Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: MeryAdry    31/07/2021    0 recensioni
Realizzai che la mia forza di volontà non era per nulla paragonabile all'insaziabile desiderio di vendetta del fato, e in una società il cui odio è tramandato di madre in figlia, evitare che tutto quel male entrasse a far parte di me fu un'impresa impossibile.
Il terreno su cui si corre è ruvido, e le gambe si consumano, i pensieri si attanagliano negli angoli più remoti della psiche. Fuggivamo a gambe levate dai nostri ricordi, quando ignoravamo in essi la presenza della verità.
Questa storia si distacca dalla trama originale del manga, i personaggi sono OC creati da me, dalla mia co-ideatrice e disegnatrice @spacemepi e da @imperfectmates, che mi ha aiutata nella revisione dei capitoli.
Ogni copertina presente in questo libro è stata disegnata da @spacemepi (IG).
Genere: Angst, Horror, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cosa ci si aspetta da un mare di morti?

Non lascerò mai nulla farmi dimenticare il senso di immenso stupore che quel castello mi provocò. 
L’esterno era senza dubbio infimo paragonato alla piantagione rigogliosa presente tra le mura, e il suono che i miei piedi provocavano al tocco con la pavimentazione ingiallita non faceva che esaltare l’esperienza. 

Accompagnate da risate fragorose alla nostra destra – uomini, probabilmente inservienti? – ci facemmo strada, raggiungendo un porticato ombrato. Il portone, dal legno visibilmente rovinato dal tempo, segnava il confine tra l’ala anteriore e quella posteriore della struttura. Giunsero alle mie orecchie urla ovattate, un vociare continuo, assordante, decisamente proveniente dal campo di allenamenti presente nel retro del castello. Mi fu necessario uno sguardo d’intesa con mia sorella per confermare la mia ipotesi.

Il fittizio silenzio venutosi a creare ci lasciò non appena un volto familiare si avvicinò a passo spedito verso di noi, su di esso uno dei sorrisi più sinceri che io abbia mai conosciuto.
Fili d'argento uniti in soffici ciocche ondeggiavano nell'insolito tepore autunnale a man mano che la donna avanzava verso di noi; i suoi fianchi seguivano l'andamento sostenuto di una donna che non ha mai fatto altro che stare al passo con una società che la credeva inferiore. Cinquant'anni trascorsi a farsi valere, Vera Ilyin portava con orgoglio il titolo di comandante del corpo di ricerca.
«Sakai, la aspettavo. Anche tu, Kei, benvenuta. Seguitemi.» L'approccio iniziale fu diretto, accostato ad una stretta di mano che in pochi istanti si trasformò in un pretesto per trascinarci verso l'interno della struttura.

Da quando ne ho memoria, il comandante Ilyin e mia sorella hanno sempre avuto un’ottima intesa, seppur conoscendosi da relativamente poco tempo. 
Probabilmente dato dal fatto che Kaori eccelleva in particolar modo tra i vari cadetti – prerogativa che aveva reso possibile la sua classificazione al primo posto – non appena concludemmo il nostro ultimo esame da cadette, fu immediato il trasferimento nella legione esplorativa. Talmente immediato che non aspettammo nemmeno la decisione degli altri cadetti.

Il comandante si palesava ogni due settimane ai cancelli d'ingresso del corpo cadetti, le sue mani avvizzite reggevano con non indifferente saldezza i documenti necessari affinché potessimo integrarci con regolarità tra i restanti soldati. 
I nostri incontri non erano di lunga durata: ci bastava riempire un paio di spazi lasciati tra una riga d'inchiostro e l'altra e in poco tempo la donna era già a chilometri da noi. L'unica che pareva passar più tempo con il caporale era mia sorella, ma per me non era nulla che superasse la norma: chiunque, in una posizione di potere, avrebbe fatto di tutto per acciuffarsi uno dei potenziali soldati più forti di sempre.

In seguito a una lunga camminata tra i numerosi corridoi del castello, arrivammo finalmente al dormitorio femminile. A pochi centimetri della mia mano, bastava uno scatto della maniglia metallica rovinata (il che mi fece dedurre che poi non tenevano tanto alla ristrutturazione) per entrare all’interno delle camere.
Ci toccava sistemare i bagagli, fortunatamente – o dovrei dire sfortunatamente?– abbastanza vuoti dal renderci semplice l’operazione. Avremmo sistemato tutto nel contenitore posto alla destra dei letti a castello, un bauletto dal legno crepato, eppure così calorosamente familiare. Fu come se quelle linee, graffi incoerenti, spingessero i miei ricordi in posti reconditi, ignari alla mia stessa persona.

