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Autore: Persage_    29/07/2021    2 recensioni
Storia partecipante al contest "Invincibilmente fragili e imperfetti" indetto da Soul Mancini sul forum di EFP
C’era una strada, una dozzina di macchine ed un semaforo rosso a separarci.
La presa di Albe era sempre più stretta nonostante le mie proteste.
Mi ripeteva di star calma e che non c’era nulla potessi fare, però tremava anche lui.
Pregai che si voltasse, mi guardasse con aria strafottente per poi ridermi in faccia, perché
“ ‘Sta cretina ancora crede ai miei scherzi”.
Non lo fece, non mi regalò neppure uno sguardo, un saluto.
Niente.
Mentre le mia urla si confondevano nel traffico della città, tutto quello che rimaneva di Lapo era una risposta che non avrei mai ricevuto e la moto abbandonata a terra, a pochi metri da lui.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’amore. Le cose più folli si fanno in nome dell’amore. Quando si ama ti senti sull’orlo di un abisso, il passato si dimentica, il presente si dissolve, il futuro non esiste. L’amore è così: pazzo, imprevedibile, avventato. Ti assorbe, ti consuma, ti divora; si annida piano piano nel tuo cuore e ti incoraggia a ridere, a gridare, a sognare, ma soprattutto ti fa sentire totalmente viva.

[ Rebelde Way 1x25]

 

C' Era Una Strada

C’era una strada, una dozzina di macchine ed un semaforo rosso a separarci e se Alberto non mi avesse trattenuta tanta forza, sarei corsa da lui. Non c’era altro che volessi fare. Non c’era altro che potessi fare se non seguirlo sempre, nel bene o nel male. 

Non mi interessava quanto fosse sbagliato o privo di senso, io gli sarei rimasta vicino fino alla fine. Me lo sarei caricato sulle spalle con tutto il suo peso ed i suoi rimpianti ed i pezzettini spezzati della sua anima, anche se non sapevo quali fossero. 
Non me ne aveva parlato mai, non aveva avuto il tempo.
Mi piace pensare che un giorno lo avrebbe fatto.

 

C’era una strada, una dozzina di macchine ed un semaforo rosso a separarci.  
La presa di Albe era sempre più stretta nonostante le mie proteste. Mi ripeteva di star calma e che non c’era nulla potessi fare, però tremava anche lui. 
Pregai che si voltasse, mi guardasse con aria strafottente per poi ridermi in faccia, perché 
“ ‘Sta cretina ancora crede ai miei scherzi”.
 Non lo fece, non mi regalò neppure uno sguardo, un saluto. Niente. 
Mentre le mia urla si confondevano nel traffico della città, tutto quello che rimaneva di Lapo era una risposta che non avrei mai ricevuto e la moto abbandonata a terra, a pochi metri da lui. 

 

*

Conoscevo Lapo Abbagnali da quando il suo viso era ancora tondo ed imberbe e lui camminava per le strade del nostro quartiere con la schiena curva, lo sguardo torvo. 
Cercava disperatamente di sembrare cattivo eppure non faceva paura a nessuno se non ai suoi amici, che erano quasi tutti più piccoli di lui o comunque lo sembravano.  
Quando incontrava i ragazzi più grandi si rabbuiava, abbassava la testa e tutta quella spavalda sicurezza, quella forza ostentata fino allo sfinimento in ogni gesto e parola, quell’attitudine da bulletto, spariva rapidamente. Loro gli spettinavano i capelli ridacchiando per rimetterlo al suo posto e Lapo smetteva di emulare gli eroi dei suoi film preferiti e tornava ad essere un ragazzino di dodici anni come tutti gli altri, forse più antipatico.  

Non piaceva alla gente, anzi.
C’era qualcosa di respingente nel suo sguardo, qualcosa che mi avrebbe accecata una volta cresciuta. 

Somigliava al dolore, credo. Nessuno ha mai saputo decifrarlo.

Crescendo Lapo era diventato uno di quelli con scritto in fronte “Stronzo patentato, con tanto di lampeggianti, e si sentiva un passo avanti a tutti proprio per questo. Era ancora poco più che un ragazzino allampanato, ma quei due peli che gli erano spuntati sul volto ora scavato erano bastati perché smettesse di chinare il capo. 
A sedici anni camminava tenendo le mani nelle tasche, pronto a prendere a spallate chiunque ed ignorava chi gli passava accanto come non fosse degno della sua attenzione, espressione beffarda e mascella serrata.

E mentre lui acquistava quella sfrontata sicurezza di sé, io, ad appena una strada di distanza, scoprivo una strana, bruciante insoddisfazione guardandomi allo specchio, che mi faceva pizzicare gli occhi e coprire la bocca con una mano per reprimere i singhiozzi. 
Avevo quattordici anni e custodivo gelosamente il mio dolore.
Era la mia giusta punizione, l’unico modo che sentissi di avere per crescere davvero, per essere come tutte le ragazze che frequentavo e che credevo ingenuamente fossero mie amiche. 

A quell’età è una guerra di tutti contro tutti, devi solo sperare di capitare nella squadra vincente e a volte anche questo ha suoi svantaggi, soprattutto quando tu per prima non ti senti all’altezza.
Così passavo intere ore di fronte allo specchio, con la porta chiusa a chiave e la musica alta che bastavano a farmi sentire un’adolescente incompresa, tragica eroina della mia stessa storia, di un dolore autoinflitto che era l’unica cosa conoscessi davvero di me. 

