Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
Segui la storia  |       
Autore: Per_Aspera_Ad_Astra    14/07/2021    2 recensioni
Sono passati esattamente dieci anni dall'ultima battaglia nella città de Il Cairo. Niente sembra minare la tranquillità della famiglia Joestar. Niente fino ad ora.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dio Brando, Enrico Pucci, Giorno Giovanna, Josuke Higashikata, Jotaro Kujo
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
(SPOILER ALLERT) - PART 6





 
Chapter eight

Una calda notte d’estate





Mistero.
/mi·stè·ro/  
Quanto rimane escluso dalle normali possibilità intuitive o conoscitive dell'intelletto umano o ne preclude un orientamento ragionevole, provocando una reazione di incertezza non necessariamente ansiosa né penosa, talvolta non priva di fascino.

 
L’essere umano, per essere definito tale, nel corso della sua evoluzione ha costantemente cercato un appiglio concreto a dinamiche non sempre giustificabili della vita: perdersi in racconti e parole datate con la speranza che da esse si possa trarne il succo della verità infinita. Quella verità, che sotto un certo aspetto, ci fa sentire sicuri e non solo anime in balia di un gioco senza scopo e senza nome.
Lo spettacolo a cui siamo abituati giornalmente ci delizia con sapori che toccano l’inspiegabile, l’oscuro. Il mistero.
Sui libri enciclopedici, sui tomi enormi e impolverati di biblioteche scolastiche e comunali, sulle prime piattaforme internet ad una velocità di 32kb, con una certa minuziosità di ricerca, era possibile trovare testi che parlassero e spiegassero chiaramente i misteri irrisolti dell’umanità: esistenziali, religiosi, basati su credenze e fede ancora del tutto poco chiare; fino ad arrivare quelle di lettura più semplice che lasciavano andare a smorfie sbalordite o a brividi impauriti.
Tra queste storie erano presenti le raccapriccianti vicende di omicidi irrisolti.
L’intero globo ne contava a iosa: il Mostro di Firenze in Italia colpevole di inspiegabili omicidi contro coppiette ignare appartatesi il luoghi sperduti; il famosissimo killer dello Zodiaco – o anche soprannominato Zodiac – per la sua pragmaticità nel compiere efferati femminicidi; lo Squartatore di Lisbona e la sua scelta occasionale ma precisa delle vittime. Ed i nomi continuavano senza sosta acuendo la voglia di conoscere degli appassionati.
Certo, il mistero, in quanto tale, affascina e quasi richiama a sé, ma tutte le storie di cui parlavano perfino i giornali avevano dei nomi riconducibili ai soggetti incriminati, i potenziali sospettati che giacevano in cella o ancora braccati dalla polizia: ciò creava un senso di sicurezza.
Il mistero è godibile solo se è conoscibile.
Ci sono, però, dei casi in cui è davvero difficile porre la parola fine, dove rimangono aperti e irrisolti per l’eternità, affossati dal tempo e da politiche strategiche.
Cosi accadde per il mistero della città del Il Cairo. Il mistero della calda notte ’89.
Il capoluogo egiziano, alla fine del ventesimo secolo, era meta di milioni di turisti da tutto il mondo creando un giro d’affari spropositato.
Spiagge bianche, temperature e suoni da far invidia ai tropici, paesaggi mozzafiato ed abbronzatura da urlo, si scontravano con le reali dinamiche di quei tempi in cui le potenze mondiali avevano messo al chiodo le armi da fuoco ed erano pronte ad utilizzare quelle nucleari. Con un occhio strizzato alla lontana Unione Sovietica nelle politiche estere, non era difficile trovare forze armate in giro nella città per appianare i disordini che spesso provocavano decine di feriti, causati da una modernità troppo lontana dalle radici profonde e tradizionaliste del popolo egiziano. Era facile incontrare anche personalità di spicco nel mondo dello sport, del cinema ma soprattutto della politica: soliti, erano i magnati esteri che sostavano per qualche tempo sulle spiagge egiziane per godersi il clima di un’estate eterna.
Nella notte del 1989 i gradi superarono i quaranta. I telegiornali ne parlarono per settimane. Quella temperatura eccezionale aveva rovinato coltivazioni annuali, messo a rischio specie animali e procurato anche numerose vittime. Il caldo anomalo abbattutosi tra le vie ciottolate della capitale, aveva portato i cittadini ad uscire fuori in strada congestionando il traffico già intasato nelle ore di punta: turisti, famiglie ed adolescenti con le loro capigliature cotonate camminavano spensierati tra le vie del centro, ammirando le vetrine colorate dei moltissimi negozi aperti anche la sera.
Una normalissima serata di un normalissimo mese in un normalissimo anno.


