Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: wanderingheath    17/08/2021    0 recensioni
Gli incubi di Luca, barista notturno in un pub, si ripresentano, vanificando gli anni trascorsi in cura nelle migliori cliniche svizzere. E qualche volta si avverano.
Emilia invece, che non sogna mai, gli incubi degli altri li vive, volente o nolente: nella sua anonimità quotidiana viene risucchiata in un attimo negli errori ed orrori altrui.
I due sembrerebbero non avere nulla in comune, se non il ricordo della classe di cui un tempo hanno fatto parte, ma dopo anni di silenzio una notte le loro vite si incrociano nuovamente e mentre vengono circondati da strani eventi, le fantasie di Emilia cominciano ad assumere una consistenza sinistramente reale. Ad unirli c'è un segreto, sepolto nelle loro memorie, che saranno chiamati a svelare.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 1. – Parte I.
 
L’occhio del ciclone

 
 
Louis si affrettò su per la scalinata che lo avrebbe condotto al terzo piano.
Dalla cartella aperta traboccavano libri, scartoffie vomitate da qualche quaderno e penne spaiate.
Non aveva tempo per considerare la scia di oggetti che stava lasciando dal momento del suo ingresso nell’atrio scolastico. Era in ritardo di qualche minuto di troppo per preoccuparsi degli effetti personali.
Il ciuffo di capelli dorati gli ricadeva sulla fronte, a indispettirgli un occhio, coprendogli quasi tutto metà volto; lo detestava e, se non fosse stato per le proteste materne, si sarebbe rasato la testa a zero. Direttamente, in un sol colpo. Un raptus stile Britney Spears.
Rifletteva proprio su simili questioni, quando un colpo (???), dritto in pieno petto, lo travolse. Per poco non capitombolò nella tromba delle scale. Destino altrettanto fortunato non ebbe, però, la sua borsa a tracolla.
Le ginocchia si arresero al peso di un corpo estraneo. Il groviglio di braccia e gambe si disarticolò lentamente e a fatica nei due giovani scontratisi.
No. Non andava.
Era un passaggio terribile, a dir poco raccapricciante.
Per quanto adorasse i cliché, capiva da sola che inserirne uno così, in apertura, avrebbe rischiato di compromettere la riuscita dell’intera storia. E non era solo questione di ripetizioni o refusi – l’avrebbe presa meno sul personale – ma proprio di inventiva, di scarna fantasia.
Si sarebbe dovuta inventare qualcos’altro, ma ogni volta che metteva mano a quella scena, riusciva a immaginarsela in un’unica forma, come in una sorta di predestinazione.
Sepolta dalle cancellature di gomma, una bozza riempiva gli ultimi quadratini liberi del foglio già tormentato. Avrebbe sempre perso nella lotta contro il dirompente bisogno di ricoprire qualunque superficie di disegni, per quanto orribili, insignificanti e talvolta anche infantili. Era il solo modo di tenere a bada la propria immaginazione, di sedare il prurito delle sue mani, desiderose e bisognose di creare, creare, creare. Le dita si contorcevano attorno alla matita, arma che impugnavano in mancanza di una tastiera.
L’occhio sinistro del suo Louis la scrutava con rimprovero, come a chiederle di trovarsi un hobby migliore del deturpamento del suo viso.
Nel tentativo di pulirgli una mano troppo rachitica, finì per amputargli l’intero braccio. Andava così, quando cercava di ritoccare qualche scarabocchio: rigettava tutto il pregresso.
Soffiò via i brandelli di finta carne che occupavano la carta.
Un rumore di passi in avvicinamento la fece scattare: quaderno richiuso, fatto scivolare sotto i due libri di testo spalancati.
«Rieccomi.»
Elena si abbandonò a peso morto contro lo schienale della sedia. Aveva ripreso la penna, sebbene con poca convinzione. «Dove eravamo?»
Le indicò con l’indice l’ultimo passaggio marchiato dalla grafite. «Qui, credo. Tulerit
Elena osservò brevemente il verbo, poi tornò a guardarla con le sopracciglia aggrottate. Negli occhi acquamarina il solito sguardo torbido che avrebbe fatto attorcigliare le viscere di chiunque.
Forse era proprio quello il dettaglio che maggiormente la turbava: l’imperscrutabilità delle iridi.
Il viso, l’espressione, si adattavano a perfezione ai segnali inviati con gli sguardi – o piuttosto alla totale assenza di segnali – disarmando e disorientando l’interlocutore.
Era convinta che fosse quello l’enigma attorno ad Elena, la radice del suo fascino magnetico.
Quello e la cura quasi chirurgica della propria persona.
Persino la salopette che indossava in quel momento, nell’ambiente informale del bar, si armonizzava con il colore dei suoi occhi, nonché con le mollette che trattenevano alcuni riccioli.
Una volta, molti anni prima, le aveva rivelato il suo segreto.
