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Autore: FrancescaPenna    25/08/2021    0 recensioni
Possono cinque ragazzi non ordinari sperare di trovare il loro posto in una società dove l'essenza viene spesso sottomessa all'apparenza, dove le persone rincorrono una perfezione che non esiste per sottrarsi ai pregiudizi?
Casey e Satèle Johns sono due gemelli albini.
Markus Lancaster ama la lettura e odia le persone.
Johnnie Bailey è silenzioso.
Angel Hassler è un maschiaccio.
Cinque ragazzini diversi con cinque vissuti diversi, che si affacciano al contesto delle scuole medie diventando i protagonisti del primo atto di una storia che parla di diversità, accettazione, amicizie e primi amori, ma anche di bullismo, famiglie disfunzionali, autolesionismo e disturbi mentali.
Una storia in cui impareranno a conoscersi per come appaiono agli occhi di tutti, ma anche e soprattutto per come loro stessi si sentono dentro: strani.
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: De-Aging, Kidfic | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2 – Incontri fortuiti

 

Satèle aveva appena finito di parlare al cellulare con Casey ed era triste per lui.

Quando aveva sentito che suo fratello non avrebbe potuto telefonare durante la settimana, aveva letteralmente dato di matto e aveva preteso addirittura di farsi passare “l’imbecille” – proprio così l’aveva definito – che aveva introdotto tale regola per dirgliene di tutti i colori, ma Casey le aveva spiegato con una santa pazienza che non c’era niente da fare, perché lì nessuno faceva sconti a nessuno, quindi era riuscito a calmarla e lei si era arresa.

“Se mamma e papà non ci odiassero, questo non sarebbe mai successo”, aveva detto a un certo punto.

Casey avrebbe anche voluto contraddirla, ma non poteva negare quella che sembrava l’evidenza. Era inoltre indeciso se dirle o meno che la zia gli aveva promesso che l’avrebbe tirato fuori dal collegio. Da un lato credeva di rasserenarla se l’avesse fatto, ma dall’altro non voleva incuterle false speranze.

Poi la gemella era scoppiata a piangere, confessandogli il proprio timore di essere stata la causa della decisione dei genitori, allora Casey si era sentito in dovere di smentirlo, dicendo che probabilmente l’avrebbero fatto a prescindere dal suo comportamento.

Satèle aveva risposto con una frase che gli aveva toccato il cuore: “Portandomi via te, mi hanno portato via tutto.”

“Cerca di non pensarci troppo”, le aveva suggerito Casey. “Dopodomani anche tu comincerai le medie, potresti trovare degli amici con cui passare il tempo.”

Infine si erano salutati e avevano riagganciato.

Seduta al tavolo della cucina, con il viso tra le mani e lo sguardo basso, Satèle stava meditando sulle parole di suo fratello.

Forse Casey aveva ragione: cambiando scuola avrebbe potuto trovare finalmente degli amici, nonostante le sembrasse un’impresa a dir poco ardua.

Satèle ci aveva anche provato negli anni addietro, ma aveva scoperto di avere difficoltà nel legarsi alle persone; un po' per il timore di non piacere a nessuno, un po' perché si riteneva incapace di superare un eventuale abbandono.

Mentre pensava e rimuginava, sentì i passi di sua madre alle proprie spalle.

Hannah ignorò la figlia per un po' e iniziò a preparare la cena, poi notò il suo umore e a quel punto le disse: “Guarda che io e tuo padre sappiamo che adesso ti senti sola, visto che tu e Casey vivevate praticamente in simbiosi, ma l’abbiamo fatto per il vostro bene.”

“Uhm...”, mugugnò Satèle.

“Solita ingrata. Anziché essere contenta di andare alle medie si lamenta per la lontananza dal fratello e neanche apprezza i sacrifici.”

Satèle si raddrizzò sulla sedia e batté una mano sul tavolo. “Non era necessario, come sacrificio.”

“Senti, Satèle, mi hai scocciata!”, si esasperò Hannah. “Accetta la cosa e approfittane per concentrarti sullo studio, almeno così vedi di portare a casa una pagella decente.”

Satèle la liquidò con un gesto della mano.

Hannah aprì la credenza e prese un barattolo, dal quale tirò fuori una banconota da dieci dollari che allungò alla figlia.

“Domani Coco andrà a fare un po’ di shopping per il rientro, vai con lei. Ho il giorno libero al lavoro e non voglio rotture di scatole.”

“Grazie”, bofonchiò amaramente Satèle. Prese i soldi, si alzò e se ne andò.

Sua madre sapeva essere talmente subdola che, perfino quando sembrava voler compiere una gentilezza nei suoi confronti, in realtà agiva per scopi puramente personali.

 

Hannah aveva accompagnato le ragazze in macchina fino al Plaza più vicino e aveva raccomandato loro di farsi trovare nello stesso punto in cui le aveva lasciate quando sarebbe passata a riprenderle.

Dato che le due sorelle avevano gusti diversissimi nel vestire, proseguirono su due corsie distinte e separate.

Mentre Coco si fermava davanti alle vetrine più chic, Satèle si diresse verso un negozio di abbigliamento alternativo in cui lei e Casey compravano spesso. Gliel’aveva fatto conoscere la zia quando entrambi avevano appena otto anni ma già le idee chiare in fatto di stile, in quanto anche lei – soprattutto da adolescente – amava spendere lì.

Satèle si addentrò nel reparto che vendeva articoli di moda emo e punk e vide una minigonna a quadri rossi e neri che le piacque. Siccome della sua taglia – la XS – era rimasto l’ultimo pezzo, la pagò a un prezzo stracciato.

Con i soldi rimasti acquistò anche un paio di orecchini da inserire nel secondo foro che si sarebbe procurata a entrambi i lobi all’insaputa dei genitori.

Satèle li aveva supplicati fino allo sfinimento per ottenere il loro permesso, ricevendo ogni volta la stessa risposta: “È volgare”.

Uscita dal negozio, pensò di andare a prendere un gelato o una ciambella nel frattempo che aspettava Coco.

