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Autore: Dark Magician    31/08/2009    3 recensioni
Parte II (cap 13-?) - Dopo il Risveglio, la vita di Zack è costretta a cambiare bruscamente. Ospite nella Fortezza del Signore del Deserto, deve imparare a gestire il nuovo potere il prima possibile o soccomberà all'Anomalia.
Ed improvvisamente cominciano le visioni...
"Tu che leggi le mie parole devi però esser conscio che niente persiste immutabile per l'intera durata del tempo. Il Tutto è ciclico, come vedi essere il corso della vita: come sono nascita e morte, in un circolo eterno, così l'Ordine ciclicamente ricade su se stesso. Quello è il momento, quello è la fine e l'inizio. Quello, quello è l'Hibalah."
Genere: Drammatico, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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MEMORY #12 – HIE VAHARA

MEMORY #12 – HIE VAHARA

 

La ragazza si passò le mani sulle gambe, nervosa, lisciando le pieghe inesistenti della gonna nera che indossava.

Mordicchiandosi il labbro inferiore mosse poi lo sguardo per la stanza, posandolo per l’ennesima volta sulle due librerie di legno scuro ricolme di volumi alla sua destra, sulle tende purpuree decorate da ricami dorati alle sue spalle, sulla scrivania d’ebano davanti a lei.

Ed infine piantò gli occhi castani sulla porta semichiusa alla sua sinistra, cercando inutilmente di cogliere qualche suono.

Non avrebbe saputo dire da quanto tempo stesse aspettando lì seduta; a lei pareva un’eternità, ma magari erano trascorsi solo pochi minuti.

Si portò una mano al petto, controllando rapidamente di avere la camicetta in ordine. Ordinò i ricci scuri con le dita. Esaminò accuratamente le calze, alla ricerca di qualche smagliatura.

Era la quinta o sesta volta che ripeteva quei gesti, ma ancora non riusciva a sentirsi tranquilla.

Il trucco? Il trucco era ancora a posto?

Estrasse lo specchietto, ma prima che potesse anche solo aprirlo la porta si spalancò e Laetius Noone fece il suo ingresso nella stanza, chiudendo il cellulare con un colpo secco.

«Perdonami per l’attesa», si scusò con un sorriso gentile, mentre la ragazza rimetteva goffamente lo specchietto nella pochette che teneva in grembo «Spero di non averti sottratto tempo prezioso».

«No, no! Si… si figuri, Generale», balbettò lei arrossendo.

Abbassò lo sguardo, sopraffatta dall’imbarazzo.

Laetius Noone, Laetius Noone! Ancora non riusciva a crederci!

Il Generale si sedette alla scrivania ed estrasse gli occhiali da vista dalla loro custodia, poggiata su una pila di documenti.

Era vestito in maniera estremamente sobria – giusto una camicia bianca ed un paio di pantaloni scuri – ed era proprio quella semplicità a farlo amare ancora di più dalla popolazione.

Niente divise sfarzose, niente medaglie, niente abiti costosi e ricercati.

La ragazza si costrinse ad alzare lo sguardo, e lo posò sul viso del giovane Generale.

Era certamente un bell’uomo, pur non possedendo una bellezza sconvolgente, di quelle che lasciano le donne a bocca aperta. Ma il suo atteggiamento tanto raffinato senza essere snob, il modo di parlare elegante e forbito, la gentilezza, lo spirito di sacrificio, l’impegno, il carisma, lo...

«Allora, mia cara… il tuo nome è Lulu Vereet, giusto?», chiese affabilmente Noone, accompagnando le parole ad un sorriso ed interrompendo così i pensieri della ragazza.

Lei annuì, arrossendo nuovamente.

Ah… era davvero un uomo da sposare.

Noone scorse rapidamente il curriculum della ragazza, poi tornò a sorriderle.

«La tua agenzia mi manda sempre domestiche molto giovani, sarà un caso?», mormorò con un’occhiata complice, e Lulu chinò nuovamente lo sguardo.