Mi piaceva guardarmi allo specchio e stringere la carne in eccesso, quel corpo che cambiava velocemente senza neanche me ne accorgessi, avvicinarmi con il viso tanto da appannare il riflesso con il mio respiro per poter contare ogni singola imperfezione della pelle. 
Mi piaceva farmi male in quel modo, bullizzarmi al punto di piangere per ore, perché dopo mi sentivo vera e avevo la forza per decidere che di lì in poi sarebbe cambiato tutto e sarei stata bella come le altre.
 Inutile dire che il giorno dopo ricominciavo da capo. 

Ma a me quel dolore piaceva, mi faceva sentire viva. 

 Lapo era la stessa cosa.
Era il mio dolore, la mia insoddisfazione e ne era anche la cura. 

 Mi bruciava e mi consumava eppure non mi sarei mai più sentita tanto reale come tra le sue braccia. 

Lapo fu il mio primo ragazzo, o almeno così mi piaceva pensare. In quel periodo avevo cominciato a truccarmi pesantemente, non sorridevo per via dell’apparecchio e tutti mi trovavano strana. Lapo fu una specie di regalo e mentre le mie vecchie amiche avevano preso ad evitarmi io credevo di aver spiccato il volo con lui.
Peccato che alla fine non fosse nulla di più che un piccolo salto nel vuoto. 

A quel tempo Lapo era un’idiota di quelli che sanno solo fare battute fuori luogo e ti infilano le mani nei pantaloni senza pudore, uno di quelli che non sa apprezzare la tenerezza di un sorriso e la dolcezza delle prime volte.  

Per lui c’era solo il tutto subito, senza mezze misure. Squallido. 
Non mi cercava mai ed il più delle volte non mi guardava neppure. 
Era nata e finita così, con me che scendevo sotto casa nostra e lui che mi baciava, mi toccava ovunque, mi diceva che ero carina. Non parlavamo e non gli interessava cosa avessi da dire, eppure per me andava bene. 
Ero piccola, ingenua e forse un po’ stupida e, a dirla tutta, neanche a me interessava più di tanto di conoscerlo come persona. Mi piaceva il suo aspetto ed il fatto che fosse qualcuno mentre io non sentivo neppure di esistere. 
Mi piaceva che le altre ragazze ci osservassero gelosamente, avere gli occhi puntati addosso, che il mio nome passasse di bocca in bocca e tutto questo mi aveva accecata al punto che, senza di lui, mi ero convinta di non valere nulla. 
Per questo motivo Lapo Abbagnali fu anche la mia prima volta e nonostante tutto quello che sarebbe successo dopo vorrei davvero non fosse andata così. 

Gli diedi quello che voleva dopo poche settimane di frequentazione, presa dal terrore cieco che se non l'avessi fatto lui mi avrebbe lasciata.
Non volevo più stare sola, volevo avere qualcuno accanto che mi vedesse bella e mi baciasse davanti a tutti, mi desiderasse anche per finta, anche se poi svoltava l’angolo ed incontrava un’altra che trattava allo stesso modo. 

Volevo essere la ragazza di un ragazzo inarrivabile come Lapo, perchè speravo la sua luce bastasse ad illuminare anche me.  Nulla di quel che feci bastò per non essere lasciata. 
Vorrei poter dire che Lapo mi trattava male, ma la verità è che Lapo non mi trattava affatto. 
Non mi vedeva, lasciava scorrere il suo sguardo sulla mia figura come si fa con le cose insignificanti, così io lo baciavo impacciata e lui mi stringeva a sé con movimenti bruschi e non curanti. 

 

Lapo era un'abitudine di quelle nelle quali rimani anche un po’ intrappolato.

Lui con i suoi sguardi vuoti e la sua fredda diffidenza sparì un giorno come tanti, quando meno me l'aspettavo, dopo tre mesi circa di noi, qualsiasi cosa fossimo. Da quel momento in poi divenne quasi un ossessione. 
Lo aspettavo, lo spiavo con spaventosa curiosità, perché ero convinta fosse quel qualcosa che mi mancava per essere adatta, per sentirmi bella ed una spanna sopra le mie amiche. 

Era la mia giusta ricompensa per tutte quelle ore passate davanti allo specchio e si stava allontanando ancora di più da me. 

Lapo stava crescendo e mentre la mia vita era sempre più assorbita dal quartiere dove vivevamo, dalle amicizie che avevo lì, dall’amore incondizionato per i palazzi scrostati ed i volti familiari che incontravo ogni giorno, lui scappava.  Non appena avuta la possibilità e l’occasione aveva deciso di andarsene dalle vie tutte uguali e da quella gente, sempre la stessa. Abbandonò le vecchie amicizie per altre sicuramente più discutibili, gente quattro, cinque anni più grande di lui che veniva a prenderlo in macchina, urlava contro chiunque, sgommava ripartendo e me lo portava via. 
Aveva sempre minacciato di farlo, scappare, anche se nessuno aveva mai capito cosa gli avessimo fatto di male tutti noi che l’avevamo visto crescere, i suoi amici che gli erano stati sempre affianco, quei palazzi che erano stati casa sua. 