Tutte le persone che incontrò la guardarono come se fosse un mostro, si scansarono al suo passaggio come se stesse arrivando un’appestata.

Non che Satèle non fosse abituata a quelle reazioni a dir poco esagerate; del resto lei e Casey erano probabilmente gli unici albini di tutta Rockford, se non dell’intero stato dell’Illinois.

Eppure, una volta tanto, avrebbe voluto provare la sensazione di sentirsi normale, essere una ragazzina come le altre e non una specie di fenomeno da baraccone.

All’improvviso un gruppetto di ragazze poco più grandi di lei cominciò a indicarla e ridere. Satèle passò di fianco a loro velocemente, guardando dal lato opposto per nascondere la delusione, e gridò di rimando: “Ehi, galline, qui non c’è il pollaio!”. Le ragazze smisero e si allontanarono, tuttavia lei non si sentì soddisfatta.

Tirò dritta verso i bagni, si sciacquò gli occhi gonfi delle lacrime che aveva trattenuto e si guardò allo specchio. Visto che non avrebbe potuto mai tingere i capelli, l’unico modo per sentirsi normale era aggiungere un tocco di colore al viso.

Contò gli spiccioli che le erano rimasti ed entrò in un negozio di trucchi.

La accolse una commessa sulla cinquantina che le indicò subito la parete dei lucidalabbra, convinta che come la maggior parte delle ragazzine della sua età cercasse uno di quelli, in-

vece Satèle disse: “Non voglio un lucidalabbra, voglio un eyeliner.”

“Un eyeliner?”, ripeté la donna sorpresa. “Davvero?”

“Ho l’aria di una che scherza?”

La commessa si allontanò per un attimo e ritornò con un vasetto di eyeliner in gel.

Satèle pagò e uscì dal negozio.

Adesso il problema consisteva nell’applicarlo. Se avesse chiesto a sua madre di insegnarglielo, lei si sarebbe rifiutata categoricamente. Con le figlie Hannah era stata chiara fin da subito: l’uso di qualsiasi cosmetico al di fuori del lucidalabbra e del fard era proibito fino a quando non avrebbero compiuto diciotto anni.

L’unica che avrebbe potuto aiutarla era sua zia, quindi la telefonò per accertarsi che fosse a casa. Dia rispose di sì e nel frattempo Satèle ricevette un’altra chiamata da Coco, la quale disse che non aveva ancora finito.

A Satèle convenne quella risposta: senza dire nulla, avrebbe lasciato il centro commerciale e si sarebbe incamminata verso casa di sua zia, per poi ritornare poco prima che sua madre fosse passata a riprenderla.

 

Quando Satèle bussò alla porta, Dia era nel suo studio, seduta davanti al computer come ogni giorno. Lavorava da anni come traduttrice per Simon & Schuster, un vero e proprio colosso dell’editoria americana. Essendo nata da padre irlandese e madre italo-francese, e cresciuta negli Stati Uniti, quattro delle lingue che conosceva le aveva imparate praticamente a casa, mentre al liceo aveva studiato lo spagnolo, il tedesco e anche un po' di cinese.

Si alzò dalla postazione e andò ad aprire; abbracciò Satèle e la fece accomodare in salotto.

“Ti ho disturbata?”, chiese la nipotina.

“No, tranquilla, mi ci voleva una pausa”, rispose lei. “Su, fammi vedere che hai comprato.”

Satèle le mostrò prima la minigonna e poi gli orecchini, chiedendole: “Zia, un giorno di questi mi accompagni a fare i secondi buchi?”

“I tuoi sono d’accordo?”, indagò Dia.

“Certo”, mentì Satèle, ma sua zia non le credette e si mise a braccia conserte per farle confessare la verità. Non appena la seppe, raccomandò a Satèle di non fraintenderla, perché se fosse stato per lei l’avrebbe accompagnata tranquillamente, ma doveva opporsi per evitare problemi con Hannah e Brad.

“Ma loro mi vietano tutto!”, protestò Satèle.

Nessuno, meglio di Dia, poteva capirla. Anche lei, da adolescente, aveva con i suoi genitori – specie con sua madre – lo stesso rapporto che Hannah e Brad avevano con i gemelli, e anche lei, proprio come Satèle, reagiva ribellandosi.

“È dura, piccola, lo so, ma pensa che un giorno crescerai e potrai finalmente decidere per te stessa, come ho fatto io”, la consolò. “Adesso, dimmi, c’è qualcos’altro che vuoi farmi vedere?”

“Sì, ho comprato anche questo!”, rispose Satèle contenta, tirando l’eyeliner e il pennellino fuori dalla busta. “Mi insegni a metterlo?”

Dia sorrise e alzò gli occhi. Evitò di chiederle nuovamente se i genitori fossero d’accordo, già conosceva la risposta, ma stavolta non riuscì a dirle di no.

La condusse in bagno, davanti allo specchio, Satèle la guardò e disse: “Mettimelo uguale a come lo metti sempre tu.”

Dia esaudì la sua richiesta e, spiegandole contemporaneamente tutti i passaggi, sulla palpebra superiore le tracciò una linea molto spessa, che fece terminare con una coda rivolta verso l’alto, mentre sulla palpebra inferiore e all’interno dell’occhio le disegnò una linea più sottile, terminando con una leggera passata di mascara sulle ciglia bianche.

“Ti piace?”, chiese infine alla nipotina.

“Sì, tantissimo!” esclamò Satèle, rimirandosi nello specchio.

Lei e Casey avevano ereditato poco e niente dai genitori e moltissimo dalla zia: il colore e la forma degli occhi e delle labbra, il fisico magrolino e perfino l’albinismo.

Sebbene, però, Diana apparisse bellissima agli occhi di Satèle, Satèle non riusciva a pensare lo stesso di sé.

“Zia, da grande vorrei tanto diventare bella come te”, le disse infatti.

“Amore, ma tu sei già bellissima!”, rispose Dia, carezzandole il mento. “Non vedi che bella signorina stai diventando? Domani inizi pure le scuole medie, sei emozionata?”