Troppo figo. Troppo troppo troppo.

«So che prenderai servizio solo domani. Purtroppo in serata dovrò recarmi a Biimohl e mi assenterò per alcuni giorni, e mi è necessario darti alcune indicazioni. Prima di tutto, la chiave».

Noone aprì un cassetto ed estrasse una chiavetta scura, che porse poi a Lulu.

«Questa apre l’ingresso posteriore. Riguardo agli orari di lavoro, avendo tu già firmato il contratto non vedo motivo di ripeterli, no? Quindi ti pregherei di seguirmi. Non ti tratterrò ancora per molto, non ti preoccupare».

“Trattienimi più che puoi!”, avrebbe voluto dirgli Lulu, ma si limitò ad annuire ed incamminarsi dietro di lui, quando abbandonò la stanza.

L’abitazione del Generale Noone era incredibilmente modesta, soprattutto visto il suo ruolo ed il suo lauto stipendio. Si trattava di una semplice casa a due piani nella campagna di Minuet, poco distante dal confine orientale di Hymn.

Il giardino che la circondava era abbastanza grande e ben curato, e ben curato era pure il mobilio, prevalentemente di colori scuri.

Dallo studio – al piano terra – percorsero un breve corridoio e sbucarono nell’ampio salotto che era anche l’ingresso dell’abitazione. Noone salutò con un gesto del capo una delle sue guardie del corpo, in piedi all’entrata del corridoio, ed imboccò le due rampe di scale che portavano al piano superiore.

Lulu sorrise all’uomo, che però rimase impassibile, e si affrettò a seguire il generale.

«Lui è Abraham», le spiegò Noone «L’altra guardia del corpo si chiama Emmet, invece. Immagino possano inquietare, ma svolgono il loro lavoro alla perfezione».

Sbucarono in un lungo corridoio, che attraversava tutto il primo piano ed ai cui muri era appesa almeno una ventina di quadri delle più svariate forme e dimensioni.

A Lulu piaceva seguire i programmi d’arte, e si riteneva piuttosto ferrata in materia, ma non ne riconobbe nemmeno uno.

«In fondo ci sono gli alloggi delle mie guardie del corpo e la camera per gli ospiti. Non farti problemi a sfruttarla, nel caso tu abbia qualche imprevisto», disse Noone, e la ragazza annuì agitando freneticamente il capo.

Che occasione meravigliosa. Che-occasione-meravigliosa.

Non si era mai sentita tanto fortunata.

«E... mi dica, Generale», mormorò Lulu fermandosi davanti ad un quadro a caso.

Era un dipinto ad olio di discrete dimensioni, non più di una trentina di centimetri di altezza per una cinquantina di larghezza, e ritraeva un delizioso ragazzino biondo addormentato.

Non era una tela eccezionale, ma le piacque. Le trasmetteva una sensazione piacevole, come se fosse stata dipinta con amore.

«Questo quadro... chi è l’autore?», chiese, imbastendo un sorriso teso.

«Un pittore sconosciuto», le rispose Noone passandosi una mano fra i capelli «Un pover’uomo dalla vita disastrata. Non ha dipinto che poche tele di scarso valore.

Certo, non che questa sia particolarmente preziosa... ma è piacevole, non trovi?».

«Molto, sì», annuì Lulu, mentre lo stomaco le si contorceva per l’emozione.

Aveva appena chiacchierato col Generale Noone! Lei! Chiacchierato!

«Ma ora seguimi, ti prego­», la richiamò lui con un gesto della mano, ed entrò in una delle stanze.

«Questa è la mia camera da letto».

Lulu lo seguì e si guardò attentamente attorno.

Si era sempre immaginata che il Generale avesse una stanza tipo quelle degli eroi sexy dei libri fantasy. O dei malvagi sexy, era indifferente.

