Marco, diciannovenne rimasto solo in vacanza al mare, si invaghisce di una ragazza di cui non sa praticamente nulla. Tra goffezza, videogiochi e molta poca autostima, cercherà di fare i primi passi.
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
“Sì, stai tranquilla, mamma, ho vissuto da solo per un anno! Credo di riuscire a sopravvivere per due settimane!”
“È stata una cosa improvvisa, mi dispiace!”
Marco si grattò la tempia e rise dell’espressione melodrammatica della madre.
“Se mi rompo le palle me ne torno a casa prima.”, disse.
Un clacson dall’esterno li fece sbandare. Il padre aveva esaurito la pazienza.
“Vi saluto dal balcone.”, disse Marco.
La madre lo salutò con un bacio in fronte, chiuse la porta alle sue spalle, Marco raggiunse il balcone della camera da letto che si affacciava direttamente sul parcheggio, fece un cenno al padre, ormai da cinque minuti pronto alla partenza, che contraccambiò con un gesto della mano. Seguì la figura della madre che montava in auto mentre gli inviava baci.
“Ciao!”, gridò Marco.
Restò fuori e vide l’auto scomparire nelle viuzze del piccolo villaggio estivo. Fece un respiro profondo. La solitudine non lo spaventava, ma il silenzio improvviso gli lasciava sempre un piccolo vuoto dentro.
Rientrò. Faceva davvero molto caldo, si guardò attorno come se non conoscesse la casa in cui passava le vacanze da ormai diciannove anni.
Sospirò di nuovo.
Doveva decidere cosa fare, domanda che lo scoraggiava spesso quando, come in quel momento, non sapeva precisamente cosa gli andasse. Andò in salotto, si sedette sul divano, controllò l’orario: le 16 e 43, pensò che fosse troppo presto per andare a mare. Guardò la Nintendo Switch.
“Forse dovrei comprare qualche gioco nuovo.”, si disse sotto voce. Afferrò la console, la accese, collegò l’hotspot del cellulare e cominciò a vagare tra i possibili titoli da acquistare. Controllava il prezzo, vedeva il trailer e le immagini, se qualcosa non lo convinceva andava su YouTube per vedere qualche gameplay mentre rispondeva su WhatsApp alla madre.
Perso nel tunnel dei possibili acquisti videoludici, Marco non si rese conto delle ore che passavano, quando i suoi occhi si posarono nuovamente sull’orologio e vide che erano trascorse due ore da quando aveva iniziato quella crociata alla ricerca del Sacro Graal dei videogiochi, si sentì stanco come se avesse lavorato. Aveva addosso la sensazione di aver buttato all’aria la giornata.
(Non posso stare da solo. Mi annoio.)
Afferrò lo smartphone, creò un gruppo con le uniche tre persone con cui avrebbe potuto trascorrere in pace quei giorni e inviò il messaggio: “Sono da solo a casa al mare, se potete raggiungetemi.”
Non voleva aspettare le risposte.
Si alzò dal divano, indossò il costume e una maglietta, preparò una borsa con l’acqua, un telo da mare e la crema solare e uscì.
Appena la porta si chiuse fu assalito dai rimorsi.
Andare in spiaggia da solo? Ridicolo.
Deglutì i pensieri.
E fece il primo passo.
Camminare per il villaggio da solo lo faceva sentire in qualche modo speciale.
(Mi sembra di star vivendo in un anime.)
Il mare distava cinque minuti a piedi da casa sua.
Arrivò sulla spiaggia, non era molto affollata, si spostò lungo la pedana verso il suo ombrellone, guardandosi attorno come era solito fare, notò diverse persone: dal bagnino al vecchietto che non riesce ad entrare in acqua perché sulla riva ci sono i massi.
Aprì l’ombrellone, si tolse la maglietta, prese una delle sedie in plastica e si sedette.
Fare il bagno?
Controllare lo smartphone?
Fingersi interessato a qualcosa?
Continuava a guardarsi attorno.
Passo uno: mettere la crema.
Quell’operazione gli prendeva almeno dieci minuti. Il momento delle spalle era quello più tragico, non aveva nessuno che potesse spalmargliela, quindi cercava di coprirsi al meglio, ma sapeva quanto dovesse essere cringe vederlo compiere quei movimenti bizzarri e sgraziati.
A missione conclusa si sedette di nuovo. L’aveva spalmata malissimo e c’erano chiazze bianche sulla pancia e sulle gambe.
