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Autore: time_wings    04/08/2021    2 recensioni
[In revisione]
Da… un capitolo:
“Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che, al crescere della gioia, cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza."

Questa storia, come molte altre, parla di una grande amicizia, di un amore nascosto, di un fratello abbandonato, di difficili addii. Certe cose nascono alla stazione di un treno, altre finiscono nello stesso posto. Dove ci porteranno? Be', avanti.
O… la storia di come “alla fiera dell'angst per due soldi un malandrino mio padre comprò”.
Genere: Angst, Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans, Marlene McKinnon, Regulus Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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31. The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars

 






Maggio, 1978

James Potter aveva condotto diciotto anni di vita tranquilla.
E adesso non ne voleva più sapere niente.
Aveva vissuto un’intera vita credendo che le cose fossero in un certo modo schematiche.
A cinque anni aveva scoperto la morte, e una figura incappucciata e armata di falce si era affacciata alla sua mente. A volte, nei sogni, la falce cedeva il posto al coltello affilatissimo che vedeva in cucina, ma era pur sempre un’arma. Una tradizionalissima arma.
A dieci anni aveva scoperto l’amicizia, e una serie di ragazzini senza volto ma sorridenti aveva fatto capolino nella sua testa. Immaginava scope da quidditch, palloni da calcio, libri da leggere insieme e bacchette con cui farsi i dispetti a vicenda.
A quindici anni, in fede al suo tradizionalismo, James aveva immaginato l’amore, assieme a due mani intrecciate, petali di rosa, cuori rossi pacchiani e inchiostro sulle lettere sbavato da mani sudate dalla trepidazione.
James non voleva che la morte fosse una signora con la falce, non voleva amici senza volto ma sorridenti e non voleva cuori pacchiani e petali di rosa. Erano solo le prime immagini scontate che gli saltavano in mente per associazione.
Però guardando Lily Evans seduta a un tavolo dei Tre Manici di Scopa, quella voglia di essere la studentessa modello lasciata indietro a Hogwarts per lui, James considerò una nuova associazione: Lily era un respiro. Uno di quelli che scendeva nella trachea in forma di bolle.
Ed era un’associazione così personale, così poco sterile, così comprovata, rispetto alle altre, che l’euforia che gli scoppiò nel petto fu abbastanza per dissuaderlo dal cercarne altre.
Quando una cosa la conoscevi a fondo non avevi bisogno di darle un nome, perché non avevi bisogno neanche di capirla.
“Siamo soli nell’universo?” le domandò a ridosso di un sorso di Burrobirra.
Lily si leccò della schiuma via dalle labbra e aggrottò la fronte. “Questa è la tua domanda?”
James annuì. Le avrebbe dovuto chiedere il colore preferito. Le avrebbe decisamente dovuto chiedere il colore preferito, sarebbe sembrato meno… inconsistente.
“Siamo meno soli di quanto crediamo.”
Un tuono rimbombò tra le pareti, l’acqua scrosciò copiosa oltre la finestra. Sembrava che un dio irritato stesse versando secchiate sul mondo, sperando di distruggerli tutti prima che lo facesse la guerra.
Però James sorrise e Lily lo imitò come se i neuroni specchio fossero stati inventati esattamente per quello: non lasciare che James sorridesse da solo.
“Avete qualcosa in mente in questi giorni?”
James sollevò un sopracciglio e prese un altro sorso di Burrobirra. Si era fatto portare una cannuccia, perché sì. Perché era più comodo, quando si consumavano birre al tavolo, secondo lui, e il fatto che Lily gli piacesse non l’avrebbe frenato dal comportarsi come un ‘povero fesso’, come Remus ci teneva a etichettarlo ogni volta che chiedeva una cannuccia assieme alla sua Burrobirra. “Abbiamo in mente cosa? Chi?”
Lily roteò gli occhi. “Tra venti giorni iniziano i M.A.G.O.” lo informò, come se il nervosismo di Peter, la disinvoltura di Sirius e la residenza permanente di Remus in biblioteca non glielo ricordassero ogni giorno. “La scuola non cadrà a pezzi con una cascata di bombe?”
“Allora, prima di tutto una cascata di bombe è l’idea meno eccitante del secolo. Il che ci porta al secondo punto, ovvero che non hai il talento per venire a sapere se e cosa, nel caso, bolle in pentola.”
“Io ho sradicato Puffagioli fino allo sfinimento, l’anno scorso, per il vostro stupido scherzo! E adesso non avrei talento?” Lily si sporse in avanti, catturò la cannuccia di James tra i denti e gli rubò un sorso per ripicca.
James avrebbe voluto morire lì sul posto. Stecchito, arrosto, impalato, marinato nelle sue stesse lacrime, ma se c’era una cosa che lo esaltava più di Lily Evans che si appropriava della sua cannuccia, era Lily Evans che si irritava a causa sua.  “No.”
Così. Secco. Lily non aveva talento per gli scherzi. Lily, la studentessa più brillante della scuola, non aveva talento per qualcosa. Lily non fu felice di quel no.
Consumate le loro Burrobirre, James fece strisciare la sedia all’indietro e si alzò di scatto. Un sorriso vispo si aprì sul suo viso proprio mentre tendeva una mano davanti a sé e solo a qualche centimetro dal viso di Lily.
“Usciamo di qui?”
“Ma piove!” A James non sfuggì la punta di divertimento nascosta da qualche parte nel tono annoiato a cui lei l’aveva abituato.
“Esatto.”
 
