Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
Segui la storia  |       
Autore: Green Star 90    01/08/2021    2 recensioni
[...] «quando uno dei capitoli più belli ma anche dolorosi della mia esistenza si è concluso, per almeno un anno non mi sono permesso di andare a trovare mia sorella al cimitero. C’era una sorta di rifiuto che non avevo ancora metabolizzato, era come se assieme a lei andassi a trovare anche le persone care che avevo perduto in Nordafrica e non mi sentivo pronto a farlo, non volevo dirgli veramente addio. Un bel giorno ho riaperto il mio zaino e ci ho trovato dentro la sciarpa dell’amico che mi aveva aiutato a vendicarla e… ho pianto come un deficiente!».
Fugo aveva sbruffato nell’immaginare un tipo flemmatico come lui lasciarsi andare a tal guisa.
«Scusami, è che non riesco a farmi un’idea mentale della scena»
«Non è un problema, rimarresti sconcertato se ti venissero a raccontare di com’ero a vent’anni».
***
Dodici racconti sulla vita, la morte e l'oltre vita.
Buona lettura.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Sorpresa
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Jojo in Heaven'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
9- Il paraninfo degli ultimi

Il paraninfo degli ultimi

 

Mio fratello è figlio unico
Deriso, frustrato, picchiato, derubato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Dimagrito, declassato, sottomesso, disgregato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Frustato, frustrato, derubato, sottomesso
E ti amo Mario

Rino Gaetano, Mio fratello è figlio unico

Un racconto sul riscatto dei dimenticati

 