Le vittime conteggiate dalle forze armate sul posto ammontavano a trentasei. I dispersi, invece, un centinaio. Diverse furono le polemiche emerse dopo l’evento tragico puntando il dito sull’organizzazione delle ronde poste alla ricerca degli scomparsi, al numero fittizio delle vittime e dei continui accordi celati tra potenze mondiali: palese fu l’influenza dei Potenti pronti a scatenare comizi diplomatici più distruttivi di armi nucleari. Questa incessante attenzione, da parte di diplomatici americani e  sovietici, era dovuta alla presenza – particolarmente importante – del senatore Wilson Phillips ai fatti. 
Nato da Phillips Morgan e Jackson Candice, due immigrati inglesi sbarcati in America per cercar fortuna, non ebbe vita facile durante l’adolescenza passata a farsi strada tra coloro che lo additavano come diverso.. ed effettivamente lo era: studioso, ligio alle regole e sempre pronto a dare una mano agli altri. Un bambino prodigio, un ragazzo d’oro e un adulto d’ammirare. Le sue doti comunicative e diplomatiche lo portarono a sbarcare facilmente nel mondo della politica lasciandosi dietro le spalle l’immagine di povertà con cui aveva dovuto combattere fin da piccolo. Lodato e apprezzato dal presidente in carica Nixon durante il delicatissimo periodo dello Yom Kippur, fu inviato nella caldissima casa egiziana per mitigare i primi disagi di quel lunghissimo 1989 che avrebbe portato alla distruzione di uno dei simboli di divisione per eccellenza.
L’unico indagato per la tragedia fu proprio il mite e diplomatico Wilson Phillips. Almeno cosi lo descrissero i giornali americani in lutto per la dolente perdita.
Quel caldo giorno dell’estate ’89 la Chevrolet Caprice nera, dai grandi fari luminosi con targa diplomatica, venne catturata dalle immagini di una videocamera di sorveglianza nei pressi della downtown della capitale verso le sei pomeridiane. Sfrecciava ad una velocità sopra i limiti di legge.
Quella stessa auto dopo ventisei minuti esatti fu ripresa per l’ultima volta da un'altra videocamera di sorveglianza di una banca. La velocità della vettura, secondo dei calcoli balistici, era addirittura triplicata. L’ultima immagine della Chevrolet era racchiusa nei reperti della scientifica: il muso era completamente inserito all’interno di una gioielleria rendendo irriconoscibili coloro che sfortunatamente si erano trovati al passaggio. Venne accusato di omicidio plurimo, omicidio colposo con aggravante di abuso di potere essendo, in quel momento, in carica.
Il senatore Wilson Phillips con carica diplomatica presso l’ambasciata statunitense nella città de Il Cairo, annebbiato dall’uso di sostanze stupefacenti come oppiacei e derivati anfetaminici, alla guida di una autovettura Chevrolet Caprice di colore nero targata 001KG con suffisso diplomatico, si era reso colpevole di trentasei omicidi. Tutti imputabili allo stesso alla guida della suddetta automobile.
Cosi era stato chiuso il caso. Trentasei morti, nel centro della città, investiti dalla furia omicida di un uomo sessantenne dalle vesti di Dr.Jekyll e Mr. Hyde: di giorno uomo politico stimato e di notte efferato assassino kamikaze.
Si, Wilson Phillips era stato ritrovato senza vita, nella sua stessa macchina della morte e praticamente irriconoscibile. Solo gli effetti personali ancora presenti sul luogo riuscirono a decifrare chi fosse il crudele pianificatore di quel gesto; il sessantenne venne ritrovato con il volto completamente tumefatto, il torace letteralmente esploso nell’impatto lasciando un’immagine raccapricciante per coloro che si ritrovarono sul luogo del misfatto in cerca di prove.
 