Satèle scosse energicamente la testa e disse di no. “Non voglio andarci senza Casey.”

Dia la strinse forte e le fece poggiare la testa sulla propria spalla.

“Non temere, piccola, andrà tutto bene. So che adesso sei arrabbiata con i tuoi genitori perché vi hanno divisi, è normale e hai tutto il diritto di esserlo, ma non è portando rancore che risolverai le cose. Sicuramente anche Casey si sente come te e gli manchi tanto quanto lui ti manca, ma sta provando ad adattarsi a una nuova realtà, quindi perché non dovresti provarci anche tu? Incontrerai tanta gente nella nuova scuola, troverai sicuramente dei bravi amici.”

“Ma io non piaccio a nessuno!”

“Non dire così, Sat, ci sarà senz’altro qualcuno che ti vorrà bene e a cui piacerai per come sei.”

“Davvero?”

“Certo! Poi, mal che vada, Casey tornerà sempre per i fine settimana, e potrete stare insieme quanto vorrete… Inoltre ti garantisco che non rimarrà in collegio a vita.”

Satèle ebbe l’impressione che l’ultima frase pronunciata da sua zia sottintendesse un significato diverso da quello che qualcun altro le avrebbe attribuito, ma non appena chiese conferma della propria ipotesi le squillò il cellulare e dovette rispondere.

Era Coco, che aveva appena finito le compere e voleva conoscere la sua posizione per andarle incontro.

“No, aspetta, ti raggiungo io!”, la precedette Satèle. Chiuse la telefonata e disse alla zia che doveva assolutamente scappare, se non voleva beccarsi una ramanzina.

Dia quasi non poté credere ai propri occhi: sua nipote era davvero scappata dal centro commerciale e adesso doveva ritornarci, per di più a piedi!

Tutta sua zia, pensò. Anche lei, da ragazzina, l’avrebbe fatto.

Le dispiacque non poterla accompagnare in macchina; Luke – che era il titolare di un’impresa di imbianchini – se l’era portata al lavoro e lei non avrebbe comunque potuto guidare come la stragrande maggioranza delle persone albine, alle quali non viene rilasciata la patente a causa della vista ridotta.

Rimosse il trucco dagli occhi di Satèle, le restituì il vasetto di eyeliner e il pennellino e le regalò il mascara che aveva usato. Prima che lei uscisse le raccomandò di raccontarle del primo giorno di scuola e le chiese per favore di truccarsi in quel modo soltanto con il permesso dei genitori.

“Contaci”, fece Satèle prima di richiudersi la porta alle spalle, ma Dia sapeva per certo che era una risposta sarcastica, di quelle che anche lei avrebbe dato a sua madre.

 

“Eccoti, finalmente!”, esultò Coco, domandando a sua sorella come fosse possibile che avesse impiegato tanto tempo per comprare quasi nulla, a giudicare dalla sua unica busta. Satèle si giustificò dicendole di aver trovato la fila alla cassa.

Facile dire quasi niente, per te, avrebbe voluto dirle.

Coco, infatti, era uscita dal negozio con tre buste belle piene, perché le spettavano sempre il doppio se non addirittura il triplo dei suoi soldi.

“Vieni, mamma ci sta aspettando.” Prese Satèle per mano e raggiunsero l’uscita.

 

Il grande giorno era arrivato e Satèle batteva i pugni contro la porta del bagno affinché sua sorella si desse una mossa. Erano già trascorsi tre quarti d’ora da quando era entrata e non intendeva arrangiarsi e prepararsi in fretta e furia per colpa sua. Coco non aveva bisogno di strafare: quello era il suo secondo anno alle medie ed era già abbastanza popolare, al contrario di lei che non era nessuno.

“Coco, esci da questo cazzo di bagno!”, strillò Satèle, ancora in pigiama e con gli abiti che aveva scelto la sera prima stretti nella piega del gomito.

“Resisti, ho quasi finito!”, gridò Coco di rimando.

Satèle emise uno sbuffo di rassegnazione e diede una testata alla porta.

Fortunatamente, quella smorfiosa di sua sorella uscì poco dopo con indosso il top color pesca con la giacca abbinata, i jeans bianchi e le ballerine che aveva comprato il giorno precedente, i capelli perfettamente lisciati e le labbra spalmate di lip gloss alla fragola.

“Fatto”, disse, e Satèle si precipitò in bagno.

Dopo essersi fatta una doccia veloce, infilò una t-shirt dei Green Day, una giacca di pelle nera e dei leggings dello stesso colore, sopra i quali infilò anche la minigonna a quadri. Indossò le sue scarpe preferite – un paio di Converse nere alte quasi fino al ginocchio –, dei braccialetti borchiati e un choker. Diede un paio di colpi di spazzola al suo carré sbarazzino, il cui tratto distintivo era il ciuffo scalato, e finalmente passò alla parte decisiva: il trucco.

Si munì di eyeliner e mascara e li applicò come sua zia le aveva insegnato.

Uscì dal bagno, si caricò lo zaino in spalla e raggiunse sua sorella e sua madre in macchina.

Prima di partire, Hannah guardò attraverso lo specchietto retrovisore e quasi ebbe un colpo quando si accorse del trucco sugli occhi di sua figlia.

Ovviamente si arrabbiò moltissimo, ma allo stesso tempo non poté ordinarle di tornare in casa e rimuoverlo, altrimenti si sarebbe fatto tardi.

Satèle le rivolse un sorriso sbilenco; aveva vinto lei.

 

“Siamo arrivati”, annunciò Emily, con la faccia girata verso i sedili posteriori dell’auto.

Markus si riscosse dal torpore che l’aveva preso durante il tragitto e sistemò il segnalibro sulla pagina corrente. Stava rileggendo uno dei suoi classici preferiti dell’infanzia, I ragazzi della via Pál.                                                                                                                             

“Sei emozionato?”, domandò sua madre.

“Un po'.”

“È il tuo primo giorno di scuola, su! Non hai voglia di farti degli amici?”