Era pensiero comune credere che la pioggia sovrannaturale che investiva le anime della parte buona dell’oltretomba fosse la sublimazione delle lacrime dei vivi per i cari perduti. Quando il fenomeno si presentava, chi aveva ottenuto il permesso di valicare le porte del paradiso faceva due cose: ripararsi nella comodità delle proprie case o fermarsi, ovunque si fosse, per lasciare che l’acqua mondasse la proiezione psichica della pelle, dei vestiti, dei brividi di freddo che ricordavano che una volta si era vivi. Tutti, però, avevano l’obbligo di rispettare una regola fondamentale: ci si fermava per pensare a chi stesse soffrendo laggiù e si ringraziava in silenzio per il ricordo che univa i due mondi.
Narancia era uno di quelli che adorava quando pioveva. Quando le nuvole avanzavano e l’odore ferroso dell’umidità si faceva sempre più pungente, si sedeva sul gradino del marciapiede accanto alla fermata dell’autobus e, mento sui palmi aperti, amava immaginare che quelle gocce fossero dedicate a lui e alla mamma. Anche se l’assenza temporanea di luce gli metteva addosso una gran mestizia, la pioggia rimaneva la sua cosa preferita assieme ai pavoni¹ che gironzolavano attorno al giardino di Mitra – o di Dioniso, come aveva sentito dire una volta dall’anima di un partigiano. Provava come un miscuglio di sensazioni che gli facevano provare una malinconia che, dopo, lo facevano stare bene, perché gli piaceva credere di sentirsi amato da chi aveva lasciato indietro a invecchiare, ed era la stessa sensazione che avvertiva quando ammirava il groppone di un pavone sollevarsi per mostrare alle femmine i tanti occhi della sua ruota, perché gli ricordavano che i suoi, di occhi, e quelli di sua madre, non glieli potevano togliere più.
Se ne stava quindi all’addiaccio, i vestiti inzuppati e i rumori delle bizze degli spiriti più turbolenti, provenienti dal ristorante dall’altra parte della strada, attutiti dal ticchettare dell’acqua sul basolato. Non era raro che in quel locale volasse un bicchiere con ancora il whisky dentro o una bottiglia di vino, chiunque giungesse al capolinea a bordo di un autobus era stato un’anima buona che aveva visto solo, o quasi, brutture, e quindi un po’ di quelle brutture se le portava addosso almeno per un certo periodo, giusto il tempo di abituarsi alla beatitudine della bellezza. Fino ad allora li si vedeva bazzicare nel tratto di aldilà più terreno, l’unico luogo in cui giorno e notte si alternavano come nel mondo dei viventi, senza immischiarsi negli affari degli altri, quelli buoni e giusti, perché convinti di non meritare ancora il bene. Si riconoscevano perché tenevano gli occhi bassi, parlavano solo tra di loro e si ubriacavano da mane a sera pensando di essere vittime di uno scherzo, e lui era uno di quei loro nonostante avesse prematuramente mosso i primi timidi passi nei giardini sconfinati dell’eden assieme ai suoi compagni per vedere che effetto faceva camminare in mezzo ai “giusti”; una volta aveva persino tentato di offrire della birra salernitana che gli era stata donata dagli amici di laggiù alle anime che gli avevano offerto una coppa di ciliegie in segno di benvenuto: approfittando della loro assenza momentanea aveva abbandonato l’arancio di sua proprietà nel campo dei caduti e aveva lasciato una bottiglia di alcolico ai piedi del ciliegio decorato con l’ankh, per poi fuggire via terrorizzato. Per quel gesto si era beccato del cretino da Abbacchio e gli occhi al cielo di Bucciarati, ma lui aveva avuto la cazzimma di rimproverare a entrambi che almeno lui aveva portato a termine la missione di far conoscere una specialità italiana a degli stranieri, i quali avevano dimostrato gratitudine facendogli recapitare un biglietto di ringraziamenti scritto in quattro lingue: merci beaucoup, shukraan jazilaan, arigato gozaimasu e grazie mille. Il biglietto, adesso, era al sicuro dentro un quadro appeso nella sua cameretta e ogni volta che ne aveva l’occasione non mancava di ricordare a tutti che quello era suo, suo e di nessun altro, perché quando lo guardava si sentiva un bravo guaglione. Non lo volevano ammettere, ma gli altri due avevano paura di quell’albero e delle persone che riposavano sotto le sue fronde, forse perché con alcuni condividevano la perdita dei poteri stand o perché avevano visto un altro scugnizzo prendersi a scazzottate amichevoli col proprietario del ciliegio – salvo poi beccarli a ronfare della grossa all’ombra di un salice, insieme, come fratelli, esausti e sporchi di fango – o perché gli era stato raccontato che il cagnetto tremendo che una volta aveva rubato un fermaglio di Bucciarati da vivo era capace di evocare tempeste di sabbia o perché si erano fatti l’idea che quelle fossero brave persone che con loro non dovevano avere niente di che spartire… O forse perché non riuscivano a sopportare la sensazione che esistesse un legame che li univa, qualcosa di talmente forte e incomprensibile che persino lo stesso Bucciarati si era messo a tremare come una foglia quando la ragazza con gli orecchini a forma di ciliegia si era avvicinata a lui e gli aveva chiesto di portare con sé Coco Jumbo: lui, così come Abbacchio e Narancia, non aveva detto niente, l’aveva solo guardata prendere la tartaruga tra le braccia come si fa con un neonato e aveva chinato il capo in risposta al suo graziè. Anche quello rimaneva un mistero, ma tutti e tre avevano pensato che fosse corretto che la tartaruga vivesse la sua eternità con la ragazza del ciliegio, quello era il soprannome che i tre le avevano appioppato.