Per un periodo continuai ad uscire con i suoi amici, Nicola e Alessandro, che con me erano sempre stati più gentili di lui ma mi ci volle poco per capire era tutto inutile, che Lapo non sarebbe tornato. 

*

Come ogni cosa, con passare degli anni anche mia ossessione si spense. 

Il pensiero di Lapo si presentava di tanto in tanto, tra una cosa e l’altra della vita, quando lo incontravo per caso e mi voltavo dall’altra parte per non incrociare il suo sguardo, vergognandomi di me stessa e di lui. 
Non mi piaceva com’era cresciuto, quasi mi infastidiva.
Era rumoroso e fuori luogo, parlava con un tono di voce sempre troppo alto, senza curarsi di chi avesse intorno, con l’accento romano più calcato del dovuto ed una parolaccia sempre sulla punta della lingua, pronta ad essere usata anche nei momenti meno adatti. Era uno che cercava la rissa, poi, che se lo guardavi male ed era pure una giornata storta era capace di fermarti per strada 
“Perché tu a me nun me devi proprio guardà, hai capito?”
Aveva la faccia da schiaffi, un’espressione di superiorità che era un’evoluzione più convincente di quella che ostentava da ragazzino.
 
L’unica cosa che non era cambiata era la camminata sbilenca, curva, e la voglia d’essere cattivo per sentirsi forte.

 

 Lo incontravo spesso la Domenica mattina.
 Mentre accompagnavo mio fratello Jacopo alla messa del catechismo lui mi sfilava accanto velocemente e, senza nasconderlo, teneva gli occhi scuri puntati su noi due, troppo uguali per passare inosservati, con i capelli di fuoco accesi come quelli di un cartone animato.
Quando Lapo mi guardava, quelle mattine, il suo sguardo si incupiva e sembrava che il suo viso cedesse di colpo, tutto insieme. Le labbra si incurvavano all’ingiù,  gli occhi si intristivano ed in quei momenti, attimi fuggenti che solo noi due riuscivamo a cogliere, mi rendevo conto che io Lapo non lo conoscevo affatto, poi quando mi voltava le spalle e correva verso il bar, mi chiedevo cosa avessi di sbagliato, perché lo rendessi triste.

Solo dopo realizzavo che io per lui non contavo nulla, che ero un fantasma come tanti altri, una cornice calpestabile nel suo mondo di trasgressioni.  

Io per lui non esistevo, non ero esistita mai. 
Questo mi lasciava tanto confusa quanto amareggiata, così aspettavo che Jacopo raggiungesse le sue catechiste e tornando verso casa allungavo passando per il bar.
Lo trovavo sempre lì, seduto ai tavoli esterni in qualsiasi mese dell’anno, con la sigaretta tra le labbra ed il pacchetto appena comprato lasciato aperto, il caffè di fronte a sé e quell’unico amico che sembrava essergli rimasto.

Stavo ferma, aspettavo che la realtà s’infrangesse contro i miei pensieri sconnessi, che me li facesse in mille pezzi.Lei puntuale arrivava: Lapo non mi guardava più, non mi guardava mai eppure io desideravo ancora lo facesse, proprio come la bambina che ero stata. 

 

*

 

I miei diciotto anni furono una continua riscoperta di me stessa. Io, che di mio sono sempre stata piuttosto analitica e quasi razionale nello studio dei miei stati d’animo, non saprei dire come avvenne ma la realizzazione di esser cresciuta fu sicuramente improvvisa: un lampo, uno scatto,  qualcosa che s’allarga veloce nel petto, forse il cuore che si scioglie, forse la tua pelle, i tuoi organi che si trasformano e fanno la muta.
La crescita in sé non saprei dire quando avvenne, mi ritrovai tutt’un tratto diversa, senza possibilità di scelta né preavviso.  Nonostante le crisi tipiche dell’età ero piuttosto in pace con me stessa, non sentivo più quella necessità logorante di fingermi grande, di allontanare i miei genitori nel disperato tentativo di essere diversa da come mi volevano loro, di cercare l’approvazione altrui e soprattutto non avevo bisogno di riconoscermi attraverso un altro. 

Attorno a me quella massa di amicizie più o meno inutili s’era trasformata in volti ben definiti, pochi ma buoni, persone con cui m’ero resa conto di non aver paura di cantare ad alta voce, di ballare, di mettermi in gioco. 
A tredici, quattordici anni gli amici non te li scegli, sono quelli con cui ti trovi pur di non stare solo, ma sedici, diciassette, diciotto anni è l’età in cui scopri chi vuoi al tuo fianco, chi ti fa bene e soprattutto chi è disposto a farti male quando serve, prenderti a schiaffi quando sbagli.
Chi ti fa passare la paura di guardarti allo specchio.

 Capitavano ancora giorni in cui mi fermavo ad osservare la mia figura per ricordarmi com’ero, eppure era un’ immagine lontana, sfigurata, che non sentivo appartenermi.
Stringevo ancora la mia carne tra le mani, la tiravo nei punti in cui mi sarebbe piaciuto ce ne fosse meno, ma poi la lasciavo andare e, regalandomi un ultimo sorriso, mi rivestivo.

Perché non c’era più nessun mostro a guardarmi dall’altra parte dello specchio. 
C’ero solo io e mi ero finalmente convinta andasse bene così. 