“Non ho bisogno di amici,” ribatté Markus, guardando con disprezzo dal finestrino chiunque gli passasse davanti.

“Dài, Markus, sono sicura che riuscirai a trovare qualcuno che ti piacerà.”

“Sì, come no…”

Emily sospirò. “Certo che avresti potuto evitare di metterti proprio quella”, suggerì, alludendo alla sua felpa nera, raffigurante un teschio con le tibie incrociate.

Markus si guardò e fece spallucce. “Cos’ha che non va?”

“Non è proprio un bel simbolo. Fossi stata in te l’avrei messa più in là, non il primo giorno, semplicemente per evitare che gli altri si facciano una cattiva opinione su di te.”

“Me ne frego dell’opinione degli altri.”

“Oh, questo lo so. Adesso vai, devo accompagnare anche Lily.”

Markus salutò sua madre e sua sorella, augurando anche a quest’ultima un buon primo giorno.

Chiuse il libro e lo infilò nella tracolla, scese dall’auto e tastò le tasche anteriori dei jeans per accertarsi che il suo inalatore fosse lì in caso di bisogno.

 

 

Hannah accostò l’auto e augurò un buon primo giorno di scuola a Coco – la quale non appena scorse le sue amiche in lontananza corse a raggiungerle senza curarsi della sorella – mentre a Satèle raccomandò soltanto di non cacciarsi nei guai.

Lei roteò gli occhi e si accise ad attraversare il cortile antecedente alla McClaine Middle School, un edificio in mattoni costituito da un corpo centrale e due ali laterali poco più basse, coperto da un tetto piano.

Vide che proprio dietro l’auto di sua madre ne era parcheggiata un’altra, dalla quale uscì un ragazzino alto, magro come un chiodo, dai capelli nerissimi come la felpa, i jeans e gli anfibi Dr. Martens che indossava.

Camminava con la testa china sul libro che teneva tra le mani.

Satèle pensò che fosse diretto verso la sua stessa meta, la sala convegni in cui ogni anno, come da tradizione, si svolgeva la cerimonia di accoglienza per gli alunni delle prime, quindi lo seguì.

Il ragazzo, però, aveva il passo veloce e lo perse di vista dopo poco.

Satèle si ritrovò quindi a percorrere il corridoio da sola, con gli occhi di tutti puntati a addosso, ma lei li ignorava e guardava dritto davanti a sé, familiarizzando con i colori spenti dei muri e degli armadietti, con quelli più accesi delle scritte sui cartelloni… Infine con il celeste della camicia appartenente allo sconosciuto che le era andato a sbattere contro.

“Un po' d’attenzione, insomma!”, si alterò Satèle, ma se ne pentì non appena alzò lo sguardo, ritrovandosi davanti un uomo molto più grande di lei, poco più che trentenne, quasi sicuramente un professore.

Satèle coprì la bocca con le mani e provò a farfugliare delle scuse.

“No, scusami tu, hai ragione”, disse invece l’uomo, elargendo un sorriso. “Ti ho fatta male?”

Satèle scosse la testa, imbarazzata.

“Okay”, rispose lui, dandole un’affettuosa pacca su una spalla, e continuò a camminare come fece anche lei, fin quando non arrivò in sala convegni.

Era un ambiente piuttosto spazioso, il pavimento era ricoperto da un parquet di legno e sulle mura bianche erano affisso dei tabelloni, una lavagna multimediale e delle ampie finestre che garantivano una buona illuminazione, dalla quale Satèle doveva tenersi alla larga. Iniziò a cercare posto fra le ultime file di spalti, che erano più lontane.

Chiese a due ragazze sedute in quinta fila di scalare e queste riuscirono a lasciarle solo uno strettissimo spazio, che per com’era magra le andò bene comunque.

Una le fece perfino i complimenti per la “parrucca”, ma Satèle si astenne dal risponderle.

Preferiva non inimicarsi nessuno il primo giorno.

 

Markus camminava e contemporaneamente leggeva; scosse i capelli neri e con quel semplice gesto attirò gli sguardi di molte ragazzine che cominciarono a civettare per conquistare la sua attenzione ma senza ottenerla, perché lui riteneva quelle tecniche di corteggiamento stupide e superficiali.

S’imbatté in due ragazzi e fece notare a uno quanto l’altro – che si atteggiava a gran fico – lo stesse usando, poi entrò in sala convegni e chiese ad altri due ragazzi in terza fila di fargli un po' di posto sforzandosi di sembrare quanto più gentile possibile.

I due lo lasciarono sedere e lo guardarono di sottecchi.

“Ma guarda, gli emo non si sono ancora estinti!”, sghignazzò uno.

“È vero!”, gli fece eco l’altro.

“Neanche gli idioti si sono ancora estinti, a quanto pare”, rispose cinico Markus.

I ragazzi, umiliati, non seppero che dire e cercarono un altro posto.

Markus scrollò le spalle come se nulla fosse successo. Non era la prima volta che riceveva commenti simili, ci era abituato com’era abituato a non dormire più la notte e il suo cinismo e la sua arroganza si erano sempre rivelate delle armi efficaci per contrastare la cattiveria e l’ignoranza delle persone, che lui detestava profondamente.

Detestava il loro omologarsi alle tendenze, la loro assenza di personalità e idee proprie, non preconfezionate; detestava il loro giudicare senza conoscere e la loro cecità davanti ai soprusi.

Detestava il modo in cui nascondevano la loro mancanza di argomenti intavolando conversazioni frivole, come quelle che animavano la sala convegni e che gli fecero desiderare di coprirsi le orecchie e ritornare alla sua lettura.

Un’improvvisa folata di vento sfogliò alcune pagine e fece cadere a terra il segnalibro, così lui dovette abbassarsi per raccoglierlo e nel frattempo guardò alle proprie spalle.

Un attimo di distrazione e la vide: pelle bianca come il latte, capelli candidi come la neve e lisci come la seta; labbra rosee e due occhi di ghiaccio truccati di nero che erano come un incantesimo.

