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Autore: moira78    06/08/2021    4 recensioni
Candy e Albert si conoscono da sempre e, da sempre, un filo invisibile li lega. Ma la strada che li porterà a venire a patti con i propri sentimenti e a conquistare la felicità sembra essere infinita e colma di ostacoli...
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Brighton, Archibald Cornwell, Candice White Andrew (Candy), Terrence Granchester, William Albert Andrew
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Frannie si svegliò con il cuore che le batteva forte.

I sogni della notte precedente e gli eventi degli ultimi giorni le si riversarono addosso, schiacciandola su quel letto e al contempo sollecitando in lei l'urgenza di alzarsi prima possibile.

Si tirò a sedere e vide l'alba tingere di rosa il cielo primaverile, chiedendosi come mai il mondo sembrasse tanto calmo e sonnolento mentre dentro di lei si scatenavano i turbini di una tempesta.

Aveva sognato William. William che attraversava tutto il suo corpo con le mani e che le dedicava baci ardenti sulla pelle nuda e sulle labbra.

Aveva avvertito il fuoco della passione bruciarle dentro ma, in quella realtà onirica, non si era rimproverata dandosi della scolaretta in preda a una tempesta ormonale. No. Lo aveva ricambiato, toccandolo e baciandolo a sua volta.

Ma quando le loro labbra si erano incontrate di nuovo, non erano quelle dell'uomo biondo che la stavano facendo impazzire: erano quelle di Adrian. E, cosa ancora più sconvolgente, non lo aveva respinto ma si era stretta a lui con maggior fervore, sentendo il proprio corpo divorato dalle fiamme della lussuria.

"Ti amo, Frannie", le aveva detto il medico con gli occhi scuri annebbiati e il suo viso era cambiato più volte, passando da quello di Adrian a quello di William, finché non aveva aperto di scatto le palpebre.

Si portò una mano al petto, dove il cuore faticava a riprendere il suo ritmo normale e decise che doveva solo ricominciare a lavorare in ospedale per riprendersi da quelle sciocchezze sentimentali. Sì, lavorare sodo, inforcare i suoi occhiali, indossare la sua divisa come una corazza e continuare a fuggire da un futuro che non sarebbe mai stato.
Perché William non era suo e non lo sarebbe mai diventato. E perché Adrian era solo un collega e, forse, un amico.

Dovevano guarire Candy, ma lei era sempre meno indispensabile, anche se le cose si erano ulteriormente complicate da quando aveva scoperto per caso un altro elemento del suo passato e aveva inasprito il suo comportamento.

Aveva assistito all'ultima seduta di ipnosi e scoperto, con orrore, che si rifiutava di regredire. Ormai era convinta che William fosse l'unico responsabile della morte del suo Anthony e nessun tentativo di Adrian aveva funzionato.

Perlomeno aveva diradato i suoi sonnellini diurni e apriva sempre più spesso la finestra. A breve, i calmanti di Frannie o il controllo dei suoi parametri vitali non sarebbero più stati necessari e lei sarebbe finalmente uscita da quella casa.

Lontana da un amore impossibile e da un altro che non prendeva neanche in considerazione.

Mentre si vestiva con gesti lenti, si chiese come mai la sua testa le avesse proposto un sogno simile, visto che per lei Adrian non era che un collega e, suo malgrado, confidente.

La casa cominciò a riempirsi di piccoli rumori lontani che solo grazie al silenzio lei poté cogliere: porte che si aprivano, servitori che si mettevano all'opera nelle cucine, la stanza padronale in cui si stava aprendo una finestra.

Quello era il giorno del processo e c'era un fermento che si poteva cogliere persino nell'aria che stava respirando. Sapeva che stavano attendendo con ansia qualcuno, ma non si era arrischiata a chiedere di più, visto che non era sua competenza.

Pregava solo, in cuor suo, che quando William fosse tornato a casa lei si trovasse già fuori di lì. E, combattendo contro il proprio cuore, si augurò anche che Candy non lo facesse soffrire e ritrovasse presto se stessa.
 