Insomma, cose come un baldacchino con tende e lenzuola di seta nera, candele color sangue, mobili con articolati ricami in argento... ma non c’era niente di tutto ciò.

Il letto – un normalissimo letto a due piazze – poggiava contro il muro alla sua destra. Di fronte a lei si trovava una grande portafinestra che dava su di un balconcino, ed alla sua sinistra...

«Cos’è quello?», chiese, indicando un lungo drappo di tessuto rosso appeso alla parete. Sotto di questo, su un basso tavolino, era posato un vaso di rose bianche.

«Un quadro. O, per meglio dire, il quadro è sotto, coperto».

Noone avanzò di qualche passo e sfiorò la stoffa purpurea con una mano. Lulu valutò che doveva esser lunga più di un metro e mezzo.

«Al momento è in restauro. È una tela piuttosto vecchia, e poiché la luce solare può rovinarla irrimediabilmente non va scoperta durante il giorno. Per nessun motivo. È chiaro?».

«Certamente, Generale».

«Ed oltretutto...» Noone indicò le rose con un cenno del capo «Quando non sono fuori, queste vanno cambiate ogni due o tre giorni al massimo. Tutto qui».

«Due o tre giorni... okay, capito».

«Puoi tornare a casa, ora», la congedò allora il Generale, rivolgendole l’ennesimo sorriso gentile «Ci rivedremo fra qualche giorno, mia cara».

«Buon viaggio, Generale», rispose lei, e raggiunse rapidamente l’ingresso.

Rivolse un sorriso stiracchiato ad Abraham – che questa volta la salutò con un cenno del capo – ed uscì, concedendosi solo allora una corsa sfrenata per scaricare la tensione.

Si tuffò letteralmente nella propria automobile, ansimando.

Che giornata meravigliosa.

Tirò fuori dalla pochette il cellulare e compose il numero di una delle sue amiche, sorridendo al display come un’ebete.

«Ivana, l’ho incontrato di persona! Noone! Ooh, Madre santissima, non puoi nemmeno immaginare come sia affascinante dal vivo!».

 

«Generale, limousine e scorta sono arrivate, abbiamo già caricato i bagagli».

Noone volse lo sguardo verso Emmet, in piedi sulla soglia della sua camera da letto.

«Perfetto. Sono pronto», gli rispose, lanciando poi un’ultima occhiata al sole che tramontava fuori dalla finestra.

Prese il lungo tubo di plastica poggiato al muro ed abbandonò la stanza, scuotendo la testa quando Emmet si offrì di trasportare l’oggetto al posto suo.

Percorrendo il corridoio, si soffermò per un istante ad osservare il quadro che aveva attirato l’attenzione della nuova domestica, poche ore prima.

Quanto era dolce e rilassata l’espressione del ragazzino addormentato... e quante poche volte l’aveva visto così tranquillo.

Ticchettò sul tubo di plastica con le dita e riprese a camminare, scendendo le scale e raggiungendo l’ingresso.

S’infilò una pesante giacca scura – la primavera a quella latitudine era piuttosto fresca – ed uscì, seguito dalla guardia del corpo che lo scortò fino alla limousine.

 

*

«Cosa ci fai in biblioteca a quest’ora?», sbottò Heath, accompagnando alle parole uno sbadiglio.

Soragan, accomodato su una poltroncina con un grosso tomo aperto sulle ginocchia, non alzò nemmeno lo sguardo.

«Leggo».

«Ma dai?», sbuffò Heath, e gli si avvicinò «E che leggi di tanto interessante da non poter aspettare domattina? È quasi l’una!».

«Di giorno quelle ochette cretine delle ragazze fanno un casino terribile. E mi disturbano».

Heath rise «Osano tanto? E che ti fanno?».

«“Oooh, Soragan, ma cosa leggi di bello? Posso vedere? Ma quanto sei intelligente, oooh”», le scimmiottò il ragazzo, e scosse la testa «E quando si mettono a parlare dei libri della Meller...! Le soffocherei tutte solo perché sono ossessionate da quelle oscenità».