(Ah, fanculo!)
Si alzò e andò verso il mare.
L’acqua gli toccò i piedi. Marco si ritrasse rapidamente, l’acqua era freddissima.
Vide un gruppo in acqua che giocava a pallavolo, erano in quattro, tre di loro, una ragazza e due ragazzi, erano impegnati a passarsi la palla, una quarta, invece, nuotava appoggiata ad un canottino poco lontano.
Era invidioso.
Forse poteva giocare con loro?
Scosse il capo allontanando quella possibilità, con quanta tristezza avrebbe dovuto chiedere ad un gruppo di giovani, sicuramente più grandi di lui, di giocare con loro? Andare al mare era molto più facile quando aveva dodici anni, si poteva fare amicizia subito e si poteva giocare ogni giorno con un bambino diverso senza nessun imbarazzo. Si sentì prigioniero delle convenzioni sociali.
(Cosa mi impedisce di farlo anche adesso?)
Si fece coraggio ed entrò in acqua lentamente sobbalzando ad ogni brivido di freddo. Una volta immerso si sentì finalmente bene, quell’ora della sera era piacevole, il Sole era coperto da nuvole leggere, Marco nuotò un po’ ricordando gli allenamenti di anni prima, percorse diversi metri in stile libero, si ritrovò a largo. La spiaggia era diventata lontana, le teste delle persone delle piccole biglie, a lui giungevano soltanto le voci. Controllò il litorale: c’erano molte persone.
Arrivò alla boa qualche metro più lontano.
Tornò a riva, ripeté il percorso finché non fu stanco.
(Anche se non mi alleno da tempo, ho ancora abbastanza resistenza.)
Si toccò la pancia, non era al top fisicamente. Si riprometteva sempre di cominciare la dieta e la palestra, ma puntualmente rimandava al lunedì successivo. Andava avanti così da almeno due anni.
Tornò a riva. Il gruppo di quattro che aveva visto in precedenza era risalito.
Dall’acqua, immergendosi di tanto in tanto, adocchiò i fisici di qualche ragazza di passaggio.
(Tutte modelle quest’anno! La moda dei costumi a tanga non è niente male.)
Si annoiò di vedere culi, quindi uscì dall’acqua per andare a recuperare la sua maschera.
Il suo sguardo fu catturato da un paio di glutei sodi distesi sotto l’ombrellone davanti al suo.
Distolse immediatamente gli occhi, prese la maschera e sfruttò l’occasione per vedere meglio la proprietaria di quel sedere: una ragazza con lunghi capelli neri, lentiggini leggere sulle guance, un costume verde, seni piccoli. Non era riuscito a vedere il colore degli occhi. L’avrebbe volentieri esaminata meglio, ma tornò in acqua e, invece delle curve della signorina, studiò le pietre e i pesciolini che nuotavano indisturbati.
Pensava a scenari ipotetici come nei migliori film mentali in cui si avvicinava alla tipa, la corteggiava, si fidanzavano, si sposavano e morivano insieme.
(Qualsiasi cosa faccio, sembrerò comunque un pervertito, alla fine perché dovrei avvicinarmi se non per il suo aspetto fisico dato che non la conosco? Che palle. Certo se la situazione fosse invertita non ci sarebbero tutti ‘sti problemi.)
Marco restò in acqua per un’altra mezzora, il Sole si era nascosto ormai dietro le montagne e la Luna, dalla parte opposta, aveva preso il suo posto. Uscì dal mare, un vento leggero gli fece venire i brividi, si fece la doccia, poi tornò all’ombrellone, la ragazza non c’era più. Erano poche, ormai, le persone in spiaggia. Soltanto lui, il gruppo di prima e un paio di signori che fumavano.
Si asciugò, prese le sue cose e salì a casa.
Per cena divorò un panino, collassò sul divano, leggermente eccitato, ma annoiato.
Prese la Nintendo Switch.
(Compro due giochi e basta, non guardo più nemmeno lo store.)
Fece ciò che si era prefissato, giocò ai nuovi titoli, si ritenne abbastanza soddisfatto dell’acquisto. Mentre giocava, però, continuava a pensare a quella ragazza, e al suo culo. Sperò di incontrarla il giorno dopo. Sul gruppo WhatsApp i suoi amici avevano risposto, ma nessuno dei tre era libero.
Restò incollato alla Switch per ore, quando l’orologio segnò le due di notte e le palpebre diventarono pesanti mise via la console e andò a dormire.
