

“Queste… sono le ultime che devi versare! - gli dissi, severo, inginocchiandomi davanti a lui per indurire, senza tuttavia eccedere, la mia espressione – Intesi?”

Inaspettatamente però, il mio cenno, sembrava averlo sconvolto. Mi fissava sorpreso, quasi emozionato, come se non si ricordasse cosa volesse dire essere accarezzato, essere confortato… era così disabituato a ricevere anche solo il più piccolo gesto di affetto, per reagire così?! Non era mai… stato sfiorato in quel modo, se non da sua madre?!

“Devi guardare dritto davanti a te, sempre! - rimarcai, rialzandomi in piedi, prendendolo però per mano per aiutarlo a muoversi in mezzo a tutta quella neve – Non dietro, non di fianco, dritto!”

Hyoga sembrò rimuginare su quella frase durante tutto il corso del nostro viaggio per tornare all’isba, il luogo che gli avrebbe fatto da casa da quel momento in avanti… speravo… se il suo fisico avesse retto a tali climi.

“Dritto davanti a sé, però… non si può andare poi così lontano!” mi fece notare al termine della sua riflessione, un poco meno timidamente di prima, guardandomi con quegli occhioni e stringendo la presa sulle mie dita.

Imparai dopo, forse tardi, a mie spese, che ‘dritto davanti a sé’ era davvero sin troppo limitato, ma in quel momento la frase non mi scalfi', la feci passare in sordina, relegandola ad una consapevolezza infantile che io dovevo necessariamente levargli, ma a tempo debito, con calma, come l’acqua che lavorava la roccia senza fretta, certa di vincere la sua battaglia grazie all’azione del tempo, suo compagno.

Non parlammo più per tutto il tragitto verso la casetta che condividevo da un anno con Isaac. Quando la raggiungemmo, diedi indicazioni a Hyoga di rimanere un attimo fuori, entrai e chiamai a gran voce l’altro mio allievo, ottenendo come risposta solo un silenzio assordante, che ormai non riuscivo più a riconoscere come parte integrante di quel luogo, visto che era stato spazzato via dalla vivacità del piccolo, vera e propria linfa vitale per me.

Non trovandolo quindi nell’immediato, giacché, quando rincasavo, era solito fiondarsi a salutarmi, entrai istintivamente in cucina, dove vidi una letterina. Era stata scritta proprio da lui, a caratteri ancora un poco tremolanti ma chiari, mi informava che era andato ad allenarsi da solo nel solito posto non molto distante dall’isba, perché in casa non ce la faceva più ad aspettare per l’emozione di conoscere il bimbo nuovo.

Sorrisi automaticamente, riponendo il foglietto nella tasca dei pantaloni, prima di uscire nuovamente dall’isba, prendere la mano di Hyoga, che era rimasto giudiziosamente fermo ad aspettarmi, e incamminarci verso la zona indicata. Durante quel breve tratto, gli accennai dell’altro mio allievo, di dove si trovasse, e che sarebbero stati compagni di addestramento, lui annuì comprensivo, anche se si era un poco irrigidito, forse agitato all’idea di avere a che fare con un coetaneo. Non ci conoscevano che da una manciata di ore, ma credevo di averlo già ampiamente inteso: era timido e docile, a tratti apparentemente remissivo, tutto il contrario di Isaac, che sembrava già possedere l’’attitudine da leader e un carattere molto forte, malgrado la giovane età. Due tipologie di bimbi quasi opposti, mi dissi mentalmente, chiedendomi altresì se avessero potuto amalgamarsi bene tra loro.

Arrivammo nel luogo in questione, tra i ghiacci splendenti della banchisa e, da distante, vidi subito il mio ometto intento a sferrare pugni all’aria, muovendosi con agilità da una parte all’altra per mantenere il corpo attivo e resistere al freddo spietato della Cukotka di fine febbraio. Notai che non aveva indossato alcuna giacchetta, probabilmente desideroso di farmi vedere i suoi ulteriori progressi in quell’ambito.

Mi ritrovai a sorridere di nuovo, il cuore ricolmo di orgoglio per lui, per ciò che si stava sforzando di diventare senza lasciarsi abbattere dall’ombra di un passato che, ne ero consapevole, ancora era marchiato a fuoco nel suo animo intrepido come piaga insanabile. Era esattamente così che gli avevo insegnato a fare, e lui, come sempre, perseguiva le mie direttive con solerzia, desideroso di essere alla mia altezza.

Lasciai la mano di Hyoga per avvicinarmi lentamente a lui senza manifestare però il mio cosmo, sospingendo al contempo, il più delicatamente possibile, il mio nuovo allievo, che, in un attimo di incertezza, sembrava quasi volersi ritrarre. Solamente quando fui abbastanza vicino lo chiamai per nome.

“Isaac...”