Il dormitorio era vuoto, essendo questo orario di allenamenti, sarebbe stato insolito trovare un soldato nelle vicinanze. Diedi un'ulteriore occhiata a quella che sarebbe stata la nostra nuova residenza, cercando di memorizzare ogni singolo dettaglio di essa, dai muri crepati alle coperte ingiallite.
Con un cenno della mano Ilyin ci indicò quali erano i letti sui quali avremo dormito: non erano esageratamente distanti dalla porta e, con un po' di fortuna, dal mio materasso sarei stata in grado di scrutare un pezzo di cielo dalla finestra.

«Kei, Kaori, gli allenamenti mi aspettano. Per oggi voi siete libere, a cena farò in modo di farvi avere il programma completo dell'addestramento.» Vera uscì dalla camera a passo spedito, con lei anche l'aura gioiosa che la circondava, abbandonandoci a noi stesse.

Bastò un battito di ciglia ed entrambe crollammo sul letto: non era il materasso più morbido su cui fossi mai stata, ma dopo un lungo viaggio anche una roccia sarebbe apparsa confortevole.
Mi voltai verso Kaori e fui sorpresa quando mi accorsi che anche lei, nello medesimo istante, si era girata nella mia direzione; non era difficile rimanere incantati nei suoi occhi grandi, amorevoli, candidi, umani.
Ero talmente abituata a fissarli che, per me, incastrare lo sguardo in quelle gemme, aveva lo stesso valore di leggerle l'anima: sapevo esattamente cosa stava provando in qualsiasi momento della giornata. Ogni sfumatura di azzurro rifletteva al meglio le sue emozioni, anche se lei stessa faceva fatica a mostrarle in altri modi: bisognava solo saperle analizzare al meglio.

«Sei stanca. Ti prego, riposa: non chiudi occhio da ore.» L’aria procurata dal sussurro le solleticò il naso, provocandole una risatina. 
Si sedette sul letto, gli occhi incollati sul mio viso, ahimè stanco anch’esso, e fu lì che capii che non aveva alcuna intenzione di coricarsi.

Mi scrutava con la sua peculiare furbizia, con lo sguardo attento e beffeggiante di una persona che ha imparato, in ventisei anni di esistenza, a prendersi gioco della vita e a saper affrontare ogni singola situazione. Ed era questo che più mi affascinava di lei: come, nonostante le incessanti difficoltà palesate sul suo percorso, fosse riuscita a risolvere tutto, ponendo la felicità altrui al primo posto.
Rappresentava per me molto più di un esempio: una figura quasi materna, un angelo custode o, semplicemente, la ragazza che mi aveva salvato la vita innumerevoli volte.

«Lo sai benissimo che se dormo ora, stanotte resto sveglia. Preferisco farmi una doccia per tenermi all'erta. Tu...» prese una pausa, esaminando gli oggetti che la circondavano, «Tu sistema i vestiti. O fai anche tu una doccia. Insomma, non passare tutto il tempo sul letto, è triste, e ti farà diventare più rammollita di quanto tu non lo sia già.»
Fu rapida nel fuggire, la sua risata che echeggiava a contrastare il rumore delle suole che colpivano le pietre del pavimento.
Il desiderio di risponderle a tono fu messo a tacere dalla consapevolezza che, per quanto potessero urtarmi le sue parole, non c'era nulla che amassi di più della sua risata.


I lapilli prodotti dalle torce, danzanti luci fioche nel buio ammattante della mensa, s’accostavano alla perfezione all’odore pungente della zuppa, dando vita all’insieme che per non pochi significa solo una cosa: potersi finalmente rilassare.
Feci scorrere lo sguardo tra le decine di tavoli presenti nella camera, cercando frettolosamente tra le panche di legno il comandante Ilyin, volendomi affidare alla sua indescrivibile disponibilità per muovermi in quell’ambiente nuovo. 
Eppur non fu così, perché in fine mi trovai solo a fissare la poltiglia verdastra versata all’interno delle scodelle, anch’esse malmesse, e lì pensai che non sarebbe stato male saltare la cena; l'alimentazione non era poi così tanto diversa: le vivande che ci venivano servite durante l'addestramento al corpo cadetti erano pressoché le stesse.

Voci rumorose animavano la mensa, era quasi impossibile riuscire a definire da quale direzione provenissero; altri uomini, invece, consumavano il loro pasto avidamente, lasciando poco spazio alle parole durante le loro, quasi assenti, conversazioni di gruppo. Dovevano essere particolarmente sfiancanti quegli allenamenti per arrivare a far gradire di tal maniera una cosa del genere.