- § -
 
Eliza pensò di vivere in un incubo a occhi aperti.

Sulle guance le bruciavano ancora gli schiaffi di suo padre, negli occhi riviveva al rallentatore le sue grida, le sue lacrime, la sua disperazione. E l'immobilità di sua madre, pallida come se fosse morta.

Immobile, come Neal dopo che lo avevano sedato e curato. Suo fratello aveva tentato d'impiccarsi nella sua stanza e rifletté che, in effetti, era stato quando aveva gridato chiedendo aiuto che sua madre aveva usato la voce l'ultima volta.

Nemmeno Neal aveva più proferito molte parole, come se la mancanza di ossigeno al cervello, seppur breve, gli avesse obnubilato la ragione in via definitiva.

Eliza aveva subìto ogni evento come una spettatrice riluttante, desiderando solo sparire dalla faccia della Terra. Se avesse potuto rimettere indietro le lancette della sua vita non avrebbe mai chiamato Molly e, forse, avrebbe dato a Neal del pazzo per volersi mettere contro gli Ardlay.

Ma l'occasione era troppo succosa e quando Neal aveva vacillato lei era stata ferma. E viceversa. Si erano alternati in un gioco pericoloso e mortale, nel quale pensavano di essere gli unici vincitori. Ma, nell'ombra, colei che meno di tutti avrebbe dovuto sospettare di loro si era alfine mossa.

Non aveva dubbi che la fautrice della catena di eventi che avevano portato alla comparsa di quel Ruiz fosse stata sua zia Elroy.

Forse la notizia riportata dai giornali l'aveva sconvolta a tal punto e toccata tanto da vicino che i suoi dubbi erano venuti a galla. Forse non avrebbero dovuto coinvolgere i giornalisti. Forse, dopotutto, avrebbe dovuto chiedere a Molly chi diavolo fossero davvero gli uomini con cui aveva contatti suo padre.

Ma con i forse non avrebbe riportato indietro il tempo.

Eccola, nella carrozza con i vetri oscurati e la polizia di scorta, tenere gli occhi bassi come faceva tutta la sua famiglia. Suo padre, sua madre, suo fratello. Tutti condannati. Tutti finiti, per sempre.

Mentre avvertiva la carrozza fermarsi e si sentiva traghettata verso l'Inferno, Eliza capì che una volta entrata in quel tribunale non sarebbe più stata libera e fu colta da un attacco di panico.

"NOOOO!", gridò divincolandosi sul predellino, con l'assurdo impulso di scappare, nascondersi a costo di vestirsi come una stracciona e vagabondare come suo zio aveva fatto in passato.

Sentì delle mani afferrarla per le braccia, bloccarla e dirle di smetterla. La voce di suo padre le gridò qualcosa ma lei non capì, non capiva più niente.

Non poteva vivere lontana dal lusso e dai balli, dai vestiti, dall'alta società. Ma non si era appena detta disposta a fare la barbona per strada? Forse era la libertà che anelava ancora più della ricchezza.

Sull'orlo dello svenimento, accecata dalle lacrime, riuscì comunque a cogliere le espressioni rassegnate di Neal e sua madre e, poco distante, gli occhi di George Villers fermi e colmi d'odio.
 
- § -
 
Elroy Ardlay entrò in tribunale impettita e dignitosa come si conveniva a una matriarca, cercando d'ignorare le domande scandalose e i flash di giornalisti e fotografi.
"I signori Lagan sono qui", le disse George a bassa voce, accostandosi quel tanto che bastava a farsi sentire. Avvertì l'emozione vibrare nel suo tono e cercò di contenere la propria.

Sapeva che tutto era nelle mani degli avvocati difensori, che nulla era stato preparato e che tutto si giocava sulle confessioni che avrebbero strappato a Neil ed Eliza. Quando, la sera prima, si era dimostrata perplessa sulla volontà dei suoi nipoti di testimoniare contro i loro stessi interessi, George le aveva detto una frase che le aveva gelato il sangue nelle vene: "Lo faranno per forza, ne va della loro stessa vita".