L’esame di maturità arrivò veloce ma me lo lasciai alle spalle quasi per ultima, passando un mese circa di agonia, in trepidante attesa di potermi finalmente dichiarare libera.
E poi l’avevo fatto, che era Luglio e faceva un caldo atroce, con la maglietta attaccata al corpo per via del sudore e le mani che tremavano, torturando l’elastico che portavo al polso fino a romperlo. Uscita da scuola levai in un gesto rapido la magliettina indossata per l’esame rimanendo con indosso la canottierina di Superman, infine, con il pugno alzato ed un sorriso a trentadue denti, corsi per il cortile mentre la mie amiche si divertivano a riprendermi. 
Tiziana, che era stata una tra le prime a sostenere l’esame,  aveva un sorriso appena accennato e sembrava aspettare solo il momento in cui avrei interrotto quella pagliacciata, ma non me ne curai.  
Rebecca e Flavia mi guardavano attraverso gli schermi dei loro telefoni e ridevano con la bocca aperta, contagiate dalla mia euforia. 
Finalmente avevamo finito tutte e quattro. 

“Ora possiamo ricattarti” Dissero, iniziando a modificare il video così da poterlo postare.
Non mi interessava affatto a dire il vero. Mi sentivo così leggera che credevo di poter toccare il cielo con un dito, come se il sole fosse finalmente uscito, come se prima di quel momento non lo avessi mai visto. Ripresi a saltellare attorno a loro, sorprendendomi di me stessa.

 Solitamente ero calma, composta, attenta a mantenere un basso profilo e a non dare troppo nell’occhio. Cercavo l’equilibrio in pubblico, solo con pochi mi lasciavo andare e mai dove potessi essere vista da altri, mi piaceva l’idea di dare una buona impressione a chiunque mi guardasse anche solo per un istante, eppure quel giorno ero come estraniata dal mio corpo. Come se non fossi io, Noemi, come fossimo due entità ben distinte, come l’avessi rinnegata dopo cinque anni di liceo passati con lei e mi sentissi finalmente pronta a rinnovarmi di nuovo e cominciare una nuova vita, scrollandomi di dosso l’immagine che tutti avevano di me.

 Dopo di me, in un’altra aula dello stesso istituto, concludeva il suo esame anche Alberto Spartaro, un nome ben conosciuto al Liceo Carducci, l’ultimo arrivato che aveva organizzato da solo l’occupazione di Novembre e c’aveva persino messo la faccia con i carabinieri, fornendogli le sue generalità. 
Peccato che la sua fosse una protesta senza senso e senza scopo, dimenticata e presto accantonata. 
L’ultimo arrivato che parlava con tutti e non era amico di nessuno, schizzinoso di quella massa di coetanei che a guardarli da lontano gli sembravano poco più che bambini, mentre lui si sentiva tanto più uomo, tanto migliore. 
Troppo simile, avrei dovuto capirlo subito, a qualcuno che conoscevo. 

Una macchina nera si fermò sgommando di fronte a me e le mie amiche, frenando a così poca distanza da Alberto che per un attimo pensai lo avrebbero investito. Lui li aspettava con le braccia aperte in un gesto teatrale ed un sorriso beato stampato sul volto, probabilmente molto simile a quello che io stessa non riuscivo a togliermi. 
Un ragazzo alto e secco come un chiodo, ma sicuramente molto più grande di noi, scese dalla macchina dalla fiancata del guidatore e strinse Alberto in un abbraccio potente e caloroso, dandogli qualche pacca sulla schiena. 
Flavia aveva tirato fuori una sigaretta e li guardava, chiaramente in attesa che quel momento finisse per poter chiedere loro un accendino.
I due non accennavano a staccarsi e mentre io continuavo a scrutarli incuriosita sentii la mia amica rivolgersi a qualcun altro. 

“Ei ma non è che tu per caso avresti un accendino?”
Mi voltai a guardarla e rimasi immobile, paralizzata, con gli occhi spalancati fissi sul ragazzo che annuiva verso Flavia.
Non vedevo Lapo da mesi e quello era l’ultimo posto al mondo in cui avrei creduto di incontrarlo. Nella mia mente lui esisteva solo nei confini del nostro quartiere, era qualcosa che gli apparteneva visceralmente, come se non ci fosse uno senza l’altro nonostante lui se ne fosse andato da un po’ ormai. 
 Portava un paio di grandi occhiali scuri che coprivano gran parte del suo volto, i capelli castani erano lunghi, spettinati, i vestiti sgualciti e troppo larghi e aveva questo sorriso ampio sulle labbra diretto verso Alberto, un’espressione così serena e sincera che quasi stentavo a riconoscerlo. Non lo avevo mai visto così, era diverso ed era di fronte a me, nella mia scuola, tra le mie amiche. 

Lui, quell’entità lontana, sembrava più reale e sconosciuta che mai. 

Flavia tornò verso di me incurvando le sopracciglia con un’espressione interrogativa in volto. 
“Se quella è la faccia che fai quando vedi un ragazzo carino, capisco perché tu non ne abbia uno.” Sussurrò Rebecca.  
Flavia ridacchiò, passandole la sigaretta, mentre Tiziana mi lasciò uno sguardo preoccupato.
Lei era sempre stata più brava di loro a capirmi, sapeva quando qualcosa non andava, solo che questa volta non c’era nulla di sbagliato. Non era successo niente, quello con Lapo era un problema solo ed esclusivamente mio. 

