Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |       
Autore: Clementine84    29/08/2021    0 recensioni
“Ciao Siobhan”.
Al solo sentire la voce di Keith, le gambe mi erano diventate improvvisamente molli e avevo dovuto appoggiarmi al tavolino.
“Ciao” avevo risposto, scioccata.
.....
“So che ti starai chiedendo come mai ho deciso di farmi vivo, dopo tutto questo tempo, ma la verità è che non lo so nemmeno io” aveva ammesso, lasciandomi un po’ spiazzata.
“Presumo di aver pensato che era ora di farla finita con questa stupida situazione e ho pensato che oggi fosse il giorno adatto per tentare. In fondo, uno dei due doveva pur fare il primo passo”.
......
Keith era stato il mio primo, unico, grande amore, sarebbe stato inutile negarlo. Nei nove anni in cui non ci eravamo sentiti, avevo cercato di rifarmi una vita e, in parte, ci ero riuscita. Ero soddisfatta in campo lavorativo, ma decisamente delusa in quello affettivo. Avevo avuto qualche storia, ma nessuna era mai durata più di sei mesi. La scusa era sempre la stessa. Il mio lavoro, che nessuno sembrava essere in grado di sopportare, tranne io.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il titolo è la prafrasi di una canzone dei Westlife, su cui scrivo fanfiction, ne trovate un paio nella sezione dedicata di questo sito. Non c'entra niente con la storia, non la ritroverete, ma mi sembrava funzionasse. 
Anche i titoli dei capitoli sono nomi di canzoni che funzionavano bene . Ho segnalato gli artisti tra parentesi, così, se a qualcuno dovesse interessare, può andare a sentirsele.

Nulla di quanto narrato è reale o ha la pretesa di esserlo, nemmeno i luoghi citati, salvo la città, sono esistenti. I personaggi sono originali e appartengono alla sottoscritta, salvo i nomi dei colleghi di lavoro di Siobhan, che sono presi dai romanzi di James Herriot, consideratelo un omaggio a uno dei miei scrittori preferiti. Ogni riferimento a persone reali è da considerarsi puramente casuale.

 

“Che giornata!” pensai, mentre aprivo la porta del mio appartamento e mi apprestavo ad entrare. Immediatamente Kelly, la mia cagnolina, venne a salutarmi, saltando da ogni parte e abbaiando con aria festosa.

“Ciao, bella. Anch’io sono contenta di vederti” la salutai, prendendola in braccio e accarezzandole il lucido pelo del dorso.

Era bello avere qualcuno che ti aspettasse a casa quando tornavi dal lavoro, anche se era soltanto un cane. Mi scocciava ammetterlo ma, anche questa volta, Martin aveva ragione. Martin era uno dei miei migliori amici ed era stato lui a regalarmi Kelly, qualche anno prima, perché non soffrissi di solitudine. Aveva insistito perché lasciassi scegliere a lui il nome da dare alla cucciola e aveva deciso di chiamarla Kelly, come la cantante Kelly Rowland, per la quale aveva sempre avuto un debole. Martin. Era da un sacco di tempo che non lo vedevo. Qualche mese più o meno. Abituata com’ero ad averlo sempre tra i piedi, era come se non ci vedessimo da anni. Lo conoscevo praticamente da quando avevo undici anni. Ci eravamo incontrati a scuola. Il primo giorno, del primo anno di scuola superiore, l’insegnante mi aveva fatta sedere accanto a un ragazzino moro, con due enormi occhi verdi e le guance rosse. Lui era sempre stato un tipo piuttosto timido e, prima di rivolgermi la parola, ci aveva messo circa una settimana. Poi gli avevo passato un bigliettino con una risposta che non sapeva durante un compito in classe ed eravamo diventati inseparabili, tanto che tutti credevano che fossimo fidanzati. In realtà non avrebbe mai potuto succedere. Martin era il mio confidente e io la sua. Un pomeriggio d’autunno, mentre eravamo seduti su di una panchina, al parco, avevamo promesso di “venderci” i nostri segreti a vicenda, in modo da non doverli sopportare da soli. Per questo motivo, sapevo tutto di lui, come lui sapeva tutto di me. Ero una delle poche persone a cui aveva confidato di essere gay. Diceva che prima o poi l’avrebbe fatto sapere al mondo, ma per ora non si sentiva ancora pronto e io rispettavo le sue scelte. Sospirai. Se almeno fosse stato in città avrei potuto chiamarlo e chiedergli un consiglio. Invece era su di un qualche aereo proveniente da chissà dove e sarebbe arrivato solo l’indomani.

