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Autore: milly92    01/09/2009    5 recensioni
Quando Sabrina torna dalle vacanze trascorse con la sua migliore amica Titti, scopre di essersi persa un po’ di cose in sua assenza, soprattutto il fatto che i suoi genitori sembrano presi da un 28enne che ha affittato la loro dependance. Sabrina sarà gelosa di questo rapporto, si sente trascurata, ma soprattutto non riesce a tollerare Cristian, anche perché il loro primo incontro non è stato dei migliori, dato che lei non sapeva né della sua esistenza né del suo arrivo, quando invece lui sapeva molto di lei… Riusciranno a sopportarsi e a "convivere" civilmente? Anche perchè Cristian ha un segreto che nemmeno lui sa di avere, che c'entra anche con il padre della ragazza e con il suo passato... [DALL'EPILOGO: “Posso ribadire che non ho intenzione di tradire nessuna bambina?”. Ci voltammo e ridemmo. Alle nostre spalle c’erano Cristian e Sabrina che ci guardavano con un’aria un po’ di disappunto. Com’erano belli! Ogni volta che li vedevo insieme il cuore mi si riempiva di gioia e non potevo non dichiararmi soddisfatta della piega che avevano preso le cose. Chi avrebbe mai immaginato che sarei riuscita ad allevare una figlia così meravigliosa e diligente nonostante i miei numerosi impegni di lavoro?]
Genere: Romantico, Commedia, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ora Capisco Perché Mamma Mi Diceva Di Non Dar Retta Agli Sconosciuti

Love Generation

Prologo

Quando ero più piccola non riuscivo ad addormentarmi se mia madre non mi leggeva una storia, e la cosa divenne una dipendenza quando raggiunsi gli otto anni e, poiché ero stufa di storie infantili che parlavano di principesse, rospi e lupi, lei iniziò a leggermi un’altra storia. La sua. Era divisa in due libri massicci, scritti da lei visto che era una scrittrice, e parlava di tante cose belle: amore, amicizia, e anche qualche momento di caos. E quando terminò di leggerli entrambi-ormai avevo dieci anni- mi venne solo da dire: “Che bello. Vorrei che tutte queste cose capitassero anche a me, un giorno”.

Mamma mi sorrise e mi rimboccò le coperte, accarezzandomi i capelli. “Certo che ti capiteranno, Sabrina. E, credimi, quando ti succederà, nei primi momenti quasi quasi non ne sarai così entusiasta” mi spiegò con dolcezza e nostalgia.

“E perché?”.

“Perché sarai così innamorata, confusa e gioiosa che ti mancherà la tua vita di prima, troppo monotona al confronto senza casini e lotte, pur di ottenere ciò che vuoi. Anzi, chi vuoi” sussurrò.

E aveva maledettamente ragione, mi dissi, circa dieci anni dopo. La mia vita era stata sconvolta da una persona che inizialmente credevo mi fosse indifferente e, mano a mano, iniziai a pensare che scriverci un libro, vista la sua assurdità e totale mancanza di monotonia in certi momenti, sarebbe stata un’ottima idea. Peccato che non fossi nata per fare la scrittrice, bensì il medico. Mi piaceva aiutare e curare la gente in difficoltà…

Peccato che quella malattia di cuore che mi beccai non poteva essere curata senza l’unico rimedio: stare con lui.

 

 

“Quando sono buona sono molto buona,

ma quando sono cattiva sono meglio”

Mae West

Capitolo 1

Ora Capisco Perché Mamma Mi Diceva Di Non Dar Retta Agli Sconosciuti

 

“Sabrina, penso proprio che lo shopping non porti tutti i benefici che mi dici sempre” ridacchiò Titti. “In questo momento niente auto glorificazione, compiacimento e soddisfazione, solo una gran voglia di comprare un’ulteriore valigia… Ma pensandoci bene anche questo implicherebbe ulteriore shopping, no?”.

“Taci, scema. Piantala di blaterare con la tua filosofia spiccia… Anzi, aiutami…” ribattei, porgendole dei jeans e tre camicette colorate. La mia valigia non voleva proprio saperne niente di chiudersi, e mi ricordava lievemente una persona enorme ed obesa che ha mangiato a dismisura e sta per vomitare, visto che alcune maglie erano così inclinate che tendevano a cadere giù.

“E cosa dovrei fare? Un incantesimo di riduzione?” domandò, indicando allusiva verso i vestiti che fuoriuscivano minacciosi, facendo la finta tonta.