Mia sorella prese la mia mano, e ci poggiò una ciotola vuota. Arricciai il naso al solo pensiero di dover ingerire una cosa così disgustosa, ma il mio stomaco non mentiva, e quel sentimento petulante sarebbe andato solo a peggiorare.
Metterci in fila non fu difficile, i soldati seguivano una linea diritta, il che rese semplice anche il solo individuarla. Ma fu lì che realizzai che la nostra mera presenza non era dunque che un semplice fastidio per gli altri. 

Occhiate? Speravo fossero solo quelle. Risolini, orecchie che si prostravano per ascoltare l’ultimo pettegolezzo, forse sulle mie origini, forse sulla mia insolita acconciatura. Realizzai qualche secondo dopo, però, che non ero io il soggetto di tutte quelle dicerie: restava in piedi, sguardo puntato avanti, labbra talmente serrate da non lasciar trapelare alcuna emozione.
In quel momento mi chiesi quanto fosse davvero in grado di sopportare, quella Kaori che di cose ne ha dovute dimostrare per tutta la sua vita, che ora non faceva altro che far alterare ulteriormente quelle anime dannate.
Le poggiai una mano sulla spalla e con uno scatto ella si voltò verso di me, come appena sveglia da uno stato di trance. Nuovamente, uno sguardo e c’intendemmo, ma la mia preoccupazione rimase, come un fiamma esposta a un vento gelido. 

«Beh, cosa ci si aspetta da un mare di morti?» 

Un mare di morti, nulla più. E se questo era un mare di morti, noi perché siamo qui a nuotarci?

Non facemmo nemmeno in tempo a mandare giù i primi due sorsi di minestra che il caporale Ilyin ci raggiunse, tra le sue mani due fogli spiegazzati e leggermente ingialliti.
«Questi sono i vostri programmi. Ora però è tempo di conoscere i restanti superiori.» Il suo tono era ovattato, il volto illuminato da un sorriso radioso. 

Non ci volle molto prima che il palmo della mia mano entrasse a contatto con la superficie ruvida della carta, ma privata del tempo necessario per ispezionarla, mi limitai a infilarla nella tasca.
Con velocità lasciai li mio posto, ingoiando l'ultimo sorso della zuppa; ero perfettamente a conoscenza che quando sarei tornata l'avrei trovata fredda. Disgustoso.
Anche Kaori si alzò, e insieme ci incamminammo verso un tavolo posto accanto alla mensa.
L’ombra divorò velocemente la luce ai miei piedi, e fui veloce nel realizzare di aver qualcuno dall’altezza fuori dalla norma davanti. I miei occhi percorsero tutto il suo corpo, sino ad incastrarsi con i suoi, neri come la pece, spalancati. Non batteva ciglio, si limitava a star fermo, le braccia lungo i fianchi.
Intimidatorio. Non mento nel dire che ebbi paura potesse aggredirmi.
Abbassai il capo e mi accorsi delle rimanenti presenze al suo fianco: senza accorgermene eravamo giunte al tavolo dei superiori. Ciò implicava che l'uomo in piedi dinnanzi a me non era quindi che una persona a comando.

Al suo fianco sedeva una chioma biondo cenere, la cui folta barba incorniciava i lineamenti duri. Mi sorrise, lasciando emanare un tepore amichevole dai gelidi occhi ghiaccio.
L'ultimo ad alzarsi, invece, trapelava un'energia completamente diversa dai restanti partecipanti a quella tavolata. L’espressione vuota fu celere nel tramutarsi nel ritratto dello scetticismo, un sopracciglio inarcato e degli occhi mandorla che presero ad esaminarci, dall’alto al basso.
Non riuscivo, però, a staccare gli occhi dalla cicatrice che gli attraversava la parte inferiore del volto. 
Risale a qualche scontro diretto con i giganti o la sua vita personale è tutt'altro che tranquilla?

«È un piacere conoscere tali eccellenze, e altrettanto è il piacere di avervi con noi. Io sono il caposquadra Werner,» A presentarsi per primo fu il biondo, il braccio del caporale Ilyin poggiato con noncuranza sulla sua spalla. «lui invece è il capitano Dante Di Rose. Non è di molte parole, per questo tocca a me fare le presentazioni.» inclinò la testa verso quello più alto. Ma, quasi come se non fosse coinvolto nella conversazione, ci vollero svariati minuti prima che anch'egli ci porgesse il palmo.

«Kaori Sakai.»

«Kei Sakai, è un piacere essere qui.»

Ricambiai la stretta ad entrambi; una piccola parte di me sperava che anche il terzo si presentasse a noi, tutte le sue attenzioni rivolte a legare le lunghe ciocche corvine in una coda alta.

«E quindi sei tu la celebre Kaori. Chissà se sei davvero all’altezza di quello che Vera dice su di te.» Sebbene parlasse con tono accusatorio, la naturalezza che donava alle parole andava a contrastare le sue intenzioni.

