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Autore: Ombrone    27/08/2021    1 recensioni
Il mio primo, e spero non rimanga unico, racconto ad essere pubblicato sia in elettronico che in cartaceo. Scritto per una breve antologia di racconti ambientati nel medioevo bizantino.
Spero vi piaccia
Tornare a casa non è sempre facile.
Genere: Avventura, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Armenia, X Secolo. Tema di Taron a nord del lago di Van, sotto il regno di Basilio II

 
In un gesto per lui abituale Hovhannes strizzò gli occhi, socchiudendo il destro, ormai appannato dalla cataratta, per osservare meglio la situazione usando l’occhio ancora nitido.
La forra era piena dell’acqua delle recenti piogge, che scorreva veloce, ruggendo e riempendo l’aria di spruzzi; al familiare odore di terra e muschio del bosco si univa un sentore frizzante. L’unica maniera per attraversare era utilizzare il ponticello malridotto alla sua destra. Un tempo era stato sicuramente un’opera di pregevole e solida fattura, ma, adesso, solo le colonne in pietra, che si poggiavano nel corso del fiumiciattolo in piena, rimanevano salde e al posto degli archi, crollati per il tempo, l’incuria e l’azione di uomini certamente malvagi, c’era solo un traballante tavolato, tenuto fermo in maniera misteriosa e sicuramente provvisoria ed instabile
Non gli piaceva quel ponte, non gli piaceva quel fiume e non gli piaceva quel posto. In fin dei conti, non gli piaceva tutta la situazione: gli stava antipatico il silenzioso monaco vestito di nero che lo seguiva, gli stava antipatico il mulo che portava le provviste e i bagagli e si dimostrava mordace e indisponente oltre il limite ammissibile anche per un animale della sua razza. Oggi non sopportava neppure il buon Rupen che, avvolto nel suo mantello di pecora, combatteva una battaglia di tenacia nel trascinare la malabestia, non lo sopportava, malgrado fosse il suo fidato compagno da anni ormai e lo avesse seguito fedelmente da un capo all’altro del mondo conosciuto.
Hovhannes, però, era sempre stato un animo riflessivo, sotto le apparenze ruvide dell’uomo d’arme e d’azione, e capiva di essere arrabbiato soprattutto con sé stesso. Il problema non era né della situazione contingente né dei suoi compagni, era lui stesso. Non dipendeva solo dal fatto che invecchiando stava diventando sempre più burbero, ma si sentiva realmente insoddisfatto di sé stesso: si era ormai convinto di aver fatto un grosso errore tornando a casa nella sua terra natale. Avrebbe fatto di gran lunga meglio ad accettare l’offerta che gli avevano fatto quando aveva deciso di congedarsi: una bella proprietà nell’assolata Grecia o in Italia, terra fertile. Il che lasciava sperare anche in una bella vedova interessata a un ricco possidente e magari persino una giovane vergine e dei figli ed eredi. Fondare una famiglia e costruire una casa. Ma in una terra straniera. Ecco perché era lì, di nuovo.
Non avrebbe saputo dire nemmeno lui cosa si era aspettato tornando in Armenia, ma certamente non quello che aveva trovato. Nessuna accoglienza festante, anzi suo fratello lo aveva ricevuto con sospetto, quasi come uno sconosciuto. Negli occhi la chiara paura che quell’uomo grosso e segnato dalle intemperie e dalle spade dei nemici fosse lì per rivendicare la sua parte di eredità delle terre paterne. Lo sguardo era cambiato quando si era reso conto che lui non aveva pretese e anzi aveva con sé abbastanza ricchezze da comprarsi da solo la tenuta più ricca della tema. L’avidità aveva sostituito il sospetto. Uno sguardo, se possibile, anche più spiacevole.
Se non aveva trovato la casa che si aspettava, non aveva neppure trovato il paese che ricordava da giovane. Quella che aveva trovato in realtà era una terra di confine perennemente in guerra. Una terra dove, dopo tanti anni, veniva guardato con la diffidenza che si dedica ad uno straniero.
Si riscosse dai pensieri, e si accarezzò i baffi che iniziavano ad ingrigire.
“Attraversiamo.” Disse. “Risaliamo un po’ il costone sull’altro lato. E ci sistemiamo per la notte. Ricordo un posto riparato e nascosto in cui possiamo accendere un fuoco, per riscaldarci e mangiare qualcosa di caldo.” Nessuno disse niente e aggiunse “Attenti a dove mettete i piedi, se cadete in acqua qui potete solo raccomandare l’anima a Nostro Signore.”
Era, lo sapeva, un avvertimento inutile: il mulo per quanto ostile aveva i piedi saldi tipici della sua razza, Rupen era una specie di capra a due zampe, e persino il prete, per quanto la lunga barba fosse di un bianco candido che testimoniava una età veneranda, aveva il passo fermo e sicuro, aveva affrontato la marcia senza lamentarsi e senza rimanere indietro.