Non le aveva dato altre spiegazioni, dicendo che lo avrebbe scoperto in tribunale e ora speranza e curiosità si mescolavano in una tensione che minacciava di spezzare il suo autocontrollo. A breve, avrebbe rivisto anche il suo caro nipote e sperava non fosse troppo provato dalla prigione.

Sedette al suo posto, tra George e Archibald, e nella fila di lato scorse la famiglia Lagan al completo. Raymond teneva gli occhi fissi davanti a sé, pallido, mentre Sarah e i figli avevano il capo chino. Sembrava che nessuno di loro avesse il coraggio di guardarla, anche se sapevano di certo che era appena entrata.

Per un momento, fu tentata di andare da loro e tuonare una domanda secca per avere spiegazioni, scuotendo quei nipoti ingrati finché non avessero finalmente rivelato perché avevano commesso un atto così ignobile.

Ma non lo fece. Non solo perché non poteva, ma anche perché sarebbe stato sciocco e improduttivo.

Con discrezione, aprì un ventaglio per nascondere il proprio nervosismo e lo strinse con mano tremante mentre annunciavano l'entrata dell'imputato.

Suo nipote, il patriarca, l'unico figlio vivente del suo caro fratello William. L'uomo che sarebbe dovuto essere a capo della famiglia, sposato con una donna del suo rango e darle degli eredi.

Una figura esile, troppo esile per essere la sua, fece la sua comparsa dalla porta, con le manette alle mani e Elroy aprì la bocca per protestare, protendendosi verso George. Poi la guardò meglio ed ebbe un mancamento.

"Signora...?", la voce allarmata dell'uomo al suo fianco la richiamò, mentre la sua mano la sosteneva. Sbatté le palpebre, con la vista annebbiata.

"Quello è...?", ansimò quasi senza voce.

"Sì, signora", rispose George come se la capisse alla perfezione.

William sembrava l'ombra sbiadita e paradossale di se stesso. Dall'ultima volta che lo aveva visto non era solo più pallido ed emaciato, ma aveva perso più di trenta libbre*, perlomeno. Sembrava un sopravvissuto alla guerra.

"Oh, mio Dio", gemette senza poterselo impedire, nascondendosi il viso tra le mani. Le pareva di aver appena visto un uomo moribondo o un fantasma.

"Lo riporteremo a casa, glielo giuro", dichiarò George con voce vibrante, seppure stesse sussurrando.

"Ma che cosa gli è successo? Lo hanno ridotto pelle e ossa in questo postaccio! Lui... è malato!". Il ventaglio tremava nella sua mano.

"Mi dispiace", disse l'uomo chiudendo gli occhi. "Non volevamo farla preoccupare ma... è reduce da una delicata operazione...".

"È stato accoltellato, zia", esordì Archie mozzandole il fiato in gola. "Ora sta meglio, ma se l'è vista brutta. Gli uomini che lo hanno aggredito sono in isolamento. E George dice bene, lo tireremo fuori di qui".

Il tribunale girava. Il mondo girava. Tutto, intorno a lei si muoveva. Elroy non voleva svenire proprio in quel momento perché avrebbe significato rinviare il processo a chissà quando. Incapace di parlare, rimase con la bocca aperta per lo stupore, tentando con somma disperazione di ricomporsi per il bene di suo nipote, capendo finalmente perché avessero aspettato tanto per quella seduta in tribunale.

Con le lacrime che le salivano agli occhi, incontrò quelli azzurri di William per un solo, intenso istante e lui le sorrise. Elroy non poteva comunicare con lui e dirgli ciò che aveva nel cuore, così si limitò a ricambiare quel sorriso, chiedendo mille volte perdono a lui e al suo defunto padre per aver aspettato tanto a parlare.
 
- § -
 
"Chiamo a testimoniare Raymond Lagan", disse la voce chiara dell'avvocato, mentre il giudice gli faceva cenno di accomodarsi per il giuramento.