Mentre pensava a quelle e ad altre cose belle e meno belle, Narancia non si accorse che la pioggia era cessata. Gli ci volle che una mano gli sventolasse un cartoncino sulla faccia per riscuoterlo dal mulinello in cui stava facendo annegare il cervello.
«Uè, Nara’!»
«Uè
, sbirro».
Era l’ex collega di Abbacchio. Uno dei “giusti” che frequentava assiduamente quel pezzo di paradiso perché amava ricercare la verità dietro le condotte dei lanciatori di bottiglie sui marciapiedi: un passatempo, come lo definiva Narancia, tra i più bizzarri che si potessero praticare.
«Ci sta un avviso di giacenza a nome tuo, vai a vedere cosa ti hanno portato da giù» gli disse il poliziotto porgendogli il documento «i tuoi compari stanno già là, quindi sarà sicuramente un regalo di gruppo»
«Ma non è presto per il due novembre?» chiese Narancia sorpreso di leggere la data di spedizione dell’ordine «Dieci ottobre duemiladieci? Me n’agg a me, ma quanto tempo è passato?»
«Nara’, qua di tempo non ce n’è perché è una cosa dei vivi, vai a pigliarti sto pacco e non ci pensare, va bene?» quello gli posò una mano sulla spalla con tanto di strizzata d’occhi «io torno al ristorante, hanno messo vicine due tavolate piene così di pisani e livornesi e non vorrei che sfasciassero i tavoli con tutti i piatti. Ci si becca in giro eh?»
«Ovvio, e grazie!» esclamò Narancia guardandolo allontanarsi per tornare al proprio dovere.
«Boh, altra birra? Se è così non dico di no» pensò a voce alta, infilandosi in un vicolo lunghissimo ma anche molto breve che portava direttamente all’ufficio postale.
Ebbene sì, esisteva la proiezione spirituale di un ufficio postale, che dall’esterno era uguale agli uffici postali di laggiù, ma senza impiegati né postini e senza nemmeno un’insegna indicante che quello era un ufficio postale. Semplicemente i pacchi arrivavano a destinazione e se non si era in casa un conoscente ti faceva avere l’avviso di giacenza. In parole povere, una figata.
Varcata quindi la soglia si imbatté in un nugolo di suore intente a spacchettare allegramente dei fiorellini di campagna che lo salutarono sorridenti e gioiose, alle quali Narancia ricambiò imbarazzato: non si era del tutto abituato alla gentilezza genuina che gli riservava chi non conosceva.
In quel momento in ufficio, che era immensamente grande ma anche immensamente piccolo, c’erano solo le suore e, più in là, due giovinastri in abiti firmati impegnati a raccogliere una generosa quantità di bianco e verde da un rullo trasportatore fermo.
«Narancia, stai di nuovo fradicio
» fu la prima frase che gli grugnì Abbacchio con le mani occupate da zagare e rose bianche².
«Ma… sti fiori?» domandò Narancia perplesso «Chi ce li manda?».
A differenza di Abbacchio, Bucciarati sfoggiava un sorriso tenerissimo nel leggere i nomi dei mittenti sul cartellino.
«Tieni» gli disse soltanto, indicandogli i fiori a lui destinati.
Narancia eseguì: su un pezzo di carta bianco decorato con laminature argento era scritto un invito di partecipazione di nozze, ma la vera sorpresa fu scoprire i cognomi dei novelli sposi.
«Guido e Trish si sposano, Guido e Trish si sposanooo!» non appena ebbe decifrato i caratteri eleganti stampati nell’invito Narancia saltò come un grillo e improvvisò un balletto in mezzo ai pacchi da smistare, facendo scaturire nelle suore le risate divertite e le congratulazioni per la lieta nuova.
Nell’assistere a quella scenetta, la faccia di Abbacchio si fece ancora più stranizzata.
«Grazie signore, grazie!» Narancia rivolse alle religiose un inchino esageratamente profondo che costrinse Bucciarati a coprirsi il volto paonazzo con entrambe le mani. In realtà si stava trattenendo dal ridere in faccia ad Abbacchio, e ciò non faceva altro che rendere la scena ancora più comica.
«Jamme ja’, andiamo a piantare sti fiori, dai!» esclamò Narancia tirando le maniche dei due compari «Forza!»
«Aspetta un attimo… Oddio» Bucciarati fece un paio di respiri a narici dilatate per controllarsi «C’è una rosa di questo mazzo che non ci appartiene, è in mezzo a quei girasoli».
Narancia inclinò la testa da un lato.
«Eh?»
«Uno che non conosciamo ma che sarà stato sepolto vicino a noi…» Bucciarati lesse il nome del destinatario della rosa bianca solitaria sul cartellino «Zeppeli? Ci hanno messo vicino agli Zeppeli? La cappella che sembra un tempio greco?»
«Non mi dire che…» Abbacchio parve riscuotersi dalla trance della quale era caduto vittima e divenne, guarda un po’ che novità, torvo «se è chi penso io fate finta che m’hanno buttato nella fossa comune, io con quel Marcantonio non ci parlo… No anzi, chiamatemi quando si fa pestare di nuovo di botte dal giapponese»
«E perché scusa?» domandò Narancia.
«Perché» Abbacchio incrociò le braccia e piegò le labbra in una smorfia «fa troppo rumore e attacca bottone facilmente».