Lasciarono i Tre Manici di Scopa e sostarono esitanti sulla soglia, la schiena premuta contro la porta chiusa alle loro spalle. Si guardarono, una nuova intesa si solidificò tra i loro sguardi. Lily non aveva mai pensato che ne avrebbero mai avuta una liquida, figurarsi solida. James non ci aveva mai sperato troppo seriamente.
Un tuono rimbombò tra le mura di Hogsmeade proprio nel momento in cui Lily annuì e afferrò la mano di James.
Poi corsero lungo il viale principale del villaggio, mano nella mano e via via sempre più fradici. Il suono dei loro passi bagnati si fondeva allo scrosciare della pioggia. Uno scrosciare che li zittiva, li nascondeva, ma non riusciva a soffocare le loro risate.
Quelle, invece, rotolarono alte e rimbalzano tra i palazzi. Erano suoni che sembravano provenire dal passato, colorati di seppia o in bianco e nero, effetti di un Incanto Patronus ben assestato. Invece erano reali, ancora più potenti in un villaggio ammutolito dalla guerra e sottomesso alla pioggia.
“Dove stai andando?” domandò Lily e rise ancora quando James si scrollò la pioggia dai capelli come un cane spelacchiato.
“Seguimi.”
E Lily lo seguì, stanca di chiedersi in quali guai l’avrebbe cacciata ed elettrizzata in quella maniera tipica solo delle cose proibite all’idea di lasciarsi trascinare. C’era qualcosa di elettricamente carico nel lasciarsi condurre da James Potter alle spalle di una casa disabitata, nel concedersi di ammettere di volerlo con ogni fibra del proprio corpo. C’era qualcosa di magico nel cedere. E a quel punto non voleva fare altro.
James si appoggiò al muro della casa a braccia incrociate. Un davanzale, al secondo piano, bloccava traiettorie indesiderate della pioggia e la faceva sembrare nient’altro che una tenda infinita al di là del loro spazio sicuro. Lily mosse un passo avanti per ripararsi. Un passo avanti significava nessun passo di distanza tra loro, anche.
James la guardò soltanto, indecifrabile nel mistero da cui alla fine Lily si era lasciata stregare. Poi lui si sfilò gli occhiali e li ripulì sul mantello bagnato, in un risultato pessimo.
“Lily” iniziò con un sospiro, ancora concentrato sulle lenti. Sembrava seccato, il che significava, secondo il radar che Lily stava ancora calibrando, che lei aveva fatto qualcosa di male o che era molto teso. “So che abbiamo diciotto anni e non otto, ma sarebbe super infantile e fuori luogo se adesso ti chiedessi come uno scolaretto se vuoi essere la mia ragazza?”
Molto teso, decise Lily mentre perdeva definitivamente le testa. Quindi disse la prima cosa che le passò per la testa. “Tu devi sempre correre in tutto quello che fai?” ma rise, perché la verità era che non voleva distruggerlo.
James ridacchiò a sua volta e si strinse nelle spalle, rimettendo 
finalmente gli occhiali. “Sì, Evans. Devo sempre correre. Vuoi essere la mia ragazza?”
Lily sospirò e inclinò il viso su un lato. “Sì” replicò a bassa voce, decisa a sostenere il suo sguardo anche quando lui alzò gli occhi verso l’alto e arrossì.
“Grandioso. Fantastico. Meraviglioso.”
Fu il turno di Lily di alzare gli occhi al cielo. Si sporse in avanti e lo baciò.
Era una sensazione imbarazzante nella sua evidenza, perché Lily pensò che fosse tutto effettivamente grandioso, fantastico e meraviglioso in quella maniera totalizzante che di solito, quando qualcuno provava a descriverla, risultava ai suoi occhi solamente irritante. Le piacque seriamente tutto, in quel momento: la mano bagnata di pioggia di James sulla sua guancia, il calore in contrasto col fresco del temporale, i capelli umidi, i vestiti fradici, le potenzialità e una forza di volontà che non sapeva di avere, la possibilità che si potesse camminare in quella guerra mano nella mano con qualcuno.
Le smancerie le avevano sempre fatto storcere il naso. Non per invidia, non per scetticismo, ma forse perché, da qualche parte nel bagaglio di responsabilità che si era caparbiamente costruita, le erano parse frivole. E Lily Evans, che credeva di dover dimostrare di essersi guadagnata il suo posto in quella scuola ogni singolo giorno della sua vita, era convinta di non potersi permettere alcuna forma di frivolezza. Era certa che la tenerezza fosse un punto debole, uno stereotipo per ragazzine sognatrici e non per future donne coraggiose e fiere.
La maturità stava forse nel riuscire a capire che le cose non stavano così.
Individuare il momento d’inizio di una guerra è relativamente semplice. Basta ascoltare il primo grido di battaglia, la prima lancia conficcata, il primo incantesimo scagliato. Lì gli storici tracciano una linea e a caratteri cubitali buttano giù una data. Rintracciare il momento in cui una guerra finisce è tutt’altra storia. Perché non è affatto nell’ultimo grido di battaglia, nell’ultima lancia conficcata o nell’ultimo incantesimo scagliato. Quello è casuale, indistinguibile tra due o tre, impossibile da localizzare. Il momento in cui una guerra finisce a volte scocca anche prima di quello in cui inizia.
Nel momento preciso in cui Lily Evans imparò ad amare, sotto quel davanzale in un pomeriggio piovoso, diede inizio alla fine della prima guerra magica.