“No, mettere questa roba nel tuo secondo trolley visto che è mezzo vuoto” risposi con una semplicità estrema, quasi come se lei fosse tarda e non sapessi che aveva capito perfettamente e che cercava solo di essere sarcastica.

Titti mi guardò, sospirando, e poi ubbidì, rassegnata.

“Grazie, sei la migliore!” esultai, visto che senza quella roba il trolley si chiuse.

“Lo so, approfittatrice”.

Ci guardammo e scoppiammo a ridere.

L’ultimo giorno di vacanza a Riccione era giunto, ed io mi accingevo a preparare le valigie con riluttanza, anche se avevo rimandato per ore ed ore quel compito. Per questo era quasi mezzanotte, la stanza d’hotel che avevamo affittato avvolgeva me e la mia migliore amica Titti per le ultime ore, visto che l’indomani alle dieci e un quarto avremmo dovuto prendere il treno che ci avrebbe ricondotte a Roma.

Erano state tre settimane indimenticabili, perfette per smaltire un po’ dello stress che avevo accumulato quell’anno per gli esami di medicina; avevamo conosciuto tante persone, dormito poco e niente per aspettare l’alba e mangiarci un bel cornetto caldo a quell’ora, eravamo andate a delle terme lì vicino, e ovviamente non erano mancate ore ed ore di sano shopping. Proprio per quest’ultimo motivo, quindi, il secondo dei due trolley era strapieno e non si chiudeva.

Io e Titti ci conoscevamo dalla prima media e da allora eravamo inseparabili: ognuno vedeva nell’altra la sorella che non aveva mai avuto, anzi, con il passare degli anni lei vedeva in me e nella mia famiglia i parenti che non ha mai avuto visto che era rimasta orfana all’età di tre anni.

Sua madre era una donna indocinese, e suo padre un italo africano da quel che sapeva, motivo che spiegava la sua pelle un po’ scura, olivastra, gli occhi con un bellissimo taglio orientale e i capelli corvini. Come si fossero conosciuti per lei era un mistero, ma fatto sta che dopo la loro morte avvenuta in un incidente automobilistico lei era stata adottata prima da una zia, poi era andata in una sorta di casa famiglia visto che ella era emigrata in Francia.

All’anagrafe risultava essere Clementine Hayumi Narducci, ma per me e chi la conosceva era sempre e solo stata Titti, la ragazza dal cuore d’oro che ora lavorava come estetista e parrucchiera per mantenersi e che un domani avrebbe voluto studiare cinese alla facoltà di lingue, dopo aver conservato i soldi necessari.

Quindi, dato che non aveva voluto che le comprassi qualcosa io e si era imposta di spendere pochissimi soldi dei suoi risparmi, aveva comprato giusto due o tre cose e non aveva problemi con la valigia.

 “Ma ci pensi che la nostra prima vacanza insieme si è già conclusa dopo che la agognavamo da quando avevamo sedici anni? Ci sono voluti quattro anni per realizzare questo sogno e già è tutto finito” si lamentò poco dopo, mentre eravamo fuori il terrazzino della stanza, al chiarore della luna.

“Beh, la nostra prima vacanza da sole l’avremmo potuto vivere anche due anni fa, appena maggiorenni, se tu non fossi così cocciuta” le ricordai.

“Sabri, perché non mi capisci?” chiese esasperata, scuotendo il capo. “Lo so che tu non hai problemi economici e che mi avresti potuto aiutare pagandomi il viaggio, ma non mi va, voglio sudarmele le cose, non voglio approfittare della tua generosità”.

Nella nostra amicizia, l’unica pecca era sempre stata la nostra differenza economica: sin da piccola avevo sempre sfoggiato vestiti griffati, intimo incluso, dato che mia madre, Debora Di Bene in Romani, è una famosa scrittrice e mio padre Andrea è un cantante, quindi non avevo mai saputo cosa fossero le difficoltà economiche finchè non avevo conosciuto Titti, che mi aveva aperto gli occhi e mi aveva fatto capire che il mondo non è solo quello che vedevo con i miei occhi di bambina abbastanza viziata e coccolata.

“Approfittare?”. Risi. “Sei pazza? Insomma, sarebbe stato un semplice regalo, non avresti dovuto restituirmi nulla…”.

“Appunto. E poi, guarda il lato positivo, anche se siamo riuscite ad andare in vacanza da sole dopo che ho avuto le ferie alla veneranda età di vent’anni, ci siamo godute il viaggio il doppio visto che l’agognavamo da secoli” rispose, sorridendomi e voltandosi verso di me.