O almeno così credevo. 
Fu solo quando Lapo si levò gli occhiali e mi guardò con gli occhi grandi puntati dritti nei miei ed un’espressione diversa dalla solita, non interrogativa e neppure saccente o intenta a prendermi in giro, ma semplicemente ferma, curiosa, attenta come mi stesse vedendo per la prima volta, che mi resi conto che c’era qualcosa di nuovo in lui e qualcosa di nuovo in me.
Non sapevo cosa fosse e ripensandoci a distanza di anni credo che avrei preferito non scoprirlo mai forse, rimanere quell’anonimo contorno nella sua vita, aspettarlo in quella posizione marginale che mi aveva sempre tenuta lontana dai guai e dalle sofferenze che persone come Lapo sono inevitabilmente destinate a portare, anche se non lo fanno apposta, anche se non lo vogliono.

 È che c’è gente troppo rotta, gente così spezzata ed affilata che è destinata a  non avere mai un lieto fine e a spezzare anche te se non sei abbastanza forte.
Io non credevo di esserlo, ma oggi sono qui. 
Forse significa  qualcosa. 

“Ciao Noemi.” 
Quando Lapo mi salutò io avvampai, non gli sorrisi e con voce strozzata ricambiai il saluto.
“Ciao Là” 
“Andato bene l’esame?” Domandò. Io mi limitai ad annuire, crogiolandomi nel fatto che Lapo Abbagnali, che non mi aveva mai considerata, che mi aveva spezzato il cuore e lo aveva calpestato, si stesse interessando del mio esame. 
Iniziai a sognare una rivincita, un ritorno, un nuovo inizio per noi eppure tutto finì lì, in sospeso con un cenno della mia testa.
Lapo salì in macchina e andò via, ancora nessuna svolta, non in quel momento almeno. 

Di nuovo, non mi guardava più. 

*
 

Passò più di un mese prima che lo rincontrassi. La domenica non si faceva più vedere ed il bar mi sembrava sempre più vuoto senza di lui.
 Avevo ripreso a frequentare i miei vecchi amici, Alessandro e Nicola soprattutto, e mentirei se non dicessi che in parte lo avevo fatto perché speravo che in qualche modo sarebbe tornato tutto come prima, solo con una maturità diversa.
Io, Nicola, Alessandro e Lapo insieme, magari questa volta amici sul serio, di quelli che passano le ore a non fare niente e riescono a divertirsi lo stesso, di quelli che non c’è bisogno neanche di sentirsi per sapere che scendendo sotto casa li troverai ad aspettarti.  
Non sarebbe mai successo, comunque.
La frattura tra Lapo e gli altri era troppo grande e profonda per essere ricucita, così grande e profonda che nessuno di loro me ne parlò mai, né prima né dopo. 

Con il passare delle settimane smisi di cercarlo, di voltarmi continuamente per controllare se stesse arrivando, di chiedere –più o meno indirettamente –di lui in giro. Era come se, qualsiasi cosa fosse quella strana ossessione che provavo nei suoi confronti, funzionasse ad intermittenza. Si accendeva senza che potessi fare niente, in un secondo mi travolgeva, ed altrettanto inaspettatamente scemava via da un momento all’altro. 

Ricomparve dal nulla più magro, abbronzato e felice che mai. 
Era metà Settembre e lui non sembrava quasi la stessa persona. Camminava regalando sorrisi e saluti e chiunque e giocava a pallone con i bambini del quartiere che aveva ripreso a frequentare di tanto in tanto. 
Quel giorno avevo i capelli legati in una cipolla disordinata per cercare di sfuggire al caldo che ancora non aveva deciso di abbandonare Roma, rendendo l’aria soffocante.
Lo vidi arrivare da lontano con le mani nelle tasche ed un grande sorriso stampato in volto che sembrava essere diretto proprio a me. Io mi guardavo attorno nel maldestro tentativo di evitarlo, presa da un infantile terrore di avere a che fare con lui.  

Mi vergognavo tremendamente, come avessi davanti una commissione intera pronta a giudicarmi quando  c’era solo un ragazzetto spavaldo ed anche piuttosto strano i cui giudizi non avrebbero dovuto toccarmi minimamente. 

Uno di cui non mi doveva importare nulla.  
Uno.
Uno e basta. 

“Noemi” Mi salutò piazzandosi di fronte a me e chinandosi quel tanto che bastava per baciarmi le guance come fossimo buoni amici. Ma noi non eravamo mai stati nulla. 
Rimasi immobile, senza neppure ricambiare il gesto o mormorare un saluto. 

“Come stai?” Domandò subito dopo per riempire un silenzio altrimenti pesante. Lentamente alzai lo sguardo su di lui, domandandomi in quei pochi istanti se fossi troppo truccata, o troppo poco, se i miei capelli fossero abbastanza puliti, se puzzassi di sudore, se avessi messo troppo profumo, se per caso non fossi ridicola lì, a mezzogiorno, immobile sotto al sole. 

Mi sentii male nel rendermi conto quanto mi interessasse ancora apparire al meglio davanti  a lui. 

“Bene” Mi affrettai a rispondere, il tono troppo acuto per essere naturale. 
 Lui mi sorrise di più, un ghigno beffardo e divertito si fece largo sul suo volto. Aveva l’aria di uno che la sa lunga, di uno che ha capito tutto. 
E chissà cosa c’era da capire, poi. Io non ho mai capito nulla con lui. 