***
 
Un movimento secco del braccio, uno netto del polso e poi la gravità faceva il resto.
Facile.
Facile un corno.
Il sassolino non si preoccupò di saltare sulla superficie del Lago Nero neanche a pagarlo oro. Affondò non appena incontrò l’acqua e sparì in profondità.
“Ho detto,” iniziò James, raccattando una pietra piatta dalla costa e lanciandola nel lago. Saltò cinque volte prima di affondare. “Un movimento secco del braccio, uno netto del polso e poi la gravità fa il resto.”
Sirius alzò gli occhi al cielo, tentò un altro lancio e il sasso affondò nuovamente nel lago.
Peter comparve alle loro spalle prima che Sirius potesse strangolare James. “Tutto fatto” riuscì a comunicare tra gli ansiti. Correre per tutta la scuola non era esattamente tra le specialità di Peter, eppure il compito era stato affidato a lui.
Maledetti.
“Tutto fatto, eh?” gli fece eco Sirius, gli occhi persi da qualche parte sulla superficie del lago, indistinguibile dal cielo con quel buio, se non quelle volte in cui le increspature dei sassolini di James attiravano la luce e svelavano i confini.
James si affiancò a lui a braccia conserte, lo sguardo impigliato tra le cime delle montagne che abbracciavano Hogwarts. “Così pare.”
Peter mosse il piede destro nel terreno bagnato della costa e osservò la punta della sua scarpa affondare solo un po’.
Remus intrecciò le dita a quelle di Sirius, ma non gli prese la mano. Reclinò la testa all’indietro e concesse il suo sguardo al cielo blu profondo della sera. Era uno di quei colori che tendevano a far piombare la terra nel buio ma a lasciare inspiegabilmente al cielo ancora qualche altro istante di blu.
Un anno prima, quando Sirius l’aveva baciato e gli aveva promesso più di quanto avrebbe potuto dargli in cambio, Remus si era chiesto che effetto facesse mettersi a gridare da lì. Non aveva idea del perché anche una cosa così semplice, quando era lui a pensare di farla, doveva richiedergli tutto quel tempo passato a reprimerla e privarsene.
L’arte della negazione era deleteria, ma aveva un solo effetto collaterale positivo: rendeva ciò che si voleva mille volte più bello, perché il tempo passato a privarsene lo impreziosiva.
A cinque giorni dalla luna piena, l’urlo di Remus suonò più come un ululato.
Il Lago Nero, le montagne, il cielo scuro e il fango lo accolsero e vibrarono, l’eco lo trasportò lontano, fino ai confini di una Terra che non aveva mai visto per intero.
I ragazzi non si unirono a lui, ma Sirius gli strinse la mano, Peter sussultò e James espirò come se fosse stato lui, a liberarsi di un peso.
“Che lo Scherzo d’Addio abbia inizio” mormorò James e i Malandrini voltarono le spalle al Lago Nero e si diressero verso il castello.
 
Quando gli studenti di Hogwarts entrarono in Sala Grande per la colazione, la mattina seguente, la trovarono completamente riarredata.
Era stato messo in piedi una specie di set cinematografico che replicava la noiosissima Guerra delle Cicale, famosa per essere la guerra più stupida nella storia del mondo magico. I piatti della colazione erano stati trasfigurati tutti in insetti di vario genere e dimensione e si animarono non appena la Sala Grande si popolò di studenti e professori, sparando coriandoli con cannoni e pistole e ricoprendo la stanza di paillettes invece che di proiettili.
“Ma cosa…” la professoressa McGranitt superò la folla di studenti attoniti sulla soglia ed evidentemente fu presa come esempio. Tutti si riversarono nella stanza per dare un’occhiata alla recita. Urla di guerra di insetti rendevano l’incantesimo di Animazione mille volte più interessante.
Sirius chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo.
“Se non ce la fai posso farlo io” lo avvertì Remus, in un sussurro al suo orecchio.
Sirius, gli occhi ancora chiusi, sorrise storto e fece schioccare la lingua beffardo, poi puntò la bacchetta verso l’alto e l’illusione del cielo nuvoloso che faceva da soffitto si sciolse. “Imbrìs Incanto” sussurrò, poi il soffitto della Sala Grande si colorò di una sfumatura profonda di notte, punteggiata di stelle che, a poco a poco e grazie alle mani esperte di James, presero nomi fantasiosi come se fossero stati sulla cartina di un astronomo ubriaco.
La preferita di Sirius era senza di dubbio quella soprannominata ‘il capezzolo sinistro di Mocciosus’.
Un grappolo di stelle artificiali, però, fu risparmiato all’ingrato compito di portare un nome stupido. Alcune si riorganizzarono nel cielo buio evocato da Sirius affinché formassero un messaggio:
Scherzo interattivo
e, più giù, le istruzioni per giocare:

 
1. Ogni studente e professore è pregato di prendere posto ai tavoli della colazione.
2. Ogni partecipante al gioco è invitato a scegliere una sola delle tre pozioni che si troverà davanti. Solo una di queste è reale, le altre sono un’illusione.
3. Scegliete la pozione reale e il cielo vi sorriderà. Scegliete quella sbagliata e a ridere saremo noi.
4. Divertitevi.