Sbuffò, in qualche maniera irritato ancora di più dal non avere vere ragioni essere irritato. Si assicurò il grande scudo rotondo sulle spalle per non farsi sbilanciare e mosse il primo passo sulle tavole del ponte.
 
 
Il bosco era silenzioso intorno a loro, la quiete rotta solo da Rupen che zufolava sottovoce un ribaldo motivetto popolare tra i soldati. Per fortuna si limitava al motivo senza pronunciarne le parole che descrivevano gli occhi neri, e altre più profane attrattive, della bella figlia di un locandiere. Non il testo più adatto vista la compagnia di un monaco.
Seduto vicino al fuoco, ben avvolto nel suo ricco mantello bordato di ricami, Hovhannes era per la prima volta nella giornata moderatamente soddisfatto. Dipendeva di sicuro dal tepore che iniziava a pervaderlo e dallo stomaco piacevolmente pieno. Rupen aveva cucinato una pappa di semola e avena, aromatizzata da pezzetti di lardo e cipolla e da alcune erbe che aveva raccolto durante la marcia, che aveva avuto un effetto quasi miracoloso nel saziarli e riscaldarli. Poteva essere piuttosto stonato nel cantare, ma nel cucinare in qualsiasi situazione si trovasse e con qualunque cosa avesse a disposizione aveva pochi rivali. Lo stomaco pieno aiutava un uomo e non solo tenendo in forze il suo corpo.
Di certo non si poteva negare l’influenza dello stomaco sullo spirito, riassaporò l’idea che gli era balenata in mente. Era talmente profonda che di sicuro doveva averla detta qualche saggio filosofo dell’antichità, ma, per quanto si sforzasse, non si ricordava minimamente chi potesse essere stato.
Stomaco a parte, era decisamente soddisfatto di essere ancora in grado di orientarsi tra quei monti dopo tutti gli anni di assenza. Il sentiero era ancora quello che si ricordava e anche lo spiazzo dove si erano fermati. Il ponte no, il ponte se lo ricordava ancora in piedi quando era ragazzo, ma comunque erano riusciti ad attraversarlo senza incidenti. Solo il mulo aveva dato problemi: arrivato sul bordo del ponte aveva drizzato le orecchie, allargato le froge pallide e puntato i piedi. Nella sua equina saggezza non scorgeva nessuna sostanziale differenza tra le due sponde e non vedeva proprio la necessità di rischiare la vita inutilmente su quel tavolato instabile. C’erano voluti parecchi calci ben assestati per smuoverlo.
Aveva già in mente la strada da percorrere il giorno dopo, non appena fosse sorto il sole, e sperava che anche quella non fosse troppo cambiata, che una qualche frana non avesse sconvolto tutto trasformando un ben protetto sentiero boschivo in una ravina esposta ed insidiosa.
Non era quello che aveva in mente quando si era offerto di scortare quel dannato monaco al suo nuovo monastero, dove doveva prendere posto come nuovo Abate. Doveva essere una comoda cavalcata per attraversare un passo frequentato, una notte in una stazione di posta o magari nella foresteria di un altro monastero a mezza via. Niente di troppo gravoso o complicato, giusto una buona azione per iniziare a farsi accettare e benvolere. Quella del fratello gli era sembrata un’ottima idea, anche se capiva che era anche un modo per disfarsi della sua ingombrante presenza per almeno qualche giorno.
Invece, subito prima del passo, era successo l’imprevedibile, la strada, se così si voleva chiamarla, era intasata da gente in fuga da una incursione di infedeli, curdi delle montagne. Le voci davano lo stesso Bādh ibn Dustak al comando, migliaia di cavalieri armati fino ai denti, con l’intenzione di travolgere tutta l’Armenia e tutto l’Anatolia fino al Bosforo.
Erano sciocchezze ovviamente, ingigantite dal panico come sono sempre queste voci: era solo una razzia, come accadeva spesso, magari più in forze del solito per approfittare delle ribellioni che tormentavano l’Impero e vedere quali sarebbero state le reazioni. Di Badh Ibn Dustak aveva sentito parlare: il pastore che aveva lasciato le sue pecore per impugnare la spada e che si era conquistato il suo piccolo regno tra i curdi delle montagne, in equilibrio tra il Basileus dei Romani al nord e i sultani che governavano gli infedeli a sud in Mesopotamia. No di certo, non era niente di più che una incursione seppur sanguinosa.
Però lui non poteva fare molto da solo e con quel monaco appresso, quindi aveva fatto l’unica cosa saggia da fare in questi casi: rifugiarsi in montagna. Abbandonare la vallata e i cavalli e scavalcare la montagna passando per i sentieri conosciuti solo ai locali. Così la comoda cavalcata si era trasformata in una lunga marcia che avrebbe spezzato le gambe a uomini ben più giovani di lui.
Si riscosse dai pensieri accorgendosi che Rupen aveva smesso di cantare, messo in allarme da qualcosa che si muoveva nel sottobosco. Un fruscio lieve e cauto. Scosse la testa: era troppo lieve e troppo cauto per essere qualcosa di pericoloso. Rupen rispose aggrottando le sopracciglia poco convinto. Era così tra di loro, non servivano quasi parole.