«Non ti facevo misogino fino a questo punto», osservò Heath.

«Non odio le donne. Odio le donne che non stanno zitte, è diverso. E che leggono i libri della Meller, con quei mutanti del cazzo con la pelle fosforescente».

«Anche Jemiah ha letto “Buongiorno”...», gli fece notare il biondo, ricordando di aver visto la bambina con in mano il primo volume dell’infinita saga della Meller.

«Lei non vale», annuì Soragan, voltando pagina «Ha otto anni, è giustificata».

Heath rise di gusto e gli si portò alle spalle, per poter sbirciare il grosso libro.

«Jemiah quando compie gli anni?», gli chiese poi «Vorrei farle un pensierino».

«Il primo maggio».

Heath annuì «E tu? Non me l’hai mai detto».

Infastidito, Soragan non rispose.

Quando sua madre era scomparsa, la polizia non aveva trovato uno straccio di documento o certificato anagrafico, e le informazioni su di sé che il ragazzo aveva erano quelle poche che ricordava allora.

Peccato che un bambino di quattro anni non abbia una memoria ferrea, e a quell’età Soragan sapeva giusto il proprio nome e cognome, quello della madre e che aveva quattro anni. Era certo di essere nato nei primi mesi dell’anno, ma ignorava in che giorno e probabilmente non sarebbe mai riuscito a scoprirlo.

Chissà se aveva ancora sedici anni o ne aveva già compiuti diciassette.

«Oook, tasto dolente­», borbottò Heath, e cercò mentalmente qualche argomento di cui parlare.

Ripensando all’avversione del compagno di stanza per il genere femminile, venne folgorato da una constatazione.

«Sor...», lo chiamò, ed il ragazzo mosse appena il capo per fargli capire che lo ascoltava.

«Sai che giorno è domani, vero? Cioè, non domani, oggi. Cioè... più tardi. Vabbè, hai capito».

«No» Soragan scosse il capo e voltò pagina «Che giorno è?».

«E’il sedici marzo. Hie[1] Vahara!».

«No!», esclamò Soragan sconvolto, voltando di scatto la testa «Hie Vahara no!».

Hie Vahara, la festa dei fidanzatini. La ricorrenza più imbecille dell’intero Nord.

Ripensando però al luogo in cui si trovavano, si sentì più sollevato. Erano in Accademia, le femmine non potevano preparare dolcetti e i maschi comprare fiori.

Non si sarebbe trovato sommerso di spazzatura come gli anni precedenti, grazie alla Madre.

«E’ da ieri che le ragazze preparano bigliettini d’amore», disse Heath, come leggendogli nel pensiero «E i ragazzi sono già pronti a saccheggiare il giardino. C’è qualche ragazza che ti piace? Domanda retorica».

«Figuriamoci», sbottò Soragan «Tu invece muori ancora dietro a quella demente di Liz?».

Heath corrugò la fronte, piccato «Non offenderla».

«Sì, come pensavo. Lasciala perdere, prima di rincretinirti del tutto».

Soragan chiuse il libro con uno scatto e si alzò in piedi, lasciando il volume poggiato sulla poltrona.

«Me ne vado a dormire, o rischio di diventare maleducato».

«Che uomo crudele», osservò Heath con una risata.

Soragan raggiunse la soglia e sbuffò.

«Meno male che mi sono premurato di apparire odioso e snob. Dovrei sopravvivere».

«Guarda che la mente delle donne è diversa», lo avvertì Heath «Loro non vedono le cose come le vediamo noi. Distorcono!».

Sul momento, Soragan si limitò a scuotere la testa e a dissentire interiormente.

Il giorno dopo, però, alla quinta cartolina d’amore che ricevette, cominciò a riconsiderare ciò che l’amico gli aveva detto poche ore prima.