Ogni traccia della Guerra delle Cicale era stata cancellata dalla presenza di numerose file di fiale in gruppi di tre.
Da quel momento in poi fu il caos.
Chi vinse al gioco, stappata la pozione, ricevette un mazzo di fiori con un biglietto personalizzato di auguri e un invito a regalarli. A tutti gli altri, e su scala più grande la cosa di rivelò esilarante, esplose una pozione in faccia. Colori vibranti tingevano espressioni seccate, batuffoli di fumo si levavano verso l’alto a coprire le istruzioni in cielo. C’era chi rideva, chi sceglieva di non giocare, ma poi si lasciava tentare, chi riusciva a mantenere il proposito di tenersi fuori da simili idiozie, ma si lasciava andare a un sorriso nascosto. C’era Regulus Black a braccia conserte e uno sguardo che faceva pendant con il suo cognome. Sirius lo colse, alzò un dito verso l’alto e mimò con le labbra una parola sola: ‘centro’.
Con riluttanza, Regulus si sporse verso le sue tre ampolle e indugiò con un dito sull’orlo di quella centrale.
“Non vorrai farlo sul serio” si intromise Avery, alle sue spalle.
Regulus lo guardò soltanto, negli occhi un misto di disgusto e ammonimento, poi afferrò la pozione centrale e la stappò di colpo.
Per i primi secondi non accadde nulla, poi un mucchio di girasoli giallo intenso sgomitarono per esplodere oltre l’orlo. Regulus si ritrovò a sorreggere un mazzo di fiori. Scartò il bigliettino adagiato tra i petali e ne lesse il contenuto con un cipiglio stanco: ‘Per Regulus. Fratellino, erede e soldato. Il fiore lo regalo io a te, perché so che non hai nessuno a cui darlo’.
Regulus strinse le labbra e abbandonò i fiori sul tavolo. Incontrò lo sguardo di Sirius e, senza un accenno di espressione, lasciò la Sala Grande.
“I responsabili della bravata,” iniziò la professoressa McGranitt dal suo tavolo, con un mazzo di margherite tra le mani, “sono pregati di farsi avanti e accettare l’ultima punizione della loro carriera.”
Il fatto che i colpevoli non fossero un segreto per nessuno, girò in loro favore.
James, Sirius, Peter e Remus salirono in piedi sul tavolo Grifondoro. Remus sollevò entrambe le mani come a consegnarsi, in realtà richiamò il silenzio.
Allora James si schiarì la voce. “Quello a cui avete appena assistito è uno scherzo che concentra incantesimi di livello avanzato per ogni materia obbligatoria di questa scuola. Siamo inoltre onorati di informare il professor Lumacorno che durante la quinta lezione di pozioni, al primo anno, l’incidente della pozione Scacciabrufoli è stato in realtà l’inizio della nostra carriera.”
Il professor Lumacorno scosse la testa e si schiacciò una mano sulla fronte.
Sirius riprese il discorso dove James l’aveva lasciato. “Visto il progresso e l’elevato grado di difficoltà delle nostre bravate, chiediamo al capo della nostra casa – Minnie, andiamo, noi due siamo sempre stati come cane e gatto – di sciogliere le accuse e chiudere un occhio per questi ultimi giorni, visto che il nostro lavoro si conclude oggi.”
“Durante la preparazione di questo scherzo,” continuò James, “abbiamo smarrito un pezzo del nostro cuore. Speriamo vivamente che degli eredi degni lo raccolgano, giurando solennemente di non avere buone intenzioni.”
“Fino ad allora,” lo interruppe Sirius. Scambiò un’occhiata divertita con ognuno dei suoi amici, poi sorrise, sinceramente e senza inganno, e disse: “fatto il misfatto.”
Remus sollevò la bacchetta. Stringhe rosse e oro li circondarono fino a nasconderli completamente, infine i Malandrini scomparvero dalla Sala Grande in un puf di fumo colorato.

***
 
Si passano intere vite a correre, a volte, a scappare dalla verità, a crogiolarsi in un futuro fatto di speranze che nel presente non si fa niente per solidificare. Andrà bene, consigliano, troverai una soluzione.
A volte non esistono soluzioni, è una regola che si impara la prima volta in cui si vede un’equazione.
A volte la chiave sta nel trovare qualcuno che all’equazione impossibile aggiunga un fattore che rimodelli ogni significato. A volte le soluzioni vanno costruite, scavate nella roccia più dura del pianeta, messe insieme in una miriade di pezzi di un puzzle di cui non si conosce l’immagine finale, perché così è più difficile.
Remus Lupin aveva costruito la sua soluzione assieme ai suoi amici, passo dopo passo, compromesso dopo compromesso. Non esisteva una cura al morso del lupo mannaro: lo sapeva lui e lo sapevano i babbani che leggevano favole per bambini. Non esisteva una pozione che ne alleviasse gli effetti né catene che non segassero i polsi. Non esisteva neppure un paraluce per la luna. Ma esistevano James, Sirius e Peter, che si trasformavano in animali una volta al mese per tenergli compagnia e che erano pronti a farlo un’ultima volta, per lui.
“Stasera siamo lupi malinconici” commentò Sirius, affiancandosi a Remus e gettando uno sguardo rapido oltre la finestra, verso la lenta ascesa della luna.
Remus prese fiato per parlare, poi scosse la testa, espirò e tornò a fissare il paesaggio.
“Avanti, dillo.”
“È che…” incrociò gli occhi di James alle sue spalle.
“Acqua?” gli domandò lui, completamente incurante del peso che le ultime volte gettavano su tutto.
“No.”
“Che c’è?” Peter alzò la testa da dietro una sedia, interrompendo la sua artistica tecnica di dispiegare lenzuola e cuscini a terra per i futuri pisolini delle cinque del mattino.
“È che questa è l’ultima volta. La prossima luna è a fine giugno.”
“Sono sorpreso dalle tue capacità di addizionare ventotto.”
Remus concesse una sola occhiata acida a Sirius. “Non è quello che voglio dire” mormorò a denti stretti. Non per la rabbia, però, ma perché la luna, lassù, iniziava a gettare fasci di luce più intensa, filamenti di gravità che Remus aveva attorcigliati ai polmoni e che si traducevano in una spinta, una tensione verso qualcosa che non poteva controllare. Le onde lo stavano già trascinando via.
James gli poggiò una mano su una spalla e gettò anche lui un’occhiata fuori dalla finestra. Non gli disse che sarebbero rimasti amici per sempre, non gli disse che i Malandrini erano un contratto a vita, ma sospirò leggero e scrollò le spalle. “Dobbiamo muoverci a trovare un altro bosco, allora” e fu abbastanza.
Qualche minuto dopo, il guinzaglio della luna iniziò a tirare. Sirius gettò un’occhiata a James e Peter e la loro fretta di trovare un posto adatto agli occhiali di James – l’ultima volta era caduto sopra la scatola in cui li aveva riposti, perché Peter gli aveva inavvertitamente dato un colpo di coda sul muso e lui aveva barcollato all’indietro come un cervo stupido. Con un sospiro, Sirius si riconcentrò su di lui. Remus avrebbe trovato quella preoccupazione silenziosa abbastanza comica, se ogni volta non avesse anche sentito l’urgenza di rovesciare tavoli e strapparsi la carne dalle ossa, allo stesso tempo. Ma la verità era che era molto carino. Non gli chiedeva mai come stava né se avesse bisogno di qualcosa, non gli intimava di stare attento né si preoccupava di dispiacersi per l’imminente dolore, però gli allungava una bottiglia d’acqua o, come in quel momento, gli sbottonava piano la camicia, lento come chi calcola il tempo a mente e non osa parlare per paura di distrarsi.
Remus non gli diceva mai che il contatto fisico, in quei momenti, faceva lo stesso effetto scomodo di quando ci si grattava una porzione di pelle che non prudeva. E non lo faceva perché aveva imparato che condividere il peso di una maledizione con qualcuno significava condividere anche il dolore che portava con sé e accettare che non fosse più il solo a sentire la necessità di lenirlo.
Quando Sirius ebbe finito, strinse le labbra e lasciò che si spogliasse da solo. Lo guardò negli occhi e neanche allora gli disse che gli dispiaceva. “Ti ho portato un osso” disse invece, accennando col capo da qualche parte nel punto in cui James stava costruendo un fortino per i suoi occhiali, sulle labbra il sorriso tipico di chi si voleva far picchiare.
Remus non lo picchiò perché era un tipo equilibrato anche quando non doveva. “Va’ a farti fottere.”
“Così mi ringrazi?”
“Se vuoi domani andiamo a spasso e te lo lancio.”
Sirius finse di pensarci su. “Andata.”
Remus provò a regalargli un sorriso. Non avrebbe saputo collocarlo su una scala da ‘procione schiacciato’ a ‘iena ridens’, ma almeno aveva tentato. “Aspetta, l’hai portato davvero?”
“Sì.”
“Dove diavolo l’hai preso?”
“Dal cadavere del mio nemico.” Remus lo guardò. “L’ultima volta che abbiamo mangiato bistecca a cena.”
Remus avrebbe voluto sfotterlo, ma qualcosa, sul fondo della sua schiena, tirò. I pensieri si offuscarono. Presero la consistenza del dormiveglia, poi di febbre, poi di sogni e infine di melassa. Colarono in una prospettiva bidimensionale, ma non per questo superficiale.
Gli odori si acuirono, i suoni si acuirono, il dolore si acuì, l’unica cosa che non si acuì fu la vista. Macchie di colori sbiaditi si stagliarono su un paesaggio sfocato di cui non ricordava e non afferrava le coordinate, poi presero a girare in spirali che mischiavano percezione a confusione.
Infine, il mondo smise di girare, la bilancia si ricalibrò e le sensazioni aderirono.
Sete.
Non di sangue, non di morte, non di violenza.
Sete di libertà.
 