Quella ragazza non era frutto della sua immaginazione, no, era quanto di più reale e autentico avesse mai visto. Markus lo sapeva, lo leggeva nel suo sguardo che non riusciva a incrociare per paura che lo stregasse.

Ma forse l’aveva già stregato.

Non poteva rinnegare il desiderio di conoscerla che gli stava crescendo dentro, scombussolandogli i battiti nel petto, non poteva.

Magari quella sarebbe stata l’occasione perfetta per provare a farsi un’amica vera con cui

condividere dei momenti importanti… oltre che i gusti musicali.

Markus, infatti, aveva notato che la ragazza indossava una maglietta dei Green Day. Un motivo in più per non lasciarsela sfuggire.

 

La preside non era ancora arrivata e Satèle aveva un certo languorino allo stomaco. Aprì un pacchetto di crackers e cominciò a mangiucchiare mentre si guardava intorno.

Seduto due file più avanti di lei, alla sua estrema destra, c’era un ragazzo che leggeva un libro.

Satèle avrebbe riconosciuto i suoi capelli neri ovunque: era lo stesso che era uscito dall’auto parcheggiata dietro quella di sua madre, quello che stava seguendo inizialmente in corridoio.

Finalmente riuscì a osservarne il volto, malgrado la sua scarsa vista le impedì di mettere a fuoco alcuni dettagli, ad esempio il colore degli occhi, mentre il loro taglio allungato, quasi felino, riuscì a distinguerlo. Aveva un naso dritto che a prima vista le parve giusto un po' grande per il suo viso scarno, con il mento appuntito e gli zigomi pronunciati, ma nel complesso ben proporzionato, e le labbra né troppo sottili né troppo carnose. La sua pelle era molto chiara e portava il ciuffo scalato come lei e Casey.

Guardandolo da così lontano, Satèle non riuscì a definire se fosse bello o meno, ma c’era qualcosa in lui che la incuriosiva, la attraeva. Rimase a guardarlo fin quando non si accorse che lui stava facendo lo stesso, allora si girò dal lato opposto.

Quel ragazzino aveva fascino e su questo non c’erano dubbi.

 

Niente da fare, non aveva ancora il coraggio di guardarla negli occhi. Markus avrebbe pagato se prima, in corridoio, avesse ricevuto le frecciatine da lei anziché dalle altre, invece la ragazza dai capelli d’argento guardava sempre dal lato opposto, mai verso di lui.

A un certo punto si rassegnò, pensò che per conoscerla doveva andarla a cercare e non provare ad attirare la sua attenzione, perché così non avrebbe ottenuto niente.

Passarono interminabili minuti prima che Markus decidesse di fare un ultimo tentativo, che al contrario delle sue aspettative si rivelò vincente. Fu proprio in quel momento che finalmente i loro sguardi s’incrociarono, che i loro mondi apparentemente lontani collisero.

 

I suoi occhi erano nei suoi occhi. Satèle non riusciva a dare un nome alla sensazione che stava provando mentre il ragazzo dai capelli neri la guardava così intensamente. Perché ne era certa: guardava lei, quella che non piaceva mai a nessuno. Ma, a giudicare dall’evidenza, quel ragazzo doveva aver visto in lei qualcosa di buono, qualcosa che nessun altro vedeva.

Come poteva uno sconosciuto leggere nei suoi occhi come se fossero un libro aperto? E, soprattutto, perché aveva improvvisamente smesso di farlo?

Il ragazzo aveva distolto lo sguardo e così anche Satèle, che aveva approfittato per scartare un altro pacchetto di crackers. Riuscì a finirlo appena in tempo per l’arrivo della preside, che senza indugiare ulteriormente pronunciò il discorso augurale.

Satèle non ascoltò una parola, nelle sue orecchie ronzavano solo le voci di due ragazze sedute dietro di lei, una castana con le mèches bionde e una completamente mora, che a quanto le parve di capire ridevano dei suoi capelli e di come era vestita. Nulla di nuovo, insomma.

“Adesso farò l’appello”, annunciò solennemente la preside, facendosi passare un fascicolo da una collega. “Appena il vostro nome sarà pronunciato vi alzerete in piedi e direte presente, infine andrete a consultare i tabelloni per conoscere l’orario e le classi che frequenterete.”

Il primo nome venne pronunciato e Satèle drizzò bene le orecchie. Doveva conoscere assolutamente quello del ragazzo misterioso.

 

Markus sperava con tutto il cuore di avere qualche corso in comune con la ragazza albina. Ogni volta che veniva chiamato un nome femminile guardava in ogni direzione per scoprire quale fosse il suo, ma ne aveva scartati già decine.

Il prossimo a essere pronunciato fu Angel Hassler, ma neanche questo corrispondeva a lei. Il cognome, però, gli suonava familiare.

 

“Satèle Johns.”

Ecco, era arrivato anche il suo turno. Satèle sapeva cosa sarebbe successo non appena si sarebbe alzata in piedi per rispondere presente.

Tutti la fissavano a bocca aperta e nessuno si risparmiava i commenti sul suo aspetto, sul modo in cui era vestita, sul trucco, perché a detta di qualcuno “chi si trucca così a undici anni è per forza una poco di buono.” Tutti si sentivano in diritto di giudicarla, ma nessuno di conoscere il suo vissuto, i suoi problemi, il motivo che la induceva a fare certe cose.

Una volta, quando era più piccola, sua zia le disse una frase che lei ancora ricordava e di cui aveva fatto tesoro: “Quando ti avvicini a una persona, falle capire prima di tutto che vuoi solo conoscerla e non farle del male, che sei venuta in pace, perché fermandoti all’apparenza non saprai mai se questa ha una guerra dentro di sé che sta combattendo da sola.”

 

Satèle, si chiama Satèle, ripeté Markus. Una ragazza così particolare non poteva non avere anche un nome particolare.

Markus non era stato l’unico a notarla, ma voleva essere l’unico a scoprire la sua storia e portarne il segno dentro di sé.

 

La prossima a essere chiamata fu la ragazza mora, che rispose al nome di Kelly Kramer.