Narancia stava per ribattere che non vedeva cosa ci fosse di negativo in quelle due azioni, ma il suo tentativo di convincimento venne subissato da un altro saluto, più caloroso di quello ricevuto da lui, che le suore stavano riservando al nuovo arrivato, il quale non aveva perso tempo a rispondere con altrettanto calore e una buona dose di ruffianeria.
«Fanculo» borbottò a denti stretti Abbacchio.
Il nuovo arrivato era nientemeno che l’ultima anima sulla faccia del paradiso che il musone dei tre voleva incontrare, figurarsi conoscere.
«Buongiorno!» squillò il Marcantonio biondo allargando le braccia e affettando un sorriso compiacente «un uccellino mi ha detto che c’è un regalo per me».
Senza attendere che il terzetto si scomponesse raccolse la rosa e i girasoli e lesse il biglietto col suo nome.
«Anche da morto le donne mi desiderano» gettò il capo all’indietro con fare teatrale, suscitando i sospiri delle suore più giovani, e si ravvivò la chioma ondulata «È una vostra amica? Siete fortunati»
«Ciao, io sono Narancia!» il più giovane si avvicinò a quel ragazzone vanesio porgendogli la mano «Alla mia destra c’è Bucciarati, mentre quello che brontola sempre è Abbacchio, e Trish è una nostra amica»
«Piacere mio» il Marcantonio gliela strinse con vigore «io sono Caesar, era ora che venissi a sapere i vostri nomi… Non ve la fate tanto lontano dal quartiere del guazzabuglio, suppongo siate qui da poco»
«Molto poco» Bucciarati seguitò a stringergli la mano «non immaginavamo che questo posto fosse così movimentato»
«Meravigliosamente movimentato» aggiunse Caesar «mi ricordate un sacco me quando sono arrivato io, allora al posto dell’autobus c’era un calesse»
«Sì sì, molto belli i calessi» anche Abbacchio gli strinse la mano, o per meglio dire cercò di stritolargliela «piacere di conoscerti, gli smeraldi sono le mie pietre preziose preferite»
«Gli zaffiri arancioni sono più belli» Caesar sostenne lo sguardo di ghiaccio del suo provocatore senza timore alcuno «spero di vederti più rilassato in futuro, ricordati che abbiamo l’eternità davanti»
«Lo tengo a mente» rispose Abbacchio che, incontrati gli occhi affilati di Bucciarati, decise di mettere un freno alla lingua.
«Se siete d’accordo, tengo a piantare questa splendida rosa e i girasoli donati dal mio carissimo amico nel campo dei caduti. Mi fate compagnia?»
«Sì sì sì! Mi piace piantare i fiori nel campo dei caduti! Andiamo?» fece Narancia agli altri due, che risposero non verbalmente in maniere del tutto opposte: Bucciarati accennando un sorriso di contentezza più un “sì” mimato con il capo, Abbacchio come se gli avessero detto che doveva infilarsi un bastone su per le terga.
«Molto bene!» Caesar sembrò non accorgersi della faccia disgustata di Abbacchio e indicò l’uscita sul retro, proprio dietro ai rulli «Prego, dopo di voi».
Con la coda dell’occhio, Narancia percepì il disagio di Abbacchio farsi sempre più evidente. Lo aveva visto voltarsi verso l’ingresso principale quasi a voler fuggire da lì piantando gli altri e fiori e non ne capiva il motivo.
Ma, forse, qualcun altro sì.
«Vedo che il vostro amico è più reattivo di voi, entusiasmo, dai!» fu proprio Caesar ad afferrare le spalle di Abbacchio e condurlo verso la porta sul retro con un ghigno malefico – o era meglio dire serafico? «Paura dei pavoni?».
Abbacchio non rispose, ma la fronte imperlata di sudore lo faceva per lui.
Dal canto suo, Bucciarati aveva deglutito piuttosto rumorosamente. Anche lui sembrava provare eccitazione per qualcosa, ma cercava di non darlo a vedere con risultati non proprio eccelsi.
Una volta varcata e richiusa l’uscita sul retro, sia l’ufficio che il resto della cittadina scomparvero del tutto, lasciando il posto al sole lattiginoso, al prato verde e ai pavoni che gironzolavano attorno ai muri di viti del giardino di Mitra.
«Fanculo» ripeté Abbacchio a denti stretti.
Anche se era entrato solo una volta in quello che chiamavano erroneamente giardino assieme alla mamma, a Narancia piaceva da matti l’aura di mistero che emanava, perché potevi entrarci solo se avevi qualcosa da confessare o un sentimento da esternare a una o più persone a te affezionate. Tuttavia, trovava difficile capire perché Abbacchio lo odiasse così tanto.
All’ingresso del giardino di Mitra erano state piantate le proiezioni psichiche di due roseti coi boccioli chiusi; qualche volta era possibile imbattersi in un carro dorato trainato da colombe bianche³ nei pressi di quel luogo, ma questo era un racconto che aveva ascoltato distrattamente da alcune coppie di innamorati, per cui, per quanto lo riguardava, poteva trattarsi di una balla.
Comunque fosse, c’era Abbacchio che guardava terrorizzato i roseti, c’era Bucciarati che guardava Abbacchio come se stesse pendendo dalle sue labbra, c’era Narancia confuso e c’era Caesar con sempre quel sorriso stampato sulla faccia. Infine c’erano i pavoni che facevano i pavoni.
«Io… non…» Abbacchio, come folgorato da una visione, guardò gli altri tre come ad aspettarsi di sentirsi dare del pazzo «Non credo che verrò con voi. Questi li pianto dopo perché devo… devo capire da dove viene quella biga con le colombe».
E così dicendo indicò un punto privo di qualsiasi biga poco distante dai roseti.
«Io non vedo niente» si affrettò a dire Narancia «stai bene, vero?»