Diversi furono gli interrogativi che iniziarono a saltar fuori dopo la scoperta del misterioso carnefice: perché accanirsi in quel modo sulla folla ignara, perché scegliere proprio quel giorno in quell’ora di punta,perché proprio lui aveva deciso di compiere quel gesto? Che la sua vita invidiabile fosse troppo pretenziosa?
Per gli appassionati di mistero, la vicenda della calda notte’89 rappresentava il Santo Graal del mondo dell’ignoto, dell’oscuro, dell’occulto. Troppi erano i punti nebulosi della faccenda: il primo tra tutti era proprio il protagonista Wilson Phillips ed il suo modus operandi. Il modo in cui era stato ritrovato era tutto fuorché l’immagine di un disperato alla ricerca di vendetta, del classico mostro da mettere in prima pagina: un uomo che decideva di compiere un gesto tanto spietato non poteva essere lo stesso che decideva di porre fine alla propria vita tra il muro di una gioielleria e la carcassa di un automobile.
Di certo qualcuno l’aveva costretto a farlo. Cosi, parlavano gli scettici.
I dispersi: altro punto poco chiaro della vicenda. Tra i nominativi apparsi nella lista pubblicata dalle maggiori testate giornalistiche, comparivano nomi che poco c’entravano con quel luogo: Mohammed Avdol, chiromante professionista e Noriaki Kakyoin studente diciassettenne. Entrambi scomparsi dalle loro abitazioni – una in Arabia Saudita e l’altra in Giappone – da oltre cinquanta giorni e completamente estranei ai fatti della strage. Quei due erano stati magicamente inseriti nella lista quasi come un monito di avvertenza per le famiglie preoccupate del loro improvviso allontanamento; infine, come ultimo elemento, c’erano stati strani avvistamenti subito dopo gli eventi tragici di quella notte: tre persone – non ancora identificate – erano rimaste nel circondario della zona in cui si commisero i fatti rimanendo impunemente fin dopo l’alba.
Di quei tre si erano persi totalmente le tracce.
Mistero o meno, l’accaduto pesò sulle vite di trentasei innocenti vittime, sulle loro famiglie disperate dalla perdita e su di un paese del tutto ignaro delle conseguenze che avrebbe portato. Come segno di fratellanza e solidarietà, diverse associazioni di volontariato sociale inviarono volontari, quote solidali e beni di ogni genere tali da diminuire il senso di oppressione generato dalla vicenda. Tra i volontari arrivati con voli della Caritas, uno colpì il cuore dell’intera popolazione: un giovane prete italiano celebrò una messa commemorativa nel ricordo delle vittime innocenti.
Quell’uomo era Enrico Pucci.



Tredici mesi prima.