Scossi la testa, per liberarmi da quei pensieri, e decisi di farmi un bel bagno caldo. Avevo passato la mattinata all’aperto e un po’ di calore mi avrebbe sicuramente fatto bene. Magari mi avrebbe anche aiutato a prendere una decisione. O almeno a scordarmi di tutto quello che era successo, almeno fino all’indomani. Riempii la vasca e ci versai mezzo botticino di bagnoschiuma al caprifoglio. Accesi la radio, che Rose lasciava in bagno, perché le piaceva ascoltare musica mentre faceva la doccia, mi tolsi i vestiti e mi immersi nell’acqua calda e profumata, con gli occhi chiusi, lasciando i pensieri liberi di vagare a loro piacimento nella mia mente.

Era stata una giornata decisamente fuori dal comune. Iniziata in maniera tipica, con una telefonata alle prime luci dell’alba, che mi aveva costretta ad abbandonare il mio bel letto caldo, per avventurarmi nella gelida campagna irlandese, ancora coperta da una patina di brina che rendeva tutto piuttosto surreale. Non mi lamentavo mai, quando succedevano queste cose. Adoravo l’Irlanda e la zona in cui vivevo era, a mio parere, la più bella dell’isola. Nata, 29 anni prima, nel piccolo paesino di Clifden, al centro del Connemara, avevo sempre abitato lì, escludendo gli anni in cui avevo frequentato l’università a Dublino, dove mi ero laureata in veterinaria. Se possibile, ancora più della mia terra, adoravo il mio lavoro. Gli animali erano sempre stati la mia passione e, fin da piccola, avevo manifestato il desiderio di occuparmi di loro, specializzandomi in quelli di grossa taglia, per giunta. I miei genitori, dapprima un po’ titubanti, alla fine mi avevano appoggiata, smettendo di preoccuparsi per la mia salute. Finiti gli studi, avevo trovato un posto come aiuto veterinario nell’ambulatorio del dottor Herriot, nel centro di Clifden, e mi ero trovata un appartamentino tutto mio, in modo da non dover fare avanti e indietro tutti i giorni dalla fattoria dei miei genitori, dove avevo abitato fino alla laurea. Insieme a me, abitava Rose, una ragazzona bionda, mezza scozzese e mezza italiana, che aveva da poco aperto un ristorante a Clifden. Mi trovavo benissimo, con lei, solo che, tra il suo lavoro e il mio, riuscivamo a vederci molto di rado, quindi le nostre conversazioni si risolvevano per lo più in lunghi biglietti, scritti sul retro degli scontrini del supermercato e lasciati sul tavolo. Ogni tanto, riuscivamo a passare qualche pomeriggio insieme e stavamo sul divano a guardare film d’amore e a raccontarci le novità, consigliandoci e supportandoci, da buone amiche. Anche se non ci vedevamo spesso, ringraziavo il cielo di avermi mandato Rose. Non avevo molti amici, il mio lavoro non mi permetteva di coltivare grandi amicizie. I miei pochi amici sinceri, risalivano al tempo della scuola e Martin era uno di loro. Gli altri, Gavin e Keith, facevano lo stesso lavoro di Martin e, per questo, erano spesso via. Il primo che avevo conosciuto era stato Gavin, poiché i suoi genitori avevano una tavola calda in paese e venivano spesso a rifornirsi di latte fresco e formaggio da mio padre. Avevamo la stessa età e ci divertivamo a giocare insieme, rincorrere le galline, salire sui pony e rotolarci nei prati, come tutti i bambini. Keith era il migliore amico di Gavin, e l’avevo conosciuto quando eravamo già un po’ più grandicelli e avevamo iniziato ad andare al cinema, ogni tanto, la domenica pomeriggio. Keith era il classico principe azzurro delle favole: capelli biondi, con un ciuffo ribelle che gli copriva in parte due splendidi occhi azzurri, sorriso ampio e velleità artistiche. I suoi modi, però, non erano altrettanto principeschi. Keith, infatti, era un rockettaro e, come tale, riteneva fico usare parole volgari e, soprattutto, trattare male le ragazze. Io ero la sua vittima preferita, dato che uscivo così spesso con Gavin. Ci eravamo presi subito in antipatia e non facevamo altro che insultarci, da mattina a sera. In realtà, io avevo una cotta pazzesca per lui, ma non l’avrei mai ammesso, nemmeno sotto tortura. Poi, crescendo, avevamo piano piano superato le nostre discordie e imparato ad apprezzarci. La mia cotta si era trasformata in qualcosa di più forte e profondo e avevo passato anni a escogitare sistemi per trovarmi, casualmente, nello stesso posto in cui c’era lui. Gavin mi era stato di grande aiuto, soprattutto quando i ragazzi avevano iniziato a suonare in qualche pub e mi aveva proposto di fare la cantante, insieme al mio amico Martin, che avevamo scoperto essere dotato di una voce fantastica. Poi, una sera, un importante produttore musicale ci aveva sentiti e ci aveva proposto di firmare un contratto per incidere un CD di canzoni folk irlandesi. I ragazzi erano entusiasti. Il loro sogno più grande stava diventando realtà ed era assolutamente un’occasione da non perdere. Io, però, non la pensavo allo stesso modo. Il mio sogno non era cantare, ma diventare veterinaria e, per realizzarlo, dovevo andare all’università e studiare. Dopo parecchi ripensamenti, avevo detto di no, lasciando che i ragazzi continuassero senza di me. Martin e Gavin avevano capito, mentre Keith aveva fatto un sacco di storie e mi aveva tenuto il muso per una settimana intera, finché non mi ero stufata del suo comportamento ed ero andata a parlargli, a casa sua.