La ragazza che gli stava porgendo l’ennesimo cartoncino colorato era intelligente, Soragan l’aveva quasi in simpatia. Per questo cercò di trattenere la stizza e comportarsi il più civilmente possibile.

Sospirò e l’aggirò, continuando a muoversi verso la palestra.

Alle sue spalle, Heath lanciò un’occhiata allo sguardo triste della poveretta ed aumentò il passo per affiancarglisi.

«Tu non capisci la fortuna che hai», lo rimproverò, al che Soragan alzò gli occhi al cielo.

«E tu hai lezione di storia fra cinque minuti. Perché mi segui?».

«Cerco di imparare la tua tecnica».

«Va a cagare, spiritosone», sbottò Soragan, e si infilò in palestra.

La quantità di occhiatacce che ricevette non appena varcata la soglia dello spogliatoio lo paralizzò per un attimo.

Le espressioni crucciate di alcuni ragazzi non lasciavano adito a dubbi: era l’unico a considerare Hie Vahara una ricorrenza idiota.

Scosse la testa esasperato e raggiunse il proprio armadietto per cambiarsi.

«Ineath», lo chiamò un ragazzo bruno, ma Soragan lo ignorò ed indossò velocemente maglietta e pantaloncini.

«Ineath!», lo chiamò di nuovo questo, ed ancora l’interpellato non lo degnò di attenzione.

Si allacciò le scarpe e fece per uscire, quando il ragazzo lo bloccò afferrandolo per una spalla.

«E’ educazione rispondere quando ti si chiama», gli disse «Hai rotto».

«Ah? Mille grazie, Jacob, cercherò di ricordarmelo. Sai, la mia memoria...», rispose Soragan, e con un sorrisetto sarcastico entrò nella palestra.

Il loro insegnante – un uomo tarchiato e dall’età avanzata, che di cognome faceva Hora – ordinò ai ragazzi di disporsi in fila lungo il muro, e dopo un rapido appello disse loro di cominciare i soliti quindici minuti di corsa.

Soragan approfittò di tutto il riscaldamento per riflettere in pace.

Come poteva sopravvivere a quella giornata? Forse evitare zone come la biblioteca o la mensa poteva essere un inizio. E poi anche palesarsi il meno possibile per i corridoi.

E starsene in camera da letto tutto il tempo.

Rimanevano comunque le ore di lezione, in cui era vulnerabile alle offensive femminili... in quel caso, ignorare sarebbe stata la cosa migliore.

Doveva spingerle a desistere, così non si sarebbe trovato in quell’incresciosa situazione anche l’anno successivo.

Madre, quanto lo irritava il gentil sesso.

Il professor Hora fischiò e Soragan rallentò il passo, riprendendo fiato. Si guardò attorno, ed ebbe l’impressione che almeno metà dei ragazzi lì gli stesse rivolgendo occhiate torve.

Meno male che nelle ore di ginnastica ed allenamento maschi e femmine sono separati, osservò, non per questo però più rilassato.

Si distese a terra e cominciò gli addominali.

C’era da dire però che non erano solo le donne ad irritarlo. Lo irritavano tutti.

Che poi volesse bene a Jemiah ed andasse d’accordo con Heath era giusto l’eccezione che confermava la regola.

Ricordava che la signorina Shelke gliel’aveva chiesto, anni addietro, come mai si sentisse tanto superiore rispetto agli altri bambini, ma lui non aveva saputo darle una spiegazione.

Era una cosa che sentiva e basta. E non certo per un problema di gusti: gli piacevano all’incirca le stesse cose per cui impazzivano i suoi coetanei, ma non riusciva a non trovarsi a disagio, fra loro.

Aveva come una vocina, dentro di sé, che gli ripeteva che non era quello il suo posto.

Che avrebbe dovuto trovarsi altrove.

«Altrove dove?», sospirò terminando l’ultimo esercizio, e si alzò in piedi.