«Mio signore, il ragazzo è arrivato.»
La vecchia dalla bassa statura e dalla gobba prominente allungò la mano verso la maniglia dorata per socchiudere la porta della stanza ombrosa e oscura, utilizzata dal padrone della dimora come stanza da letto. Le tende rigonfie e dal tessuto pesante di un color borgogna ricadevano sul pavimento ingrossando la bordatura d’orata e dalle mille pieghe creando un movimento simile a quello del mare in tempesta; queste non permettevano alla luce solare di entrare prepotentemente  dalle grandi finestre con struttura in metallo, ben incastonate nella pietra, che forgiava la muratura dell’intero palazzo, ma solo di filtrarla timidamente creando una penombra godibile solo ad occhio abituato.
L’intera struttura galleggiava in un silenzio ultraterreno rendendo il clima all’interno decisamente più basso da quello percepito all’esterno: la dimora di costruzione antica pareva esser costruita in un tempo e spazio parallelo da quello corrente, una volta sorpassato il vistoso cancello d’entrata tutti i sensi perdevano d’intensità lasciando il corpo galleggiare in quell’immensa distesa di fredda oscurità.
Enrico si sentiva cosi, totalmente perso e disorientato nonostante gli occhi color carbone fossero rimasti ancorati alle spalle possenti del giovane che garbatamente si era presentato come Terence D’Arby. Dallo sguardo impenetrabile e tagliente, il giovane ragazzo lo aveva accolto con un inchino a mezzo busto ed un sorriso di circostanza e, oltre al suo nome soffiato con tono gentile, non aveva pronunciato altre parole, se ne stava teso e dritto mentre camminava facendo ondeggiare elegantemente le braccia vicino al busto.
«Credevo fossi stato inviato in Egitto per una missione umanitaria,» interruppe il silenzio cadenzato solo dai passi, il giovane Enrico, che di anni ne aveva compiuti appena sedici. «non pensavo di ritrovarmi in questo casale. Non vorrei aver letto malamente le indicazioni..»
«Questa è una missione umanitaria.» la voce suadente di D’Arby arrivò prima che il seminarista potesse finire la propria frase. Non disse molto altro per l’intera durata del percorso in quel labirinto di muri e scale di cui era composto l’alloggio descritto minuziosamente nella lettera di convocazione da parte della Caritas di Roma. In realtà vista da fuori era decisamente diversa: le pietre che costituivano il mattonato esterno, erano logore dal tempo e dalle intemperie trasformando il limpido color sabbia del mattone, in uno sporco ruggineo dall’aria decisamente datata cosi, come il giardino rigoglioso all’ingresso ed al centro del maestoso palazzo ma, anch’essi, lasciati crescere tanto da sembrare disordinatamente selvaggi per il luogo in cui erano. Tutto pareva lussuoso e ricercato ma nello stesso tempo datato e lasciato al disuso. In quel luogo, e ne era certo, c’era qualcosa di sinistro e malvagio.
Gli occhi lucenti ma neri come la pece, si persero ad ammirare i dettagli incisi su ogni piccolo mattoncino che formava l’immenso mosaico disteso ai loro piedi dalle fattezze del Dio Nettuno: ogni volta che gli capitava di perdersi in dettagli impercettibili, quelli che l’occhio umano decide di sorpassare dando una visione più generica del panorama, tutto il mondo intorno a sé si fermava.. o meglio, tutto continuava ad avere il suo percorso lineare del tempo ma lui riusciva a muoversi con una lentezza estenuante raccogliendo ogni minimo minuzioso particolare da cui ne traeva ispirazione. Anche quella volta, in quella maestosa ca—
«Non pensavo saresti venuto cosi in fretta, mio caro Enrico.»
Come ci era finito da solo in quella stanza?
Dove era finito il Dio Nettuno dalla nera silhouette?
E Terence D’Arby, il giovane dalle spalle enormi ed il viso gentile?
Le palpitazioni del giovane salirono mostruosamente: se si faceva attenzione, con l’orecchio attento, era possibile udire ogni singolo battito fare eco durante la pulsazione e lo scorrere del sangue nelle vene; sentì il sudore scendere piano tra i ciuffi corti e chiarissimi anche se la schiena, parte del corpo dove solitamente si accumulava più liquido corporeo, era asciutta anzi infreddolita dai brividi che tutta la pelle aveva iniziato a provare.
Una risata echeggiò nell’aria. La stanza parve allargarsi cosi tanto da non permettere ad Enrico di capire chi o cosa avesse davanti. Un letto, una sagoma, o semplicemente uno spazio aperto.
«Ricordavo fossi di poche parole, ma non che ti facessi prendere cosi facilmente dall’emotività.»
«Non… non riesco a vederti. Non riesco a vedere niente in realtà. »
«Non è questa la fede, Enrico?»