Albert lesse sul volto dell'uomo tutto il peso di ciò che i suoi figli gli avevano riversato addosso. Pensava di aver provato pietà per Neil, ma non aveva ancora visto Raymond: per lui sentì pena autentica.

Lo immaginava, di ritorno da un viaggio, essere messo al corrente di ciò che avevano elaborato i frutti dei suoi stessi lombi e doversi assumere una responsabilità che era sua solo per il fatto di averli generati. Non ebbe alcun dubbio che lui non fosse a conoscenza delle loro manovre e si chiese come, una volta appurata la sua estraneità agli eventi, sarebbe potuto andare avanti con la sua vita.

"Signor Lagan, quest'oggi avevamo preventivato di chiamare a testimoniare per prima la signora Elroy Ardlay, matriarca della famiglia, ma la sua presenza qui, assieme a quella dei suoi figli e di sua moglie, ci consente di andare subito al sodo senza addentrarci nei sospetti che la signora ha nutrito nei confronti dei suoi nipoti durante le scorse settimane. Può dirci cosa le hanno raccontato i signori Neal ed Eliza quando è tornato dal suo viaggio di lavoro in Messico?".

Albert si accigliò, stupito che l'avvocato andasse dritto al punto senza neanche spiegare come i Lagan fossero collegati agli Ardlay. Probabilmente faceva parte della sua strategia di colpire subito il giudice. Anche se era mortificato per Raymond, la speranza gli germogliò nel cuore e scoccò un'occhiata a sua zia, che sembrava molto tesa.
"Mi hanno detto di aver ordito un piano contro il patriarca degli Ardlay, ovvero l'imputato, per incastrarlo e renderlo colpevole di traffici illeciti".

Un mormorio si levò tra i giurati, ma i volti di Sarah, Neil ed Eliza rimasero chini. Lei singhiozzava piano. Albert capì che avevano dovuto omettere le minacce e il programma di protezione per concentrarsi sul suo caso e ciò gli fu confermato dalle successive parole dell'avvocato che, dopo una pausa a effetto, riprese: "Proprio così, signori giurati. Avete sentito bene. Il mio cliente, mister Ardlay, è stato incastrato e coloro che hanno testimoniato contro di lui sono stati appositamente corrotti per dire il falso, contrariamente a quanto giurato sulla sacra Bibbia". Il tono diventava sempre più vibrante.

"Obiezione!", echeggiò l'avvocato dell'accusa, alzandosi in piedi e maneggiando con frenesia i fogli con i documenti del processo tra le mani. "L'avvocato sta deliberatamente fornendo dichiarazioni su testimoni che oggi non sono presenti!".

Albert vide il sorrisetto dell'avvocato mutare in un'espressione trionfale che, sulle prime, non capì: "Avrei voluto ardentemente che i suoi clienti fossero qui, collega, ma lei sa benissimo che non è possibile. Uno di loro è in galera per aggressione e rapina a mano armata, mentre l'altro... è morto in circostanze misteriose".

Il mormorio divenne un concerto di ansiti strozzati e Albert si rese conto a malapena che un verso di stupore era uscito anche dalla propria gola: Billy Gonzalez era morto?! Perché George non glielo aveva detto?

"Non capisco come questi eventi, estranei al processo, possano dimostrare l'innocenza del signor Ardlay!", protestò l'avvocato dell'accusa mentre il giudice imponeva l'ordine sbattendo forte il martelletto.

La difesa fece un passo verso di lui, voltando le spalle al collega: "Sa una cosa? Ha ragione. Per i suoi testimoni saranno fatte delle indagini a parte e verrà appurato in seguito quanto gli eventi che hanno portato alla morte di uno e all'arresto dell'altro siano effettivamente collegati a questa vicenda. Ora come ora, mi preme solo far uscire di prigione il mio cliente e riscattare il suo nome".