Ora cominciava la parte davvero fastidiosa.

«Ineath!­», lo chiamò Hora, facendogli segno di avvicinarsi «Ineath, ascoltami un attimo. Dopo che il tuo livello magico è aumentato di quasi un punto, due mesi fa, non sei più migliorato».

Soragan annuì con aria dispiaciuta, ma dentro di sé era scocciato.

Mezzo secondo! Mezzo secondo si era distratto, quella volta, e quasi aveva reso vana tutta la fatica che gli costava trattenersi.

Durante le ore di allenamento erano costantemente tenuti sotto osservazione; doveva ringraziare la Madre quindi se avevano registrato solo un miglioramento dello 0.9.

Sarebbe potuta andare molto molto peggio.

«E’ un vero peccato, sei tanto promettente», continuò Hora, battendo la punta di una penna a sfera sulla cartellina che teneva in braccio e fissava attento «Ne ho parlato con gli altri insegnanti, e siamo tutti d’accordo che farti allenare con qualcuno abbastanza più forte di te potrebbe stimolarti».

«Oh», borbottò Soragan preoccupato. Si trattenne dal pronunciare il “merda” che nel suo cervello aveva immediatamente seguito il monosillabo.

«Ad esempio, dato che ora sei un 4.1… potresti provare con Carlyle Olsen, che ha un 4.9. Però ha un anno più di te…».

«Il mio compagno di stanza, Heath Noval, ha un 5 e qualcosa, potrei allenarmi con lui», disse Soragan, ma il professore lo ignorò.

«Oppure c’è Jacob Trewer, del tuo stesso anno. Ma ha un 5.4, temo sia un po’ troppo per te».

«Heath Noval», ripeté Soragan irritato «non va ben-».

Hora lo interruppe, facendogli segno con una mano di tacere, e si voltò verso gli altri ragazzi.

«Trewer! Vieni qua un secondo!».

«Oh, Madre», sibilò Soragan mentre Jacob si avvicinava, un’espressione incuriosita negli occhi scuri.

«Trewer, vorrei che oggi stessi in coppia con Ineath», gli spiegò Hora, e sul viso del ragazzo si aprì un largo sorriso.

Soragan inarcò le sopracciglia, preoccupato.

«Potrebbe servire anche a te come allenamento: Ineath ha un 4.1, devi quindi stare attento a non esagerare. Pensi di poterti controllare?».

«Certamente», annuì Jacob. Non appena il professore si fu allontanato per dare istruzioni ad altri ragazzi, si voltò verso Soragan e gli sussurrò: «Ora te le suono».

«Contaci», sbottò il ragazzo, ferito nell’orgoglio.

Perché sì, va bene fingere, trattenersi e tutto il resto, ma prenderle da Jacob...!

«Forza, mettetevi a coppie!», gridò Hora battendo le mani.

I ragazzi si disposero velocemente uno di fronte all’altro per il lato lungo della palestra, ed attesero nuove istruzioni.

«Allora, oggi farete del semplicissimo allenamento», spiegò il professore, continuando a giocherellare con la penna «Attacco e difesa. Quelli di voi col livello più basso cercheranno di resistere alle offensive con barriere piccole – piccole, mi raccomando! O vi stancate subito – mentre gli altri dovranno cercare di controllare la propria forza per essere al livello dell’avversario. E no, non lamentatevi: è fondamentale in una guerra sapersi dosare ed essere superiori all’avversario quel poco che basta per batterlo, senza quindi – e lo ripeto – sprecare energia inutilmente.

Fate attenzione e non distraetevi! Vi do una E, se finite in infermeria perché pensavate ad altro.

A fine mese vi valuterò, quelli di voi che prenderanno una B od una A potranno cominciare a seguire le lezioni su come abbinare magia e armi da fuoco».

Fra i ragazzi si levarono “oh!” di sorpresa e versetti eccitati.

