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Autore: l y r a _    30/07/2021    0 recensioni
Il secondo anno di liceo di Tooru Oikawa è un gran macello. Lo dice Hajime Iwaizumi, il suo migliore amico da una vita, e precisa che lo sarebbe stato un po’ meno se non avessero incontrato Sakurai e subìto tutte le sue complicazioni patologiche.
Il primo anno di liceo di Megumi Sakurai è un fallimento annunciato e lei è arrogante, ambiziosa e ha scrupoli quanti gli spiccioli nel suo portafogli: nessuno. Lo dice tutta Sendai ed è tutta la verità.
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[Oikawa/OC | UshiShira | Accenni OC/Ushijima | Perpetrato reato di canon/OC ]
Genere: Generale, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Kenjiro Shirabu, Nuovo personaggio, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 17

Neve

L’ultima campanella del 2011 per Tooru ebbe un suono diverso e per diverso non intendeva la versione oscena di My lover is Santa Claus che Makki e Mattsun intonavano a turno nei corridoi durante i cambi dell’ora e che era costata loro un’eroica punizione. A quel proposito, il palleggiatore sospettava che Matsukawa avesse persuaso Hanamaki a farlo per sottrarlo per qualche ora ai tentacoli opprimenti di Maeda.
Avere un appuntamento alla vigilia di Natale non era una novità: i giapponesi, di quella tradizione europea, coglievano esclusivamente il lato romantico e così si era trasformata nella giornata degli innamorati. Non ricordava nemmeno con chi fosse uscito in quell’occasione l’anno precedente, ma era certo che la serata si fosse conclusa per lui nel più piacevole dei modi. Quest’anno – si rammentò con un fremito – tutto avrebbe dovuto svolgersi con molta più calma e, oltretutto, le previsioni del tempo non erano certo favorevoli alle passeggiate romantiche fra coppiette.
«Fa un freddo boia!» si lamentò Iwaizumi pigiandosi in testa il cappello di lana per ripararsi da una folata di vento gelido, gli stivali che affondavano nella neve fino al ginocchio.
Tooru richiuse l’ombrello: tenerlo aperto non serviva più a nulla, se non a tentare il vento perché lo rompesse. Lo appese al gomito e infilò le mani in tasca, perché nemmeno i guanti potevano nulla contro quella temperatura: aveva completamente perso la sensibilità delle dita. Immaginò di palleggiare in quelle condizioni e ringraziò che gli allenamenti fossero sospesi per la settimana successiva. Osservò il cielo plumbeo e trattenne un brivido.
«Sarà così anche domani.» sospirò triste «Ciao ciao passeggiatina mano nella mano fra i negozi del centro! Io e Gumi-chan siamo proprio sfortunati!»
«Non siete mica l’unica coppia ad avere un appuntamento a Natale!» protestò ad alta voce l’amico proseguendo a forza, il vento soffiava così forte che per farsi capire dovevano gridare «E poi non può andarti bene tutto! Prima fila per Falcons contro Hornets, con la ragazza che ti piace e che resta a casa tua per la notte! Cos’altro vuoi?»
«Avevo pensato di portarla a cena fuori!» ammise sovrastando il vento «Così i miei avrebbero avuto meno tempo per fare domande, ma con questa bufera di neve riusciremo sì o no ad andare a casa a piedi! Una bufera di neve a dicembre! Ma quando mai?»
«Non lamentarti e goditi la serata! A che ora la vedi?»
«Alle sei e mezza. Finisce di allenarsi alle cinque, ma ha bisogno di tempo per lasciare i suoi bagagli a Ushiwaka prima che parta il suo autobus. Ci vedremo alla stazione di Tomizawa
«E cosa sa Ushiwaka?» Hajime rise e lui fu contagiato dall’ironia.
«Non ne ho la più pallida idea! Ti va di essere la mia guardia del corpo?»
«Preferirei di no! Perciò cerca di tenere le mani a posto!»
«Sono un gentiluomo, non un animale, Iwa-chan, non farei mai una cosa del genere!»
«Certo, tu adesso vorresti farmi credere che se in casa tua non ci fosse nessuno e Sakurai fosse ben disposta, te ne staresti sereno e composto nella tua stanza mentre lei dorme nell’altra!»
«Se fosse ben disposta sarebbe tutto un altro paio di maniche, ma probabilmente non mi sarebbe piaciuta abbastanza! Mi piacciono le sfide, lo sai!»
«E io che m’illudevo che per una volta avessi intenzioni serie!»
«Iwa-chan, le ho!» ribadì sincero «Se dovessi vincere, non la lascerei andare mai. Ma non è questo il momento giusto, ha bisogno dei suoi tempi. E comunque, ti assicuro che non riuscirò comunque a dormire domani notte.»
«La tua mano rimane sempre la soluzione migliore.»
«E piantala, domani non posso di sicuro!»
«Sei così rumoroso? Fai sempre più schifo.»
«No! È una cosa diversa: è più l’idea che sia nella stanza accanto e ci separi solo un muro di cartongesso. Sono emozionato anche solo a pensarci: sono così felice che tutto quello che vorrei farci è dormirci abbracciato. Ma non ho affatto aspettative così alte: per me la serata sarà andata bene anche solo se non litigheremo e la mia famiglia non l’avrà messa a disagio. Non chiedo nient’altro, mi accontento.»
Intanto era consapevole di chiedere tantissimo: con Megumi mai nulla filava perfettamente secondo i piani, al contrario era più semplice che tutti i suoi progetti venissero scompigliati da cima a fondo. Ancora più probabile, poi, era che l’invadenza di casa Oikawa causasse incidenti di entità non indifferente.
«Andrà tutto bene!» urlò Hajime più forte del vento, come se potesse leggergli nella mente. Probabilmente lo faceva già, ma si ostinava a tenere il segreto.