“Sei stato abbastanza chiaro, Keith. Ho capito che ce l’hai con me perché ho rinunciato al contratto. Ma adesso non ti sembra di esagerare? In fin dei conti è la mia vita!” gli avevo urlato in faccia, arrabbiata.

Lui mi aveva guardato, con aria triste e, a bassa voce, aveva detto, semplicemente “Lo so che è la tua vita. Non fai che ripeterlo. È che mi piacerebbe tanto farne parte e, con il gruppo, mi illudevo di poterlo fare”.

Ero sbiancata e, avvicinandomi, avevo domandato “Scusa? Tu vuoi far parte della mia vita?”.

Keith aveva annuito “Sì. Non sapevo come fare a dirtelo”.

Con il cuore che batteva forte, gli avevo preso una mano “Ehi, guarda che non ti serve un gruppo per stare con me. Possiamo farlo lo stesso”.

Keith mi aveva sorriso “Vuoi dire che non ti dispiacerebbe uscire con me?”

“Speravo tanto che me lo chiedessi, prima o poi” avevo confessato, abbassando gli occhi.

Keith mi aveva fatto alzare il viso e, dolcemente, mi aveva baciata, dando così inizio alla nostra breve, ma intensa, storia d’amore. Era stato il periodo più bello della mia vita, quell’anno in cui ero stata la ragazza di Keith, non Keith Murray dei Dotties, semplicemente Keith, il mio Keith.

Poi il gruppo aveva preso il volo. Avevano avuto subito successo, realizzato un CD dietro l’altro ed erano diventati famosi anche al di fuori dell’Irlanda, per cui avevano iniziato a viaggiare moltissimo. Tenere in piedi un rapporto a distanza era già abbastanza difficile, senza dover anche fare i conti con la stampa. Ero sempre stata piuttosto timida e la prima volta che mi ero ritrovata un giornalista davanti alla porta dell’appartamento in cui stavo a Dublino avevo letteralmente creduto di morire. Avevo balbettato qualcosa e poi, presa dal panico, avevo negato di conoscere i ragazzi. Martin e Gavin si erano fatti una risata sopra, ma Keith se l’era presa da morire. Diceva che, se tenevo a lui, dovevo essere pronta ad accettare la sua vita. Ne era scaturita una litigata terribile, in cui lui cercava di convincermi ad accettare la sua popolarità e io urlavo che era lui quello famoso, non io, e che volevo starmene tranquilla nel mio paesino, a curare i miei animali. A quella, erano seguite molte altre discussioni, tutte più o meno per lo stesso motivo. Keith voleva presentarmi in pubblico come la sua ragazza e io non ne volevo sapere. Mi accusava di non amarlo abbastanza, mentre la mia era solo paura. Una volta resa pubblica, la nostra relazione sarebbe stata sotto gli occhi di tutti e io non volevo. Era una cosa privata. Alla fine, dopo l’ennesima, violenta litigata, io me ne ero andata, sbattendo al porta, e urlandogli dietro che non volevo più vederlo. Purtroppo, così era stato. Il giorno seguente lui era dovuto partire per il primo tour americano dei Dotties, che l’avrebbe impegnato per quattro mesi. Non ci eravamo più sentiti, io troppo orgogliosa per scusarmi, lui troppo ferito per passarci sopra. Fortunatamente, Gavin e Martin non si erano fatti intimorire dalla situazione e avevano continuato a tenersi in contatto con me, dandomi continuamente notizie di Keith. Lui sapeva che sentivo e vedevo spesso i ragazzi ma, anche se chiedeva spesso mie notizie, non si era mai più fatto vivo con me, tanto che credevo non gli importasse più nemmeno della nostra amicizia. Potevo capirlo e, in gran parte, era stata colpa mia. Quando tutto era successo, avevo appena 20 anni. Ero una ragazzina di campagna appena sbarcata in città, con tanti sogni e pochissima esperienza del mondo. Già Dublino mi spaventava, figurarsi il mondo della musica. Avevo creduto di non farcela e avevo preferito mollare, anziché provarci. Ora le cose erano diverse. Ero cresciuta ed ero diventata più forte. Erano passati nove anni. Nove interi anni senza sentire né, tanto meno, vedere Keith. Era strano come ci fossimo riusciti. Clifden era un piccola cittadina, in fondo, ed era facile incontrare gente che si conosceva per strada. A noi non era mai successo. E i nostri amici facevano attenzione a non farci incontrare. Sapevo che anche per loro era dura, me l’avevano confessato più volte, ma volevano bene ad entrambi e avevano tenuto duro. Con il tempo, le ferite si erano un po’ rimarginate e, almeno, riuscivamo a parlare l’uno dell’altra senza rancore. Solo con un po’ di amarezza per com’erano andate le cose. Il tutto fino a quel pomeriggio.