Remus si svegliò con un dolore pulsante al fianco sinistro. Sopportabile, certo, se non fosse stato per un periodico bruciore nello stesso punto, come se qualcuno gli stesse punzecchiando la ferita.
Voltò il viso di lato con un grugnito, le palpebre ancora socchiuse lo imploravano di lasciarsi andare alle proposte allettanti del sonno. Remus le ignorò, però, perché qualcuno gli stava effettivamente punzecchiando quella ferita. Quel qualcuno era Sirius, armato di un batuffolo di ovatta imbevuta di chissà quale erba magica, ma sicuramente quella che bruciava di più.
“Buongiorno, stasera ci sentivamo selvaggi” la sua voce sorrise.
“Cos’è successo?” domandò Remus, lanciando un’occhiata distratta al taglio, la voce arrochita dalla stanchezza e dalla trasformazione.
“Hai seguito Peter nei rovi, ma avete chiaramente dimensioni diverse.”
Remus sibilò di dolore a un passaggio dell’ovatta su una zona sensibile. Sirius lo guardò negli occhi solo per un attimo, poi tornò a prestare attenzione alle sue ferite.
Remus spostò lo sguardo sul resto della stanza. James e Peter dormivano spaparanzati sulle coperte che la notte prima avevano meticolosamente disposto sul pavimento.
La prima volta che aveva messo piede nella Stamberga Strillante c’erano stati suo padre, Silente e Madama Chips. Ma soprattutto c’era stato lui, che si immaginava chiudere con mani tremanti quella porta piena di chiavistelli e percorrere la stanza avanti e indietro, preda dell’ansia, l’irrequietezza e la paura che precedeva un dolore incomunicabile, prima di perdere il controllo. La prima volta che era stato lì si era immaginato settanta lune piene in solitudine. A soffrire, urlare, disperarsi per non poter accedere a una cosa così umana – e per questo così preziosa – come l’amore, di qualunque tipo e forma.
L’ultima volta che fu lì, invece, Remus guardò Sirius fare una battuta che non sentì, con le mani sporche di sangue e unguenti, e pensò che la vita prendeva svolte inaspettate, così sconvolgenti che svolte era un’iperbole. Erano dannati tornanti ed eliche. I libri presentavano l’amore come un faro pacchiano colmo di cartelli che gridavano ‘QUI’. Il mondo era pieno di storie sbrilluccicose di colpi di fulmine, sguardi provvidenziali, angeli caduti dal cielo, ma la verità era che anche se ti innamoravi della stella più brillante del cielo notturno non era detto che te ne accorgessi subito.
“Non ti fa male, vero?” gli domandò Sirius, lo sguardo furbo mentre premeva dell’ovatta bagnata all’interno di una ferita.
Remus sussultò dal dolore e si lamentò, ma non mancò di trovare il modo di sussurrare imprecazioni a denti stretti. Sirius rise.
A volte l’amore lo vedevi così.
Non nelle luci, non nei colori, non nelle piume dei pavoni, ma nella calma che chi lo accendeva portava con sé. Nella pace, nel silenzio nella testa, nella facilità con cui ogni ronzio nelle orecchie ammutoliva di colpo davanti a un sorriso. A volte semplicemente ne valeva la pena. Valeva la pena innamorarsi e pensare di non poter sopravvivere senza qualcuno anche durante una guerra che per definizione decimava speranze.
“Che c’è?” Sirius non alzò gli occhi.
“Cane e zenzero.” Remus non si era aspettato di essere interpellato, il filtro tra i suoi pensieri e le parole che pronunciava ancora troppo sottile e in fase di costruzione per sperare che facesse il suo lavoro. Sirius spostò lo sguardo nel suo e annuì appena, chiedendo conferma di una cosa che Remus aveva già detto una volta, ma che in quel momento aveva un altro sapore. Aprì la bocca per parlare, ma Remus intercettò la domanda e vi rispose prima che arrivasse: “Davvero.”
Sirius annuì e si sporse in avanti.
“Ehm, alito da lupo.”
“Mhh, selvaggio” poi lo baciò.