“Sono felice di saperlo.” La sua voce era diversa, meno profonda e roca, sembrava quasi delicata anche se stentavo a crederlo. Scossi il capo, cercando di ricompormi e capire cosa volesse da me Lapo Abbagnali. 
“Tu?” Domandai.  Lui annuì, ridacchiando tra sé e sé senza nessuna ragione. 
 “Non c’è male dai. Sono tornato tempo fa da Londra, sono stato a trovare Luca e mi sono fermato più del previsto.” Raccontò, riferendosi ad uno dei tanti ragazzi che frequentavano la nostra zona e che, per un motivo o l’altro, avevano deciso di andarsene dall’Italia. 
Nel caso di Luca perché voleva fare il cantante, anche se fino a quel momento si limitava a spacciare.
Feci una smorfia che a Lapo non passò inosservata, perché subito aggiunse. 

“ Fa il commesso ora. Si è sistemato bene, davvero.”  
“Sono contenta.” 

Poi ci fu un temutissimo, imbarazzante silenzio. Avrei voluto dire qualsiasi cosa purché finisse, davvero qualsiasi, ma ogni parola sembrava troppo stupida o fuori luogo e quella conversazione così apparentemente senza senso non la smetteva di ripetersi nella mia mente, nonostante lui fosse ancora lì, davanti a me.
Nonostante potessimo ancora parlare. 

  “Senti…ma non è che per caso per caso avresti una sigaretta?” Chiese lui, mordendosi il labbro inferiore in attesa. 
“Tieni” 
“Grazie mille” 

L’autobus arrivò proprio in quel momento, pensai fosse un miracolo, pensai d’essere salva dall’imbarazzo e dal disagio. 
“Allora…ciao.”
 Gli feci un cenno con la mano per salutarlo e m’incamminai verso il vecchio autobus, che sobbalzava in un modo poco rassicurante.   
“Aspetta Noemi”  Mi chiamò lui.  “Se vuoi qualche volta ce la fumiamo insieme una sigaretta e magari ti offro un caffè.”
Avrei dovuto trovare strana quell’improvvisa gentilezza, avrei dovuto indugiare di più eppure tutto quello che feci fu sorridergli come non avevo mai sorriso a nessuno. 
Come non credevo di saper sorridere. 

 

Sapevo da sempre chi fosse Lapo Abbagnali.  
Era uno di quelli con scritto in fronte “Stronzo patentato, con tanto di lampeggianti, e si sentiva forte proprio per questo. 
Sapevo da sempre chi fosse Lapo per questo rimasi immobile, con le cuffie nelle orecchie, confusa ed incredula per i trenta minuti successivi.  Poi il mio telefono vibrò. 

Una notifica di instagram: “ lapo.ab vuole inviarti un messaggio.”

 

*

 

Contro ogni mia aspettativa quel caffè lo prendemmo davvero.

 Ricordo di aver passato ore davanti allo specchio prima di quell’appuntamento e di aver indossato alla fine nulla di più che un pantaloncino di jeans e una t-shirt fin troppo larga, convincendomi, scaramantica com’ero, che se mi fossi preoccupata troppo del mio aspetto avrei rischiato che non si presentasse.
 Mi ripetevo che non mi interessava davvero, anzi, se non ci fossimo visti non sarebbe cambiato nulla, eppure avevo questa curiosità a divorarmi le viscere e sentivo il bisogno di sapere cosa potesse volere Lapo da me dopo tutto quel tempo. 

Ci incontrammo sotto il mio palazzo, venne a prendermi in macchina nonostante fossimo praticamente vicini di casa.
Lapo guidava uno scassone grigio chiaro, con la vernice scrostata e vecchio di almeno quindici anni,  che ballava ad ogni buca prendessimo e puzzava di fumo misto ad uno scadente deodorante che invece di migliorare la situazione peggiorava tutto. 
A me piaceva, quell’odore sgradevole, come mi piaceva quella macchina che i suoi genitori avrebbero rottamato qualche mese dopo. 
Fu lì la nostra vera prima volta, qualcosa di diverso dal sesso sbrigativo e forzato di quando ero ragazzina, marchiato dalla vergogna delle tappe saltate e del tutto subito. 
Fu lì che mi accorsi di amare Lapo, anche se non ne avevo motivo e non sapevo perchè, anche se era una costante della mia vita che conoscevo a malapena, anche se non avrei capito mai davvero chi fosse. 
Fu lì. 

Salii in macchina con il sorriso tiepido di chi deve nascondere l’emozione, lui guidava tranquillo mentre il cuore mi balzava in petto tanto forte che avevo paura potesse uscirne. Gli chiesi se potessi fumare una sigaretta e così iniziai ad aspirare rumorosamente, nel tentativo blando e mal riuscito di calmarmi. 
“Volevo venirti a prenderti in moto.” Disse lui. “Ma mi pare non ti siano mai piaciute, ti fanno paura. Vero?” 
Arrossii, stupita del fatto che ricordasse qualcosa di me, qualcosa che io stessa non sapevo di avergli confessato molti anni prima.  “Non credevo te saresti ricordato .”