Ero al lavoro, come sempre, nell’ambulatorio veterinario del dottor Herriot, e stavo aiutando Tristan, il suo socio, a preparare la borsa per il giro di visite pomeridiano, dopodiché avrei raggiunto suo fratello maggiore, Siegfried, alla fattoria del signor Bamford, dove ci aspettava un bel parto gemellare su di una giovane vacca. Io, i fratelli Sigfried e Tristan Farnon, e James, o il dottor Herriot, come ci piaceva chiamarlo per farlo arrabbiare, formavamo una bella squadra e non smettevo di ringraziare il fato per la fortuna che avevo avuto ad ottenere quel posto. James era ormai prossimo alla pensione e mi aveva già annunciato che, non appena si fosse ritirato, mi avrebbe fatta diventare socia dell’ambulatorio a tutti gli effetti. Era il mio sogno diventato realtà. Mentre io ero in dispensa a fare scorta di flaconi di medicinali, era suonato il telefono e Tristan era corso a rispondere.

“Sio!” aveva urlato, subito dopo “E’ per te”.

E poi, passandomi il ricevitore, con un sorrisino malizioso stampato sul viso “Uno dei tuoi amici famosi” aveva aggiunto.

Io avevo risposto allegramente, facendogli una linguaccia e aspettandomi di sentire Martin o Gavin, invece “Ciao Siobhan”.

Al solo sentire la voce di Keith, le gambe mi erano diventate improvvisamente molli e avevo dovuto appoggiarmi al tavolino.

“Ciao” avevo risposto, scioccata.

“Ti disturbo?” aveva chiesto, gentile.

“No, figurati”.

Non ero in grado di formulare frasi più complesse e rispondevo a monosillabi.

“Scusa se ti chiamo al lavoro, ma ho pensato di avere più probabilità di trovarti” spiegò.

Avevo guardato il tavolo cosparso di fiale di medicinali, siringhe e lacci emostatici e avevo sorriso, tra me “Sì, hai fatto bene. Non sono mai a casa. Anche adesso, stavo uscendo” avevo confessato. L’avevo sentito ridere e, in un istante, era stato come essere tornata indietro di nove anni.

“Allora sono stato fortunato” aveva commentato.

Avevo riso anch’io “Già”.

“So che ti starai chiedendo come mai ho deciso di farmi vivo, dopo tutto questo tempo, ma la verità è che non lo so nemmeno io” aveva ammesso, lasciandomi un po’ spiazzata.

“Presumo di aver pensato che era ora di farla finita con questa stupida situazione e ho pensato che oggi fosse il giorno adatto per tentare. In fondo, uno dei due doveva pur fare il primo passo”. “Oggi?” avevo farfugliato, sempre più confusa.

“Sì. Non è il tuo compleanno?” aveva chiesto lui, dubbioso.