La bionda rimase interdetta, come se le parole le fossero rimaste incastrate nel nodo formatosi all'interno della sua gola; furono però gli occhi spalancati e la bocca semiaperta che mi fecero capire che qualcosa non andava, come se improvvisamente avesse perso tutta la sua emblematica sicurezza. 

Era ferma, pietrificata, mossa solo da qualche brivido lungo tutto il suo corpo. Gli occhi degli altri puntati su di lei non la aiutavano di certo a superare questo momento di sconforto.

«Non fraintendermi, il nostro caporale non farebbe mai un errore del genere, eppure qualcosa in me mi spinge a voler verificare tutto con i miei occhi.»
Si incamminò verso l'uscita, passo dopo passo, abbandonando sul tavolo i resti di una cena decisamente migliore della nostra.

Una profonda sensazione di disagio si insinuò sotto la mia pelle, come se quell'uomo, ancora per me misterioso, mi avesse giudicata subito. Presi il suo tono sarcastico sul personale, nonostante non fossi io quella presa di mira. Prima di allora, non c'era stata persona che non mostrasse segno di rispetto verso Kaori, vedere qualcuno trattarla con così poca considerazione mi aveva colpita nel profondo.

«Scusatelo, lui è...fatto così.» Spiegò imbarazzato il caposquadra Werner, grattandosi la nuca; ci guardò entrambe prima di continuare il discorso. «Lui è l'ufficiale Shimada, è lui che-»
«Che addestra i migliori soldati al mondo. Ma in quanto a rispetto ha ancora una lunga strada da fare.» Fu interrotto da Kaori, il cui tono minaccioso e le sue braccia incrociate non facevano intendere nulla di buono.

Quindi Kaori lo conosceva.

«Abbiamo una cena che ci attende a tavola. È stato un piacere fare la vostra conoscenza. Con permesso.» senza ulteriori indugi, si avviò verso il nostro tavolo; era stranamente stressata, impaurita, ma non la biasimavo di certo.

Inventai una scusa sul momento, inseguendo mia sorella. Era davvero difficile starle dietro quando qualcosa la agitava.
Ci sedemmo contemporaneamente. La zuppa oramai era fredda, e mia sorella non aveva proferito parola da quando eravamo tornate: manteneva lo sguardo fisso sul piatto, giocando di tanto in tanto con qualche pezzettino di verdura immerso nel brodo.
Ma poi, come un fulmine a ciel sereno, qualcuno, attirò la nostra attenzione.
Quest'ultimo, a differenza nostra, si stava davvero dando da fare per sconfiggere la quiete creatasi attorno a noi.
Quello che a primo impatto parve un mio coetaneo si avvicinò a noi, e, come se fosse un magnete, mi trovai immediatamente a spostare lo sguardo su di lui.

Fu quell’istante che segnò il mio destino. Fu uno sguardo, i suoi ricci e il modo in cui camminava, quella maledizione imposta su di me l’istante in cui aprì bocca, che se adesso potessi tornar a quella sera, farei di tutto per farlo tacere. Ma di certo non posso, e il tempo passa, e lasciai che le sue braccia poggiassero sulle travi di legno del tavolo, dannato tu e dannata tutta la tua autostima.

«Come mai siete qui?» La sua voce vellutata fu come una ventata d'aria fresca in un'afosa giornata d'estate.
«Siamo qui perché...» se proprio devo dirla tutta, in quell’esatto momento, non ero a conoscenza del perché «...perché abbiamo scelto questo corpo?» Mi sentii estremamente ridicola.

Lo osservai corrugare le sopracciglia, poi si rilassò.
«Ha senso, credo. Sono Aiden Werner.»
Il riccio mi porse la mano, e non persi tempo a ricambiare il saluto.

Werner come il caposquadra? Ho per caso frainteso?

«Invece io sono Kei, e lei è mia sorella Kaori.» Un sorriso prese vita sul mio viso: vederlo non deridermi era per me un sollievo enorme.
«Piacere di conoscere anche te, Kaori!» Aiden le tese la mano entusiasta, ma tutto ciò che ricevette in cambio fu solo uno sguardo freddo e distaccato.
Ridacchiai vedendo il castano ritirare la mano imbarazzato; di sicuro non era colpa sua se lei era in quelle condizioni.

«Scusala, è un po' fredda con gli estranei.» Mentii ancora una volta. Non ero nelle condizioni per poter rivelare le motivazioni.
«Allora...che rapporto hai con il comandante, Kaori?» La curiosità del giovane si poteva leggere nei suoi occhi.
Fu lì che vidi, dopo diversi minuti, Kaori alzare la testa dal piatto.

E non sembrava particolarmente felice.
   
 
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