L’indomani si svegliò verso le nove, non dormiva mai più di sette ore, ormai il suo organismo si era abituato a quel ritmo, fece una colazione abbondante, andò in bagno nel sacro rituale della cagata mattutina, si preparò e per le dieci uscì da casa.
Si sentiva più sicuro di sé rispetto al giorno prima, ma ogni persona che incrociava era una martellata sul muro della sua spavalderia. Si sentiva ridicolo ad avere quei sogni puerili.
(Una cotta del cazzo che sicuramente mi tormenterà!)
Caso volle che lungo un viottolo incrociasse un cane e il suo padrone. L’animale si avvicinò scodinzolando e Marco non si fece pregare tanto, si lasciò annusare la mano e lo accarezzò.
“Come si chiama?”, domandò Marco.
“Turok.”
“Ah come il videogioco!”, commentò ad alta voce Marco, pentendosene subito, lo sguardo del padrone cambiò all’istante, non aveva capito il riferimento.
“Non lo so, questo nome glielo ha dato mio figlio”, si giustificò rapidamente.
(Che cazzo di figura, perché l’ho detto ad alta voce?)
Marco salutò Turok e il padrone, continuò lungo la strada per il mare.
Arrivò alla spiaggia, cercò subito la ragazza, ma il suo ombrellone era vuoto. In compenso, però, a quell’ora della mattina c’erano numerose madri con i propri figli e alcune di loro erano mozzafiato, Marco prese lo smartphone e messaggiò il suo migliore amico.
“Non puoi capire quante milf sulla spiaggia oggi.”
Andò al suo ombrellone, lo aprì, e ripetette la procedura di spalmo della crema, teneva gli occhi fissi davanti a sé dove il giorno prima aveva visto la tipa.
(Chissà di che colore ha gli occhi.)
Dopo essersi ricoperto di crema andò a farsi il bagno, nuotò, cercò di fare più metri in apnea, ma come pensiero di fondo c’era sempre quella ragazza.
(Ho una cotta per un culo, bravo Marco!)
Uscì dall’acqua, per passare il tempo sotto l’ombrellone giocò con lo smartphone, anche se guardò più pubblicità per ottenere premi gratuiti che altro.
Trascorse due ore, stare sulla spiaggia era piacevole, il vento non faceva sentire troppo il calore, le persone si susseguivano, gli occhi di Marco si posavano sulle curve di tutti, uomini e donne.
Verso le tredici, quando stava per andarsene, sentì dei passi alle sue spalle, si voltò lentamente.
Era proprio lei.
La ragazza, con un bikini avvolto in un pareo, andò al suo ombrellone.
(Mi alzo e mi propongo di aprirlo io? No macché dico, faccio solo la figura del marpione.)
Marco continuò a giocare con il cellulare mentre la fanciulla si sistemava, ogni tanto le lanciava delle occhiate furtive.
(Devo comprare quegli occhiali da sole che nascondono le pupille.)
La ragazza si adagiò su uno dei lettini, prona, Marco poteva vedere i glutei sodi, era chiaro che ne andasse molto fiera, il ragazzo si concentrò sui suoi occhi: verdi.
(Dio, quanto è bella. Non fissarla, idiota.)
Lei si infilò le cuffie nelle orecchie e chiuse gli occhi.
Marco si guardò attorno temendo che qualcuno lo stesse guardando.
Non sapeva cosa fare ed era consapevole che qualsiasi mossa, in quel modo, sarebbe stata spudoratamente dettata dall’eccitazione. La ragazza, dopo una mezz’ora, andò a fare il bagno.
Marco avrebbe voluto seguirla, ma la pancia gli brontolava e la fame lo assaliva. Tornò a casa.
Nel pomeriggio tornò sulla spiaggia. Vedeva gli stessi volti, affittuari nel villaggio vacanze.
La donna dei suoi sogni apparve verso le 19, sul tardi, sempre sola.
(Forse non è fidanzata. Spero.)
Marco restò sulla spiaggia come era solito fare finché non fu buio, la ragazza se ne era andata via un’oretta prima, verso le 20.
(sono un fottuto stalker.)
Marco tornò a casa rimuginando su infallibili strategie di corteggiamento che, però, si concludevano sempre sul cesso con smartphone e porno.