***
 
Nuvole nere si arrampicavano sulle cime delle montagne, mozzandone le punte come rasoi. I temporali estivi erano rilassanti, soprattutto alla fine di un anno in cui gli esami non toccavano a lui.
Regulus, seduto in cima a una Torre di Astronomia deserta, in tardo pomeriggio, sospirò e alzò gli occhi verso il cielo. L’inclinazione della pioggia gli consegnò qualche schizzo in faccia. Andava bene, in realtà era bellissimo.
Il cappello parlante aveva parlato: lui apparteneva ai sotterranei, non al cielo. Era un bel viaggio, andare fin lassù, un viaggio che preferivano fare i compagni Grifondoro, senza allontanarsi troppo dal loro dormitorio. I Serveperde preferivano il Lago Nero e uno spiazzo nascosto oltre una roccia pieno di pietruzze sulla costa.
Non sapeva perché fosse lì.
Regulus credeva in quei valori, ci credeva per davvero. Lui era un Serpeverde, ce l’aveva scritto nel sangue e nella personalità. Lui era un Black, ce l’aveva scritto sull’arazzo della madre e nella spocchia. Lui era un Mangiamorte, ce l’aveva scritto nella causa che aveva sposato e nel segno vivo e pulsante sul suo avambraccio.
Non aveva rimpianti, solo nostalgia. Era una sensazione inspiegabile forse connessa alla solitudine. Era una mancanza di qualcosa che non era nel suo passato, ma da qualche parte nel futuro: un segreto che ancora non conosceva. Una nostalgia, però, che non era abbastanza intensa per convincerlo a deragliare.
Aveva delle responsabilità, aveva un’eredità, una storia che i suoi antenati avevano lavorato duro perché lui potesse prendere e far prosperare. Come si poteva voltare le spalle a tutto questo? Come si poteva decidere di giocarsi tutto per rincorrere un istinto a ribellarsi che sarebbe poi scemato con l’età? Come si poteva pensare, anche solo per un attimo, che la famiglia e il sangue potessero essere messi al secondo posto? Erano le uniche certezze, le uniche carte da giocare quando sopraggiungeva la delusione.
Sentirsi parte di qualcosa non era abbastanza, bisognava che qualcuno con più esperienza e conoscenza sul mondo lo approvasse. Come avrebbe potuto lui, a undici anni, sapere cos’era meglio per sé più dei suoi genitori? Perché fare una cosa assurda come diffidare? Cosa avrebbero potuto volere se non il suo bene?
Regulus si sbottonò il polsino sinistro e arrotolò la manica fino a rivelare il Marchio Nero. Avrebbe combattuto chiunque, anche suo fratello, per onorarlo.

***
 
18 giugno, 1996

Esistono i passi avanti. Esistono i passi falsi. Esistono i passi indietro. Esistono i passi incerti. Esistono i passi in più. Esistono gli inciampi.
Esistono anche le orme.
Se la vita non è che un avvolgersi e srotolarsi di scelte e scenari, la sua espressione più pratica è il passo. Che sia quello di troppo o quello mai fatto, che sia quello ideale di una strada metaforica a cui ai poeti piace tanto fare riferimento, il segreto è nel passo.
Se la vita non è che un ammassarsi di passi, la morte sta nella traccia che le persone si lasciano indietro: nelle orme nella sabbia e nel ricordo che custodiscono.
 
“È possibile,” gli sussurrò James all’orecchio con fare cospiratorio, “vivere vite intere in una sola notte. Ma non tutte le notti lo permettono.”
Sirius aggrottò le sopracciglia e si voltò a guardarlo, prendendo un tiro pensieroso dalla sua sigaretta. La verità era che dargli corda era il modo più divertente di prenderlo in giro. “Ah, sì?” domandò espirando solo da un lato della bocca e mantenendo la sigaretta in equilibrio sull’altro.
James annuì solenne. “Quante vite state vivendo, adesso?” chiese poi a tutto il gruppo, allargando il braccio che non aveva attorno al collo di Sirius per sottolineare come il paesaggio notturno fosse evidentemente spettatore di vite sovrapposte.
Con un cipiglio, Remus trangugiò il suo ultimo sorso di birra, poi piantò una mano dietro di sé nel prato e si lasciò sorreggere solo da un braccio. “Vediamo un po’,” cominciò, alzando un dito per contare, “una, la mia.”
“Certo, è chiaro” interruppe James, muovendo sbrigativo una mano come a spingerlo a continuare.
“Due, il lupo.” Remus alzò un secondo dito. “Tre, lo studente diplomato costretto dagli amici a scolarsi tre birre in venti minuti.”
“Il mio preferito” aggiunse Sirius.
“Quattro, il soldato. Cinque, il fesso che si incanta davanti a un paesaggio notturno.”
“Vedi?”
Peter scosse il capo e si lasciò cadere sul prato, intrecciando le braccia all’altezza della nuca. La collina dava su Londra ed era innegabilmente uno spettacolo, ma a volte bisognava puntare a luci più brillanti di quelle che poteva concedere una città. E loro si trovavano solo in cielo. “Queste non sono cinque vite in una notte. Sono sfumature di una stessa persona.”
“Prevedo pioggia, Malandrini!” annunciò Sirius a voce squillante. “Perché sono d’accordo con Pete.”
“Queste sono cinque vite in una” insistette James.
“Perché?” domandò Peter, senza curarsi di alzarsi a sedere per sostenere quella conversazione.
“Perché…” James sorrise. Era uno di quei sorrisi stupidi, assenti ma non spenti. “Non lo so.”
I ragazzi scoppiarono a ridere e James si lasciò trascinare nelle risate.
“Hai bevuto troppo, Ramoso.”
“Ce lo meritiamo, amici. Siamo in bilico fra due mondi!”
Sirius si dondolò sul prato, costringendo James a dondolare con lui, perché avevano ancora le braccia intrecciate. “L’alcol babbano ha uno strano effetto su di te.”
 