«Se vuoi ti dico una balla e rispondo di sì… Fanculo» stavolta il sudore si era esteso al resto del viso e al collo «bene, sono l’unico a vederla, molto bene»
«Io la vedo» disse a un tratto Bucciarati «e ci sono anche undici colombe»⁴
«Molto bene» ripeté Abbacchio guardandosi le scarpe «e ora?»
«Vuoi entrare?» lo precedette Bucciarati. C’era un che di enigmatico nella sua domanda.
Abbacchio sollevò il capo per guardarlo: al sudore si era aggiunta la congestione alle guance. Strinse a sé i fiori come se potessero proteggerlo da ciò che implicava tal quesito, poi li abbassò di nuovo, e con essi il capo, e, senza dire niente, si incamminò lentamente verso l’apertura del labirinto.
«Penso che lo seguirò» disse Bucciarati senza staccare gli occhi di dosso dalla figura vestita di nero che si allontanava da loro.
«Aspetta, che vuol dire… ehi!» Narancia prese a protestare dinnanzi a quel comportamento per niente da loro, ma Caesar ebbe la prontezza di tappagli la bocca con una mano e di invitarlo a osservare i roseti con l’indice dell’altra.
Abbacchio si era fermato all’ingresso, accanto al roseto di sinistra che, al suo passaggio, aveva dischiuso i boccioli per rivelare un tripudio di rose color pesca⁵, e lo stesso fece quello di destra non appena Bucciarati lo ebbe raggiunto. Narancia li vide contemplare per un istante infinitamente lungo quel fenomeno che comunicava più di quanto i diretti interessati avrebbero voluto e poi sparirono dietro l’angolo, facendo sì che i roseti ritrasformassero le rose in boccioli.
«Finalmente quei due ce li siamo tolti dai piedi» pronunziò Caesar liberando Narancia dall’impaccio «fidati, quando usciranno saranno molto più loquaci»
«No no, senti, aspetta un attimo» boccheggiò Narancia «se io e la mamma abbiamo ottenuto le rose rosa⁶ e Bucciarati e Abbacchio hanno ottenuto quelle altre, cosa vuol dire?»
«Facciamo che te lo diranno i diretti interessati» Caesar fece spallucce e inarcò le sopracciglia col fare di chi se ne intendeva di certe questioni «quando qualcuno non si è ancora lasciato andare vuol dire che non è entrato nel giardino di Mitra con la persona giusta… Quando ci sono entrato con i miei genitori e la mia maestra anche a me sono saltate fuori le rose rosa, ma quelle pesca le vedo per la prima volta. In ogni caso non spaventarti» gli rivolse una pacca sulla schiena e un altro sorriso, stavolta senza traccia alcuna di malizia «non mordo mica».
Narancia guardò sia i roseti che Caesar: il fatto che Abbacchio e Bucciarati avessero qualcosa in sospeso da confessarsi lo rendeva nervoso perché sia da vivi che da spiriti non avevano mai lanciato dei segnali a riguardo, e immaginava che, probabilmente, se fossero sopravvissuti sarebbero rimasti in quella situazione di stallo finché fossero campati.
«Lo so, però è brutto dirsi certe cose senza più un corpo»
«Guardala sotto un altro punto di vista: adesso che siamo tutti senza vincoli possiamo finalmente liberarci dalle nostre catene. Sembrerà strano detto in questo contesto, ma quello che amo di più del posto in cui siamo è che niente e nessuno ti costringe a fare quello che non vuoi. Era destino che prima o poi sarebbero entrati nel giardino di Mitra»
«Se lo dici tu…» Narancia lanciò un’ultima occhiata ai roseti «Io penso che… loro sono delle brave persone, qualunque cosa si diranno spero che saranno felici, perché se lo meritano»
«Non lo metto in dubbio, altrimenti non avrebbero varcato quella soglia e le rose non sarebbero sbocciate» Caesar si era già mosso lontano dal labirinto, verso il campo dei caduti «Andiamo?»
«Mh» Narancia lo seguì senza altre esitazioni, per la prima volta avrebbe piantato dei fiori in compagnia di uno spirito sconosciuto «anche tu eri un criminale?»
«Una specie. La rabbia in corpo era talmente tanta che persino la mafia mi stava alla larga… Alcuni dei tipacci che ho ammazzato me li sono ritrovati qua».
A quell’affermazione Narancia spalancò la bocca.
«E tu cos’hai fatto?»
«Quello che fanno tutti gli spiriti dei criminali quando conoscono l’eternità: si picchiano fino a quando capiscono che non ha senso continuare a odiare. Alcune volte arriva altra gente come vigili del fuoco, sacerdoti e persino maestre d’asilo a cercare di sedare le liti e si finisce per fare pace. Una sera la mia maestra mi ha spaccato una padella in testa e sono svenuto sul bancone degli alcolici, non ne poteva più di vedermi attaccare briga con gli altri… Ma parlami di quei fiori» Caesar cambiò repentinamente argomento e fece un cenno col mento al mazzo bianco tenuto all’ingiù dal suo nuovo conoscente.
«Ah, questi» Narancia li sollevò per annusarne il profumo delicato «due amici che si sposano e che sono venuti a trovarci per ringraziarci. La sposa… suo padre ha cercato di ammazzarla perché teneva più al suo potere che al suo stesso sangue, così la mia banda si è ribellata e alcuni non ce l’hanno fatta… Quindi eccomi qua».
Mentre Narancia parlava stavano già attraversando il sentiero che li avrebbe condotti a destinazione: la monocromia dell’erbetta si stava diradando per fare posto alla disomogeneità della flora di proprietà dei defunti. Le piante appartenenti ai morti di morte violenta si riconoscevano a occhio perché erano le più rigogliose e vivide, e perché conferivano al paesaggio tanto suggestivo quanto straniante caratteristiche macchie di colore vivace in mezzo alla tenuità del resto della distesa.