Tra le fibre del suo cappello e della sua sciarpa si erano impigliate decine e decine di fiocchi di neve, come quella volta in cui – diversi anni prima – erano rimasti nella neve fino a tardi per tirar su un pupazzo di neve impeccabile. In realtà il loro capolavoro era bruttissimo e il giorno dopo uno spazzaneve lo avrebbe abbattuto, cosicchè a entrambi sarebbero rimasti solo la rabbia e diverse linee di febbre. Quanto avevano? Forse nove o dieci anni. Ricordava che, obbligati a restare a letto, si sentivano tutto il giorno al telefono e che Hajime aveva vinto la sfida a chi avesse la febbre più alta, dopo che la mamma di Tooru aveva fatto la spia rivelandogli la sua esatta temperatura. L’aveva presa molto male, quella sconfitta, quando anni dopo ne avrebbe riso.
«Pensavo che Gumi-chan non ti piacesse!»
L’amico annodò più stretta la sciarpa attorno al collo, lottando contro il vento che gliel’aveva sciolta per l’ennesima volta.
«Infatti a me non piace, piace a te. Farà meglio a non comportarsi da psicopatica, questa volta, o mi assicurerò personalmente che tu ci metta una pietra sopra e che lei ti stia alla larga per sempre. Le farebbe anche comodo fare la persona normale, dal momento che ricambia.»
Tooru scoppiò a ridere: condivideva solo in parte l’ottimismo dell’amico, che poco più di un mese prima aveva trascorso tutto il tempo del tragitto dal parco divertimenti a casa sua a sottolineare con dovizia ogni piccolo segnale che Megumi nutrisse un qualche interesse per lui. Quando gli aveva raccontato di come si erano abbracciati alla fermata dell’autobus, lui aveva sentenziato soddisfatto che i giochi fossero fatti. Eppure con Megumi i giochi non erano mai fatti davvero: era sempre imprevedibile e sorprendente, come il jolly di un mazzo di carte da poker. Lo tiravi fuori dal mazzo e poteva fingere di essere qualsiasi cosa: un asso di cuori, un fante di fiori, un due di picche. Al solo pensarci, fu percorso da un brivido piacevole, molto diverso da quelli causati dal freddo di quei giorni.
Ad esempio, Tooru non avrebbe mai creduto che sarebbe stato Hajime a persuaderla ad accettare la sua ospitalità: aveva tentato di rassicurarla senza successo in diversi modi e per lungo tempo, mentre l’amico era entrato a gamba tesa e, in pochi minuti, aveva ottenuto una risposta affermativa. Non aveva voluto riferirgli cosa le avesse detto, ma gli era tanto grato che si era ripromesso di offrirgli il pranzo per una settimana intera e moltiplicare il budget già piuttosto elevato del suo regalo di Natale. Sapeva benissimo che Iwaizumi non lo faceva aspettandosi qualcosa in cambio, spontaneo com’era, ma era il suo modo di ringraziarlo. Leggendogli ancora nel pensiero, l’amico gridò contro l’ennesima folata gelida.
«Non andrete certo in centro a prendervi una cioccolata calda, con questo tempo, ma almeno le hai preso un regalo?»
«Non volevo prenderle nulla… sai, non voglio metterla a disagio suggerendole di regalarmi qualcosa in cambio, visto che le sue finanze sono un disastro. Però alla fine ho deciso di farle un pensierino non troppo costoso, così non si sentirà in dovere di ricambiare. C’è una nella mia classe, sua madre dipinge a mano orecchini in legno: gliene ho preso un paio a forma di peonia, che è di buon auspicio. Sono l’unico accessorio che può tenere addosso quando gioca, quindi sono un ottimo portafortuna.»
L’amico sorrise impressionato.
«Quest’anno ti sei impegnato! Sei lo stesso che lo scorso Natale ha regalato alla sua ragazza una sciarpa qualsiasi all’ultimo momento?»
«Ah, ecco chi era! Stamattina non mi ricordavo con chi fossi uscito lo scorso anno a Natale. Sachiko era del liceo Akiyama, dall’altra parte della città… non ci vedevamo praticamente mai, ma la vigilia fu molto…»
«Non voglio saperlo perché non mi interessa!» tagliò corto l’amico.
«La settimana dopo ci siamo lasciati. Era carina e la sciarpa non era così male. Gumi-chan è molto meglio, ad ogni modo, e gli orecchini s’intonano perfettamente con i suoi colori.»
«Ed ecco svelato il mistero: hai consultato tua sorella!»
«Iwa-chan, l’idea degli orecchini è mia, lei mi ha solo aiutato a sceglierli. Se ne intende, sarebbe stato molto stupido non chiederle un parere.»
«Quindi adesso lo sa? Conoscendola ti avrà strapazzato come un peluche.»
Tooru rise perché Iwaizumi aveva ragione.
«Ah, che invidia! Se ti scoccia farti strapazzare, mi offro volontario.»
«Non ci pensare nemmeno! Mia sorella è troppo grande per te, e anche troppo bella e intelligente, Iwa-chan. Non ha nemmeno un difetto! Non a caso, io le somiglio tantissimo!»
Per tutta risposta, l’amico passò una mano inguantata sul parabrezza di un’auto parcheggiata ai bordi della strada e gli gettò una palla di neve in pieno viso. Il tempo che Tooru si ripulisse e ne aveva già una nuova pronta fra le mani.
«Ti sbagli» lo corresse sghignazzando famelico «tua sorella ha un solo difetto: suo fratello minore, per il resto è perfetta!»
«Iwa-chan!» protestò scrollandosi la neve di dosso «Potresti piantarla di essere sempre così cattivo con me?»
Schivò appena in tempo la seconda palla di neve e si chinò per prepararne una a sua volta. Doveva stare attento a non ammalarsi, perché il giorno successivo desiderava essere in piena forma, ma non poteva respingere una sfida aperta. Hajime appallottolò un nuovo pugno di neve: la strada verso casa non era mai stata così lunga.
 