«Dio.» riuscì a pronunciare solamente con le labbra completamente serrate. In realtà non capì neanche se l’avesse pronunciato davvero o se fosse solo nella sua mente ma era certo che davanti a lui, anche se non riuscisse a vederlo, ci fosse lo stesso uomo che anni prima l’aveva miracolosamente guarito dalla malformazione fisica che lo aveva reso inabile fin dalla nascita; lo stesso uomo dalle idee bizzarre e dal pensiero contorto ma nonostante questo fosse affascinante ai suoi occhi ancora adolescenti.
Gli bastarono pochi passi per poterne capire la posizione e bearsi dei lineamenti che già in passato lo avevano colpito: morbidamente seduto su di una poltrona il corpo di Dio assumeva una posizione d’attesta con entrambe le gambe incrociate e il gomito sorretto dal ginocchio in quella posizione. Non poteva vederne il viso o l’espressione, ma Pucci era sicuro lo stesse guardando con desiderio e curiosità.
Cosa lo spingesse a rimanere lì immobile come una statua alla mercé degli occhi indagatori dell’interlocutore invece di scappare a gambe levate senza voltarsi indietro e magari, contare quei maledettissimi mattoncini del mosaico, non lo sapeva neanche lui; una forza grande e forte lo tratteneva in quei pochi centimetri che i suoi piedi occupavano sopra l’immenso pavimento di quello se sembrava legno. Immobile senza produrre un suono, neanche quello del suo stesso respiro, aveva lasciato che le sinapsi si attivassero e la mente formulasse un ipotetico piano di fuga che comprendesse, anche, la possibilità di far del male a qualcuno.
Ma non fece assolutamente nulla. Rimase in silenzio. Fermo a guardare il buio.
«Ti starai chiedendo perché sei qui. Comprendo la tua paura,» Dio si alzò in piedi scoprendo la pelle bianchissima della spalla nuda, unica parte visibile del suo corpo sotto la luce fioca attraverso le tende borgogna. Fece qualche passo in avanti ed il tessuto dei morbidi pantaloni sfregò tra di essi producendo un suono ovattato permettendo ad Enrico di  puntare gli occhi ancora immersi nel buio della stanza « e ne sono quasi invidioso. Voi, umani, e la vostra paura dell’ignoto. Vi fa essere cosi piccoli ma anche cosi grandi. Quella mattina nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli sentii perfettamente quanta paura tu avessi e, sebbene lo si poteva leggertelo negli occhi, rimanesti lì con me ad ascoltarmi. Ti lasciasti toccare e ti fidasti. Enrico—»
Enrico.
«—non mi sbaglio mai. Tu sei la persona di cui mi posso fidare.»
«Fidarti di me? Per cosa?»
«Non avere fretta. Tutto a suo tempo.»
E non ebbe fretta. Non gli si diede il diritto di averla.
Non ebbe tempo di pensare. Non ebbe tempo di parlare. Non ebbe tempo di guardare, capire cosa fosse successo ed urlare. Rimase fermo, al centro della stanza, anche in quel momento come lo era rimasto per tutta  la durata di quella strana conversazione con l’uomo di cui non aveva più visto il volto… forse, per qualche secondo, era riuscito a tracciare il suo profilo perfetto ma poi si era ritrovato accasciato a terra nello stesso buio con cui la stanza l’aveva accolto.
Enya, l’anziana donna dal ripugnante difetto fisico che l’aveva portata ad avere due mani sinistre, era rimasta per tutto il tempo in un angolo remoto della stanza ad ascoltare la conversazione e, nel momento giusto, con movimenti leggiadri e delicati aveva tirato con forza la corda tesa dell’arco scoccando rapidamente la freccia ornata dentro il petto del giovane. Di quel gesto rimase solo il rumore fulmineo del vuoto strappato dalla velocità della punta. Niente più.
Enrico non capì molto, non capì neanche se quello che stesse provando fosse dolore.
Perché a lui.
Perché in quel posto.
Perché in quel modo.
Essendo un uomo di fede, nella sua breve vita, aveva sempre pensato di sapere quando sarebbe giunto il momento: il Creatore avrebbe dato modo di redimersi dai peccati prima di accoglierlo nell’alto dei cieli e garantirgli la pace eterna. Lui ne era sicuro non fosse arrivato il momento perché doveva redimersi, doveva scusarsi con il fratello e chiedere perdono allo stesso Signore per essersi tratto in inganno.
E allora perché, quando la punta dorata della freccia strappò via gli abiti, i tessuti epidermici, gli organi e le costole trafiggendolo da parte a parte, sentì che la fine fosse vicina. Il metallo dorato completamente macchiato di un denso color scarlatto, portava con sé brandelli della tunica nera che per quell’incontro aveva deciso di indossare. L’impatto fu cosi travolgente da impedirgli di provare dolore se non, quello di essere travolto da una continua scarica elettrica provocata dall’adrenalina.
Le ginocchia ceddettero sbattendo con tutto il peso del corpo che, dopo qualche secondo si prostrò in avanti lasciandolo boccheggiante di aria e saliva.
Non è il mio momento. Si ripeteva in testa.
Non è il mio momento.
Non è il mio momento.