Insieme all’amica non smise di malignare su Satèle neanche quando andò a consultare il tabellone.

Queste due andrebbero assai d’accordo con Coco, pensò lei.

La preside cambiò pagina e continuò l’appello.

“Markus Lancaster.”

“Presente.”

Il ragazzo dai capelli neri si alzò in piedi e si diresse verso il tabellone.

Satèle lo seguì con la coda dell’occhio per tutto il tempo, finché non ritornò al proprio posto.

Non volle lusingarsi, ma il cenno che lui fece prima di risedersi sembrava rivolto proprio a lei.

La prossima a essere chiamata fu una tale Melissa Richardson. La ragazza che rispose camminò verso il tabellone come se stesse sfilando in passerella, con il vestito e gli accessori firmati ben in mostra, una mano fra i capelli biondi artificiali e l’altra che mandava un bacio a tutti i ragazzi seduti in prima fila mentre ritornava dalla sua amica Kelly Kramer.

 

L’elenco era stato sfoltito e alla preside non restò che augurare un buon proseguimento di giornata e un buon anno ai ragazzi, che si riversarono a mo’ di gregge in corridoio.

Satèle rimase ferma ad attere che la folla si smembrasse, poi sentì una mano fredda che le toccava la schiena e una voce maschile un po' rauca che le disse ciao.

Si voltò e quasi non credette ai propri occhi: era lui!

Markus Lancaster era a un passo da lei, la distanza perfetta da cui avrebbe potuto guardarlo. I suoi occhi da gatto erano di un grigio chiaro glaciale, mentre il suo viso appuntito era cosparso di lentiggini. Ed era bellissimo.

“Ciao”, rispose Satèle con il cuore in gola.

“Prima ho notato la tua maglietta, volevo dirti che mi piace. Sia la maglietta che la band, ovviamente… e anche i tuoi capelli”, disse Markus, mostrando un sorriso a trentadue denti perfetti che Satèle ricambiò.

“Grazie…” Finse di non ricordare il suo nome per non sembrargli eccessivamente interessata.

“Markus”, le strinse la mano.

“Invece io sono…”

“Satèle”, la precedette lui, “giusto?”

“Sì”, annuì lei. “E comunque anche a me piacciono… i tuoi capelli e la tua felpa, intendo.”

Ammiccò per reggergli il gioco, poi cambiò argomento.

“Stavo leggendo di nuovo sul tabellone per capire in quale classe devo andare.”

“Ottimo, anch’io.”

Markus iniziò a scorrere l’elenco con il dito.

“Incredibile!”, esclamò. “Be’, Satèle, sembra che io e te abbiamo tutti i corsi in comune.”

“Giura!”

Markus le indicò i loro nomi sull’elenco e Satèle sgranò gli occhi, dentro di sé stava gridando di gioia.

“Ti va se ci sediamo sempre vicini?”, gli chiese un po' su di giri.

“Certo! Mica ti dispiace se prendiamo gli ultimi banchi? Lontani dalle persone…”

“No, anzi! Io sono una schiappa, più lontana sto dai prof meglio è. Tu, invece, come te la cavi? Ti piace studiare?”

“Ammetto che sono bravo, ma non mi piace studiare. La scuola mi fa schifo e i prof. pure, glielo si legge in faccia che gl’interessano solo i soldi. La maggior parte di loro non sa neanche insegnare.”

Satèle gli diede il cinque. “Credo proprio che io e te andremo d’accordo.”

Markus la guardò di nuovo negli occhi. “Molto d’accordo”, rispose.

Lei si sentì avvampare e non capì perché. “Andiamo in classe?”, suggerì. Cambiare argomento era un valido espediente per evitare l’imbarazzo.

“Aula venti, piano terra”, convenne Markus.

Percorsero il corridoio camminando fianco a fianco, i passi sincronizzati, e nel frattempo Satèle aveva mangiato due muffin ai mirtilli e bevuto un succo di frutta. Aveva messo più snack che libri nello zaino.

“Sei una di quelle persone che mangiano sempre e non ingrassano, vero?” le chiese Markus.

“Già.”

“Idem.” Il ragazzo tirò fuori dallo zaino un grosso panino al salame e lo addentò. Quella era solo la colazione e per consumarla stava già infrangendo una regola: vietato mangiare in corridoio.

Furono i primi a raggiungere l’aula e, come promesso, occuparono gli ultimi banchi della fila accanto alla porta, attendendo l’arrivo sia del resto dei loro compagni che dell’insegnante della prima ora, un certo Miller.

Procedeva tutto nel verso giusto e Satèle si sentiva sollevata, soprattutto perché aveva finalmente avuto la fortuna dalla propria parte e questa le aveva fatto conoscere Markus, con il quale sperava di instaurare una bella amicizia.

Le risate un po' sguaiate di due ragazze precedettero il loro ingresso in aula. Satèle quasi trasalì quando realizzò che queste erano Melissa Richardson e Kelly Kramer. Anche loro, non appena si accorsero di lei, smisero di ridacchiare e le rivolsero un sorrisetto mellifluo. Per raggiungere il posto che si era scelta, Melissa fece un giro intorno al banco di Satèle e strusciò una mano sulla superficie, poi le diede un pizzicotto su una spalla.

Satèle si corrucciò e la guardò di sbieco, ma lei non se ne accorse perché si era già seduta dal lato opposto: ultimo banco, vicino alla finestra.

“Ma chi è quella?”, chiese sottovoce Markus.

“Una che già mi odia, probabilmente.”

 

Avendo un fratello che aveva già frequentato la sua stessa scuola circa una decina d’anni prima, Angel si sentiva in un certo senso avvantaggiata, perché Shane le aveva già spiegato molte delle cose che c’erano da sapere sulla McClaine. Una di queste era che per il bagno delle femmine c’era sempre una fila chilometrica.

Davanti a lei stavano ancora altre sei persone, di cui tre avrebbero sicuramente perso tutto il tempo a truccarsi, visto che in mano avevano il beauty case. Angel non riusciva più a trattenersi, inoltre doveva andare in classe e non ci teneva ad arrivare in ritardo il primo giorno. Vide che il bagno dei maschi era libero, quindi abbandonò la fila e si ritirò in un angolo; nascose i capelli sotto il berretto e vi entrò, facendo ben attenzione a tenere la testa sempre bassa.