Il dubbio venne risolto a suo favore quando, dopo pochi istanti, l’ombra di un grosso gufo passo sopra di loro silenziosa come un fantasma. Il fruscio si trasformò in una corsa frenetica nel sottobosco per concludersi con uno squittio disperato e agonizzante. Un ultimo fruscio di foglie, un rametto che si spezzava e il gufo riprese il volo con qualcosa stretto nelle zampe. Si concesse un sorriso soddisfatto rivolto a Rupen, che scosse le spalle con una smorfia, odiava avere torto.
“Ecco da dove vengono tante storie e leggende di fantasmi.”
La voce del monaco lo colse di sorpresa, era rimasto in silenzio quasi tutto il giorno, tanto da fargli pensare che fosse un voto di qualche tipo. La sua voce mal si adattava all’aspetto anziano era forte e vigorosa, quasi giovanile.
“La notte è sempre piena di creature strane,” ammise, “ma questo era solo un semplice gufo a caccia di un semplice topo.”
“Voi ne avete viste di cose strane immagino, avete viaggiato molto.” A quanto pareva voleva fare conversazione.
“Sì molto, sono stato lontano molto anni.”
“Vestite come un Romano, infatti.” Ecco dove voleva arrivare, anche lui, si rattristò Hovhannes, la voglia conversare improvvisamente svanita, ma rispose:
“È vero, il mantello l’ho comprato a Costantinopoli e cosi i miei stivali.” E andava orgoglioso di entrambi: quel mantello rosso scuro, bordato di ricami dorati e i morbidi stivali di pelle gli erano costati un occhio della testa, venivano entrambi dalle migliori botteghe della Mese e non sarebbero sfigurati neppure a corte.
Il monaco tacque un attimo, gli occhi erano neri e profondi, insondabili nel buio della notte, ma sul suo visto sembrò passare una smorfia.
“Avete servito l’Imperatore dei Romani.” Non era una domanda, ma sembrava tanto una accusa.
“È vero,” ripeté, “in molte terre e contro molti nemici. Sono un soldato.” Concluse, in una maniera che gli suonò stranamente debole. Smise quasi di respirare aspettandosi la prossima invitabile domanda, quella che gli rivolgevano tutti da quando era tornato in Armenia, preoccupati e incerti: quante nature credeva avesse Cristo?
Invece l’abate distolse un attimo lo sguardo, abbassandolo a fissarsi i piedi, e quando rialzò il viso si limitò a dire:
“Vi sono molto grato di avermi scortato e del vostro aiuto. Non so come avrei fatto senza di voi e la vostra esperienza, visto quello che sta succedendo.”
“Ne sono lieto.” Borbottò, sorpreso. “Sono lieto di aiutarla.” Era sollevato di non dover rispondere per l’ennesima volta su come avesse fatto a combattere e servire insieme a degli eretici diofisiti, ma sapeva che c’era poco da sperare che nella mente del futuro abate non si agitasse il dubbio di star viaggiando accanto ad un eretico destinato alla dannazione. Come spiegargli che per lui, e per tanti altri soldati come lui, era normale? Romani fuori, Armeni dentro, così si diceva e nessuno faceva troppe domande.
“È meglio dormire.” Provò allora tagliar corto. “Domani sarà una giornata ancora più dura. Io e Rupen ci alterneremo coi turni di guardia.”
“Posso farli anch’io.” Rispose il monaco e aggiunge a spiegazione. “Sono abituato a vegliare per pregare, posso stare sveglio per sorvegliare e pregare.”
Hovhannes assentì.
“Va bene, ma inizierò io, la sveglierò quando sarà il suo turno e poi toccherà a Rupen. Ora riposi, mi dia retta.”
“Prima però ringraziamo il Signore con un Padre Nostro per averci protetto oggi.”
Non gli si poteva certo dire di no, anzi ringraziare il Padre, e tutti i Santi per essere arrivati sin là era giusto e doveroso. Hovhannes si mise in ginocchio, subito imitato da Rupen che assunse la sua aria più pia, pronto a ringraziare Dio se non per la giornata, sicuramente per la fortuna di avere un turno di guardia più corto.
L’abate si inginocchiò di fronte a loro, fece un segno e della croce e iniziò.
Alle labbra di Hovhannes salirono istintive le rassicuranti parole a cui era stata abituato in tutti questi anni:
“Pater hēmōn, ho en tois ouranois
hagiasthētō to onoma sou;”
e rimase sbalestrato sentendo il monaco recitare in armeno:
“Hayr mer, vor hergeens yes
Soorp yegheetsee anoon ko”
Per un attimo, si sentì di nuovo un ragazzo in piedi accanto a suo padre con tutta la famiglia nella chiesa della tenuta, incespicò nelle parole e perse il ritmo e borbottò il resto sottovoce, fino all’amen finale.