La mente di Albert lavorava a tutta velocità, dandogli un senso di vertigine. Qualcuno aveva ucciso Gonzalez? Per quanto ne sapeva, se ciò fosse stato vero, casomai sarebbe stata la difesa la prima sospettata. E il falso corriere, se veramente era falso? Si trattava di un delinquente comune?

S'impose di smettere di distrarsi con quelle domande e cercò di seguire quello che stava accadendo.

"Signor Lagan", riprese l'avvocato, lisciandosi i baffi perfetti che gli ricordavano tanto quelli di George, "i suoi figli le hanno detto a chi si sono rivolti per orchestrare tutto questo?".
Il silenzio che seguì gli fece pensare che, se fosse caduto un capello, forse se ne sarebbe sentito il rumore. Albert si ritrovò a trattenere il fiato.

La voce di Raymond era roca, lontana, come se neanche lui si rendesse ben conto di cosa stesse accadendo: "Pensavano di avere a che fare con dei trafficanti di alcool. Invece hanno scoperto che si trattava di un'organizzazione mafiosa". Ci fu una specie di boato e a nulla valsero i tentativi del giudice di riportare la calma. Ormai la bomba era stata lanciata e lui, invece di sentirsi sollevato dalla libertà che ormai vedeva chiara come una giornata assolata, si ritrovò a guardare con le labbra strette Raymond Lagan che, alfine, crollava sotto la sua stessa rivelazione.

Strofinandosi gli occhi con il pollice e l'indice per fermare le lacrime, implorò: "Non sapevano chi fossero quegli uomini, non lo avrebbero mai fatto se lo avessero saputo. I miei figli non conoscono i pericoli di quel mondo". Il suo era un tentativo estremo di riscattarsi o di difenderli? Albert non lo sapeva, ma ne fu commosso. Immaginò di trovarsi al suo posto e rabbrividì.

Il suo stesso avvocato sembrò toccato dalla reazione sincera di quell'uomo distrutto. Con molta calma, disse: "La ringrazio, signor Lagan, la sua introduzione è stata di certo illuminante per questa corte". Fece un ampio gesto come per indicarla, poi il suo tono tornò duro: "Chiamo a testimoniare Neil ed Eliza Lagan. Signor giudice, mi permetta di interrogarli coralmente".

"Glielo concedo, purché si rispetti l'ordine".

Albert si appoggiò meglio allo schienale, sfinito. Le manette tintinnarono quando mosse le braccia e lui pensò che avrebbe voluto dormire e svegliarsi solo a processo finito. Sapeva perché si sentiva così stanco e capì che la prima cosa che avrebbe dovuto fare una volta uscito sarebbe stata parlare col dottor Carter o con chiunque potesse aiutarlo.

Si era infilato in un tunnel mortale ed era più che deciso a uscirne.
 
- § -
 
"Può dirci in che modo la famiglia Lagan è collegata alla famiglia Ardlay?". Neil pensò, stupidamente, che con la sua prima domanda l'avvocato volesse metterlo a proprio agio.

Capì, subito dopo, che voleva solo mettere le cose in chiaro perché la corte sapesse con chi avevano a che fare, chi avesse avuto l'ardire di compiere un crimine del genere.
Mentre rispondeva, si ritrovò con l'impulso quasi insostenibile di dare una gomitata a sua sorella, che piangeva piano al suo fianco: "Mia madre, Sarah, è la figlia di primo letto del marito di Elroy Ardlay, deceduto prematuramente. La mia prozia è la sorella di William Ardlay senior, il padre dello zio... dell'imputato".

L'avvocato annuì, come se avesse superato una sorta di esame: "Quindi, signori, capite bene che i Lagan devono aver sofferto a lungo di questa parentela... come potrei dire? Non proprio diretta con gli Ardlay. Ho avuto modo di confrontarmi con i membri della famiglia dell'imputato e mi sono stati riferiti comportamenti riconducibili a un sentimento d'invidia".

"Obiezione!", strepitò l'avvocato dell'accusa, trapanandogli i timpani. Che stesse zitto, a quel punto, visto che non sarebbe servito a nulla obiettare: "Queste supposizioni personali esulano dal caso", concluse.