Pistole e magia: Soragan non riusciva ad immaginare niente di più eccitante. Doveva assolutamente guadagnarsi una A, e poco importava se per farlo avrebbe dovuto lasciarsi andare un pochetto.

«E’ già tardi! Forza, cominciate», concluse il professore, e Soragan rivolse l’attenzione a Jacob.

Gli sembrava tranquillo, ora. Magari voleva solo spaventarlo.

Il ragazzo si passò una mano fra i capelli scuri ed portò avanti un piede, allungando poi il braccio opposto davanti a sé.

«In guardia!», avvertì, e Soragan allargò leggermente le gambe per essere più stabile.

Per un attimo pensò che quella di prima fosse stata davvero una minaccia a vuoto, ma cambiò idea non appena vide Jacob incrociare le braccia sul petto.

Lo squadrò perplesso, sollevando una mano per esser pronto a proteggersi.

«Che…», borbottò, ma l’altro non gli diede il tempo di finire la frase.

Con uno scatto fece un passo in avanti ed allargò le braccia, piegandosi sul ginocchio.

Una mezzaluna di energia scura scaturì dal movimento e, benché Soragan fosse stato sufficientemente pronto da ergere una barriera di una cinquantina di centimetri di diametro per proteggersi, l’attacco fu abbastanza forte da sbriciolarla senza rallentare e colpirlo.

Soragan venne sbalzato indietro e cadde a terra di schiena, allargando la bocca alla ricerca d’aria.

Rimase steso a terra a rantolare, costringendosi a profondi respiri nonostante il dolore atroce allo sterno.

Il ragazzo alla sua destra fece segno al compagno di aspettare e gli si avvicinò, più incuriosito che preoccupato.

«Ti senti bene?».

Soragan prese altri respiri profondi, senza rispondere.

Che bastardo.

Chiuse gli occhi per qualche istante, concentrandosi per tenere a bada il potere che gli stava già sistemando la contusione.

Non poteva permettersi leggerezze, e una ferita non era una giustificazione.

Fa che non si sia rotto l’osso, pregò.

«Trewer!», gridò Hora «Ti avevo detto di stare attento!».

«Mi scusi, professore. Non ho fatto apposta», rispose Jacob con aria innocente, avvicinandosi a Soragan mentre l’uomo borbottava un “ci mancherebbe”.

Che bastardo, che bastardo!

Soragan si sollevò a sedere con un gemito ed alzò lo sguardo verso il compagno, ora in piedi di fronte a lui. Si sforzò di ignorare l’orgoglio, che protestava rivoltandogli lo stomaco – o erano ancora le conseguenze del colpo? – ed accettò la mano che questi gli porse.

«Vuoi andare a piangere da mammina?».

Soragan lo fulminò con un’occhiataccia.

«Vaffanculo, Jacob», gli sibilò, ed entrambi tornarono alle loro posizioni.

Il secondo attacco, mosso con un semplice movimento della mano, non fu altrettanto forte, ma rimase comunque abbastanza inteso da infrangere le difese di Soragan e raggiungerlo.

Il ragazzo aveva lasciato questa volta le braccia incrociate davanti a sé, e dal dolore che gli arrivò dagli avambracci intuì che a fine lezione sarebbe stato tutt’un livido.

Pazienza. Gli era capitato di venire pestato, poteva sopportare.

«Che pena che fai», sbottò Jacob, preparando un terzo attacco «Te la tiri talmente tanto che è un piacere dartele».

Io non me la tiro, pensò Soragan, mentre lo stomaco continuava a fargli capriole per il nervoso.

La terza offensiva fu identica alla seconda, con l’unica differenza che il dolore fu terribilmente più intenso.

Si mordicchiò un labbro, irritato.

Il suo orgoglio non lo sopportava, non lo sopportava neanche un po’, ma doveva sforzarsi di non cedere.

Se avesse tenuto da parte l’irritazione, forse...