 



Dio Brando fu una delle vittime di quella calda notte del 1989. Quella stessa notte di cui giornali, radio e televisioni non avevano smesso di parlare scavando a fondo di un mistero che tale doveva rimanere. Nonostante la tragedia fosse stata attribuita ad un unico carnefice guidato dalla sua folle mente, nessun familiare delle vittime, cittadino o solo ascoltatore dell'altra parte del mondo, sembrò convinto della storia: anche se Wilson Phillips venne etichettato come il Mostro de Il Cairo; se le organizzazioni no profit ripagarono profumatamente i familiari delle vittime distrutti dall’accaduto; se i potenti appianarono i discordi politici, non ci fu mai prova certa di quello che poi venne raccontato.
Di Dio Brando, a differenza degli altri uomini e donne riversi sull’asfalto agonizzanti per l’impatto con l’auto, non era rimasto assolutamente niente. Niente che potesse rimanere in suo ricordo o che permettesse a coloro che lo conoscevano, di commemorarlo. Neanche cenere.
Di chi fosse la colpa della sua morte, cosi come delle altre persone, rimase un mistero. O meglio, ufficialmente cosi fu.
Il reale colpevole rimase impresso nei suoi occhi fino alla fine, fino a che il respiro gelido uscisse dalle labbra sottili producendo un denso fumo bianco inghiottito dalla tempra di quella notte. La figura alta, scura e con occhio torvo l’aveva guardato dritto negli occhi prima di sferrare un colpo talmente potente da frantumare tutte le ossa del corpo, lasciandolo in balia dello stesso silenzio che più di cento anni prima lo aveva inghiottito nel bel mezzo di una tempesta.
Non avere paura, Dio.
Solo i vigliacchi hanno paura. Tu sei un vigliacco?

Ne aveva avuta? Aveva provato quel tremolio fastidioso e continuo, quello che afferra lo stomaco e lo stringe – lo stringe – fino a che boccheggiante lo senti salire fino alla nuca provocando quella fastidiosissima sensazione di gelo tra le fibre dei muscoli.
Tutti i giorni.
Tutti i giorni da quando era nato.