Avevo chiuso gli occhi. Sì, era il mio compleanno. Con tutto il trambusto della giornata, me n’ero completamente dimenticata. Anche perché, senza i miei amici, che senso aveva festeggiare?

“Sì, è oggi” avevo detto “Grazie”.

Keith aveva riso, di nuovo “E di che? Ne ho persi otto, ma il nono me lo sono ricordato” aveva scherzato e, dopo un istante “In realtà, mi sono ricordato anche gli altri, solo che…”

“Solo che non te la sentivi di chiamare. Lo so” l’avevo interrotto io, prendendo coraggio

“Già” aveva concordato “Scusami”.

Avevo sospirato “No. Scusami tu”.

Eravamo rimasti un attimo in silenzio, dopodiché Keith aveva osservato “Alla fine, è stato più facile di quello che mi sarei immaginato”

“Non è sempre così?” avevo chiesto

“Forse” aveva risposto lui.

“E pensare che ci abbiamo messo nove anni” aveva detto, con una nota di rammarico

“Ognuno ha i suoi tempi” l’avevo rassicurato “L’importante è riuscirci, alla fine”.

Non potevo vederlo, ma sapevo con sicurezza che stava sorridendo.

“Senti” aveva proposto “Spero che non ti sembri affrettato, ma domani torniamo in città e abbiamo un periodo di riposo per le feste”.

Avevo chiuso gli occhi. Già, Natale. Mi ero dimenticata che eravamo già a dicembre.

Keith aveva proseguito “Mi chiedevo se ti andrebbe di vederci da qualche parte”.

Mi ero sentita come se un macigno da una tonnellata e mezza mi fosse arrivato diritto sulla testa. Keith mi stava chiedendo di vederci? Avevo deglutito un paio di volte, prima di rispondere, e Keith aveva interpretato il mio silenzio come una risposta negativa.

“Che stupido che sono! Ovviamente sarai occupata con il lavoro”.

Anche se non poteva vedermi, avevo scosso la testa “In realtà no. Domani è il mio giorno libero” avevo spiegato “Quindi…okay”.

“Davvero? Beh, allora, se ti va, ci troviamo alla Lync’s House?” aveva proposto.

La Lync’s House era il locale dei genitori di Gavin. Anche se ero certa che i ragazzi sapessero della chiamata di Keith, non mi andava che il nostro primo incontro, dopo nove anni, avvenisse in un posto dove tutti ci conoscevano e sapevano i nostri trascorsi.

“Non possiamo andare da un’altra parte? Io…potrebbe essere piuttosto…imbarazzante”.

“Non ci avevo pensato” aveva confessato lui “Certo. Facciamo così, scegli tu il locale okay?”.

Ci avevo pensato un istante e poi, esitante, avevo proposto “Perché non vieni da me?”.

Keith era rimasto in silenzio per un attimo “Da te?”.

“Sì. La mia coinquilina non sarà sicuramente in casa e almeno possiamo stare tranquilli, senza il rischio di orecchie e occhi indiscreti” avevo spiegato.

“D’accordo” aveva acconsentito lui “Allora facciamo più o meno per le 3:00?”

“Per le 3:00 va benissimo” avevo risposto, sorridendo.

“Bene. A domani, allora” mi aveva salutata lui.

“Sì. A domani” avevo ribattuto, con aria sognante.

Quando avevo posato il ricevitore, dovevo aver avuto un’aria veramente sconvolta perché Tristan, che aveva osservato tutta la scena appoggiato allo stipite della porta, mi aveva chiesto “Tutto, okay, Sio?”.

Avevo annuito “Sì. Tutto okay”.

Tristan aveva qualche anno più di me ed eravamo ottimi amici, quindi sapevo che con lui potevo parlare liberamente.

“Non immagineresti mai chi era al telefono” avevo esordito, finendo poi per raccontargli tutto.