Il giudice batté il martelletto ancora una volta: "Accolta. La prego, si riferisca solo ai fatti concreti".

L'uomo non si fece pregare e tornò alla carica: "Signorino Lagan, a chi è venuta l'idea di rovinare il mio cliente, il signor William Albert Ardlay, e perché?".

La domanda era così lunga e complessa che Neil dovette scegliere bene le parole, cercando di ricordare le indicazioni che aveva ricevuto per non divagare troppo. Ma il suo desiderio ardente di redimersi lo costrinse a dilungarsi quel tanto che bastava a liberare la propria anima tormentata: "L'idea è stata mia. Volevo vendicarmi di lui per avermi umiliato in un'occasione. E volevo acquisire la supremazia e il controllo di tutti i suoi beni. Non credevo che le cose mi sarebbero sfuggite di mano... e non volevo che fosse la mia famiglia a pagare: mi riferisco a mio padre e mia madre, che non ne sapevano nulla. Mi dispiace".

Era sincero. Nonostante l'avvocato della difesa e lo stesso George gli avessero più volte ripetuto, in quelle ore frenetiche che lo separavano dalla testimonianza, di pronunciare parole di pentimento per risultare più credibile, gli erano davvero sgorgate dal cuore. Specialmente quelle che, sperava, avrebbero scagionato i suoi genitori.
Li guardò, con il rimorso che minacciava di sommergerlo a ogni istante: sua madre singhiozzò piano e suo padre era mortalmente pallido. Sapeva che aveva picchiato Eliza ma aveva risparmiato lui perché era appena uscito dall'ospedale.

Aveva cercato e non trovato la morte per timore di quello che lo aspettava e aveva capito che era rimasto in vita per un motivo: liberare chi era innocente. Quel prozio che aveva sempre visto come un semplice vagabondo e che sembrava essere lui stesso in punto di morte. E quella prozia di cui quel giorno aveva incontrato una volta sola gli occhi e sembrava avergli riservato mille rimproveri.

Perché? Dopo tutto quello che ho fatto per voi. Dopo avervi sempre difesi e presi sotto la mia ala protettrice. Perché?

La pace lo pervase, così come la disperazione sembrava essersi impadronita di Eliza.

Raccontò di come si fosse affidato a lei non per colpevolizzarla, ma per raccontare semplicemente quella verità che lo avrebbe reso altrettanto libero. Incatenato in un carcere ma libero di vivere e di redimersi. Libero di proteggere la sua famiglia almeno da una morte orribile per mano della mafia. Libero di lasciarsi morire, se avesse voluto, dopo aver alleggerito la sua coscienza.

Forse i sentimenti di rabbia e d'invidia verso William Ardlay non sarebbero mai cessati del tutto e gli avrebbero continuato a rosicchiare un angolo del cervello come topi voraci. Però il vecchio Neil timoroso, vigliacco e desideroso di avere tutto ciò cui anelava aveva cessato di esistere quando si era reso conto di aver rovinato la sua vita e quella di chi gli stava intorno. Allora era maturato di colpo e aveva capito che la responsabilità di salvare il salvabile era sua. Sperava solo che Eliza avrebbe fatto lo stesso. Per la sua stessa pace interiore, che valeva molto più di qualsiasi gioiello.
 
- § -
 
Eliza avrebbe voluto colpire suo fratello a ogni parola che pronunciava. Sapeva che erano in ballo le loro stesse vite, ma non capiva come potesse raccontare tutto con tanta leggerezza e senza alcuna remora. Non una volta la sua voce aveva tremato, non una volta aveva visto il sudore o le lacrime scendergli sul volto.

Quell'idiota non aveva paura di rimanere ucciso dalla mafia, visto che aveva persino tentato di suicidarsi, era pentito per davvero!

Ma non lei.

Lei era una signora, lei era Eliza Lagan e non poteva rimanere chiusa in un carcere: aveva bisogno di tutte le cose belle che la circondavano, della sua casa lussuosa, dei servitori e di avere sempre gioielli e bei vestiti. Sarebbe morta dentro un carcere.