Ne scoprì la natura una lontana sera di fine Ottocento, quando elettricità e acqua potabile erano un sogno per la gente dell’epoca. Dai vetri sottili ed appannati, con i suoi occhi color d’ambra, poteva scorgere leggeri fiocchi di neve cadere morbidi sulla coltra perlata, nascondere le punte aguzze e brune degli alti pini, il ciottolato grezzo delle strade. Persino William, il barbone del quartiere, aveva il naso tozzo e rosso nascosto dalla coperta ghiacciata e delicata: nonostante Londra rappresentasse le brutture delle nuove città industriali, i cristalli abbondanti donavano quel tocco di spensieratezza che un bambino come lui cercava.
Tutti erano incantati, come in una favola trasformati da ranocchi in principe e principesse.
Tutti tranne lui. Scomposto in quei passi scoordinati, avanzava con tonfi poco aggraziati sul viale appena innevato.
Dio conobbe la paura negli occhi della madre. La vide impaurita guardare la porta di casa spalancarsi e la mano destra del padre brandire una bottiglia.
Per la prima volta nella sua vita capì cosa volesse dire paura. Cosa significasse tapparsi le orecchie e nascondersi in un luogo remoto della baracca in cui viveva. Rimanere nel buio e piangere, piangere fino a che fosse stato scoperto dalle stesse mani che avevano stretto il collo senza indugio della donna stesa per terra.
Quella stessa sensazione la rivide spesso negli occhi altrui: lucidi, gonfi e dilatati in cerca di un appiglio sicuro mentre la paura li divorava vivi, mentre, svanendo, pregavano sottovoce.
E di quella stessa paura, Dio, se ne cibò. Agognava vederla crescere ed imbottire fino a far esplodere il corpo del suoi nemici; come anatre imbottite, li guardava agonizzanti in preda a lancinanti guaiti per poi cibarsene assaporando quell’unico sapore che la lingua di pietra poteva donargli.
Solo lui riuscì a sfuggirgli. Fu l’unico a stillare in Dio la paura di non farcela, di aver perso la battaglia e la guerra. Tra le braccia stanche ed indolenzite lo aveva cullato mentre chiudeva gli occhi e si lasciava andare ad un profondo e pacifico sonno eterno mentre Dio, esterrefatto invidiava la sua purezza d’animo.
La nave cadde a picco. Le fiamme colorate di un rosso e giallo splendente erano corse per tutte i corridoi interni, divorando passeggeri ignari ancora intenti a gustare la loro cena ed ascoltare musica dal vivo. Jonathan non si perse d’animo, ed a costo della vita, usò tutte le sue forze per non far ereditare, alla piccola creatura in grembo alla giovane Erina, la sfortuna della casata. Lottò senza sosta, anche quando fu certo di perdere e di dover dire addio al suo unico amore.
Negli occhi di Jonathan, Dio, non vide mai la paura.