Annuii, dicendomi che con lei discutere non sarebbe servito a nulla. Le sorrisi a mia volta e l’abbracciai.

“Ti voglio bene, sorellina” dissi.

“Te ne voglio anch’io” rispose, e restammo così a guardare le stelle fino alle tre, nella speranza di vederne qualcuna cadente ma senza successo, ora in cui ci addormentammo come se avessimo trascorso una giornata a lavorare i campi, e continuammo il nostro indisturbato sonnellino l’indomani nel treno, ignorando le occhiate spudorate di due ragazzi seduti ai nostri lati.

Li evitammo, finchè non venne il momento di scendere, a pomeriggio inoltrato.

“Permesso, permesso” protestai mentre stavamo scendendo dal treno tra la folla, mentre tenevo Titti per mano per non perderla.

Uno dei due si girò. “Ti faccio passare solo se mi dai il tuo numero, dolcezza” sussurrò, facendo l’occhiolino. Era molto alto e rasato, con vari piercing e gli occhi scurissimi.

“Ma certo” stetti al gioco, sorridendo in stile ochetta, così lui ci fece passare.

“E il numero?” chiese poi, cacciando fuori il telefono mentre la gente lo guardava male visto che gli impediva il passaggio.

“Oh, si, certo! 3…4…9…” iniziai.

Lui iniziò a segnare. “Si, poi?”.

“6…1… Scemo!” risposi trionfante, ridendo come una matta insieme a Titti, schiacciando il cinque e lasciandolo lì inebetito per la figuraccia.

“Sei stata mitica, sister!” si congratulò Titti.

“Hai visto come c’è rimasto?” sghignazzai.

Ci avviammo all’uscita della stazione quando vidi un gruppo di persone che conoscevo fin troppo bene venirci incontro.

“Oh! Zio Max, Bea, Manu, Angelo!” esclamai, lasciando perdere il trolley e correndo ad abbracciarli. Erano dei cari amici di famiglia a cui ero affezionatissima, soprattutto a Manuele, la loro figlia maggiore che aveva otto anni in più a me e a suo padre Massimo. “Che ci fate qui?”.

“Siamo venuti a salutarti, tra un’ora partiamo per cinque giorni per Atene e volevamo salutarti” spiegò Manuela, con i lunghi capelli scuri e un sorriso dipinto in faccia mentre mi riabbracciava.

“Hai fatto la brava?” chiese minaccioso suo fratello Angelo, la piccola peste della famiglia.

“E tu?” chiesi spavalda. “Spii ancora le telefonate di Manu?”.

Lui mi guardò con aria di sfida, facendomi la linguaccia.

“E’ nel suo DNA” sospirò suo padre. “Fatti abbracciare, nipotina” aggiunse. Nonostante avesse circa 59 anni mi sembrava sempre giovane, allegro e solare. Lo adoravo, era il mio zietto preferito.

“Allora, come stai, futura collega?” mi chiese sua moglie Beatrice, che accennava al fatto che andassi a medicina visto che lei era una ginecologa.

“Bene, Riccione è proprio bella e ci siamo divertite un casino!” risposi, entusiasmata al solo ricordo.

Restammo a parlare per un po’ finchè non ci salutammo ed andai a casa di Titti per aiutarla a sistemare i suoi bagagli.

Così quella sera arrivai a casa alle otto e venti, stanca, sudata e affamata. Posai il gigantesco trolley e il borsone che mi ero portata dietro e bussai al cancello della villetta in cui abitavo, ma dalle voci che udivo capii che i miei erano in giardino con i nostri amici di famiglia.

“Chi è?” disse la voce di mio padre.

“I ladri” risposi sarcastica, e lo sentii ridere. “Entra piccola!”.

Piccola, sigh. Per papà sarei sempre rimasta una bambina bisognosa di coccole e affetto, è come se fossi rimasta a dodici anni per lui, ma è inutile dire che è l’unico uomo sulla faccia della terra che non mi abbia mai delusa. Sono sempre stata la sua cocca, e fiera di esserlo.

Varcai la soglia del cancello, e vidi la porta di casa spalancarsi. Mia madre, identica a me con i capelli castani e mossi e gli occhi dello stesso colore pieni di entusiasmo, mi salutò con la mano.

“Finalmente sei tornata!” urlò.