L’abate si coprì la testa con il cappuccio e non riuscì a distinguere la sua espressione, cosa dicessero i suoi occhi, se stesse ridendo di lui o fosse scandalizzato.
“Adesso è meglio che mi metta a dormire. Avete ragione. Buonanotte figliolo, svegliatemi al mio turno.”
La sua voce non rivelava niente. Si avvolse nel mantello e in una coperta e si distese, lasciando Hovhannes da solo nella notte, con uno strano tumulto alla bocca dello stomaco.
 
 
Quando qualcosa nasce male di solito finisce male, se non peggio. Questo era quanto anni di esperienza gli avevano insegnato. D’altra parte, altra lezione importante imparata sin da giovane, quando non hai alternative ti tocca stare al gioco.
Fin lì erano arrivati e mancava veramente poco per arrivare alla sua meta, al monastero dove avrebbe consegnato il caro Abate e si sarebbe liberato da questo impiccio. Mancava davvero molto poco, si poteva sperare di arrivarci entro sera risparmiandosi un'altra notte all’addiaccio.
Solo che c’era un intoppo, quello che stavo osservando dal costone, disteso pancia a terra, nascosto dietro un rado cespuglio che si aggrappava alle rocce ai bordi del bosco.
Un centinaio di metri sotto di lui, proprio in piena vista del sentiero che aveva sperato di percorrere, una colonna di cavalieri marwanidi avanzava senza molta cautela come se fossero i padroni del mondo o almeno di quel tratto di terra arida e pietrosa.
Erano, forse, poco più di un centinaio, bei cavalli, ben attrezzati e armati: le armature scintillavano, i finimenti sembravano nuovi. Era probabilmente una delle colonne di collegamento tra le principali direttrici dell’incursione, rastrellava le vallate laterali per controllare che non ci fossero nascoste truppe che potessero colpirli alle spalle, o magari una piacevole occasione di bottino da non perdere.
Erano arroganti e sicuri di sé, fin troppo, a muoversi così senza precauzioni. Per la rabbia sferrò un pugno sul terreno. Se solo avesse avuto 50, ma che dico, anche solo 40 uomini abili e decisi, in quella valletta avrebbe potuto far scorrere molto sangue nemico. Un posto stupendo per un agguato. Invece era solo a parte Rupen e il Monaco. Quindi niente da fare.
Immaginava che il Temarca avesse a questo punto radunato le sue truppe e fosse quanto meno in marcia, ma, se non era stupido, avrebbe atteso al di là dei passi. Senza avere una chiara nozione di quanti e dove fossero i nemici era inutile correre il rischio di un agguato o di una battaglia improvvisata. Avrebbe lasciato quelle valli al nemico e avrebbe sfidato Bādh ibn Dustak ad affrontarlo su un terreno scelto da lui, se voleva, o altrimenti tornarsene a sud con quello che era riuscito ad arraffare tra le montagne.
Una strategia solida ed efficace, quella che avrebbe seguito anche lui, ma che sembrava totalmente insoddisfacente quando ti sfilava sotto gli occhi una splendida occasione di sferrare un colpo ben assestato ed erano le tue terre quelle abbandonate al nemico.
Era occupato in questi pensieri, quando al suo fianco strisciò Rupen, silenzioso come un serpente, che occhieggiò anche lui in basso, tenendosi nascosto dietro una delle rocce.
“Che brutta gentaglia.” Disse. “Tutti infedeli senza Dio. Che bei cavalli, però.” Si leccò le labbra. “Gran bei cavalli davvero.” Si guardarono senza parlare per un attimo e poi andò a parare dove Hovhannes si immaginava. “Se facessero campo, un bel scherzo gli si potrebbe fare, vero, mio signore?” Il pensiero gli illuminò gli occhi e la bocca si piegò in un sorriso spiacevole. “Tutti quanti glieli potremmo portare via. Un paio di gole tagliate e via con quei bei cavallini.” Imperturbato dal silenzio di Hovannes andò avanti. “Bei cavalli da riempire di gioia il cuore di un uomo… e di monete la sua borsa. Ricordate, signore? Come facemmo quella volta a Capua. Vero signore?”
“No, abbiamo altro da fare.” Tagliò corto Hovhannes. “Un altro compito.” E poi, prima che potesse ribattere. “Non ti avevo detto di stare col monaco? Dove lo hai lasciato?”
Rupen non sembrò minimamente toccato da quell’abbozzo di rimprovero.
“Al sicuro, sta ben nascosto tra gli alberi, col mulo. Sta al sicuro.”
Hovhannes non considerava Rupen un semplice servitore, avevano viaggiato e combattuto insieme per troppi anni. In troppe occasioni si erano salvati la vita a vicenda, avevano combattuto spalla a spalla. Avevano diviso avventure e bottino. Vittorie e sconfitte. Per questo tollerava da lui comportamenti che non avrebbe accettato da altri e Rupen spesso si prendeva libertà che lasciavano esterrefatti chi non li conosceva. Delle volte però esagerava. Questa era una delle queste volte.