«Siete dei coraggiosi, si vede dalle vostre facce che la vita non è stata gentile con voi» Caesar uscì dal sentiero e deviò a destra, dove alcuni metri – o alcuni chilometri – più in là spiccava gagliardo un fazzoletto di terra occupato da altri girasoli «quelli me li hanno portati due amici e la maestra, quando era ancora viva… ho combattuto con un avversario più forte di me per salvare l’onore della mia famiglia e la vita del mio amico, quindi eccomi qua anch’io. Quando piove mi ci siedo in mezzo e penso ai suoi figli… Adesso lo scemo è diventato pure bisnonno… lo so, sono uno di quelli che sbircia nella vita di chi è rimasto laggiù, sono un impiccione!».
Caesar liberò i fiori dall’involucro e si accovacciò per piantarli: alla base recisa degli steli crebbero delle radici che attecchirono subito al terreno.
«Alcune delle persone che sono venute qua le conoscevo già grazie al mio ficcanasare negli affari dei vivi. Comunque non so se sai di questa teoria secondo la quale le anime che hanno un legame particolare sono destinate a incontrarsi; quando accade è come se le conoscessi da sempre anche se non sai niente di loro. Ti è successo?».
Narancia non aveva bisogno di pensarci perché quella sensazione la conosceva troppo bene, e a dire il vero la stava provando proprio il quel momento.
«Sì, è strano… In realtà la provo spesso, ad esempio quando il cane del ciliegio cerca di rubarmi la fascia dai capelli o una scarpa, non so perché lo faccia ma non ho mai avuto il coraggio di chiederlo ai suoi padroni»
«Iggy non ha padroni» quando Caesar ebbe finito di piantare tutti i girasoli e la rosa, che aveva messo davanti, in bella vista, per non farla sfigurare tra i petali gialli, si sedette a gambe incrociate in mezzo al suo campetto personale con un sorriso soddisfatto «ha un caratteraccio, ma anche lui si è meritato il suo posto tra i buoni»
«Sì ma io non ho ancora capito cosa c’entro con te o con le persone del ciliegio» gli disse Narancia incrociando le gambe accanto a Caesar. Neanche a farlo apposta, proprio il ciliegio rimaneva ben visibile anche da quella posizione così come l’arancio vicino al quale avrebbe piantato le rose «cosa c’entro con loro? Perché devo averci a che fare? Cioè, io vorrei ma non ne capisco il motivo»
«Ti credo…» Caesar trasse un sospiro profondo «Da quando quell’albero è stato piantato piove più spesso del solito, anche se non le ho contate avrò visto passare almeno una cinquantina di anime sotto quei rami. Quando avrai il coraggio di farti avanti e parlargli lo scoprirai esattamente come stiamo facendo adesso noi due. Al che dirai: “perché non vengono loro a presentarsi?”; domanda più che legittima, ma nessuno vuole recare imbarazzo agli altri, quindi fanno quello che facciamo tutti: aspettano il momento propizio. Il tempo non esiste più, ma le nostre anime, i nostri sentimenti, quelli ci sono ancora e vanno rispettati, e questo vale anche per i tuoi compari che abbiamo lasciato nel giardino di Mitra. A proposito, sapevi che puoi cambiare aspetto e ringiovanirti o invecchiarti come ti pare e piace?» aggiunse subito dopo «Quando il mio amico verrà qui lo saluterò travestendomi da vecchio bacucco per confonderlo, non vedo l’ora di godermi la scena»
«Mh, hai ragione tranne sull’ultima parte, non voglio diventare vecchio» considerò Narancia osservando gli spiriti stazionati sotto il ciliegio, il più bello che avesse mai visto prima d’ora. Se aguzzava le orecchie riusciva a sentire le loro risate riempire l’aria immobile.
«Mi domando» riprese sovrappensiero abbassando il capo «questa risata, io la conosco. È della ragazza che ha preso la nostra tartaruga… chi ha potuto farle del male?».
Caesar sospirò di nuovo, ma stavolta era un sospiro greve.
«Ci sono tante anime che piuttosto che stare qui a non fare niente dovrebbero innamorarsi di persone vere, costruirsi una vita, una famiglia, invecchiare, ma non sempre è così. Perlomeno la sofferenza non le toccherà più, ma non so quanto questo possa consolare i parenti rimasti laggiù a piangerli… L’importante è non avere rimpianti. Tu ti penti delle azioni che hai commesso?».
Narancia scosse energicamente la testa.
«Assolutamente no, io sono qui per questi fiori, questi fiori significano tutto per me!».
Lo disse con una tale convinzione che Caesar si drizzò a sedere e gli applaudì.
«È questo lo spirito giusto!
» dopo di che, scrutò anch’egli il ciliegio con gli occhi ridotti a fessure.
«Ah, Cherry, se solo non avessi dei pessimi gusti in fatto di uomini» cinguettò d’un tratto cambiando totalmente tono di voce.
«Si chiama Cherry?» domandò Narancia.
«Sì, e il suo nome celestiale rispecchia la bellezza delle sue iridi» Caesar si porto le mani alle guance con fare sognante «ma non provarci neanche!» scattò, cambiando tono per la seconda volta, facendo trasalire Narancia «sta già con qualcun altro… Rose blu⁷, le più rare in assoluto, ed è colpa di quello lì! Ah, maledetti giapponesi! Con la vostra cortesia innata, la vostra gentilezza, il vostro spirito di sacrificio e i vostri ciuffi fluenti! Come può una ragazza come Cherry lasciarsi ammaliare da voi?».