“Che peccato, sarei voluta rimanere lì” finsi, prima di vedere il mio dolce fratellino sedicenne, Gabriele, comparire dietro le sue spalle insieme a papà e sorridermi.

“Ciao!” esclamò, venendomi incontro ed abbracciandomi. Come io sono la copia di mamma esteticamente, lui lo è di papà: capelli lisci castani, occhi castano miele, proprio come me, e alto già un metro e settantotto.

Ricambiai la stretta, poi si offrì di portare su le mie valige e così mi dedicai a salutare i miei vecchi.

“Come sei abbronzata!” disse mamma.

“Vieni in giardino, ci sono zia Eva e zio Giuseppe e Paris e Daniele” dichiarò papà, così li seguii, anche se il primo istinto sarebbe stato quello di andare nella mia camera e farmi una bella doccia e indossare qualcosa di più fresco dei miei jeans. Sorrisi nel vedere il mio scooter già fuori al garage, messo probabilmente come segno di benvenuto poco prima,quando li avevo chiamati per dirgli del mio arrivo, e i miei pensieri già erano rivolti al giorno dopo, su cui ci sarei salita e avrei fatto una bella scorrazzata per Roma.

“Sabri!” urlò mia cugina Vittoria, figlia di zia Eva, la cugina di mamma, e Zio Giuseppe.

“Ciao Vitt, ciao gente” salutai sorridente, salutando tutti.

Presi posto tra Vittoria e Belle, la sedicenne figlia di Paris, la manager di mia madre e del suo migliore amico, e mi versai un bicchiere di limonata  dalla bottiglia che c’era sul tavolino.

“Allora, nomi e cognomi” disse zio Giuseppe, con il suo intramontabile sorriso solare, guardandomi intensamente.

“Cosa?” domandai senza capire, e Roberto, il gemello di Vittoria, ghignò.

“Nomi e cognomi” ripetè lui.

“Ma di chi?”.

“Dei tipi che ti hanno corteggiato in vacanza e che tu, da brava nipote quale sei, hai respinto” spiegò maliziosamente, prima che tutti scoppiassero a ridere.

Solo papà non sembrava divertito più di tanto, e mamma scosse il capo, rassegnata. Evidentemente lui pendeva dalle mie labbra per la risposta.

“Zio, scusami me ne sono così tanti che non li ricordo tutti” ribattei, e papà quasi sbiancò.

“Andrea, ma la smetti? Era una battuta e anche se fosse, ti ricordo che lo scorso 25 marzo tua figlia ha compiuto vent’anni” gli ricordò mamma, ma lui fece finta di nulla.

“Papà, lo sai che il mio fidanzato sarai sempre e solo tu” gli dissi, e lui mi sorrise, sospirando. Nonostante l’età, papà restava sempre un bell’uomo, affascinante e poi, vabbè, famoso, anche se stava per incidere l’ultimo cd con il suo gruppo, i Gold Boyz, di cui anche zio Giuseppe faceva parte. Sin da piccola io e mio fratello abbiamo sempre subito un po’ il fatto di avere dei genitori famosi, il mondo esterno si aspettava chissà che cosa da noi, magari che io seguissi le orme di mia madre o che diventassi una cantante, ma avevo preferito studiare medicina visto che non avevo nessun particolare talento artistico.

“Oddio, e stacchiamolo questo cordone ombelicale/paternale!” esclamò zia Eva, e tutti ridemmo.

Vittoria, che dimostrava molto di più dei suoi sedici anni, mi diede delle gran pacche sulle spalle e mia madre spinse lievemente mio padre che sembrava imbronciato.

“Tesoro, noi andiamo a prenderci un gelato, vuoi venire? Abbiamo qualche novità da dirti” mi domandò mia madre poco dopo, mentre si accingeva a salire sopra per prepararsi.

“No, grazie, sono esausta, mi sa che andrò a farmi una doccia lunga tre ore e poi andrò a dormire” risposi. “Me le direte domani queste novità, ok?”.

“Va bene”.

Così lei e papà salirono, invece Gabriele scese, nel suo migliore look estivo con bermuda bianchi, scarpe da ginnastica e maglia azzurra a mezze maniche. “Belle, puoi venire un secondo? Devo parlarti” domandò, e la ragazza, con il suo solito ondeggiare elegantemente invece di camminare, scuotendo i lunghi capelli biondi, annuì, sorridendo e avvicinandosi. Li vidi parlare, finchè lei non lo guardò scioccata e alterata e… Puff!, lo schiaffeggiò sulla guancia destra, riempiendolo d’insulti.