Megumi si vide mettere in mano una vanga da Noriko Kurihara in persona, con l’ordine di liberare i gradini della palestra dalla neve. La scusa accampata dalla studentessa più grande era che suo nonno l’avesse convocata con urgenza nel suo ufficio, ma Megumi sapeva benissimo che si trattava soltanto di un pretesto per giustificare la sua pigrizia. Non era un lavoro difficile: lo aveva fatto un sacco di volte a casa sua e in più era troppo di buon umore perfino per seccarsi a causa di uno scaricabarile così spudorato. Mentre raccoglieva la neve in una montagnetta a destra dei gradini d’accesso, cercò di immaginarsi con indosso gli abiti che aveva scelto per quella sera, quelli che avevano passato il severo esame di Risu. Di certo avrebbe sofferto l’assenza del suo cappello di lana grigio tutto infeltrito, bocciato su due piedi dalla compagna di stanza. L’amara verità era che il suo guardaroba non presentava una scelta sufficientemente varia e che lei non se ne era mai preoccupata perché non aveva mai avuto bisogno di prepararsi per un appuntamento. E poi a Oikawa sarebbe certamente piaciuto se lei avesse indossato una gonna corta e un paio di calze sopra il ginocchio, ma seppure avesse avuto il fisico giusto per permettersele entrambe, non avrebbe mai acconsentito a morire di freddo per attirare l’attenzione di un ragazzo. Comunque – si ribadì – non intendeva in alcun modo attirare la sua attenzione: quel che le premeva era capire che cosa provasse veramente per lui. Allora perché sentiva addosso tutta quell’eccitazione? Piantò la pala nel mucchio di neve e infilò la chiave di Noriko nella toppa del portone di ferro. In palestra faceva tanto freddo quanto fuori, invidiò Mikoto e il fuoco scoppiettante nel caminetto del suo chalet di montagna. Mentre attendeva che le altre arrivassero, fece il giro della palestra e accese quante più stufette alogene trovò funzionanti.
Chissà se l’avrebbe abbracciata ancora, si chiese accovacciatasi di fronte all’ultima stufa e tendendo le mani per ritrovare la sensibilità. Era stato crudele a darle solo un assaggio di quel tepore così dolce e a non farglielo provare mai più. Se chiudeva gli occhi, ricordava distintamente ogni sensazione, dal suo profumo al contatto delle sue labbra sulla sua guancia. Voleva vederlo: desiderava spazzare via le ultime ore che la separavano dall’appuntamento e correre a Tomizawa. Il pensiero la faceva tremare, ma non stava più nella pelle e aveva paura.
I cardini della porta stridettero mentre veniva aperta dall’esterno.
«Lascerò un reclamo firmato sulla scrivania del preside, non è possibile allenarsi in queste condizioni!» si lamentava Naomi con Yoshida.
Megumi scattò in piedi all’istante, l’allenatrice e la capitana le rivolsero uno sguardo perplesso: si aspettavano di trovare Noriko come al solito, e – se fosse stata presente – Naomi le avrebbe anche chiesto di sollecitare la questione riscaldamenti con suo nonno, ed invece ad aprire e a spalare diversi centimetri di neve era stata una primina.
«Non è un gran problema.» spiegò la ragazza con sincerità «Alla fine non è stato un lavoro così faticoso.»
Naomi non doveva pensarla allo stesso modo, perchè pochi minuti più tardi – quando Kurihara le passò davanti furtiva – la prese da parte per una ramanzina sulle responsabilità. Kaori, imbacuccata in una pesantissima felpa di pile lilla che Megumi avrebbe tanto desiderato possedere, aggrottò le sopracciglia.
«Spero che la signorina Kato non le dia una punizione o qualcosa del genere.»
«E che t’importa?» le domandò Satsuki Hamasaki. Megumi provava sempre un fastidioso senso di colpa quando le era vicina, perché la nuova formazione ideata da Naomi aveva tagliato fuori l’opposta in suo favore. Hamasaki era una studentessa del secondo anno e Megumi si sentiva una ladra a soffiarle il posto, il che era curioso visto che solo pochi mesi prima l’avrebbe considerato per niente fuori luogo. Si vergognava non poco di essersi dimostrata così altezzosa e arrogante con le sue compagne di squadra: le parole dell’ex-capitana Inoue, durante il festival scolastico, le avevano offerto una versione dei fatti diversa da quella che ricordava, una prospettiva in cui era stata lei a farsi volontariamente escludere, senza dare alle altre la possibilità di esserle amiche.
«Preferirei che non la privasse del diritto di giocare titolare a Nara.» confessò la nuova palleggiatrice tremando nel suo felpone «Me la faccio sotto, dico davvero.»
«Non sei affatto male!» la rassicurò la studentessa più grande con un sorriso gentile «E Noriko non ha alcun diritto di prendersela, se dovesse accadere. Voglio dire, io so già che Megumi giocherà dal primo set, ma non me la prendo affatto. È una decisione di Naomi, e se l’ha presa significa che è per il bene della squadra.»
«Mi dispiace, Hamasaki.» si scusò Megumi, ma l’altra agitò una mano per suggerirle di non preoccuparsi troppo.
«Ragazze, non dovete pensarci così tanto. Da quando è arrivata Naomi sono cambiate molte cose, tutte in meglio. Siete solo al primo anno, ma siete forti! L’anno prossimo faremo scintille, ne sono sicura: prendetevi tutto il tempo di ambientarvi, ormai quest’anno è andata così.»
«Satsuki, non starai soltanto cercando di sfuggire ai lupi di Nara
«Kaori-chan, credo che tu mi abbia scoperta!»
Che Hamasaki raccontasse la verità o meno, Megumi non poteva biasimarla. Wakatoshi sosteneva che scontrarsi con delle avversarie così in gamba avrebbe giovato a tutta la squadra, ma più ci rifletteva, più le saliva lo sconforto. Certo, avevano sempre l’arma Mikoto, carica di malvagità come non mai, ma non le sembrava che ricorrere alle sua presunta abilità con le forze occulte fosse una decisione troppo sportiva. Forse avrebbe dovuto parlare della sua insicurezza con Tooru, ma non le sembrava il genere di argomento da affrontare durante un appuntamento.
«No, non è un appuntamento!» si ribadì un’ora più tardi davanti allo specchio del bagno.
Risu era già partita per Tagajo, ma Megumi avrebbe potuto giurare di aver sentito la sua voce confermare che, invece, quello era proprio un appuntamento di Natale. Prese la sua valigia con una mano e imbracciò il borsone più piccolo con l’altro, poi si avviò fuori dalla stanza. Wakatoshi l’aspettava proprio davanti alla sua porta e le tese il braccio per prendere il bagaglio più pesante, ma lei insistette di poter fare da sola.
Mentre camminavano, l’amico le rivolse uno dei suoi sguardi indecifrabili.
«Stai molto bene oggi. Quasi non sembri tu.»
Megumi arricciò il naso.
«Ripensamenti? Avresti dovuto farteli venire prima.»
«Non lo dico per quello. È solo un’osservazione: stai bene e basta. Gli piacerai.»
«Non sto cercando di piacergli.»
«Fai attenzione.»
«Waka-nii, me lo hai già detto mille volte e altrettante io ti ho promesso che lo avrei fatto. Andiamo a vedere i Falcons e gli Hornets e poi dormiremo in stanze diverse.»
«Per qualsiasi cosa, chiamami, terrò il telefono acceso anche di notte.»
«E ti teletrasporterai da Minamisaka?»
«No, ma te lo dico perché sei molto tesa. Forse se sai di potermi raggiungere in qualsiasi momento, sarai più serena. Se dovesse farti qualcosa… non ho mai picchiato nessuno in vita mia, ma c’è sempre una prima volta.»
Per qualche motivo, l’idea che qualcuno facesse del male a Tooru le stringeva dolorosamente il cuore, perciò Megumi si affrettò a ricordargli che non sarebbero stati soli in casa. L’orologio al polso destro di Wakatoshi segnava le sei e dieci, l’autobus per il centro passò prima di quello per Minamisaka. Si congedò dall’amico, poi filò su per la scaletta. Si lasciò cadere sulla poltroncina e strinse le mani sulle ginocchia: non stava più nella pelle. Per l’ennesima volta in quella giornata voleva vederlo.
 