Enrico, però, la vide.
Guardando con occhi spenti e pieni di una finta misericordia, riuscì a distinguerla nello sguardo della puttana che era corsa disperatamente da lui cercando soccorso: mentre affondava la lama nella morbida pelle del petto ornata da due grandi seni calanti e divisi dal largo sterno, apparve nella smorfia delle labbra e nella giuntura delle sopracciglia rimanendo pietrificato anche dopo l’ultimo respiro. Come un quadro, giaceva immobile nel lurido vicolo egiziano mentre i gatti, non più spaventati, si erano mossi per sperare in un probabile pasto.
Whitesnake, mosso solo dal volere del portatore, era apparso in una nube densa spingendo senza bontà alcuna, un disco nella fronte della malcapitata ancora agonizzante in una pozza di sangue e saliva.
Ci erano voluti tanti sacrifici. Tante anime devote al Signore alla ricerca del paradiso. Tante donne. Tanti uomini. Tanti bambini.
Tutti erano stati uccisi per una sola ed unica ragione. Ed il Creatore gli avrebbe accolti con misericordia.
Il numero imprecisato di vite umane erano servite a manovrare al meglio lo stand dalle fattezze umanoidi; capire che tipo di potere avesse e come sfruttarlo; comprendere i movimenti e guidarli nella giusta direzione; intuire le capacità ed abilità al fine dell’unico e solo scopo. Quello per cui era ancora vivo.
La prima vittima era stata proprio Georgette, o almeno cosi credeva di aver sentito, mentre apriva la bocca emettendo grugniti di paura. Era rimasta agonizzante nel vicolo buio illuminato fiocamente dal lampione dietro l’ombra enorme di Enrico… o almeno cosi pensava: nel momento in cui la possente mano di Whitesnake aveva spinto il disco nell’apertura sulla fronte, una luce accecante lo aveva fatto indietreggiare facendogli, istintivamente, coprire gli occhi color carbone che avevano iniziato a lacrimare. Il corpo della vittima, scosso da tremiti, era diventato molle, snodato e senza giunture pareva muoversi autonomamente prima di dilaniarsi come la carta regalo di un pacco di Natale.
Enrico, in quel frangente, ebbe la prontezza di prendere immediatamente il disco prima di essere risucchiato dentro il caliginoso vortice che aveva inghiottito, poi, il corpo.
Di Georgette nessuno ebbe più traccia. Anzi, mai nessuno chiese di lei. Un’altra vittima senza fine. Cosi come le tante altre dopo di lei.
Marco.
Marianne.
Jean.
Tolomeo.
Hassan.
Farah.
Le appuntava tutte nelle sue preghiere, in quell’eterno riposo dove oramai erano costretti a passare l’eternità.
Aveva fatto lo stesso anche con il nome della piccola Jolyne.


«Chi l’avrebbe mai creduto che un altro Joestar potesse darmi la vita» sibilò con voce roca aggiustandosi il capello bianco sopra la fronte. Avrebbe voluto sghignazzare di felicità, chiudere gli occhi e sentire il sangue pulsare nelle vene forte e preciso. Avrebbe voluto urlare e capacitarsi, finalmente, di aver vinto, ma gli occhi spaventati di Enrico lo destarono dai pensieri.
Poi, si spostarono su quelli grandi e cangianti che miravano verso di sé.
«…papà?» chiese quasi con timore afferrando con la piccola mano paffuta lo stipite della porta. Jolyne guardava i due uomini riconoscendo solo in uno la figura paterna. Restò per alcuni secondi in silenzio indietreggiando di qualche passo.
«Ho finito il disegno, vuoi vederlo?»
Sghignazza.
Hai vinto, finalmente.
Sghignazza.

«Avremo tutto il tempo del mondo, adesso.»








ANGOLO CHIACCHIERE:
Heylà! Finalmente siamo di ritorno dopo una lunga, lunghiiiiiiiissima assenza.
Devo dire che il caldo, il lavoro e l'incredibile amore sbocciato per Attack of Titan e Full Metal Alchemist, mi hanno letteralmente risucchiato non lasciando spazio a tutto questo. Ma no, con Jojo non si scherza. Affatto!
Perdonate il capitolo: avrei voluto spiattellare molte cose, farle capire e mettere in chiaro punti che per tutti i capitoli sono rimasti scoperti ( tipo perché Dio è tornato? Come ha fatto? Che fine hanno fatto Jotaro e Josuke?)... ma il mistero mi piace tanto. Mi piace se il lettore riesce a farsi un' idea propria su determinati meccanismi. Quindi si, alcune cose ho voluto ometterle ( per chi avesse dei """""buchi di trama""""", sono sempre disponibile)
Vi ringrazio, come sempre, di essere ancora qui a leggere.
Ci vediamo - il prima possibile - 
Un abbraccio virtuale

P.s: L'ultima battaglia tra Dio e Jotaro nella città de Il Cairo avviene in pieno inverno ( in un lasso di tempo che dovrebbe essere tra febbraio ed aprile - se non erro -). Per motivazioni stilistiche ho voluto traslare il tutto in estate. La trama rimane invariata.

SpeedMary
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo / Vai alla pagina dell'autore: Per_Aspera_Ad_Astra