«Non distrarti, cretino», lo richiamò Jacob, e Soragan decise che sì, a tutto c’era un limite.

Il nuovo attacco non riuscì nemmeno a scalfire la sua barriera; si dissolse contro di essa, e Jacob sgranò gli occhi basito.

«Ora stacci tu, in guardia».

Soragan era certo che neanche mezzo minuto dopo se ne sarebbe pentito, ma nel momento in cui atterrò Jacob con un semplice movimento del braccio si sentì tanto euforico da non badare al proprio buon senso.

Osservò il compagno venire colpito da un’onda d’energia biancastra e rotolare a terra, gemendo di dolore, e non riuscì a trattenere un sorrisetto.

I sensori sul soffitto, intanto, registrarono accuratamente ogni cosa.

 

*

«Una prova?», chiese Ronald Mohra, Ministro dell’Istruzione di Hymn, sorseggiando il proprio caffè. Osservò il Generale Noone aprire il barattolino delle zollette di zucchero ed afferrarne una con le pinzette.

«Esatto».

In quel momento si trovavano entrambi nell’appartamento di Noone, situato in uno dei più alti grattacieli del centro di Biimohl. Una delle pareti del salotto, dove stavano facendo colazione, era composta unicamente di vetrate, ed in quella giornata tanto tersa si potevano scorgere in lontananza le colline fuori città.

«E che tipo di prova aveva in mente?», domandò Mohra.

Ed io che credevo lo prendesse nero, pensò poi, guardando il Generale mettere nel caffè una seconda zolletta.

«Una sorta di... esercitazione all’aperto, magari nelle zone montuose di Strendahar» Noone afferrò una terza zolletta e la lasciò ricadere nel liquido scuro con eleganza «Trovo che sarebbe stimolante per i ragazzi e, perché no, anche divertente».

«Un’esercitazione in montagna... comporterebbe diversi rischi», osservò Mohra, mentre Noone aggiungeva al caffè una quarta ed ultima zolletta «Qualche ragazzo potrebbe distrattamente cadere e perdere la vita».

«Come potrebbe distrattamente cadere per le scale e rompersi l’osso del collo», gli fece notare il Generale con un sorriso «Non si preoccupi, mi preoccuperei personalmente di selezionare una zona priva di punti pericolosi. I ragazzi sarebbero tenuti sotto controllo ventiquattr’ore su ventiquattro, e comunque suddivisi in piccoli gruppetti; inoltre personale esperto li osserverebbe per tutto il tempo, quindi i rischi sarebbero davvero minimi.

Ovviamente ai genitori dei ragazzi con famiglia verrà fatta firmare una liberatoria, ma non credo che si opporranno. Anche perché, sempre se lei è d’accordo, vorrei mettere un premio a mio parere allettante per coloro che si distingueranno».

«La trovo un’idea interessante», annuì Mohra «E a che premio pensava?».

Noone sorseggiò il caffè e fissò il soffitto per un attimo.

«Non crede che per un giovane desideroso di far carriera...» fece una breve pausa, poi tornò a fissare il proprio interlocutore «... potrebbe essere affascinante l’idea di far parte della scorta o della sicurezza durante un importante incontro politico?».

«Intende forse...», mormorò Mohra sorpreso, e Noone annuì.

«Quale miglior occasione del vertice mondiale di settembre?

Oh, ovviamente ho già comunicato tutto ciò ai miei colleghi. Si sono detti vivamente interessati».

«Il vertice di settembre...!», ripeté Mohra, sorpreso. Ci rifletté sopra alcuni istanti, poi annuì.

«E’ un’idea particolare, ma... non vedo perché non metterla in pratica», disse, poi aggiunse ironico: «Ma scommetto che ha in mente qualche losco piano che mi ha taciuto, Generale».

«Ovviamente!», rise Noone, e bevve il resto del caffè.

 



[1] “Venerabile”, “sommo” in iri. Vale più o meno come il nostro “santo/san”.

   
 
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