 

Tooru si era detto «niente silenzi imbarazzanti», eppure era rimasto senza parole non appena aveva visto Megumi scendere dall’autobus. Era buio ma lui era riuscito a distinguerla immediatamente in mezzo al flusso di passeggeri che sciamavano fuori dal mezzo, tutti diretti come loro al palazzetto. Le andò incontro, attento a non scivolare sulla neve, Megumi lo vide a sua volta e alzò il passo, ma quando furono a un palmo di distanza rimasero impalati, incerti su come salutarsi, le guance rosse forse per il freddo, forse per l’imbarazzo, o forse per tutti e due. Tooru aprì le braccia e le sorrise incoraggiante: non vedeva l’ora di abbracciarla dalla prima e ultima volta in cui era accaduto. Megumi arrossì e, coi fiocchi di neve impigliati nei capelli scuri, gli sembrava ancora più bella del solito. Alla fine gli sorrise a sua volta e si lasciò stringere e perfino baciare nuovamente su una guancia. Gli martellava il cuore in petto mentre a malincuore scioglievano l’abbraccio e, ormai inconsciamente, intrecciavano le mani. Tooru si offrì portare il borsone che Megumi aveva con sé, che sicuramente conteneva il cambio per quella notte, nonostante lei protestasse che non ce ne fosse alcun bisogno. Alla fine glielo sottrasse con l’inganno e si avviarono insieme oltre la stazione. Dopo alcuni minuti di silenzio teso, iniziarono a chiacchierare quasi con naturalezza. Si misero a far pronostici sull’andamento della partita: entrambi concordavano che i Falcons avrebbero distrutto gli Hornets, ma Megumi era certa che sarebbe stato un match combattuto.
«La mia squadra del cuore sono i Mitsubishi Tigers, però – caspita! – nei Falcons c’è Kolanko! Tira certe parallele che mi fanno venir voglia di dirgli ti prego colpisci in quel modo anche me
«Conosco la sensazione!» commentò Tooru tirandole appena la mano e rivolgendole in tralice uno sguardo malizioso che lei intese subito.
«Se ci tieni tanto, posso picchiarti anche adesso!»
«Non lo faresti mai, ormai abbai ma non mordi.»
«Ah sì? E cosa te lo fa credere?»
«Perché sembra che tu ci tenga a me. Mi hai difeso da…» s’interruppe, non desiderava chiamare in causa Hattori in quell’occasione così speciale «… da Ushiwaka al festival. E probabilmente anche il giorno prima, non è così? Me lo ha detto Kaori, non negare.»
Megumi sembrò improvvisamente spaventata.
«Cosa ti ha detto di preciso Kaori?»
«Che stavate parlando di me e vi siete allontanati.»
«Quindi non ha visto cosa è successo dopo?»
«Oh no, e se lo ha fatto non mi ha detto nulla. Ma, se posso permettermi di indovinare, avete litigato. Il giorno dopo eravate entrambi molto nervosi, tu poi eri risentita. Potrei dirti che mi dispiace se è accaduto a causa mia ma Ushiwaka lo detesto, quindi non me ne importa.»
Megumi fu sollevata, per motivi che non riusciva a immaginare, e non se la prese troppo per quanto aveva detto. Lo informò invece che si erano riappacificati e che lui era perfino al corrente dei suoi programmi per quella sera. Tooru si domandò che cosa ne pensasse Ushiwaka del loro appuntamento, ma non ebbe il coraggio di chiederglielo, troppo spaventato dalla risposta. Chissà se era quel genere di persona che si lascia divorare dalla gelosia: Tooru lo era e si sarebbe tormentato nel pensare Megumi con un altro. Se Ushijima fosse stato ugualmente umano, Tooru avrebbe gongolato come non mai.
Oltre la soglia del palazzetto, lo staff era stato generoso con i riscaldamenti. La bolla di piacevole calore li accolse non appena furono all’interno, restituì la sensibilità alla poca pelle scoperta fra la sciarpa e il cappello. Megumi tirò giù il cappuccio del giaccone, che si era infilata lungo il tragitto per ripararsi dal vento. Aveva le guance e il naso arrossato dal gelo e quel colorito faceva risaltare le lentiggini e il marrone dei suoi occhi. Incantato, la guardò accomodarsi per prima, accavallando le gambe lunghe e sbottonandosi urgentemente il soprabito, troppo pesante per la temperatura all’interno. Sulle palpebre aveva disegnato una linea color pesca sfumata e brillante, le ciglia erano state sapientemente infoltite e arricciate con del mascara: era un modo di truccarsi che non le apparteneva – era probabile che ci fosse lo zampino di qualcuna delle sue amiche – ma che le donava tantissimo. Non sarebbe riuscito a staccarle gli occhi di dosso per tutta la sera, di quel passo si sarebbe perso anche José Blanco.
«Che ti succede, Tooru? Sai, potresti sederti anche tu, così chi ha pagato il biglietto per sedersi dietro di noi potrebbe – non so – guardare in campo.» lo esortò scherzosamente.
«Sei bellissima!» confessò distratto prima ancora di rendersene conto.
La ragazza arrossì e accennò un sorriso nervoso.
«Dai, piantala di dirmi queste cose. Lo so che non è vero e che lo dici a tutte.»
Imbarazzato, si affrettò ad accomodarsi al suo fianco. Erano di nuovo troppo vicini e lui aveva appena fatto l’ennesima figuraccia. Eppure i ragazzi erano stati chiari: niente affermazioni plateali. Perdono, ragazzi – dichiarò fra sé e sé rivolgendosi agli amici assenti – non l’ho fatto di proposito, mi ha fregato!
«Oggi non riesco a smettere di guardarti, ancora più del solito. Quando dico che sei bella, lo intendo davvero. E anche se tu pensassi il contrario, lo sei per me.»
Megumi non distolse lo sguardo come avrebbe fatto di solito. L’osservava con sincero interesse, con una scintilla negli occhi a cui Tooru non riusciva a dare un nome. E così, mentre in campo iniziavano i riscaldamenti e gli altoparlanti alternavano la musica assordante ai primi commenti dei telecronisti, la ragazza si convinse a parlare.
«Mesi fa» esordì incerta «In questo posto mi hai detto che ti piacevo.»
Si riferiva all’estate precedente, al giorno in cui si era presentato a sorpresa durante gli allenamenti dell’amatoriale ed aveva scoperto la ragazza in campo. Aveva anche fatto una pessima figura, perseverando nell’intento di stuzzicarla. Se ne vergognava abbastanza.
«Non riuscivo a capire: io ti conoscevo appena e ti detestavo, ti avevo umiliato davanti alle mie compagne di squadra e ai tuoi amici, eppure tu avevi perlustrato tutte le palestre di Sendai per chiedermi di uscire. Allora mi hai fatto un elenco di tutti i motivi per cui ti piacevo: mi erano sembrate tutte scuse stupide e scontate, ho pensato che volessi solo divertirti, spezzarmi il cuore e avere la tua rivincita su di me.»
«Gumi-chan, ero onesto.» le garantì, mortificato che lo avesse immaginato tanto meschino e superficiale. Certo non doveva godere di una reputazione rimarchevole.
«Adesso mi dispiace di averlo pensato: ti conoscevo poco. Certo, sono passati soltanto alcuni mesi, ma ne sono successe così tante che mi sembra un’eternità. Magari non t’importa niente, ma volevo che prima o poi lo sapessi.» Megumi inspirò profondamente, cercando il coraggio necessario per porgli la domanda successiva.
«Pensi ancora quello che hai detto allora, anche dopo avermi conosciuta per quel che sono e aver scoperto di cosa mi sono macchiata?»
«No.» replicò, più per godersi l’incredulità sul suo volto che per aggiungere altro.
Si dispiacque presto di averla allarmata, perciò si affrettò ad aggiungere:
«Adesso mi piace anche altro di te. So che sotto sotto sei una ragazza dolce e premurosa, che ti tiene la fronte quando stai male, che si preoccupa per te anche quando non ce n’è bisogno.»
«Sai che cosa ho fatto, che sono ricorsa a degli stratagemmi, che ho venduto la mia dignità.»
«So che non passa nemmeno un giorno da allora senza che tu te ne dispiaccia profondamente. So che non avevi idea dei guai in cui ti stavi mettendo. So quanto ti stai impegnando per rimediare con te stessa e con la tua squadra. Sei forte anche fuori dal campo e questa parte di te allora non la conoscevo: sono grato che tu me l’abbia mostrata.»
Megumi scosse lentamente il capo, le guance definitivamente in fiamme.
«Non mi abituerò mai ai tuoi complimenti.»
«Ti prego, non farlo mai! Imbarazzarti è troppo divertente!»
«Ti picchio e ti assicuro che non sto solo abbaiando.» scherzò lei in tutta risposta.
«Gumi-chan sei ossessionata dal picchiarmi! Non potresti farmi qualcos’altro?» si sentiva particolarmente ardimentoso quella sera «Non so, non potresti darmi un bacio per una volta?»
A quel punto, si aspettava un profluvio di obiezioni impacciate, una manata sulla spalla che lo avrebbe fatto ruzzolare giù dagli spalti fino alle panchine dei Falcons. Megumi, tuttavia, continuò a fissarlo coi suoi grandi occhi marroni e gli rivolse un sorriso affettuoso.
«Vedremo.» mormorò, quasi impercettibile sotto il fischio d’inizio della partita.
«Non lo faresti mai, Gumi-chan, è inutile che bluffi. Ormai ti conosco perfettamente.»
«Non ti picchierei mai, non ti bacerei mai… Non credi di star facendo troppe assunzioni?» lo riprese, ma non era né irritata né canzonatoria: gli parve semplicemente pensosa.
Si era dimenticato, nell’elenco dei motivi per cui si era innamorato di lei, del cortocircuito che Megumi scatenava nei meccanismi di perspicacia di cui andava tanto fiero: sei mesi gli sarebbero bastati abbondantemente per comprendere chiunque altro, ma Megumi era l’incognita dispettosa di un’equazione complicata. Lo aveva sospettato qualche settimana prima, quando per la prima volta gli aveva confessato di sentirsi confusa: in quei mesi, qualcosa era cambiato. Che le sue insinuazioni non fossero solo provocazioni ma fatti reali? Il solo pensiero era sufficiente a fargli martellare il cuore in petto.
«Allora sconvolgimi.»
«Se lo facessi a comando come potrei sorprenderti? Io mi concentrerei sulla partita, al posto tuo. Falcons-Hornets non capita tutti i giorni a Sendai.»
 