Se nessuno l’avesse guardata in faccia, si sarebbe confusa tra i maschi senza problemi. Non che le dispiacesse, anzi: con loro, almeno, trovava qualche punto in comune. Con le ragazze, invece, sì che Angel si sentiva incompatibile. Odiava tutto ciò che loro amavano: fare shopping, scambiarsi effusioni e darsi nomignoli sdolcinati, parlare di trucco, prime cotte e film romantici.

Chi aveva provato a cambiarla, in passato, aveva sempre fallito: la sua indole da maschiaccio prendeva il sopravvento.

Una volta finito lavò le mani e uscì dal bagno, tolse il berretto e si diresse verso la sua classe.

Fortunatamente il professore non era ancora arrivato, così come il resto dei suoi compagni.

Al momento c’erano solo quattro persone. Le due ragazze sedute in fondo, accanto alla finestra, parlottavano tra loro e ridacchiavano. Come due papere spennacchiate, avrebbe detto Angel. Volle sedersi lontana da loro, pertanto occupò il terzo banco della fila accanto alla porta e si voltò all’indietro. Due banchi dietro di lei, agli ultimi, erano seduti una ragazza albina e un ragazzo dai capelli neri, che chiacchieravano in maniera più composta. A prima vista quei due le sembrarono dei tipi abbastanza interessanti, specialmente lei. Dal modo in cui si comportava non sembrava vanitosa ed esibizionista come le altre.

Angel decise di fare un tentativo con entrambi, perciò si alzò e gli andò vicino. Siccome nemmeno loro sembravano sopportare quelle due oche, pensò di usare quella come scusa per iniziare la conversazione.

“Scusate, ragazzi, uno di voi saprebbe farmi da traduttore? Vorrei capire cosa dicono quelle due là in fondo.”

Markus e Satèle si guardarono e sorrisero.

“Spiacente, non parlo la lingua delle papere”, scherzò lui.

Era certo di aver visto quella ragazzina in sala convegni e per questo la riconobbe subito: bassina, leggermente muscolosa, capelli ricci castano rame raccolti in due trecce e occhi color nocciola. Indossava una camicia blu scuro, dei pantaloni cargo grigi e delle sneakers, il tutto comprato in un reparto maschile, a partire dalla camicia che aveva i bottoni sul lato destro.

“Come ti chiami?”, le domandò.

“Angel Hassler.”

Da quella risposta venne fuori che i due avrebbero dovuto già conoscersi in passato, da piccolissimi, in quanto Markus era il cugino di Ray Lancaster, un caro amico di Shane che dopo il diploma era andato a vivere a Londra.

“Tu, invece?”, chiese Angel a Satèle.

La ragazza si presentò e la invitò a cambiare posto e sedersi appena davanti a lei.

“No, grazie, preferisco stare qui,” declinò Angel.

“Perché?”

“Perché così posso fare questo”. Raccolse dal banco la carta stagnola in cui era avvolto il panino che Markus aveva mangiato, la appallottolò e la lanciò, spedendola dritta nel cestino.

“Wow!”, esclamò Satèle. “Giochi a basket?”

“Sì, da quando ero piccola. So che la nostra scuola ha una squadra, infatti quando apriranno le selezioni vorrei andare a fare il provino e sperare di entrarci.”

“Però, da quel che so, nessuna ragazza qui ha mai giocato a basket”, precisò Markus.

Angel alzò le mani e disse: “Significa che sarò la prima. Qualcuno deve pur farla, la rivoluzione.”

Markus e Satèle la guardarono ammirati. Gli piacque quella scintilla di determinazione che brillava nei suoi occhi.

Intanto tutti i posti si erano riempiti e, poco dopo, arrivò anche il professore.

Satèle subì un ulteriore smacco quando lo vide: era il tizio contro cui era andata a sbattere mentre raggiungeva la sala convegni.

I suoi compagni si alzarono in piedi per salutarlo e lei fece altrettanto.

“Buongiorno, ragazzi”, rispose Miller. “Potete sedervi, non tengo a queste formalità. Innanzitutto, buon primo giorno di scuola. Come avrete capito, io sono il professor Miller e sarò il vostro insegnante di matematica, ma spero di riuscire insegnarvi anche qualcos’altro durante quest’anno. Sostengo che la didattica non sia tutto e che per fare l’insegnante bisogni saper dare anche lezioni di vita ai propri studenti, perciò non esitate a venire da me se volete qualche consiglio.”

Si sedette alla cattedra e prese il registro, diede una rapida occhiata all’elenco e aggiunse: “Adesso tocca a voi presentarvi. Prima di introdurvi il programma farò l’appello, ma dirò soltanto il vostro nome, perché è questo che mi interessa memorizzare per prima, insieme al vostro volto. Non amo chiamare i miei ragazzi per cognome, preferisco che fra noi ci sia un rapporto più confidenziale.”

“Questo qui mi è quasi simpatico”, sussurrò Markus all’orecchio di Satèle.

Lei annuì debolmente e si umettò le labbra. Ebbe l’impressione che il professore, nonostante stesse chiamando ancora gli altri, guardasse soltanto lei. E credeva di sapere perché.

“Satèle.”

Pronunciato da lui, il suo stesso nome le suonò diverso, più dolce, ma forse era solo troppo abituata al tono imperativo con cui le si rivolgevano i genitori.

“Si pronuncia così?”

Satèle annuì.

“Bel nome”, le sorrise dolcemente Miller.

Gli sguardi di tutti erano nuovamente puntati su di lei, ma stavolta non c’entravano i suoi capelli, i suoi vestiti, neanche il trucco sugli occhi.

Con un filo di voce Satèle ringraziò e tornò a sedersi, augurandosi che tutta quell’attenzione su di sé si spostasse altrove.