Narancia pensò alle parole che aveva appena ascoltato e, mentre stava per ribattere che non vedeva cosa ci fosse di negativo in quelle quattro qualità, un giubilo improvviso si era levato proprio dal ciliegio distogliendo i due ragazzi da quella conversazione alquanto strana.
«Hai sentito?» Narancia si mise in piedi e osservò la scena: sembrava che altre anime si fossero aggiunte a quelle che c’erano già prima e che si stessero abbracciando come se si conoscessero da sempre.
«Ah, però, è arrivata gente» anche Caesar si era alzato «Iggy deve aver rubato un oggetto a qualcuno di importante per far fare a loro tutto quel chiasso».
La quasi dozzina rumorosa delle anime del ciliegio stava lasciando le piante, apparentemente diretta verso il centro abitato: una di loro si staccò dal gruppo e si avvicinò ai girasoli. Aveva le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, i pantaloni stropicciati e un improponibile cappellino viola a celargli parte dei capelli spettinati, ma sul suo volto era dipinta l’immagine della gioia.
«Ah!» esclamò Narancia, riconoscendolo «è quello con cui ti picchi sempre!»
«Caesar!» urlò lo sconosciuto, che aveva le fattezze di un adolescente «Vieni con noi e porta anche il tuo amico della birra! Si va al ristorante!».
Così dicendo sollevò un braccio e lanciò qualcosa di piccolo e rosso che andò a colpire la tempia di Caesar.
«Disgraziato!» abbaiò quello raccogliendo la ciliegia «Te la faccio ingoiare con tutto il nocciolo, hai capito? Dopo voglio la rivincita della scazzottata dell’altra volta!» gliela rilanciò contro, ma chi lo aveva stuzzicato era già corso via per seguire gli altri.
«Mi hanno invitato al ristorante?» Narancia era incredulo «Quindi posso venire con te?».
Caesar abbandonò per un attimo l’espressione arcigna e guardò il ragazzetto sottile con gli occhi duri di chi aveva visto troppe brutture per la sua età: sembrava che la felicità dell’anima che aveva appena conosciuto dipendesse dalla risposta che avrebbe ricevuto.
«Tu devi venire con me, non ci sono scuse» sentenziò il Marcantonio mettendogli un braccio sulla spalla «e già che ci siamo riserviamo due posti ai i tuoi amici, tanto ogni volta che ci sediamo a tavola facciamo passare anche cinque o sei anni terrestri, possono raggiungerci dopo»
«Evviva, sono contento! Voglio la pizza margherita!» Narancia balzò fuori dai girasoli, sempre brandendo i fiori degli amici di laggiù, e andò ad accorciare la distanza che lo separava dall suo piccolo arancio ancora giovane.
«Prima però devo piantare le rose! Mi aspetti, vero?».
Caesar incrociò le braccia e sorrise. Quel tipetto era davvero interessante.
«Ovvio, sono qui apposta. Però sbrigati, tra un po’ si metterà di nuovo a piovere».