 

Tooru aveva ragione: Megumi, nemmeno pienamente consapevole di cosa stesse facendo, aveva bluffato. Stupida – stupida – Megumi, come ti viene in mente di metterti a flirtare apertamente con lui se poi non hai il coraggio di fare una cosa qualsiasi? Una litania mentale che continuò a ripetersi per tutta la durata del primo set, perdendosi gran parte del divertimento, e che proseguì quando lui si allontanò durante la prima pausa per poi ripresentarsi con una coppia di onigiri squisiti. Abbattuta, si rimproverò di aver rovinato tutto: doveva, con quelle poche battute audaci, avergli creato delle aspettative troppo alte che non sarebbe mai riuscita a soddisfare. E se anche fosse riuscita ad oltrepassare ogni suo limite e baciarlo – e l’idea la scuoteva dentro come una foglia al vento – cosa avrebbe fatto se, come aveva scoperto con Wakatoshi, si fosse resa conto di non esserne davvero colpita?
Così, seppur dimostrasse di non essere affatto tesa e commentasse con Tooru lo svolgimento delle azioni in campo, Megumi non riuscì nemmeno a guardar Kolanko bene come desiderava. Le sembrava che fosse più interessante il ragazzo che le sedeva accanto, il che per lei era piuttosto grave. Quando mai la sua scala delle priorità era stata capovolta in quel modo? Tooru, invece, sembrava aver preso alla lettera il suo suggerimento a concentrarsi sulla competizione.
«Blanco è incredibile.» osservò colpito quando il quarto set ebbe sancito la vittoria definitiva dei Tachibana Red Falcons «Fino allo scorso campionato, Yamazaki era disastroso, continuamente in ansia per questo o per l’altro motivo. Da quando è nei Falcons è rinato, il coach ha fatto un lavoro straordinario! Non sai cosa darei per farmi allenare da lui!»
«Vuoi dirmi che il tuo preferito è l’allenatore?»
Tooru rise e Megumi dovette sforzarsi per non restarne rapita.
«Quando ero bambino lui giocava ancora come palleggiatore, l’ho visto dal vivo una volta e mi è bastata per capire che volevo ricoprire il suo stesso ruolo. All’epoca era già relativamente vecchio ed è restato in campo per pochi scambi, ma il suo intervento è stato decisivo per risollevare le sorti dell’intera partita.»
«Forse ho capito… intendi Giappone-Argentina a Sendai. Io e Waka-nii ce lo siamo perso, abbiamo versato fiumi di lacrime senza commuovere nessuno dei nostri genitori. Non conosco molto Blanco, ma è un’istituzione e da quando c’è lui i Falcons hanno infranto il record dell’imbattibilità.»
«Deve bruciare, per una che tifa per i Mitsubishi Tigers
«Con tutto il rispetto per José Blanco ai suoi tempi d’oro, le mani Schmidt da quattro anni fanno cose che dovrebbero essere dichiarate illegali. Perciò Tigers tutta la vita!»
«Quindi sei una fan di Schmidt.» la stuzzicò poco dopo, mentre abbandonavano il caldo rassicurante del palazzetto per avventurarsi nell’ennesima nevicata della giornata.
Il vento si era fortunatamente calmato e soffiava meno intensamente di quanto avesse fatto quella mattina. Megumi, per quanto fosse ansiosa, accettò di prendere a braccetto Tooru perché entrambi fossero sotto l’ombrello. Si sentiva felice e la cosa la terrorizzava.
«Non avrei mai detto che t’interessasse il palleggiatore. Insomma, avrei giurato che ad attirare la tua attenzione fossero solo quelli che tirano bombe sul muro. Tipo il tuo Ushiwaka-nii o Kolanko.»
«Be’, mi piacciono quelli che tirano bombe come dici tu, a tutti piacciono! Ma sono un’attaccante con dei gusti piuttosto raffinati in fatto di palleggi e so riconoscere un alzatore eccellente. Poi posso dirti la verità? Se Schmidt bussasse alla mia porta di certo non lo lascerei fuori casa!»
«Se mi volevi geloso, ora sono geloso. E anche depresso.»
«Non serve essere geloso: fra qualche anno Schmidt sarà in pensione mentre tu – mi ci giocherei qualsiasi cosa – sarai sulla cresta dell’onda. Sei già promettente ora, non puoi fare altro che migliorare.»
«Non essere buonista, io non sono niente di straordinario. E poi Schmidt lo lasceresti entrare, a me sbatteresti la porta in faccia anche se nevicasse così!»
«Quanto a non essere straordinario, credi pure quello che vuoi, ma io con te ci ho giocato e mi sono fatta un’idea chiara di come funzioni. E, per la cronaca, i miei genitori mi hanno insegnato a ricambiare l’ospitalità, perciò ora come ora non ti chiuderei fuori nemmeno se fossi il ragazzo meno attraente del pianeta.»
«Mi interessa molto il corollario di quest’ultima affermazione: vuol dire che mi trovi attraente?»
«Forse sei un po’ magrolino rispetto ai miei standard.»
«Hai detto che mi avresti sconvolto, Gumi-chan.» la punzecchiò il ragazzo con un sorriso sornione «Sii diretta e ammetti per una volta che ti piaccio almeno un pochino.»
Appena risentita, Megumi inarcò un sopracciglio.
«Mi sembrava di averti spiegato che se faccio qualcosa su tua richiesta non posso sconvolgerti. Ma forse hai bisogno di rileggere un dizionario.»
«Guarda che se lo ammetti non cambia nulla fra noi!»
Eppure Megumi desiderava – lo sentiva scalpitare nel profondo del suo stomaco sotto la forma di uno sciame di farfalle irrequiete – che tutto cambiasse. Lottava contro se stessa perché non cedesse, era spaventata dall’eventualità di scottarsi, ma voleva chiarire il groviglio di sentimenti che le pulsava nel petto. Desiderava prendere Tooru a pugni per tutte le volte in cui l’aveva stuzzicata e se stessa per essersi fatta coinvolgere. Sapeva benissimo dov’era la risposta: a portata di mano, stretta al suo braccio destro, rossa e invitante come le sue labbra irritate dal vento gelido.
Non era in sé: non lo era quando piantò i piedi nella neve, impedendogli di proseguire oltre. Non lo era quando lo tirò anche per l’altro braccio, costringendolo a voltarsi di fronte a lei. Era completamente fuori di sé quando appoggiò finalmente le labbra su quelle del ragazzo, per scoprirle calde, soffici e lisce come il velluto.
Non avrebbero mai saputo raccontare bene cosa fosse accaduto, ma ad un tratto Tooru non reggeva più l’ombrello, perché entrambe le mani gli servivano per stringerla. Megumi si era ritrovata con le braccia avvolte attorno alle sue spalle senza nemmeno accorgersene. Di certo, fu un bacio abbastanza lungo da lasciarli senza fiato, audace al punto da vincere il freddo rigido della sera e, quando furono costretti a staccarsi per ritrovare il respiro, Megumi borbottò di non essere ancora troppo sicura che le fosse piaciuto e di voler riprovare di nuovo. In realtà il cuore le martellava così forte che ne sentiva l’eco nei timpani: non era mai stata così felice.
Tooru, completamente scombussolato dalla contentezza, non se lo fece ripetere un’altra volta.
«Sì, sì…» ridacchiò divertito «Non sei affatto sicura che io ti piaccia…»
Lei rise, si rese conto di sentirsi improvvisamente più sfrontata e suo agio. Strinse le guance rosse del ragazzo fra i palmi delle mani e riprese a baciarlo. Soffocarono una risata l’uno sulla bocca dell’altra, naso contro naso, fronte contro fronte. Tooru era gentile e delicato: aveva lasciato che fosse Megumi a prendere il controllo del bacio, senza forzarla, ma si accorse divertito che la ragazza non aveva alcuna intenzione di essere discreta.