Lui riconobbe subito la mia voce, si girò nella mia direzione, regalandomi un largo sorriso: “Maestro!” mi chiamò, buttandosi a capofitto verso di me.

Per un istante ebbi il timore che si volesse fiondare per davvero tra le mie braccia per stringermi a sé. Per sua natura, lo faceva spesso, era molto affettuoso ed espansivo, ma gli avevo vietato di farlo, perché non era un comportamento idoneo per un futuro Cavaliere dei Ghiacci che avrebbe dovuto mantenersi sempre solenne e composto.

Per quel lungo attimo di corsa sfrenata in cui lui sembrava aver bandito tutte le mie direttive, temetti davvero di trovarmelo addosso, con Hyoga che invece costantemente cercava di indietreggiare, incerto, ma fortunatamente il mio piccolo lupetto si arrestò prima, a debita distanza, sorridendomi in attesa delle presentazioni.

Annuii, regalandogli un’occhiata mista di affetto e orgoglio, indicativa di quanto avesse fatto bene a non balzarmi addosso, ancora di più con il nuovo venuto così a disagio.

“Isaac, lui è Hyoga, come ti avevo già accennato, da oggi si allenerà con te per diventare un Cavaliere!”

“Ho capito, Maestro Camus...” mi rispose, pronto, prima di concentrarsi su di lui, guardandolo con attenzione, prima di continuare.

“Io mi chiamo Isaac… piacere, Hyoga, e benvenuto in Siberia, mio… compagno e avversario!” si presentò porgendogli la mano con naturalezza.

Vidi Hyoga ritrarsi ulteriormente a quelle parole, anziché ricambiare la stretta, non sapeva bene cosa fare, tentennava, i modi troppo diretti di Isaac lo avevano messo a disagio. Lo sospinsi quindi delicatamente in avanti, addolcendo la mia espressione e annuendo come ad indicargli che non correva il minimo pericolo con lui. Il piccolo mi guardò un poco negli occhi, poi, forse rassicurato da qualcosa, compì qualche passo traballante, ricambiando goffamente il gesto, sebbene le sue dita strinsero appena la presa.

“P-piacere mio...”

“Ah, ma che c’è, hai paura di me? - chiese Isaac, prima di alleggerire ulteriormente il tono per tentare di metterlo a suo agio – Dovresti temere di più il freddo di questi luoghi e l’addestramento, che sarà durissimo!”

… ovviamente a suo modo, visto che, alle sue parole, la prima reazione del bimbo biondo fu quella di sussultare e indietreggiare di un passo.

“DAVVERO?!”

Malgrado lo avessi già informato alla locanda, della pericolosità dell’addestramento, Hyoga parve rizzarsi ulteriormente, timoroso, forse non aspettandosi la stessa dichiarazione da quello che, da lì in avanti, avrebbe dovuto essere un suo compagno. Mi sentii in dovere di intervenire.

“Su, Isaac, non spaventarlo, è appena agli inizi!”

A quel punto lui si voltò nell’altra direzione, mettendosi le mani dietro la testa per assumere a sua volta un’espressione da perfetto maestrino.

“Devo farlo, perché si abitui fin dal principio, non voglio che pensi alla fuga come capita a me… - sciolinò prima di riscuotersi e tapparsi la bocca con espressione burlesca – Uh! Mi è scappato!”

Risi a quella frase, e lui con me, si aggiunse anche Hyoga, che, proprio grazie a quella confessione, sembrò essersi messo quasi del tutto a suo agio, capendo di trovarsi, sì, in un ambiente climaticamente ostile, ma in mezzo a persone che potevano dirsi normali, o almeno più normali di quelli che, da quanto avevo intuito osservando le sue reazioni, lo avevano avuto in carica fino a quel momento.

Isaac, non visto, mi fece l’occhiolino, io mi ritrovai a sorridergli, nuovamente grato. Sapevo bene che il mio soldo di cacio non aveva mai nemmeno pensato di tentare la fuga, né di allontanarsi, complice anche ciò che era successo allo sventurato Lisakki, ma compresi perfettamente che aveva fatto quella battuta per tentare di scacciare il nervosismo del suo nuovo compagno di addestramento. E ci era riuscito, come solo lui sapeva fare.

Era sempre stato così il mio Isaac, forte, coraggioso e determinato, sveglio sopra ogni dire, era il mio sostegno, più di quanto, forse, sono stato capace di essere io per lui...

“Comunque… - riprese in mano il discorso poco dopo, facendosi serio – Quelli che vengono in Siberia dell’Est non riescono davvero a sopportare i duri allenamenti, sparendo quasi subito...”