Ma sarebbe morta anche fuori.

Era in trappola, aveva già delle sbarre che la stavano incastrando. Le vedeva, erano di ferro, spesse e gelide.

"Signorina Eliza? La prego di rispondere", la incalzò l'avvocato. Che accidenti le aveva chiesto? Vedeva le sbarre ovunque e tentò di scacciarle con le mani.

Era colpa di Candy. Sì, quell'orfana maledetta aveva portato il maleficio nelle loro vite da quando aveva messo piede in casa! Prima era morto Anthony, poi le aveva rubato Terence, persino la morte di Stair doveva essere collegata a lei! Infine aveva cercato di rubarle anche la sua posizione nella famiglia adescando il patriarca prima ancora che si presentasse ufficialmente.

Davvero pensavano che lei si fosse bevuta la storia del vagabondo amico di sempre che era rimasto senza memoria? Avevano vissuto insieme! E chissà fin dove si era spinta la loro relazione, magari adesso lei portava persino un bastardo nel suo ventre.

"Signorina Lagan!", la voce dell'avvocato era urgente, stizzita e anche un tantino perplessa.

"È colpa sua, di quella Candy! Se non ci fosse stata lei non sarebbero accadute tante tragedie! Lei si voleva impossessare di tutto il patrimonio e ha circuito lo zio William, lo ha sedotto!". Ormai parlava a ruota libera, senza riflettere, le sbarre sempre fisse davanti agli occhi assieme all'immagine disgustosa di quella ragazza.

"Eliza, smettila!". Era la voce di Neal e la stava trattenendo con la forza mentre si divincolava.

"Non ti permetto di parlare così della mia protetta!", tuonò lo zio William che non sembrava neanche più lo zio William, ma un malato terminale. Si voltò verso di lui e scoppiò a ridere, il seme della follia che la stava già portando lontano e annebbiando la visione delle sbarre.

"La tua protetta!", lo canzonò. "Dì la verità, ci sei andato a letto, zio caro? Sognavi di sposarla e di farci dei figli?! È per questo che quando è caduta da cavallo hai cercato di dare la colpa a me e Neal? Ti abbiamo sottratto il tuo strumento di piacere incestuoso?".

"Taci, Eliza! Stai dicendo un mucchio di sciocchezze!", la voce, forte e stentorea, contrastava con il fisico magro e la carnagione pallida, ma lei non era più spaventata. Non dalle urla del giudice e da quelle, sempre più confuse, delle persone intorno a lei. Mani che la strattonavano, braccia che la incatenavano e tentavano di trascinarla via.

"Doveva morire come ha fatto morire Anthony! Era quello che doveva succedere fin dall'inizio e c'ero quasi riuscita, dannazione, c'ero quasi riuscita a cancellare quella dannata orfana dalla faccia della Terra!". La parte razionale, sempre più lontana e flebile, le urlò che le sue parole equivalevano a una confessione ma ormai cosa aveva da perdere? Anche se l'avessero accusata di aver fatto cadere Candy da cavallo, il motivo per cui era lì l'avrebbe tenuta in galera molto più a lungo.

E Candy non c'entrava niente, realizzò stupita. Si era infilata in quel guaio da sola.

Ma almeno si era liberata, aveva gridato la verità! Ora tutti sapevano che razza di relazione malata avessero quei due e il buon nome degli Ardlay sarebbe comunque affondato. Aveva comunque vinto!

Prima di perdersi nell'oscurità, Eliza udì la propria voce ridere e piangere. Udì qualcuno gridare di chiamare un medico. E udì sua madre chiamarla "figlia mia!" col pianto nella voce. Mentre perdeva i sensi, desiderò tornare piccola o, meglio, tornare nel suo grembo per perdersi nell'abbraccio confortante di un mondo lontano da quello reale.
Perché quel mondo, ormai, non le apparteneva più.
 
- § -
 
*circa 15 Kg
   
 
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