I giorni seguenti Marco seguì la sua routine e, con estrema gioia, si accorse che era simile a quello della ragazza che vide spesso da sola, tranne un paio di volte in cui era in compagnia di due adulti, presumibilmente i suoi genitori.
(Se voglio fare la mia mossa devo muovermi, starò qui solo per altri dieci giorni.)
Aveva escogitato un piano, ma gli tremavano le gambe alla sola idea di metterlo in pratica.
Una mattina, però, si svegliò particolarmente deciso, studiò nuovamente le fasi del suo piano e si fece coraggio. Era un piano rischioso, ma nella peggiore delle ipotesi poteva tranquillamente chiudersi in casa fino alla fine delle vacanze o andarsene proprio.
Quella mattina andò in spiaggia con un secchiello, lo stesso che usava quando era bambino per creare dei magnifici castelli che, inevitabilmente, erano destinati ad essere distrutti da inesorabili pedate. Aveva un’oretta di tempo, ma voleva aspettare che la maggior parte della gente fosse andata via. Trascorrevano i minuti. Doveva mettere in moto il suo piano pregando che la ragazza non anticipasse la sua discesa in spiaggia.
Marco si alzò con il secchiello, lo riempì con acqua di mare e bagnò la sabbia vicino all’ombrellone della tipa. Si guardò attorno. Il gruppo di quattro che aveva già visto era sotto l’ombrellone. E lo stava guardando.
Rosso in volto come un peperone, con il cuore che batteva a mille per l’imbarazzo, ma deciso a continuare con il suo piano, Marco continuò a bagnare la sabbia.
Aveva pochi minuti.
Il gruppo rideva.
(Sicuro ridono di me, stronzi. Non li pensare, che se ne vadano a fare in culo.)
con la coda dell’occhio vide che un ragazzo e una ragazza del gruppo si stavano spostando verso il mare,.
(Bene, levatevi dal cazzo.)
Ma, mentre bagnava la sabbia, percepì due persone alle sue spalle, si voltò.
“Tieni.”, disse il ragazzo.
“Se vuoi ti diamo una mano.”, aggiunse la ragazza.
I due gli stavano porgendo due secchielli ricolmi d’acqua.
“N-no, grazie non c’è bisogno.”
Il ragazzo lo guardava fisso negli occhi con espressione un po’ vuota, la ragazza, invece, coi capelli corti, belle curve e solare, sorrideva affabilmente.
“Ti serve altra acqua?”’, domandò il giovane.
“No, grazie, è sufficiente.”
“Perfetto, ciao.”
“Ciao!”
Marco salutò con la mano restando in silenzio.
(Che tipi strani.)
Si mise al lavoro, scrisse nella sabbia: “Ciao, sono il ragazzo dell’ombrellone di fronte, mi chiamo Marco. Il mio nickname di Telegram è Macrasco. Ti dico questo perché probabilmente dopo aver scritto questa cosa sulla sabbia non avrò più il coraggio di uscire di casa. Ciao!”
Dopo aver finito la sua opera, scappò dalla spiaggia rapido come un furfante.
Si chiuse in casa.
Iniziò.
La snervante.
Attesa.
Le 13:45.
Le 14:50.
(Lo avrà visto il messaggio… quanto sono ridicolo e stupido. Mi sono sabotato da solo la vacanza, non potrò mai più scendere a mare. Penso proprio che prendo il pullman e me ne torno a casa.)
Le 15:39.
(Vabbè ma alla fine che me ne fotte. Ci ho provato e non è andata bene, semplicemente ci ignoreremo come abbiamo fatto. Al massimo posso farmi spostare l’ombrellone più in là così non rischio di incontrarla.)
Le 17:10.
(Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo.)
Le 19:30.
(Domani mi faccio portare la pizza.)
Le 23:30.
(Sono tre ore che sto nel letto, che palle. Mi sono depresso per una stronzata del genere? Domani mi sarà passata, o tra qualche ora, o tra qualche mese. Non lo dirò a nessuno.)
Le 00:45.
“Ciao, Marco giusto? 🙈 Scusami, ma in pratica tutto il giorno non ho avuto il cell. Ho dovuto sostituire lo schermo perché l’ho fatto cadere 🤐. Mi dispiace non averti scritto prima. Comunque perché non dovresti più scendere a mare! Non fare l’esagerato ahaha! 🤣🤣 Forse stai dormendo, quindi buonanotte! A domani. Non avere paura di parlarmi sulla spiaggiaaaa 🤗”
Marco dormiva.