Non approfondì ulteriormente quel discorso, né permise alla tristezza di lambirlo spietatamente, sebbene una luce malinconica, che ben conoscevo, baluginò nei suoi occhi nel ripensare a Lisakki. Sapevo bene che si stava riferendo al suo compagno deceduto, d’altronde la sua perdita aveva colpito duramente sia me che lui, non avremmo mai potuto dimenticarlo, solo… andare avanti, e Isaac, ancora una volta, stava eseguendo quel difficile compito in maniera splendida.

“E’ da quasi un anno che mi alleno da solo col Maestro Camus e ci sentivamo un po’ soli… per cui resisti almeno per due o tre giorni, Hyoga, ok?”

Resistere… li guardai un poco amareggiato. Stavano provando a parlare tra loro senza particolari imbarazzi, sebbene quest’ultimo fosse molto più marcato nel nuovo arrivato che non in Isaac.

Ero perfettamente consapevole che il mio lupetto si sentisse solo, come già ti avevo detto prima, lui non aveva che me, ma io ero più grande di lui e non sul suo stesso livello, essendo il suo maestro, ragione per cui aveva un forte bisogno di avere un altro bambino al suo fianco, dopo il trauma Lisakki. Ero quindi felice che anche Hyoga fosse arrivato tra noi ma, allo stesso tempo, mi chiedevo quanti sacrifici sarebbero ancora serviti per placare la sete di giustizia di una dea che io dovevo venerare sopra ogni cosa ma che, a conti fatti, non avevo ancora conosciuto e non sapevo che forma avesse. Ne conoscevo solo l’intermediario, il Grande Sacerdote, che però era diventato così diverso da colui che mi aveva portato al Santuario, non riuscivo più a riconoscerlo, né ad accostarlo a quella figura evanescente, austera ma giusta, delle mie memorie. Sapevo solo che dovevo seguire i suoi ordini, che molto spesso richiedevano di addestrare dei bambini in età scolare. I tributi, per l’appunto!

Bambini di non più di 7/8 anni… che io dovevo allenare per far diventare forti e conquistare una pesante corazza che avrebbe rivestito i loro corpi ancora imberbi e che, probabilmente, gli avrebbe strappato la vita anzitempo, perché questo era il destino dei guerrieri della dea. A quello si aggiungeva che l’armatura comunque era solo una; solo uno di loro si sarebbe rivelato degno, quale quindi il destino dell’altro? Purtroppo lo sapevo già… proprio per questo cercavo di non pensarci, non in quel momento, ma quel qualcosa dentro di me, quel dubbio velato che io, come Cavaliere, non avrei MAI dovuto provare, mi mordeva e attanagliava la coscienza. Era giusto quello che stavo facendo?! Ero… dalla parte corretta?

“...Ho ragione, vero, Maestro?”

Quasi sussultai nel rendermi conto che i due bambini mi stavano entrambi osservando in trepidante attesa, come se si aspettassero qualcosa da me.

Mio malgrado, mi trovarono impreparato.

“Co-cosa?”

“Oh, non preoccuparti nemmeno di questo, Hyoga – lo rassicurò Isaac, solare – Anche questo è perfettamente normale, ogni tanto il Maestro si perde nelle sue congetture e non ritorna più a terra per un po’, però poi si riprende e...”

“ISAAC!”

“O-ops, mi è scappato anche questo! - ancora si tappò la bocca, ridacchiando rumorosamente tra sé e sé, seguito a breve distanza da Hyoga, sempre più a suo agio in quel siparietto – Stavo assicurando a Hyoga che voi fate le minestre più buone del mondo, saporite, un poco saline, vanno dritte in pancia e danno un calore piacevole!” disse, massaggiandosi il ventre con soddisfazione, come ad indicarmi che aveva anche un certo languorino e che non aspettava altro che le mie direttive per tornare all’isba e mangiare.

Effettivamente le poche ore di luce a disposizione stavano volgendo al termine e con esse la fine della giornata. Non c’era poi molto da fare, quel giorno, se non far conoscere al nuovo arrivato l’ambiente e alla casa.

“Benissimo, Isaac, visto che ti trovi molto a tuo agio nel ruolo di guru, che ne diresti di accompagnare Hyoga a fare il giro dell’isba mentre io preparo la minestra che tu sostieni essere così buona?!” gli chiesi, riprendendo in mano il discorso, che non era da me farmi trovare così impreparato in un dialogo.

“ASSOLUTAMENTE, Maestro!” trillò lui, vivace, tamburellando i piedi nel mettersi, con orgoglio, a capo del terzetto per aprire così la strada verso casa. Io glielo permisi, rimanendo dietro con Hyoga che, anche se ancora un poco titubante, sembrava prendere terreno passo per passo.

“Hyoga… come ti ha già accennato Isaac, il luogo che stai per visitare potrai considerarlo casa, almeno finché non sarai abbastanza abile da ottenere l’obiettivo che ti sei prefissato: l’armatura del Cigno”

“Ca-casa?” ripeté il bimbo, osservandomi quasi spaesato.