Dopo averla trascinata con sé in bagno e spalancata l’anta dell’armadietto personale, l’aveva iniziata allo strabiliante mondo dei prodotti per capelli. Ricordava lo stupore – lo spavento – davanti a file e file di boccette diverse, il cui utilizzo non avrebbe neanche saputo immaginare.
La famigerata pozione che permetteva ad Elena di estrarre da una matassa informe il suo vanto maggiore, lo spettacolo di ricci, consisteva in un flacone di mousse dall’etichetta dorata, su cui spiccava un nome in francese. Le era venuto spontaneamente da sorridere: lei sarebbe stata in grado di tradurlo, ma non di usarlo.
«Quindi?»
Elena stava aspettando una risposta.
«Quindi… sapresti dirmi il paradigma?»
L’altra perse la pazienza. Emise uno sbuffo sonoro e scagliò sul tavolo la penna blu.
«Ancora con ‘sti cazzo di paradigmi?»
«Beh, all’esame te li ha chiesti.»
Elena la incenerì all’istante: «Appunto».
L’idea che ciò che era uscito in sede d’esaminazione non dovesse più essere riesumato sembrava costituire un tacito patto fra alunno e professore. Almeno secondo la logica di Elena.
«È uno degli argomenti su cui sei più debole.»
«E il più inutile. Tanto tra due giorni me li so’ scordati tutti.»
Stavolta il sospiro sfuggì a lei. La refrattarietà di Elena alla materia era fondata su basi talmente comuni da costituire l’opinione dell’ottanta percento degli studenti del loro istituto. Trovare una minoranza di latinisti all’interno di un liceo classico sembrava un paradosso frequente.
«La odio, ‘sta lingua del cazzo.»
Che Elena Costa fosse abitualmente responsabile di turpiloquio, a molti suoi coetanei sarebbe apparso impensabile. La divertiva il modo in cui, invece, non avesse freni inibitori davanti a lei.
Quel trattamento non era lusinghiero, ma le regalava l’illusione di esercitare una minima influenza su una delle beniamine del Liceo Classico G. Ungaretti.
«Proseguiamo con la frase successiva?»
Un mugugno di approvazione fu l’unico segnale d’incoraggiamento.
A lei Cicerone piaceva. Le piaceva il modo in cui le frasi si dispiegavano davanti agli occhi del lettore moderno, lo stile elegante, raffinato, il perfetto bilanciamento tra le strabordanti subordinate, che costringevano a far scorrere lo sguardo avanti e indietro. Semplicemente, le piaceva il sapore delle lingue morte, il riportare alla luce testi sepolti dai secoli trascorsi, il risolvere gli incastri linguistici come se si fosse trattato di un puzzle. Eppure, quando si trovava di fronte ad un’alunna come Elena, non riusciva a trasmettere la sua passione per il latino.
Aveva letto insieme a lei la frase successiva, quando il cellulare di Elena cominciò a squillare. La suoneria era I love it (I don’t care) di Icona Pop, la stessa che utilizzava anche Giulietta.
Elena le fece segno di attendere un momento.
Una cameriera si era accostata al loro tavolo, chiedendo se poteva portar via qualcosa.
Emilia annuì, passandole con premura entrambe le tazze. Quel posto vantava un ottimo tè nero e, a giudicare dai pochi residui presenti nel bicchiere della sua alunna, anche le cioccolate non dovevano essere niente male. Sebbene i dolci lasciassero un po’ a desiderare, il bar le ispirava un senso di familiarità e di casa: che fossero le luci soffuse o il forte odore di spezie, sentiva che ci sarebbe tornata.
«Sì, avoja. Sì, ci vediamo direttamente lì, il trentuno sera. Famo intorno alle sette. Allora, senti, dopo ti mando la posizione esatta, okay?»
Elena agitava la testa con vigore, i suoi ricci in tumulto.
«Guarda, porta chi te pare, tanto la casa è de mi’ zio, ma non ci sta mai nessuno. Okay? Va bene, amò, a dopo.»
Terminò la chiamata con una mitragliata di baci sonori, soddisfatta. Quando incrociò lo sguardo di Emilia, si ricordò d’improvviso di essere in compagnia. Cercò di ridarsi un tono, avvoltolandosi una ciocca di capelli attorno all’indice. «È Ginevra. Non so se te la ricordi, quella della quinta E, mora, tappa...»
L’altra assentì. «Beh, do una specie di festa per Halloween. A casa mia, cioè de mi’ zio in realtà, ma loro non la usano mai. Beh, non è una vera festa, è più una cosa...»
Cercava le parole adatte, ma per Emilia quell’incespicare fu sufficiente: era in imbarazzo. Per qualche motivo Elena Costa provava imbarazzo in sua presenza. Ecco, quello sì che la lusingava.
«Una cosa tra amici, molto tranquilla», terminò.
L’altra annuì di nuovo, nella reciproca consapevolezza che si trattava di un’evidente menzogna.