La lezione proseguì tranquilla e lei la trovò quasi interessante, sebbene detestasse la matematica. Se c’era una cosa che aveva capito di quel Miller, era che sapeva farsi piacere.

Quando la campanella suonò, nessuno lasciò l’aula senza dirgli un arrivederci, al quale lui rispose con un saluto collettivo.

Satèle fu l’unica a essere salutata singolarmente.

 

Il primo giorno di scuola stava per volgere al termine.

Dopo il professor Miller, Satèle, Angel e Markus avevano conosciuto l’insegnante di storia, quella di scienze e quella di grammatica, che a Markus stava già antipatica a pelle.

In quel momento si stavano destreggiando fra i tavoli della mensa per decidere a quale sedersi. Dopo la pausa pranzo avrebbero avuto un’ultima ora e dopo sarebbero stati liberi di tornare a casa.

Markus aveva adocchiato un tavolo perfetto per tutti e tre: era in fondo alla sala, abbastanza isolato dalle persone come piaceva a lui, lontano dalla finestra e dai raggi solari per Satèle e vicino al cestino, così Angel avrebbe potuto buttare i rifiuti facendo canestro.

Poggiarono i vassoi e iniziarono a mangiare. Un’altra tradizione della McClaine era la pizza gratis il primo giorno.

“Dài, ragazzi, io vi ho già detto che gioco a basket, adesso ditemi voi cosa vi piace fare nel tempo libero”, li incitò Angel dopo aver finito la sua fetta.

Markus rispose che, oltre a leggere, gli piaceva suonare la batteria.

“Io invece suono il pianoforte e studio canto”, disse Satèle.

I ragazzi la supplicarono di fargli sentire qualcosa e lei intonò il ritornello di Let It Be dei Beatles, un classico che tutti conoscevano.

Markus e Angel non furono gli unici ad ascoltarla, anche dagli altri tavoli si levarono dei piccoli applausi e qualche fischio.

Markus rimase letteralmente a bocca aperta. Il suo istinto aveva indovinato, quella ragazza aveva davvero qualcosa di speciale.

“Hai una voce stupenda”, disse incantato, completamente perso nei suoi occhi.

Angel schioccò le dita per farlo rinsavire e concordò con lui: Satèle aveva davvero una voce unica, delle più belle che avesse mai sentito.

Dello stesso parere era anche Coco, da sempre invidiosa della dote della sorella, che però si avvicinò al suo tavolo solo per schernirla davanti alle sue amiche come al solito.

“Che vuoi?”, tagliò corto Satèle, le braccia conserte.

“Vedo che ti fai notare, sorellina cara. Menomale che sai almeno cantare, perché per il resto…” Coco coprì la bocca con le mani e iniziò a ridere aggrappandosi alle spalle delle sue amiche, che la seguirono a ruota.

“Ci vediamo dopo, sfigata!”

Non appena si allontanò assieme al suo gruppetto, Satèle si rivolse a Markus e Angel. “Lasciatela perdere, fa sempre così.”

“Davvero è tua sorella?”, chiese Angel incredula. Come biasimarla, Satèle e Coco erano agli antipodi sia – stando a quanto aveva dedotto dall’atteggiamento della maggiore – per carattere che per aspetto: una era albina, l’altra era mora come la madre; una era magrissima, l’altra era normopeso; una vestiva di nero, l’altra preferiva i colori pastello. Perfino l’azzurro degli occhi era diverso (quello di Coco era più scuro) e nemmeno i tratti somatici coincidevano.

“Già”, sospirò Satèle, “visto che tortura?”

Aveva di nuovo parlato troppo presto, perché stavolta fu Melissa ad avvicinarsi al tavolo facendole il gesto della L come loser, perdente, al quale lei rispose sollevando il dito medio, che fece battere la rivale in ritirata.

“Ottimo lavoro”, fece Markus, “le sta bene.”

Nel frattempo Angel strappò la linguetta a una lattina di aranciata e versò il contenuto nei bicchieri di Markus e Satèle, poi nel proprio, che sollevò a mezz’aria.

“Perché?” domandarono i due.

“Brindiamo a noi. Al tavolo degli sfigati!”

Markus e Satèle si guardarono e accostarono i loro bicchieri al suo.

“Al tavolo degli sfigati!”

Formavano un bel trio, dopotutto. Impiegarono il tempo rimasto per conoscersi meglio, parlare dei loro gusti e interessi.

Nessuno osò tirare in ballo la propria famiglia, doveva essere un tasto dolente per tutti e tre.

 

L’ultima campanella era suonata ed era giunta l’ora di tornare a casa.

Prima di salutarsi e proseguire ognuno per la propria strada, i tre ragazzi si diedero appuntamento per il giorno dopo.

Nessuno di loro si sarebbe mai aspettato che il destino li avrebbe fatti conoscere, ma quell’incontro fortuito si era dimostrato quasi salvifico per tutti.

Per Markus, che quando chiamò sua madre per avvisarla di star tornando disse che da quel giorno in poi non sarebbe stato più solo.

Per Angel che la sera, a cena, raccontò a suo padre e a Shane di aver conosciuto una ragazza diversa da quelle con cui aveva sempre avuto a che fare e il cugino di Ray. Quando lo seppe, Shane telefonò subito l’amico per raccontargli la notizia.

Per Satèle, che sperava di diventare una buona amica per loro. Nel pomeriggio riposò un po' e studiò gli spartiti che le aveva dato Vanessa, la sua insegnante di canto. Era Dia a pagarle le lezioni, non perché i suoi non ne avessero la possibilità, ma semplicemente perché non volevano. A proposito di sua zia, le aveva promesso che l’avrebbe chiamata, perciò in serata la telefonò e le raccontò tutto del primo giorno di scuola. Purtroppo non poté trattenersi a lungo, sua madre dalla cucina le stava gridando di andare ad apparecchiare la tavola.

Satèle avrebbe voluto tanto condividere la sua gioia con Casey, perciò prima di andare digitò ugualmente il suo numero, nonostante sapesse perfettamente che non doveva aspettarsi alcuna risposta.

   
 
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