Fui riportata alla realtà dalle note di una canzone provenienti dalla radio, e spalancai gli occhi. Era una vecchia canzone che mi piaceva molto ma, quel giorno, bastarono le prime note a far sì che alcune lacrime iniziassero a rigarmi le guance...I would like to visit you for a while, Get away and out of this city, Maybe I shouldn’t have called but someone had to be the first to break....*

Keith era stato il mio primo, unico, grande amore, sarebbe stato inutile negarlo. Nei nove anni in cui non ci eravamo sentiti, avevo cercato di rifarmi una vita e, in parte, ci ero riuscita. Ero soddisfatta in campo lavorativo, ma decisamente delusa in quello affettivo. Avevo avuto qualche storia, ma nessuna era mai durata più di sei mesi. La scusa era sempre la stessa. Il mio lavoro, che nessuno sembrava essere in grado di sopportare, tranne io. Eppure, James e Siegfried erano entrambi sposati e Tristan aveva spesso avuto relazioni, anche piuttosto lunghe, ma mai serie, a causa della sua inguaribile natura da dongiovanni. Alla fine, ero giunta alla conclusione che fosse colpa mia. Non avevo mai messo veramente il cuore, in quelle storie. Perché? Forse sapevo che non erano quelle giuste, oppure…. No, non volevo nemmeno pensarci. Non aveva senso. Ma, da quel pomeriggio, il chiodo fisso che mi tormentava da anni era riapparso, più forte e vivo di prima. Forse, per tutto quel tempo, ero sempre stata innamorata di Keith. Era stupido e forse anche patetico, ma, nonostante ce l’avessi messa tutta per dimenticarlo, non ci ero mai riuscita completamente. Una piccola parte del mio cuore, ancora sperava che tornasse da me. Non come fidanzato, non ero così stupida da pretendere che mi amasse ancora. Dopo tutto quel tempo e con tutte le ragazze milioni di volte più belle di me che gli ronzavano attorno, era tecnicamente impossibile. Però, mi sarebbe piaciuto almeno recuperare la nostra amicizia. Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano. Mi serviva Martin. Gli avrei mandato un sms prima di andare a letto. Scossi la testa e finii rapidamente di lavarmi. Uscii dalla vasca e andai in camera mia, a vestirmi. Indossai un paio di jeans scuri e una felpa rosa con il cappuccio e mi avviai verso la cucina, proprio nel momento in cui la porta di casa si aprì.

“Ciao” disse Rose, sorridendomi, allegramente.

“Ehi, ciao” la salutai “Che ci fai a casa a quest’ora?”.

La ragazza sospirò, togliendosi la giacca.

“Non me ne parlare. Ricordi la cena dei coscritti del ’32 per cui mi avevano prenotato tutto il ristorante?”

Annuii, versandomi un bicchiere di succo d’ananas.

“Beh, uno degli invitati è morto e hanno disdetto tutto” annunciò, lasciandosi cadere pesantemente su di una sedia.

Strabuzzai gli occhi “No! E adesso?” domandai.

Rose alzò le spalle “Niente. Mi pagheranno lo stesso, come da accordi, ma non avevo altre prenotazioni, per stasera, e ho chiuso”.

Mi avvicinai e le posai una mano sulla spalla “Mi dispiace, Rose”.

“Non importa” minimizzò lei, sorridendo “Piuttosto, hai già mangiato?”

Scossi la testa “Sono appena uscita dalla vasca”.

Rose mi lanciò un’occhiata scettica “Giornata pesante?” chiese.

Alzai le spalle “Non troppo. Strana piuttosto”.

“Che è successo?” si informò.

“Ho ricevuto una telefonata da una persona che non sentivo da anni” spiegai.

“Ma dai! Chi?” domandò, curiosa.

Sorrisi “Te lo racconto mentre mangiamo” tagliai corto, pur sapendo che Rose odiava dover aspettare.

“D’accordo. Vado a farmi una doccia e poi preparo qualcosa di veloce. Intanto tu tira fuori dal frigo la torta gelato”

“Torta gelato?” ripetei, stupita.

La mia amica sorrise “Credevi che mi sarei dimenticata del tuo compleanno, testona?” mi rimproverò.

Scossi la testa “Certo che no. A te non sfugge nulla”.

“Esatto. Nulla. Nemmeno il sorrisetto che hai fatto quando mi hai detto della telefonata. Scommettiamo che so già di chi si tratta?”.

Scoppiai a ridere. A Rose non sfuggiva proprio niente.

“So che lo sai. Ma voglio raccontartelo lo stesso, quindi sbrigati a lavarti” la spronai, facendola ridere di gusto.

Stava per sparire in bagno, quando la chiamai “Rose?”

“Sì?”

“Com’è morto il tipo della cena?”.

La ragazza mi guardò e, sforzandosi di restare seria, rispose “Attacco cardiaco” . Poi, trattenendo a stento una risata, aggiunse “Facendo sesso con una ventenne, pace all’anima sua!”.



*I Don’t Know You Anymore (Savage Garden)
 
  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Clementine84