***

¹Tra i vari significati attribuiti al pavone vi è quello legato all'immortalità e alla resurrezione di Cristo, in quanto si credeva che le sue carni non fossero soggette a deterioramento. Era anche l'animale sacro a Era. Qui e qui per ulteriori approfondimenti.
²Le rose, fiori sacri ad Afrodite, assumono differenti significati a seconda del colore dei petali. Le rose bianche simboleggiano purezza, castità e candore, ma anche l'amore platonico, sentimento che, nella mia headcanon e con una dovuta eccezione, unisce la banda di Bucciarati. Si contrappongono a quelle carminio (menzionate in Al-Qirmiz), che invece sono simbolo di lussuria e desiderio carnale.
³Il carro dorato trainato da colombe bianche è uno dei simboli di Afrodite. 
⁴In numerologia l'undici è il numero degli amori nascosti e dei segreti personali. È inoltre accostato ai legami e si caratterizza per l'uguale presenza di proprietà sia maschili che femminili. L'accostamento con le colombe, invece, è stata una mia invenzione.
⁵Le rose pesca indicano un amore segreto.
⁶Le rose rosa indicano un sentimento di tenerezza, gratitudine e delicatezza.
⁷Le rose blu non esistono in natura. Per questo motivo simboleggiano il mistero, l'infinito e la saggezza, ma anche un amore impossibile. I personaggi a cui faccio riferimento con questo tipo di fiore, seppur legati dal destino per colpa di Dio Brando, sono destinati a non incontrarsi mai nella vita terrena e pertanto il loro essere "crack ship" li rende, di fatto, una coppia che non esiste se non nel piano spirituale.

Musica in Jojo: Mio fratello è figlio unico è uscito come singolo estratto dal secondo album omonimo di Rino Gaetano nel 1976. Attraverso l'elencazione di una serie di attività tipiche dell'italiano medio degli anni settanta, Gaetano intende raccontare della genuinità e della spontaneità di chi non si conforma ai gusti della massa, emarginandosi da essa in virtù della propria autenticità esattamente come hanno fatto i protagonisti del racconto.

Retroscena:
 
E fu così che Narancia insegnò la torture dance a Caesar.
Sono pessima, perdonatemi.
Si sarà capito che questo capitolo mi ha fatto penare? Se non è così, lo ribadisco: scrivere di Vento Aureo per me è sempre un'impresa perché i personaggi di quell'arco narrativo sono imprevedibili, incredibilmente imprevedibili e forieri di bellezza. Croce e delizia è stato anche disseminare questo improbabile incontro di spiegoni su nozioni simbologiche che ho acciuffato un po' ovunque per l'internette. Volevo creare questa sorta di collegamento tra gli emarginati di laggiù e quelli dell'aldilà attraverso il fiore di Afrodite per antonomasia (nonché di tutta la raccolta in generale) e mi auguro che questo accostamento vi sia risultato gradito. Oltretutto non potevo non includere uno degli scorci di "paradiso" made in Araki 100% con la fermata capolinea dell'autobus in cui Abbacchio rivede il suo collega: è stato proprio da qui che mi è balenata l'idea di allargare questa dimensione con altri scenari e simbolismi vari.
Infine, per quanto concerne il giardino di Mitra sarà compito di una certa coppia per la quale nessuno, ma proprio nessuno, ha mai fangirlato prima illustrarne il funzionamento, quindi se volete saperne di più non vi resta che passare nuovamente di qua la prossima settimana.

xoxo





   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo / Vai alla pagina dell'autore: Green Star 90