“Bhe si, ogni tanto ti ascoltavo.” Replicò lui, ridacchiando e voltandosi per guardarmi. 
Avrei dovuto arrabbiarmi, scendere dalla macchina e mandarlo a quel paese perchè non solo era stato uno stronzo con me quando ero una ragazzina indifesa, ma ne era anche perfettamente cosciente. Avrei dovuto e avrei voluto, eppure tutto quello che feci fu rimanere ad osservarlo per rendermi finalmente conto che io ero lì con lui e che, con i suoi grandi occhi scuri e le fossette fin troppo accentuate che diventavano tutt’uno con le rughe d’espressione intorno agli occhi, con i capelli scompigliati dal vento e la solita faccia da figlio di puttana, da uno che ce l’aveva scritto in faccia quanto potesse rovinarti la vita, Lapo Abbagnali stava sorridendo proprio a me. 

Mi sarebbe piaciuto essere come la protagonista di una bella storia, una donna forte ed indipendente, una in grado di imporsi e non tornare tra le braccia di uno stronzo, ma se dobbiamo essere realisti io con lui quella forza non l’avevo avuta mai. Lapo era tutto ciò che avevo sempre desiderato, era il mio lasciapassare per la vita che sognavo, il ragazzo che nessuna era riuscita a tenersi e quello che avrei voluto far innamorare.      

La cosa peggiore? Se io conoscevo poco di lui, lui non sapeva nulla di me.
Volevo piacergli ad ogni costo, volevo fosse mio e non ero in grado di essere me stessa davanti a lui, tranne quando facevamo l’amore.
Due corpi che si cercano nella disperazione della notte, le bocche che si sfamano, i respiri ansimanti, gli occhi che piangono senza un motivo, l’amore che diventa tristezza, i singhiozzi spezzati di Lapo, stretto tra le mie braccia, i giorni di silenzi per tornare poi dove eravamo stati prima, dove eravamo stati bene, stretti, avvinghiati l'uno all’altra fino a non respirare più. Queste erano le uniche cose sincere tra di noi e al contrario di quello che ci insegnano tutte le migliori storie d’amore, non credo fosse sbagliato.

 Forse, se avessimo avuto altro tempo sarebbe andata diversamente. 
Io non lo rinnego questo amore, certo a metà, ma pur sempre il primo, indimenticabile ed intenso. 

Quell’uscita e tutte quelle che seguirono non so raccontarle.
Sono frammenti, ricordi confusi che intrecciano male, come pezzi di un puzzle sbagliato. 

Si muovono e alternano veloci nella mia mente, momenti diversi si sovrappongono e mi confondono.
Forse è colpa del trauma, forse è un meccanismo di difesa, o magari semplicemente è il mio inconscio che non vuole che io racconti, perché quel poco tempo che ho avuto per stare con Lapo è mio ed l’ unica cosa che nessuno potrà mai strapparmi. 

Credo ormai l'abbiate capito, questa non è una storia a lieto fine e non è neanche una storia, a dirla tutta. 
É il piccolo frammento di una vita troppo breve, di un amore che non ha avuto tempo di nascere, è un ricordo lontano di una sensazione irripetibile e di un sogno spezzato. 
É un esercizio che mi è stato imposto di fare per andare avanti, per provare a superare tutto.
Ecco, io non credo basti. 

Non credo basterà mai niente. 

La verità? Mi è stato chiesto di scrivere di me e di Lapo e io ci ho provato, davvero, ed è stato anche bello ricordare, fino a un certo punto, fino a quando Lapo non è stato davvero parte della mia vita.
Prima di quel periodo io non avevo ancora perso nulla.
 Ora si, invece. 

Ho perso quello che avrebbe potuto essere l’amore della mia vita. 
Ho perso il ragazzo che mi ha accompagnato per tanti anni, un pensiero recondito nella mia mente, un sogno che sembrava irrealizzabile e mi è stato portato via proprio quando sembrava prendere forma tra le mie mani, quando potevo finalmente stringere quel corpo caldo tra le mie braccia nude. 

Lapo mi ha spezzato il cuore, in mille modi diversi. 
L’ultimo è stato il giorno dell’incidente. 

 

Lapo Abbagnali, uno stronzo patentato che conoscevo da sempre, è morto quando aveva poco più di vent’anni, una sera all’inizio della primavera, tre giorni prima del suo compleanno.
Il regalo che avevo comprato per lui, ironia della sorte un paio di guanti per andare in moto, è ancora incartato in un angolo del mio armadio. Non ho mai permesso a nessuno di toccarlo. 

Ci frequentavamo da qualche mese appena e quel che c’era tra noi, qualsiasi cosa fosse, non era sana. Ci vedevamo quasi ogni giorno, prendevamo un caffè insieme e parlavamo delle nostre giornate, non esisteva nulla oltre il presente per noi ed il futuro era un argomento taboo,  per lui perchè non sapeva che fare nella vita, per me perchè in cuor mio odiavo ammettere che volevo la certezza ci sarebbe stato. 

Lui non era pronto a darmela. 

La notte facevamo l’amore, ci incontravamo dopo una serata con i rispettivi amici, fingevamo di voler solo parlare, ci sedevamo vicini su un muretto, sotto casa o in pieno centro non importava, poi lui allungava la mano dietro la mia schiena, mi afferrava i fianchi, carezzava le curve del mio corpo mentre fumava in silenzio. Mi stringeva la mano e con il pollice ne carezzava il dorso, mi guardava con i suoi occhi profondi e io non ero più in grado di resistergli. Non volevo. 