Tooru non era Hattori: dopo mesi di effusioni sottrattele con la forza, Megumi scopriva per la primissima volta cosa si provasse a baciare qualcuno perché si desiderava farlo davvero. Era stordita dall’entusiasmo, elettrizzata dalla felicità: non aveva mai provato nulla di simile e ciò non faceva di lei un’esperta, ma era certa di aver conosciuto un sentimento importante.
«Allora, non sei ancora sicura e vuoi riprovare una terza volta?» scherzò lui stringendola più forte «No, perché io non mi tiro indietro, fai pure, sono a tua completa disposizione.»
«Credo di essere innamorata.» confessò, trainata da una potente scarica di adrenalina «Da qualche tempo, in realtà, non faccio altro che pensare a te e alla tua stupida faccia, al tuo modo di parlare quando siamo insieme, ai messaggi che mi invii ogni giorno, a quando mi abbracci. Quando ci diamo appuntamento, non riesco ad aspettare… anche oggi, il tempo sembrava non passare mai. Adesso, ti giuro, sono felice. Mi dispiace di averti respinto per così tanto tempo, di essere stata egoista e maleducata…»
«Sai Gumi-chan, io non sono così tanto sicuro di essere ancora innamorato di te.»
Per un istante, la ragazza sentì il cuore fermarsi, ma poi Tooru le sorrise.
«Perciò vorrei darti un altro bacio, tanto per essere sicuro. E, visto che non sarò sicuro nemmeno dopo il terzo bacio, ti anticipo già che vorrei dartene un quarto, un quinto e magari anche un sesto.»
«Tutti quelli che vuoi!»
«Ma come siamo meschine! Approfittare del cuore in tempesta di un povero ragazzo confuso come me! Gumi-chan, dovresti vergognarti!»
Ci misero altri dieci minuti buoni a decidersi a ripartire: Megumi strinse più forte il braccio di Tooru e ripresero ad avanzare a piccoli passi sotto l’ombrello. Persero il loro treno e furono costretti ad aspettare il successivo, ma nessuno dei due sembrava troppo dispiaciuto di poter rimanere abbracciati un altro po’ di tempo.
O almeno, era quello che avrebbero potuto fare se il cellulare di Tooru non avesse squillato. Il ragazzo rispose alla chiamata con il naso arricciato per il disappunto: qualcuno era venuto a prenderli in auto. Prima ancora di staccare la telefonata, prese Megumi per mano e la invitò a seguirlo all’uscita. Quando furono fuori, c’era una Toyota metallizzata ad aspettarli, con alla guida la ragazza più bella che Megumi avesse mai visto.
«Mostriciattolo, se mi avessi detto prima che nevicava così tanto sarei venuta a prendervi dal palazzetto.» spiegò in direzione di Tooru, seduto sul sedile del passeggero.
«Fa niente, è stato un percorso piuttosto piacevole. Anzi, non ci sarebbe dispiaciuto se ti fossi fatta i fatti tuoi.» si lamentò lui.
Poi la bella ragazza, le lunghe ciglia riflesse nello specchietto retrovisore, identiche a quelle di Tooru, la esaminò con curiosità.
«Tu devi essere Megumi, Tooru mi ha parlato molto di te: sono molto felice di poterti finalmente conoscere. Visto che è così rintontito da dimenticarsi di presentarmi, lo faccio da sola: io sono sua sorella maggiore, mi chiamo Asuka.»
Megumi avrebbe voluto diventare invisibile per la vergogna, soprattutto perché udì Tooru ridacchiare flebilmente. Ecco come si risolveva la faccenda della famosa spasimante Asuka, onnipresente nei racconti di Oikawa e prodiga di regali costosi: era sua sorella maggiore. A onor del vero, il ragazzo aveva provato diverse volte a chiarire la realtà dei fatti, ma lei si era sempre rifiutata – testona com’era – di starlo ad ascoltare. L’ennesimo criterio sulla cui base aveva sbagliato a giudicarlo: sperò che avesse avuto il buonsenso di non riferirlo alla sorella.
«Piacere di conoscerti, Asuka.» rispose tesa «Spero che ti abbia raccontato solo le cose migliori.»
Asuka rise mentre ingranava la seconda.
«Mio fratello mi ha raccontato di avere una cotta.»
Forse gli Oikawa si trasmettevano la schiettezza nel DNA: solo così poteva spiegarsi la lingua lunga che Tooru e sua sorella condividevano. Megumi vide Tooru arrossire mentre rimbeccava Asuka per quanto aveva detto, ma adesso le sembrava tutto più semplice: non avevano bisogno di negare proprio nulla.
«Allora, state insieme o no? Dai, prometto che non lo dico alla mamma!»
«Non sei credibile, non riusciresti a tenere la bocca chiusa nemmeno se t’impegnassi davvero!»
«E perché altrimenti avresti preferito che io vi lasciassi da soli su una panchina della stazione?» lo stuzzicò la più grande.
«Non sono fatti tuoi!»
«Dai, Megumi, dimmelo tu.» la pregò e Megumi sentì le mani sudare «State insieme?»
Si accorse che il riscaldamento nell’abitacolo era, a un tratto, insopportabile.
«Io…» balbettò, presa in contropiede «Credo di sì.»
Tooru si balzò di scatto e si sporse verso il sedile posteriore, con le labbra pronunciate in direzione del suo viso.
«Gumi-chan, non ci credo che l’hai ammesso davvero, baciamoci di nuovo!»
Asuka, divertito della situazione, svoltò una curva un po’ troppo larga, spingendo il fratello indietro al suo posto, con grande sollievo di Megumi.
«Ah, quanto siete giovani e carini!»
«Se lo dici alla mamma, mi riprendo la stufetta.»
«Mamma lo capirà da sola appena vi vedrà. E – per la cronaca – se volete starvene insieme stanotte, posso coprirvi.»
«Asuka!»  si affrettò a interromperla il fratello minore «Non siamo a quel punto lì!» poi si voltò allarmato verso Megumi «Gumi-chan, non starla ad ascoltare: dormiremo in due stanze diverse, come promesso!»
Ma Megumi riuscì ad afferrare ben poche delle sue parole, imbarazzata com’era dalla piega che la conversazione aveva assunto. Immaginarsi sola con lui in un contesto più intimo la spaventava e l’incuriosiva al tempo stesso, ma era certa che quell’argomento fosse troppo prematuro da trattare al momento. Era a malapena riuscita a vincere il timore di fidarsi di lui e di baciarlo, non voleva pensare agli step successivi.
Tooru si sporse di più oltre lo schienale del proprio sedile, abbastanza per rassicurarla piano, perché la sorella non sentisse:
«Davvero, non crederle: non accadrà nulla.»
Era del tutto irrazionale il modo in cui quelle parole ebbero il potere di calmarla: si accorse di fidarsi ormai così tanto di lui da considerarlo un punto di riferimento insindacabile. Quando era successo? E, soprattutto, quanto era rischioso? Aveva il presentimento che – prima o poi – l’impatto con la fredda realtà sarebbe stato durissimo, ma aveva deciso di smettere di rimuginare ed essere felice per quel poco che le spettava.
Mentre ascoltava i due fratelli bisticciare, Megumi non poté fare a meno di ridere dietro la sciarpa di lana: sembrava che tutte le sue conoscenze si divertissero a stuzzicare Tooru in un modo o nell’altro e non solo lo trovava il giusto scotto da pagare per tutte le volte in cui era stato lui a punzecchiarla, ma cominciava anche a capire perché fosse tanto divertente.