“Sì, è la nostra casa! - annuì Isaac, allegro come suo solito, prima di affinare lo sguardo, caparbio – Ma per l’armatura dovrai vedertela con me, perché anche io la bramo!”

“Oh...” Hyoga sembrava sfiduciato, abbassò conseguentemente lo sguardo.

“Ora non correre troppo, soldo di cacio, c’è tempo per quello!” gli rimproverai la troppa grinta, che anche se ben riposta e adoperata allo scopo anche di incentivare lo spirito combattivo di Hyoga, sembrava invece averlo scoraggiato nel profondo.

“Dovremo… combattere?” si chiese infatti Hyoga, incerto. Non sembrava affatto possedere l’attitudine agonistica di Isaac, anche quello sarebbe stato da correggere, lavorandoci su con impegno e costanza.

“Ora non ci pensare! - gli consigliai, in tono un poco più morbido – Per il momento questa è la tua casa, nient’altro. Dai tempo al tempo, non c’è fretta, Hyoga!”

“La mia… casa!” si ripeté il piccolo, un poco scettico, cercando di convincersi su quella frase. Di nuovo si chiuse a riccio per tutto il tragitto di ritorno, di nuovo ebbi la sensazione che mi scivolasse via, che fosse impossibile da acciuffare. Pregai, dentro di me, che la mia prima impressione fosse fallace.

Non potevo saperlo allora, che la sua casa era già da un’altra parte, sotto metri e metri d’acqua e che volesse raggiungerla ad ogni costo, per tornare nel nido che gli era stato strappato. Avrei tanto voluto che lo sentisse, che percepisse che la sua casa, da quel momento in avanti, sarebbe stata al nostro fianco, che poteva quindi lasciare il passato al passato e ricominciare, come già era stato capace di fare Isaac. In fondo, se c’era riuscito lui, perché non Hyoga?!

Ma, come ben sai… ho fallito… non sono riuscito a farlo sentire come parte di noi, ho lasciato che mi sfuggisse dalle mani, che mi scivolasse via, non gli… non sono riuscito a tenergli la mano, a proteggerlo, come non l’ho fatto con Isaac, come non lo riesco mai a fare con voi.

Ho fallito… e le condizioni disperate in cui versa in questo momento, lo dimostrano, piccola mia!

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

Ed eccoci al secondo capitolo di questa storiella, ispirato, in larga parte, al terzo capitoletto del Piccolo Principe. La frase sull’andare “dritto davanti a sé”, leggibile anche nella presentazione, è presa proprio da qui.

Dunque… un capitolo di presentazioni in cui Hyoga e Isaac si conoscono. Lo avrete sicuramente notato, ma i dialoghi sono presi sia dal manga che dall’anime, anche se in quest’ultimo vi è ovviamente il Maestro dei Ghiacci al posto di Camus. Ho fatto una specie di mash-up, aggiungendoci anche qualcosa di mio, spero possa piacere.

La diatriba sul nome Camus e sulla difficoltà di pronunciarlo, mi è sorta con naturalezza. Mi capita spesso di rivedere l’opera originale in lingua madre (ovviamente con i sub Ita) e, alla giapponese, il nome Camus si scrive, con i loro caratteri, in qualcosa che è simile a questo: “Kamyu” con evidente pronuncia e prolungamento dell’IU, come dice lo stesso Cam. In lingua francese però il cognome Camus (che io uso però come nome proprio) si dovrebbe pronunciare in qualcosa di simile a questo: “Camu” (purtroppo non saprei mettere l’accento ma comunque senza la “I”) Tra le due pronunce, io sono abituata (e mi piace di più) quella giapponese ( non ammazzatemi, questione di orecchio XD) nella mia testa infatti tutti, dalla Russia alla Grecia, lo chiamano così e quindi ho voluto inserire questo buffo scambio di battute tra i due, visto che Hyoga è comunque per metà giapponese e quindi me lo immagino a chiamarlo così. :)

Anche verso la fine di questo capitolo viene rivelato qualcosa di nuovo, che sta accadendo nel tempo presente, prima di tutto chi sia il “tu” al quale Camus sta raccontando la storia (chi segue la mia serie principale riconoscerà di certo il vezzeggiativo), e in second’ordine che le condizioni di Hyoga non sono buone, anche se non si conosce la ragione.

Ovviamente il tutto verrà rivelato alla fine, così come l’allacciamento futuro con “La melodia della neve” ;)

Al solito ringrazio chi mi segue, chi recensisce, chi ha messo la storia tra le seguite e via dicendo. Ricordatevi che mi piace sempre molto interagire con voi! :)

Dovrebbe seguire, non in tempi lunghissimi, un aggiornamento alla fic dei 5 Pilastri. Buona serata a tutti e alla prossima!

 

  
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