Era tutto sbagliato.
Tutto sbagliato. Tutto completamente sbagliato.
Sirius lo sapeva ma non ci faceva caso. I tempi non coincidevano, i gesti degli altri non avevano senso. C’era un quadro più ampio, un piano più grande, anche se non lo conosceva. Il fatto era che c’era sempre stato. C’era stato Regulus Black che diventava un Mangiamorte mentre lui organizzava scherzi per far cadere James dal letto la mattina. C’era stato Regulus che moriva in battaglia, ma non c’erano stati corpi da piangere per i suoi genitori, solo una nube di mistero attorno alle circostanze della sua scomparsa. C’era stato Albus Silente che selezionava a vista membri dell’Ordine della Fenice. C’era stato James Potter che si sposava e faceva un figlio a ventun anni come se avesse iniziato a sentire l’odore del suo tempo che bruciava. C’era stato Peter Minus, incapace di pensare da solo, che faceva il doppio gioco e li batteva tutti sul tempo. C’era stato il ministro che lo incolpava di praticamente ogni sventura nel mondo magico perché non aveva saputo ammettere che i tempi erano cambiati. C’era stato il Signore Oscuro che era tornato per una seconda guerra magica mentre lui si godeva un soggiorno di lusso ad Azkaban.
Remus mise una mano sul pomello della porta. L’ottone non brillava, non c’era luce che potesse riflettere. Prima di ruotarlo si guardò alle spalle. Incrociò lo sguardo di Sirius. Lui mosse le sopracciglia come a pregarlo di darsi una mossa. Tonks, accanto a loro, tossì incalzando Remus a sua volta.
Lui annuì una sola volta. “State attenti” disse, poi spalancò la porta e si fiondarono giù per le scale di pietra. Le dimensioni della stanza non erano stimabili facilmente con tutti quei lampi che correvano nell’aria e la scarsa illuminazione, ma l’eco che produceva anche solo un passo era sufficiente perché sembrasse grande, infinita.
Sirius avvistò Malocchio, disteso a terra e sanguinante. Poco lontano, Dolohov si stava lanciando in avanti verso Harry e Neville, scagliando un incantesimo.
Riuscì a registrare Harry rispondere, ma la cosa non lo dissuase comunque dal fiondarsi contro di lui.
“Accio profe…” iniziò Dolohov, ma non ebbe mai modo di concludere la formula. Sirius gli assestò una spallata e lo guardò crollare a terra. Lui non perse i sensi, però, anzi tirò un incantesimo da lì. Sirius schivò il fascio verde e riuscì praticamente a sentire gli occhi di Harry sgranarsi, dietro di lui. Rispose aggressivo, la collisione dei loro incantesimi mandava scintille nell’aria che si spegnevano non appena toccavano terra. Dolohov ritrasse un braccio all’indietro, come a prendere la rincorsa. Sirius si preparò a parare.
Petrificus totalus!” gridò Harry, da qualche parte in una stanza grande quanto la sua eco.
Dolohov si riversò a terra dritto come un fuso, gli occhi che correvano in mille direzioni.
“Bravo!” urlò Sirius, afferrando Harry per il mantello e tirandolo giù mentre Schiantesimi e altre forme di luci maligne minacciavano di colpirli. “Adesso esci di qui…” Un lampo di luce verde passò vicino alla sua testa. “Harry, prendi la profezia, agguanta Neville e vattene!” si raccomandò un’ultima volta, poi gli assestò una pacca su una spalla e corse verso Bellatrix, all’altro capo della stanza.
“Oh!” trillò lei, entusiasta come solo chi aveva perso la testa poteva permettersi di essere. “Un duello? Che facciamo, ci inchiniamo?”
Ma Sirius non aveva avuto paura di lei neanche un giorno della sua vita. “Sì, certo” acconsentì, e invece attaccò.
Aveva combattuto altre volte contro di lei. Per qualche strano allineamento planetario su cui non aveva mai amato soffermarsi troppo, Sirius sapeva che combattevano alla stessa maniera. La cosa era un vantaggio, perché prevedere le sue mosse era facile. La cosa era anche uno svantaggio, perché anche lei sapeva come colpire.
Bellatrix scagliò un incantesimo e omise la formula. Un fiotto di luce rossa puntò al suo petto, ma lui lo schivò. “Avanti, puoi fare di meglio!” la derise, la sua risata si espanse nella stanza come una goccia caduta sulla superficie di un lago.
Ma, d
altro canto, Bellatrix combatteva come lui: colpi gemelli, forze di azione e reazione. Se attaccava una volta, un secondo dopo aveva già un altro getto tra le mani.
Il secondo lanciò lo colpì al centro del petto, il respiro si intasò da qualche parte nella gola, il divertimento ancora sparso sul viso.
In bilico, sfiorò un alito di seta alle sue spalle.
In bilico.
 