Voltandosi, lo fulminò con lo sguardo, il fatto che l’occhio appannato non si mettesse mai a fuoco bene, lo rendeva se possibile anche più strano e minaccioso, e sibilò, letteralmente per non farsi sentire:
“Sei una testa quadra, dura come quella di un montone e, dannazione a me, solo per badare alle capre ci si può fidare di te! Nessuno è al sicuro in questi boschi. Specialmente un inutile monaco più vecchio di matusalemme.” Iniziò a strisciare indietro “Muoviti idiota!”
Strisciarono indietro fino alla copertura del bosco.
“Torniamo dall’Abate, in fretta.”
Rupen rimase in silenzio, immusonito e contrariato dal rimprovero, era evidente, ma almeno non ribatté e lo seguì senza parlare.
Tra gli alberi, il sottobosco era abbastanza fitto da non permettere di vedere lontano, ma non così fitto da rendere troppo difficile muoversi. Hovhannes si trovava a casa in quei posti. Accompagnare a caccia suo padre in boschi simili era uno dei suoi ricordi più felici: la fatica della marcia, l’eccitazione trattenuta dell’attesa e dell’agguato, l’esaltazione del momento fatale e poi la soddisfazione di una preda uccisa e, soprattutto, l’orgoglio di vedere il sorriso compiaciuto di suo padre.
Risalirono il fianco della montagna, tra gli alberi, Rupen dietro di lui di un paio di passi, furtivi come se stessero seguendo un cervo, più per antica abitudine che per una scelta ragionata. Fu così che sentirono qualcosa muoversi poco sopra di loro.
Si fermarono, immobili, tendendo vigili le orecchie. Il rumore di qualcosa che si muoveva continuò, lieve, molto lieve, ma questa volta, Hovhannes ne era sicuro, non era un topo, ma qualcosa di più grosso.
Ripresero a muoversi, con la mano sull’elsa delle spade fino a che non videro un movimento e si ribloccarono istantaneamente. Delle foglie si mossero, un ramo scricchiolò e Hovhannes ebbe la certezza non si trattasse di un cervo o di un altro animale.
C’era un uomo che si stava muovendo subito sopra di loro, quasi sicuramente non un amico e per di più si trovava esattamente tra di loro e la radura dove li attendevano il monaco a il mulo.
Adesso l’importante era muoversi in silenzio e non farsi scoprire. Con un po’ di fortuna era solo uno, con un po’ di fortuna anche il monaco e quell’odioso mulo sarebbero rimasti silenziosi e magari lo sconosciuto non si sarebbe accorto di loro. Intanto però ripresero a salire, spostandosi leggermente verso destra, per arrivare almeno alla stessa altezza, per non trovarsi in svantaggio in caso di un combattimento.
Recuperarono lo svantaggio di quota, continuando a seguirlo di nascosto. Era uno dei quegli infedeli predoni e tagliagole di sicuro. Indossava una veste fluente di colore chiaro con un corpetto, niente elmo, il capo avvolto da un turbante. Aveva una spada al fianco, una faretra in spalla e in mano l’arco. In qualche maniera la cosa tranquillizzò Hovhannes, sembrava stesse andando a caccia, alla ricerca di qualcosa per arricchire la cena, non che fosse in esplorazione in cerca di nemici.
“Vattene.” Mormorò. “Tornatene dai tuoi. Vattene da qui. San Gregorio, aiutaci tu.” Giusto mentre rifletteva quale penitenza avrebbe potuto proporre in cambio della grazia del suo Santo protettore, la sorte confermò di non essere dalla loro parte e che quando qualcosa andava male c’erano poche speranze si raddrizzasse.
Il mulo, dannata bestia, potesse bruciare all’inferno, nemmeno degna di essere macellata per dar da mangiare ai cani, il mulo maledetto emise un raglio strozzato, uno solo, ma perfettamente udibile. Il maomettano di fronte a loro alzò la testa meravigliato e prima che potessero reagire si mosse in direzione del rumore, proprio sopra di lui.
Lo seguirono il più velocemente possibile e lo videro emergere nella piccola radura dove avevano lasciato il monaco. Fu questione di istanti, in combattimento è così: il tempo passa in modo strano, accelera e rallenta, fino quasi a fermarsi, un colpo di spada può sembrare lentissimo, per diventare all’improvviso velocissimo, un intero duello può terminare in un solo attimo.
Il monaco si voltò, mentre il cappuccio gli scivolava scoprendo una chioma candida quanto la barba, era chiaro, pur osservandolo di spalle, che lo sconosciuto non si aspettava quello che aveva trovato e per un istante rimase incerto e meravigliato, un istante prima di alzare l’arco e tenderlo.
Hovhannes accelerò il passo, entrando nella radura di slancio e sguainando la spada, la sua proprietà più preziosa, poco meno di quattro piedi del più splendido, luccicante, acciaio di damasco, un prezioso bottino conquistato anni prima.