Un raduno tranquillo tra amici per Elena Costa doveva significare una cinquantina di invitati. Le conosceva fin troppo bene quel genere di feste.
«Tu vuoi...vorresti...»
La interruppe con un cenno della mano. «Oh, no. No, no. Assolutamente no.»
«Mi spiace non avertelo detto prima, ma mi sono scordata.»
«Tranquilla, davvero.» Emilia abbozzò un sorriso circostanziale, che ristabiliva i loro ruoli nell’incontro. «Non sembra il mio genere di... cosa. E poi non festeggio mai ad Halloween.»
Emessa la sua sentenza, la questione fu rapidamente archiviata, assieme alla sessione giornaliera.
Prima che avesse tempo di aggiungere altro, Elena ficcò nello zaino libri e quadernone ad anelli, per poi schizzare in piedi. «Ho palestra. Ci vediamo mercoledì prossimo. Magari stavolta vieni a casa mia, che qua si sta scomodissimi.»
L’altra si limitò ad annuire per l’ennesima volta, impotente davanti ad una simile determinazione.
«Riguarda i paradigmi», avrebbe voluto aggiungere, se solo le fosse stato dato il tempo. La ragazza era già scappata alla cassa e poi fuori, sotto l’acquazzone. La porta girevole ancora volteggiava, anch’essa vittima del ciclone Costa.
Emilia raccolse lentamente i libri, dizionario di latino incluso, dal tavolo, domandandosi come avrebbe fatto a proteggerli dallo scroscio d’acqua che si stava riversando impietoso sui passanti e sul selciato.
Suo padre si era raccomandato di prendere l’ombrello, quella mattina, ma troppe volte aveva dato retta alle sue previsioni atmosferiche, per poter credere che fossero fondate. E si era sbagliata.
Prima di attraversare la porta girevole ed essere rigettata al freddo e all’umidità stradali, pensò persino di rubarne uno dal portaombrelli, ma fu un attimo, solo un impulso insensato, non una vera congettura.
L’impatto si rivelò meno traumatico del previsto. Tirato su il cappuccio e strettasi nella felpa extralarge, iniziò ad avviarsi verso l’entrata della metropolitana più vicina. Ora che aveva infilato anche le adorate cuffiette nelle orecchie e fatto partire la playlist preferita – ferma agli anni adolescenziali, con le solite trenta canzoni ascoltate e riascoltate almeno un centinaio di volte – sentiva di poter sopravvivere senza fatica.
Giulietta la punzecchiava ogni volta per il mix improbabile di canzoni che aveva trovato sul suo telefono: si passava dal Rock classico al Pop o all’Hip Hop contemporanei e commerciali in un’accozzaglia indistinta e senza intermediari. A Emilia poco importava di seguire una scaletta o ordinare la musica per generi diversi; forse quello era l’unico campo in cui la sua metodica – per non dire ossessione – dell’ordine non trovava applicazione. Quello che catturava il suo orecchio finiva dritto nel grande contenitore: facile e indolore.
Adesso era la volta di A Well Respected Man e le sembrava quasi di trotterellare a tempo, piegando appena le ginocchia e sbilanciando il busto in avanti ogni volta che i Kinks riprendevano il ritornello. Dal momento che la aspettava una lunga corsa in treno verso casa, avrebbe potuto dare un’occhiata a qualche suggerimento di Giulietta, entrata in fissa con un cantante indie italiano dal nome a lei sconosciuto.
Al semaforo, mentre attendeva che scattasse il verde, le note dolci di Lego House di Ed Sheeran la colpirono come una freccia in pieno petto. Si affrettò ad estrarre il cellulare dalla tasca della felpa e a colpire ripetutamente lo schermo nel tentativo di passare alla canzone successiva.
Il vento, che nell’arco della giornata aveva acquisito notevole potenza, le spruzzava la pioggia sul viso, sulle ciocche rimaste scoperte, sulle grandi lenti degli occhiali, ma quasi non se ne accorse.
Non appena Photograph scalzò la melodia precedente, Emilia tornò a respirare. La sbalordiva – e infastidiva – il modo in cui una manciata di note, un accento britannico e la voce calda, piena, del cantante fossero in grado di riesumare tutti quei ricordi. La lasciava incredula quanto potere avesse ancora una semplice canzone sul suo animo.
Iniziò ad attraversare insieme a qualche altro passante, ma a non più di metà percorso un clacson strombazzò nella sua direzione. Emilia si pietrificò di nuovo, gli occhi sgranati che non riuscivano a staccarsi dall’immagine dei due fanali puntati su di lei.
Il camion deviò d’improvviso, evitandola per un soffio. Sentì la raffica di vento gelido che la investiva, il cappuccio che cedeva sotto la sua forza e il massiccio corpo del veicolo che le passava di fianco. Impiegò alcuni secondi per capire cosa fosse accaduto, poi si affrettò a raggiungere l’altro marciapiede e a imboccare le scale della metropolitana con il cuore che ancora le schizzava in gola.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: wanderingheath