Così ci alzavamo, con gli sguardi incatenati, e in qualche modo finivamo nella sua macchina e le nostre mani lasciavano impronte di fuoco sui vetri appannati. 
Fare l’amore con Lapo era bello, conosceva il mio corpo meglio di chiunque altro, mi toccava con una delicatezza che non era facile attribuire a un tipo come lui, era passionale e dolce, non mi faceva sentire usata, mi riempiva di attenzioni, si lasciava sfuggire parole dolci dalle labbra mentre mi baciava la fronte, le tempie, gli occhi ed il viso intero, come a voler segnare il suo passaggio ovunque potesse. 
Ogni tanto si spingeva oltre, diceva cose che non ho mai creduto pensasse davvero, ripeteva come una preghiera parole d’amore a cui io fingevo di non dare peso, ma che poi vorticavano nella mia testa per giorni, o a volte settimane, finchè non ci vedevamo di nuovo. 
Perchè quando succedeva, Lapo mi allontanava, creava un muro tra di noi, mandava a puttane tutte le mie aspettative e mi faceva sentire una delle tante, di nuovo invisibile.
Mi feriva fino a farmi perdere il sonno e la fame ed io puntualmente mi ripetevo che lo avrei lasciato stare e puntualmente questo non avveniva. 
Qualsiasi cosa provassi per lui era troppo grande per potervi rinunciare e, con il senno di poi, mi piace pensare che per Lapo fosse lo stesso, che quelle sue fughe improvvise e quei ritorni maldestri non fossero altro che semplice paura di affezionarsi. O di averlo già fatto. 

Lapo è morto davanti ai miei occhi, una sera di Aprile di due anni fa. 
Mi aveva finalmente presentato i suoi amici, mi aveva stretta a sé davanti a loro senza vergogna, mi aveva baciato i capelli mentre ascoltava i loro discorsi che io non capivo ma che fingevo di seguire per educazione, su gente di cui mi interessava poco e niente. L’unica cosa che percepivo erano le labbra di Lapo sulla mia nuca, le braccia magre ma toniche che stringevano il mio corpo e il suo petto contro la sua schiena, il respiro profondo di quando non vedeva l’ora di rimanere soli, per appartarci e amarci completamente. 
Quella sera per la prima volta aveva deciso di venire in moto dopo tanti mesi che lo avevo costretto a prendere la macchina perché avevo paura. 
A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi insistito di più. 


Ricordo di aver bevuto, ricordo di non essere voluta salire sulla moto. Ero ubriaca e spaventata.

“Io su quel cosa con te non ci salgo, all’andata hai guidato come un pazzo.”  Avevo detto. 
Poi avevo chiesto un passaggio ad Alberto, perchè volevo tornare a casa, non pensavo razionalmente e Alberto lo conoscevo più o meno, eravamo nello stesso liceo, potevamo essere amici volendo. Lapo si era arrabbiato, mi aveva presa per un braccio per convincermi ad andare con lui, poi mi aveva baciata e aveva sussurrato all’orecchio che avevamo da fare, io e lui soli. 

“Lascia la moto qui e torna con noi, poi stiamo insieme io e te e domani veniamo a riprendere la moto. Ti prego.”
Ma lui non aveva voluto sentire ragioni.
Era salito sulla sua maledetta moto, era sfrecciato via, più veloce e incazzato di quanto avrebbe dovuto, incurante delle mie urla che lo imploravano di aspettarmi e tornare indietro e delle lacrime che minacciavano di scendere giù dai miei occhi. 

Non fece che cento metri o poco più, poi arrivò una macchina, da chissà dove, a una velocità folle che avrebbe tranciato via chiunque, figuriamoci uno come Lapo, così piccolo e scoperto su quell'ammasso di ferro a due ruote.
Era indifeso. 
Era fragile. 
 



Non c'è molto altro da dire.
É
 arrivata una macchina. 
É arrivato un assassino.
Me lo ha portato via per sempre. 

Da quel momento c’è stato solo il rumore di lamiera accartocciata e una strada, una dozzina di macchine ed un semaforo rosso a separarci e Alberto che mi stringeva con forza mentre tentavo di correre verso di lui. 
Lapo però non c’era già più.
Morto sul colpo, con il sottofondo delle mie urla nelle orecchie. 
Mi chiedo solo se sia riuscito a sentirmi, mentre, immobilizzata su quel marciapiede, giuravo di amarlo con tutto il fiato che avevo in petto. 

 

Mi chiedo se sappia che a distanza di due anni lo giuro ancora.


Parole: 6236
Questa non è una storia breve, quindi mi sento di ringraziare chiunque abbia avuto l'enorme pazienza di leggerla fino alla fine. Era un'idea che mi balenava nella mente da tempo e lasciata incompiuta tra le cartelle del mio PC ma che grazie al contest Soul Mancini ha ritrovato vita e già per questo mi sento soddisafatta e felice. 
So che ci sono dei punti oscuri, in questa storia, ma voglio specificare che sono voluti. Noemi non saprà mai tante cose di Lapo, per questo lo desideri, può solo immaginarle che poi è quello che spesso ci capita nella vita, un primo amore idealizzato di cui non sappiamo tutto ma che desideriamo e amiamo chissà perchè. Spero che almeno qualcuno abbia potuto rivedersi nei sentimenti descritti, sarebbe una grande vittoria. 
   
 
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