Casa di Tooru, come scoprì, non era troppo distante dal centro: un piccolo edificio su due piani racchiuso in un minuscolo giardino che al momento era sepolto sotto la neve. Seguì, un po’ ansiosa, i due fratelli all’ingresso e cercò di farsi un’idea mentre si sfilava gli stivali bagnati. Nella sua ingenua ignoranza di campagnola, era convinta che tutte le case di città fossero come quelle che si vedevano nei film: aveva immaginato una residenza moderna e sofisticata, che si addicesse al carattere patinato del ragazzo, invece fu molto più felice di scoprire un arredamento molto più spartano e un’atmosfera calda e familiare. Le sue narici si riempirono subito del profumo proveniente dalla cucina e arrossì quando lo stomaco le brontolò per tutta risposta. Oltre il corridoio, poteva sentire il chiacchierare distratto di diverse voci.
Asuka annunciò gettò le chiavi nello svuota tasche e annunciò a gran voce che erano rincasati e che avevano un’ospite. Era sempre così teatrale? Avrebbe voluto chiederlo a Tooru ma l’imminente incontro con il resto della sua famiglia la preoccupava al punto di paralizzarle la lingua: se fossero stati tutti come Asuka, avrebbe finito per strozzarsi con un boccone durante la cena. Chi avrebbe conosciuto per primo? Sua madre, che a detta di Iwaizumi doveva essere la cuoca dietro a quel profumino irresistibile? Oppure suo fratello maggiore, quello che aveva visto al suo fianco in pronto soccorso la sera in cui erano sfuggiti ad Hattori? E se invece fosse stato suo padre? Non aveva la minima idea di chi fosse e di cosa facesse: non aveva mai chiesto a Tooru nulla riguardo alla sua famiglia, mentre lui di domande gliene aveva fatte tante.
Infine, con uno scalpiccio concitato di piedi sul parquet, comparve dall’angolo del corridoio un ragazzino che doveva avere – ad occhio e croce – sei o sette anni. Il bambino, che aveva avuto tutta l’intenzione di balzare addosso a Tooru, rimase a fissarla pensoso.
«Takeru, lei è Megumi, una mia amica.» li presentò il ragazzo «Non essere sgarbato e…»
Megumi non poté udire il resto della frase, perché la piccola peste gonfiò il petto prendendo fiato e poi urlò:
«Nonna, zio Tooru ha portato la fidanzata!»
Tooru si piantò entrambe le mani sulla fronte, mentre Megumi cercava di capire quanto fosse fattibile imparare il teletrasporto nel giro di qualche secondo, appena in tempo prima che l’intera famiglia Oikawa si affacciasse nel corridoio per scoprire la sua identità. Asuka, dal canto suo, rideva così tanto che dovette reggersi al muro.
«Takeru, non è la mia ragazza!»
«È la tua ragazza.» replicò il nipotino socchiudendo gli occhi.
Troppo sveglio per la sua età: la storia della lingua lunga nel DNA Oikawa doveva avere un fondamento scientifico. Era certa che un buon numero di università giapponesi avesse tutto l’interesse a indagare su quel fenomeno genetico.
«Non dire scemenze!»
«Ma se avete tutti e due la faccia rossa! È ovvio che nascondete qualcosa!»
Tooru corse a tappargli la bocca con una mano.
«D’accordo, moccioso. Hai ragione tu, ma non peggiorare la situazione!»
«Lo dirò a papà!» mugugnò il ragazzino contro la sua mano.
«Va bene, allora scordati il regalo che mi avevi chiesto. Vorrà dire darò a un altro bambino!»
Takeru scosse il capo con urgenza.
«Allora promettimi che adesso dirai che era solo uno scherzo.» gli ordinò il più grande.
«Cosa era uno scherzo?» ripeté una voce femminile che Megumi non aveva mai sentito.
La signora Oikawa era una donna così giovane che mai nessuno avrebbe potuto immaginare che fosse già nonna. Portava i capelli scuri sciolti sulle spalle e, se non somigliava così tanto a suo figlio se non in alcuni dettagli, non si poteva dire lo stesso di Asuka: da ragazza doveva essere stata identica a lei.
La donna le rivolse un sorriso largo e li invitò ad entrare.
«Mamma, non credere a Takeru…» si lamentò Tooru.
«Piacere di conoscerti, io sono la mamma di questo mascalzone.» si presentò la donna con gentilezza, mentre li scortava al secondo piano affinché lasciasse il suo misero bagaglio nella propria stanza.
«Io sono Megumi.» rispose in un soffio, neanche troppo certa di aver scandito bene le parole.
«Non devi vergognarti, Megumi. Anche io sono molto emozionata: Tooru non ha mai invitato a casa la sua ragazza. Anche se – a dire la verità – mi aveva parlato di un’amica da ospitare…»
«In effetti» commentò imbarazzata «Le cose sono cambiate da pochissimo.»
«Davvero? Sono curiosa di conoscere la storia!»
«Mamma, potresti smetterla per favore? Stiamo insieme da meno di due ore, volete che mi molli entro la fine della cena?»
Megumi dovette ridere dietro una nocca: non avrebbe mai infranto un simile record di velocità, ma vederlo così preoccupato le faceva tenerezza.
La stanza in cui avrebbe dormito era spaziosa e ordinata: arredata in perfetto stile occidentale, era dominata dal colore blu che rivestiva il letto, le pareti e le finestre. Nella libreria erano riposti l’uno accanto all’altro decine e decine di testi di medicina. Apprese che il maggiore dei fratelli Oikawa, il padre di Takeru che lei aveva intravisto al pronto soccorso nella sera più triste della propria vita, aveva studiato odontoiatria.
Dopo aver garantito alla signora Oikawa che si sarebbe trovata benissimo (quella stanza, per lei che divideva una minuscola cameretta con sua sorella, era un’autentica reggia), Megumi seguì madre e figlio alla volta del salotto. Si ripeté che il peggio era passato: aveva resistito al ragazzino, ad Asuka e alla madre, la componente maschile della famiglia doveva essere più pacata.
In effetti, il signor Oikawa e il figlio maggiore la accolsero con più riservatezza. Shingo – così si presentò il fratello di Oikawa – si ricordava di lei da quella notte al pronto soccorso e si disse molto lieto di poterla incontrare in un’occasione molto più piacevole del loro primo incontro. Megumi, a dire il vero, ricordava il suo viso come una macchia indistinguibile: di quelle ore in ospedale e alla stazione di polizia ricordava soltanto dolore e paura. Con lui c’era sua moglie: una donna gentile e paziente di nome Yoshino. Una donna anche piuttosto fortunata, visto che Shingo – con i suoi occhiali con montatura a giorno e la barba appena accennata – era un uomo molto attraente.
“Chissà se crescendo Tooru finirà per somigliargli almeno un pochino!” Meditò fra sé e sé e poi si sentì una stupida: fra i due, quella che correva troppo forse era proprio lei.
Infine, quando si sedettero a tavola, scoprì che nonostante le proteste furiose del suo stomaco, mangiare le riusciva difficile. Iniziava appena a metabolizzare gli eventi accorsi nelle ultime ore e il fatto di trovarsi di punto in bianco in una riunione familiare in cui era l’unica estranea. Si sentiva osservata da più parti e cominciava a farsi scrupoli perfino su quanto mangiasse: se avesse preso porzioni troppo grandi sarebbe sembrata ingorda, se ne avesse preso troppo poco avrebbe finito per offendere la padrona di casa e la sua cucina del tutto ineccepibile. Iwaizumi l’aveva avvertita che resistere sarebbe stato difficile, ma la tensione sembrava in qualche modo aiutarla a non strafare.
Forse aveva sbagliato a baciarlo e a decidere di dichiararsi: un giorno se ne sarebbe pentita e allora si sarebbe vergognata di essersi perfino seduta al tavolo con la sua famiglia.
Proprio mentre l’ansia iniziava a logorare la bolla di felicità che le riscaldava il petto, sentì la mano di Tooru stringere la sua, senza pretese o parole inutili, e di nuovo riprese a respirare.
 