L’infedele, sentendolo, si voltò di scatto. Non indossava un’armatura, ma un corsetto leggero. Gli occhi erano neri come i suoi, la carnagione forse un filo più scura, ma forse no. Tracce di peluria morbida gli decoravano il mento e le guance di una specie di barbetta appena spuntata. Era giovane, più giovane di quando lo fosse Hovhannes la prima volta che era andato in guerra, a malapena un uomo.
Furono la gioventù e la mancanza di esperienza a condannarlo, avrebbe potuto scoccare a distanza ravvicinata o provare a scappare, avrebbe avuto almeno una possibilità, ma non fece nessuna delle due cose. Esitò, di nuovo, e provò a fare un passo indietro per acquistare lo spazio necessario a sguainare la spada. Ma si mosse troppo tardi e non abbastanza in fretta. L’allungo di punta di Hovhannes lo raggiunse in pieno sotto lo sterno.
Sentì tutto nel polso: un attimo di resistenza del corsetto imbottito, e poi la lama affilata che affondava morbidamente nel corpo, solo una lieve vibrazione quando sfregò contro un qualche osso e, infine, la pressione che diminuiva all’improvviso quando lo ebbe attraversato da parte a parte spuntando dalla schiena.
L’arco cadde per terra e le mani del ragazzo gli afferrarono il polso, ma già non c’era più forza in quella presa. Si guardarono negli occhi, il vecchio e il giovane. Con un movimento rapido Hovhannes si liberò e fece un passo indietro, estraendo la spada dal corpo, con un disgustoso rumore di risucchio, per riportarsi in posizione e colpire una seconda volta.
Non ce ne fu bisogno, come privato da un sostegno, le ginocchia dell’altro si piegarono e cadde all’indietro, finendo su una radice ricoperta di muschio.
Disteso per terra, tentò di parlare, forse voleva lanciare l’allarme o forse solo raccomandare l’anima al suo Dio, ma emise solo un gorgoglio, mentre la bocca gli si riempiva di sangue e gli occhi di paura.
Senza esitazione, senza guardarlo di nuovo in faccia, Hovhannes lo trafisse al collo, finendolo. L’odore del sangue arrivò forte alle sue narici.
“Era al sicuro! Vero?” fece Hovhannes e rovesciò su Rupen una impressionante serie di imprecazioni, che l’altro accettò a testa bassa, senza replicare, consapevole del rischio che avevano corso. Solo quando si fu sfogato della rabbia e della tensione, ripulì la spada e la rinfoderò.
“Ora dobbiamo nascondere questo corpo.” Disse. “Per guadagnare tempo, e andarcene da qui il più velocemente possibile.”
Li guardò, Rupen annuì continuando a non guardarlo, l’Abate era talmente pallido da sembrare persino più bianco della sua barba e non rispose, gli occhi persi nel vuoto impegnato a recitare sottovoce una qualche una preghiera.
Solo il mulo ricambiò il suo sguardo. Lo fissò impassibile, poi sbuffò ostentatamente e abbassò la testa tornando a brucare.
 

Impiegarono altri tre giorni per raggiungere il monastero, compiendo un largo giro per le montagne, sempre più stanchi e alla fine quasi senza nulla da mangiare. Tre giorni ansiosi dormendo poco, preoccupati, prima, di poter essere inseguiti e di cadere in agguato e, dopo, di essere avvistati sulla roccia nuda una volta saliti sopra la linea degli alberi. Tre giorni culminati nella salita finale, da spaccare le gambe e mozzare il fiato, verso il pianoro su cui erano abbarbicate quelle antiche mura sbiancate dal sole.
Alla fine, persino il dannato mulo si dimostrò utile, anzi salvifico. Malgrado la forza d’animo e la tenacia dimostrata fino ad allora, l’Abate dovette cedere all’età e allo sfinimento, durante il secondo giorno, e fu il mulo a venirgli in soccorso portandolo in groppa, insolitamente docile, con passo morbido e sicuro
Era ormai il pomeriggio inoltrato, quando raggiunsero le porte del monastero. Non li fecero aspettare, li avevano avvistati già da parecchio e riconosciuto che non erano un pericolo, anzi. Le porte si aprirono in fretta e vennero circondati da monaci apprensivi e servitori pieni di attenzioni che li accolsero con grida di gioia quando videro chi era con loro. Li liberarono dei pesi, gli porsero cibo, acqua e vino dolce e li portarono a riposare su un letto semplice e forse duro, ma caldo e pulito.
Dopo un profondo sonno ristoratore, Hovhannes aprì gli occhi al sorgere del sole, non fu la luce e non fu nemmeno il tramestio dei monaci che si affrettavano alla colazione e poi in chiesa a svegliarlo, fu una lunga abitudine da soldato. Si rivestì con calma sistemando alla meglio quello che gli avevano dato: i suoi vestiti erano stati portati via per essere puliti e lassù non c’era nessuno della sua corporatura.
Una volta vestito, esitò un attimo, indeciso se prendere la spada, che lo aspettava appoggiata contro il muro, poi decise di no: era inutile, sconveniente addirittura in un posto come quello.