“L’alcol babbano ha un fantastico effetto su di me” commentò James, assecondando i movimenti di Sirius e facendo dondolare anche la testa. “Ho sonno.”
Sirius si lasciò cadere con la schiena all’indietro e trascinò sul prato anche James. Remus si sdraiò accanto a loro e sospirò come se fosse stato lui a reggere il peso della collina e non viceversa.
“Ma guardateci” disse Sirius, gli occhi che esitavano per qualche secondo sulle stelle, prima che si voltasse a incrociare lo sguardo di Remus. James mugugnò qualcosa nella sua spalla. Rimase inascoltato. “stiamo guardando le stelle come quattro sfigati.”
“A te non serve guardare le stelle per essere uno sfigato” commentò Remus, stringendosi nelle spalle. Sirius fece per tirargli un pugno, ma lui lo fermò prima che impattasse, gli aprì le dita e gli piantò un bacio al centro del palmo della mano.
“Secondo voi ora che si fa?”
La voce di Peter giunse incerta, vibrante. Era a due centimetri da tutti loro ma pareva parlare da lontano, da fuori la bolla in cui sapevano rinchiudersi.
Sirius esitò con gli occhi in quelli di Remus. Avrebbe voluto urlargli di scrollarsi via l’incertezza. “Ora si va avanti” rispose, non distogliendo lo sguardo. Remus alzò gli occhi al cielo come se fosse stato stanco di sentire tutti ripeterlo. “Ora si va oltre.”
“Al mondo che ci aspetta” brindò James, biascicando, la testa ancora seppellita nella spalla di Sirius e un pugno sollevato in alto come se stesse reggendo un boccale di birra. Tra le dita non stringeva nulla.
“Al mondo che ci aspetta” risposero i ragazzi in coro.
Quattro pugni vuoti si levarono contro il cielo.
 
Una manciata di giorni sarebbe bastata. Quaranta, per dirne una. Quarantuno, per chi non sapeva accontentarsi.
La morte era una cosa da esibizionisti. Come il giorno del compleanno, ma a rovescio. Tutti gli occhi puntati addosso, nelle pupille riflessa la sorpresa.
L’essere umano nasce certo di due sole cose: che a un certo punto il suo tempo è iniziato e che a un certo punto questo tempo finirà. Eppure non ci sono eventi più sorprendenti a cui assistere dell’inizio o la fine di una vita. Tutti a bocca aperta, gli occhi sbarrati, i menti all’insù. Tutti increduli. Di solito c’è sempre qualcuno che sviene.
Egoisticamente, Sirius pensò che avrebbe voluto quaranta giorni in più. Un numero a caso, ecco, anche uno solo forse sarebbe bastato. Era un concetto semplice, un desiderio: lui non voleva morire. Per arrivare a morire quel giorno aveva fatto i salti mortali. Era inconcepibile morire, per uno che l’aveva fatto già la notte di Halloween del 1981 e poi aveva ripreso a respirare. Erano tutte cazzate quelle sul famosissimo ‘vederlo arrivare’, il treno di vita spesa che presentava il conto con fotogrammi scadenti.
Perché non aveva neanche avuto il tempo di incrociare per un’ultima volta lo sguardo di Remus Lupin.
E perché lui rideva.
Sirius Black sorrideva asimmetrico. Qualcuno diceva che era una paresi facciale, qualcun altro che lo faceva apposta per darsi delle arie. La verità era che non se n’era mai accorto. Un’altra cosa che faceva Sirius Black era vivere in bilico. Aveva passato la vita a poggiare fiale su ripiani inclinati, mettere i piedi nel posto migliore per perdere l’equilibrio e reggere tre libri in pila nella posizione che più li invogliava a ribaltarsi. La verità sul fare le cose in bilico era che non c’era posizione più equilibrata di quella e perciò nulla era mai caduto.
Quando il corpo di Sirius Black incontrò il velo alle sue spalle e una specie di carezza ventosa gli si posò su una guancia, il suo sorriso era simmetrico e il suo equilibrio s’era spezzato, in bilico tra due mondi.
 
“Vivere intere vite in una sola notte…” James si alzò a sedere, il ginocchio destro che reggeva un braccio e la coscia sinistra abbandonata nel prato freddo di rugiada. Il tetto del mondo poteva essere anche un parco panoramico che mostrava Londra, se lo si desiderava abbastanza. “Significa vivere così intensamente da non sentire più nient’altro, essere qualcuno che non si è mai stati e realizzare tutte le potenzialità che non erano mai esistite.”
“James,” Sirius si alzò a sedere e gli poggiò una mano su una spalla. Guardò Londra luccicare davanti a loro, “hai bevuto troppo.”
James si voltò a guardarlo, reclinò la testa all’indietro e si mise a ridere. “Sì,” concordò, “sì, ho bevuto troppo.”
 
Al di là del velo forse c’era ancora uno scherzo da tramare.








 
NoodEl: Ciao, l'esame è andato bene.
Scrivere questo capitolo è stato proprio un atto d'amore nei confronti di questa storia da parte mia perché veramente serve una disciplina olimpionica per il cestinamento di scene e devo vincere una medaglia.

Quindi siamo qui in ritardo perché non volevo ASSOLUTAMENTE che questo capitolo venisse fuori come un compromesso tra l’idea che avevo in testa ormai un anno e mezzo fa e la realtà. Volevo poter dire: ok, non è perfetto, ma non sono stata pigra. Quindi eccoci relativamente presto, se vediamo le cose sotto questa prospettiva.
Allora, per me la cosa più importante di questo capitolo è Lily Evans, ma mi rendo conto che abbiamo priorità diverse. La mia priorità è gestire ‘sta barca bucatissima mamma santa affondiamo.
Comunque io MAI MAAAAAI mi sarei aspettata che The Raven Cycle influenzasse così tanto i fattacci miei, ma mi ha aperto gli occhi con quel modo che hanno due personaggi di dirsi ‘ti amo’ senza dirlo mai, perché hanno una frase e un concetto più forte e incisivo per farlo. Ho visto questa cosa e ho pensato “NOOOOO troppo bello vorrei troppo avere anch’i- OOOOOH CE L’HO ANCH’IO!” quindi non mi prenderò il merito di questa cosa perché era sempre stata davanti ai miei occhi e il mio inconscio la faceva, ma avevo bisogno di capirla.
Detto ciò comunque ho ucciso Sirius, mi ero quasi dimenticata. Mi dispiace, ma voi dovete capire che ho passato una cosa come sette capitoli a dire che faceva le cose in bilico e non potevo non arrivare qua, avrei pianto.
Amici, GRAZIE per avere atteso e GRAZIE dopo l’attesa per aver avuto la voglia anche di leggere, il prossimo capitolo fa ridere, giuro non mi odiate non scappate, grz.
Adieu,

El.


 
   
 
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