 

«Sei stanca.» le disse qualche ora più tardi nel buio della stanza di suo fratello. Non era stata una domanda, ma una constatazione sicura e fondata su prove solide e inconfutabili.
Eppure Megumi trovò il coraggio, tutto orgoglioso, di negare: era mentalmente stanca, ma così carica di adrenalina da non essere in grado di chiudere occhio. Lo stesso era valso per lui, che le aveva inviato un messaggio per chiederle se fosse ancora sveglia e se le andasse di chiacchierare. Aveva accettato l’invito perché credeva che sarebbe servito a conciliare il sonno, ma poi avevano scoperto che faceva troppo freddo per star fuori dalle coperte.
«Mi dispiace che ti sia sentita sotto esame, avrai notato che in famiglia abbiamo questa propensione a non farci i fatti nostri.»
Raggomitolati stretti l’uno all’altra nel letto troppo stretto per due persone, parlavano sottovoce perché nessuno si accorgesse che era sgattaiolato fuori dalla sua stanza.
Si erano detti che sarebbero rimasti così per poco ma adesso lei non aveva alcuna voglia di lasciarlo andar via. L’abbraccio di Tooru era caldo, rassicurante e profumava di buono.
«Tuo padre è in controtendenza, sembra molto tranquillo.»
Il ragazzo soffocò un risolino amaro fra i suoi capelli, le venne la pelle d’oca.
«Perché non gliene frega mai niente. Vuole soltanto che le cose si facciano come dice lui, tutto il resto non conta. Ma un giorno dovrà ricredersi.» annunciò, il tono di voce improvvisamente un po’ più grave.
«Mi dispiace.»
«Che non sia il migliore dei padri? Non si può mica avere tutto.» la strinse un po’ più forte e le baciò l’angolo delle labbra, mettendo a dura prova il ritmo cardiaco di Megumi. «Pensa che io ho già la ragazza più bella e dolce del mondo, non posso lamentarmi.»
«E chi è quest’altra? Io sono una stronza, perciò non può trattarsi di me.»
«Iwaizumi sottoscriverebbe questa tua affermazione con il sangue. Però almeno, dopo una giornata intera di tentativi falliti, hai accettato l’idea che io ti trovi bella.»
«O quella che tu debba tornare dall’oculista.»
Tooru sfilò il braccio sotto di lei e sciolse l’abbraccio, si puntellò sul gomito sollevando appena le lenzuola e facendola rabbrividire per il freddo. Con un piglio più rude e impaziente di quello a cui l’aveva abituata, l’afferrò per la nuca e le diede un bacio così feroce da lasciarla senza fiato e piena di domande.
«Invece sei fortunata che io riesca a trattenermi» le disse mentre si rialzava senza preavviso e le rimboccava le coperte «Ma sappi che è parecchio faticoso, perciò me ne vado prima di commettere errori.»
Nel buio, Megumi sentì il sangue fluire alle guance. Non voleva che andasse via, voleva un altro di quei baci affamati. Invece guardò la sagoma del ragazzo alzarsi e dirigersi verso la porta con lo stesso passo felpato con cui era arrivato.
«Buonanotte!» le sussurrò voltandosi prima di uscire.
La ragazza si voltò a pancia in giù e premette il viso sul cuscino, che ancora odorava del suo profumo.
«E adesso ti aspetti che io dorma?» mugugnò frustrata contro la federa «Razza di stupido!»

 


NOTE FINALI

Vabbè, un altro paio di giorni e per il titolo di questo disastro avrei dovuto pagare i diritti a Gigi D'Alessio. Sono stata davvero tentata di pubblicarlo la prima domenica di agosto, ma poi ho pensato che facessi già schifo abbastanza.

Vi voglio bene, anche se so che mi odiate.

   
 
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