Uscì all’aria aperta e senti sulla pelle l’aria mattutina che era fredda e stimolante a quella altezza. Le celle davano su un porticato, sul lato settentrionale del complesso. Il cortile di fronte a lui era spoglio e sassoso quasi senza una pianta, escluso che nell’orto alla sua destra.
Ispirò profondamente, gli sembrava di sentire l’odore della pietra, quella della montagna e quella degli edifici che lo circondavano. La notte di sonno e il cibo abbondante della cena gli avevano ridato forza e spirito. Si accarezzò lo stomaco con una mano cercando di ricordarsi dov’era il refettorio. Qualcosa ci sarebbe stato bene per cominciare la giornata.
Si avvicinò alla porta della cella dove riposava Rupen e sorrise sentendo il russare profondo che veniva dal suo interno. Tipico del vecchio Rupen: mangiare tutto quello che si poteva quando c’era occasione e dormire in ogni occasione possibile. Quale profonda saggezza! Lo lasciò stare, era sicuro che i monaci avrebbero trovato qualcosa da mangiare anche per lui a qualunque ora si fosse svegliato.
Attraversò il cortile, osservandosi intorno: al centro del complesso, il baricentro della vita di quel luogo, si trovava la chiesa costruita, come il resto del monastero, nella pietra grigia locale. I muri erano spogli, grossi blocchi allineati con precisione, ma senza vezzi. Il tetto era alto e spiovente, adatto alle nevicate invernali e all’incrocio tra il transetto e la navata non si trovava una cupola, come era d’uso a Costantinopoli o in altri paesi cristiani, ma un alto tamburo che culminava in un tetto aguzzo, somigliante a quello di fienile.
Il resto degli edifici, le celle per i monaci, il refettorio, la biblioteca, le stalle, la foresteria e tutto il resto erano sparsi senza un ordine apparente intorno a quel punto centrale. Tutti costruiti nella stessa pietra e in maniera simile, anche se per la maggior parte coi tetti d paglia e legno.
Il tutto era circondato da una robusta cerchia di mura di pietra, non troppo alte, ma che all’occhio esperto di Hovhannes, che aveva potuto esaminarle a lungo mentre si avvicinavano, risultavano salde e ben costruite.
Dopo una vita passata a combattere la valutazione fu istintiva, inconsapevole, una sensazione non espressa a parole: unite alla posizione e al luogo così remoto rendevano il monastero un posto molto difficile da prendere, se ben difeso e se non veniva colto di sorpresa.
Quando trovò il refettorio, i monaci avevano già finito di mangiare ed erano già andati in chiesa, ma un servitore si affrettò a dargli un piatto: formaggio e del buon pane ancora caldo. Mangiò in solitudine e in silenzio. Non gli era mai dispiaciuto il silenzio, ma fu in quel silenzio e in quella solitudine che la sua mente riprese a rimuginare e la pace che aveva appena sfiorato lo abbandonò di nuovo.
Tutti i dubbi che lo avevano colto tornarono anche più forti. Dopo tutti quegli anni era ormai uno straniero anche nella sua terra origine, come in ogni altro paese. Era stato per anni Ioannes l’Armeno e ora lì era Hovhannes il Romano. Straniero ovunque, a casa in nessun posto.
Forse valeva la pena di ripartire. Rimettersi di nuovo in strada, assaporare le aspre gioie del viaggio, rivedere Costantinopoli.
Non era una fuga? Accettare la sconfitta. Lui non si era mai arreso, aveva sempre tenuto la linea, ovunque fosse stato, tutti sapevano che Ioannes l’Armeno non scappava e non era un vigliacco. Era orgoglio, era, se ne rendeva conto, anche testardaggine.
Senza contare che ormai i suoi capelli e i suoi baffi erano spruzzati di grigio e presto sarebbe stato troppo vecchio, non abbastanza giovane, si corresse ironico, per la vita vagabonda che aveva sempre condotto.
Finito di mangiare, era uscito dal refettorio, alla luce del sole, sotto un cielo di un azzurro intenso senza una traccia di nuvole e passeggiò, vagando, guardando senza vedere le attività che fervevano intorno a lui.
Il filo dei pensieri venne interrotto da un giovane monaco che si gli si parò di fronte, facendolo sussultare dalla sorpresa, un ragazzo dall’aria patita e dalla faccia pallida e aguzza che esitò un attimo a parlare, intimidito dalla sua reazione e dal suo viso severo.
“L’abate vorrebbe parlarle, Signore.” La voce sottile come tutto il resto
“Dove posso trovarlo?”
“In chiesa” Rispose il ragazzo con un tono meravigliato, come se fosse scontato.
 

Una volta entrato e abbandonata la luce del sole, l’unico occhio ancora buono ci mise alcuni secondi per abituarsi alla penombra della chiesa e permettergli di osservare i particolari dell’interno. Il colore dominante era il grigio della pietra, non c’erano affreschi o mosaici, nessun colore, ma non era spoglio. Le mura così semplici esternamente, all’interno erano finemente scolpite a bassorilievo: croci ricoperte di fiori e rampicanti, figure di uomini, santi, angeli e demoni e bestie conosciute e fantastiche. Il volto di Cristo, circondato dai quattro simboli del leone, dell’aquila, del bue e dell’angelo, lo osservava scolpito sopra l’abside.
L’abate era in fondo alla navata, i loro sguardi si incrociarono e il viso severo vecchio si ammorbidi un attimo in un piccolo sorriso, si alzò e gli venne incontro.
Il passo era tornato saldo e il volto aveva ripreso colore rispetto al giorno prima. Il riposo e il buon cibo avevano avuto effetto anche su di lui.
“Vi vedo in forze,” gli disse, “Sono contento.”
“Anche voi. Anche voi state molto meglio”
Convenevoli, e ringraziamenti per l’aiuto dato, che si esaurirono in pochi attimi, lasciando calare di nuovo il silenzio. Fu il monaco a romperlo, prima che si prolungasse troppo.
“Cosa farete adesso?”
Hovhannes si accarezzò la barba, un’idea ce la aveva.
“Tornerò indietro, con un po’ fortuna conto di unirmi a qualche unità di soldati del Temarca, o un gruppo di locali, e di fare in tempo a uccidere un po’ di infedeli, prima che tornino a sud.”
“Giusto,” fece l’altro. “Siete un soldato, come dicevate.”
Hovhannes annuì.
“È il mio mestiere. Fare la guerra è il mio mestiere. Da una vita.” Guardo il monaco di fronte a lui e poi continuò “Nella mia famiglia abbiamo sempre combattuto. Sa, un mio antenato combatté e morì ad Avarayr accanto a Vartan Maminokian per difendere la fede e l’Armenia, contro i seguaci di Zoroastro.”
Lo disse a voce alta, era il più grande orgoglio della sua famiglia, quello di aver sempre difeso il proprio paese. Glorie passate, ma mai dimenticate.
L’Abate assentì, e sorrise per la seconda volta, questa volta con più calore.
“Sì,” disse, “vostro padre me lo raccontò”.
“Lo avete conosciuto?” Non poté nascondere la meraviglia.
“Certo, anche se era già anziano quando lo conobbi, si vedeva che era stato un gran uomo. Un uomo forte e pio.”
“Lo era.” Sancì Hovhannes.
Il silenzio ricalò di nuovo per un attimo su quella conversazione sofferta, ma l’Abate lo ruppe di nuovo.
“E una volta che gli infedeli se ne saranno andati e li avrete ricacciati dalle nostre terre, cosa farete?”
Era così trasparente dunque? Per un attimo, fu tentato di girare sui tacchi, ma si trattenne per rispetto al luogo, ma soprattutto per quello che vedeva nel viso del monaco di fronte a lui. Negli occhi, acquosi per l’età, leggeva un sincero interesse e una simpatia che non aveva ancora incontrato in nessuno da quando era tornato.
“Non lo so.” Ammise. “Proprio non lo so.” E poi di impulso. “Che dovrei fare secondo voi? Cosa dice un sant’uomo con la saggezza dei vostri anni?”
Non ci furono esitazioni nella risposta. “Non sono particolarmente più saggio di tanti altri, figliolo, e non posso decidere per voi, o capire cosa sia giusto. Una sola cosa posso fare, per ringraziarvi, provare a darvi il conforto della fede e aiutarvi ad aprire il cuore a Nostro Signore. Lui potrà aiutarvi a capire cosa è meglio.” Gli prese una mano. “Volete che vi confessi, Hovhannes figlio di Bagrat? Questa non è una delle splendide chiese rivestito d’oro e pietre preziose che avete visitato, ma è sempre un luogo di Dio.”
Si guardarono fissi per un lungo istante. “Sì, per favore. Sono in peccato mortale per aver ucciso quel ragazzo giorni fa e ne soffro.”
Lo condusse a sedersi all’Analogion, vicino all’altare, di fronte al velo che sostituiva l’Iconostasi a cui era abituato.
Si liberò l’anima dei suoi peccati: l’aver ucciso quel giovane ancora imberbe, la lussuria che aveva provato una sera in osteria, la gola a cui si concedeva troppo spesso, l’ira che lo minacciava ad ogni passo e soprattutto la superbia che non lo abbandonava mai. Infine, confessò i suoi desideri, la nostalgia per un passato ormai lontano, la paura di essere ormai straniero in qualunque terra, i timori che la sua stessa famiglia non lo rivolesse.
Disse tutto, accettò la benedizione e l’assoluzione e recitarono insieme antiche preghiere nella lingua che aveva usato da ragazzo.
Quando ebbero finito, Hovhannes l’Armeno alzò gli occhi verso la croce d’oro poggiata sull’altare e più in su fino al viso del Cristo scolpito nell’arco che li sovrastava e, dopo tanti anni, si sentì finalmente a casa.
   
 
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