“Belle!” la chiamò la madre.

“Stronzo spione cafone, non azzardarti mai più, mi hai capito?” urlò lei ancora rivolta a mio fratello, infischiandosene della madre, alzandosi sulle punte per sovrastarlo ma senza successo.

Gabriele la guardava incredulo, con la mano posata sulla guancia schiaffeggiata, e la vide uscire dal giardino come una furia mentre prendeva le chiavi del motorino e dire ai genitori che sarebbe tornata più tardi a casa.

“Cosa le hai detto?” domandò sospettoso suo padre Daniele, avvicinandosi.

“Che ho saputo con chi esce e che non mi piace. E’ un teppista tatuato che spesso spaccia droga a Piazza Di Spagna!” rispose lui, decidendo di fare la spia per vendicarsi, con il volto acceso di nonsochè.

Daniele sbiancò all’istante, ma sua moglie tentò di gestire meglio la situazione, mentre zia Eva e zio Giuseppe guardavano sospettosi i loro gemelli, evidentemente chiedendosi se anche loro avessero a che fare con simili coetanei. Peccato che uno di loro gliene avrebbe date di preoccupazioni, solo qualche settimana più tardi.

Feci da spettatore a vari momenti caos, che raggiunsero il culmine nel momento in cui Daniele decise di scovare sua figlia e portarla a casa, finchè non se ne andarono tutti, lasciandomi finalmente un po’ di meritata privacy, così salii in camera mia, aprii la valigia, presi un telo da bagno bianco, la biancheria pulita e, visto che i miei pigiami erano sporchi, presi una maglia extra large di papà per farla fungere da camicia da notte e mi diressi nel mio piccolo paradiso personale, la dependance della villa.

Quella parte della casa era diventata il mio rifugio da quando andavo all’università, visto che ogni volta che avevo da studiare per un esame me ne stavo lì dentro a studiare e spesso non uscivo per giorni e per giorni, dopo aver riempito il frigo di cibo e portato qualche indumento.

Per cui vi entrai e subito mi fiondai nella doccia per chissà quanto tempo, rilassandomi sotto il getto d’acqua tiepida.

Una volta uscita mi frizionai i capelli bagnati con l’asciugamano, li pettinai e circondai il mio corpo ancora gocciolante con il telone. Poi indossai quella sorta di camicia da notte e accesi il phon per asciugare i capelli, e andai avanti per un po’ prima di ricordarmi di non aver preso la spuma, ingrediente ultra necessario per far venire bene quell’intreccio di capelli mossi e crespi che mi ritrovo, regalo del DNA di mia madre.

“Uffa” brontolai, posai il phon e uscì dal bagno. Il solo pensiero di dover tornare nella villa e prendere la spuma nel trolley mi seccava, anche perché di sicuro il tocco rinfrescante della doccia sarebbe svanito e mi sarei ritrovata di nuovo tutta sudata.

Ero nel piccolo corridoio laterale all’ingresso quando sentii delle chiavi nella toppa della porta. Esitai, dicendomi che probabilmente era Gabriele che voleva isolarsi dopo il pasticcio combinato con Belle, e stavo per entrare nell’ingresso quando, da dietro lo stipite, sentii un “Finalmente!” detto da una voce maschile che non conoscevo.

Mi sentii tremare per la paura. Un ladro! Un secondo… I ladri non hanno le chiavi!

Vidi un uomo di nemmeno trent’ anni entrare, posare delle valige e poi accendere la luce.

Cosa fare? Stavo morendo di paura, chi era quello sconosciuto?

“Mi scusi, ha preso casa mia per un hotel? Chi le ha dato le chiavi?” domandai con molto più coraggio di quanto avessi, uscendo dall’ombra e facendolo sobbalzare.

Lui mi guardò e istintivamente il suo sguardo si posò sulle mie gambe scoperte. Arrossii, ricordando la maglia che fungeva da camicia da notte e in che condizioni fossero i miei capelli e istintivamente mi coprii di nuovo dietro lo stipite della porta.

E l’uomo, sapete cosa fece? Rise.

“Tu devi essere Sabrina Romani” dedusse.

Alzai lo sguardo, stranita, cercando di vedere se lo conoscevo. Era molto alto e magro, con un viso dalla mascella un po’ quadrata, i capelli castano scuro un po’ ribelli e lunghi e gli occhi color miele che mi guardavano curiosi. Ma sembrava fosse appena tornato dal mare visti i bermuda di jeans e la camicia bianca a mezze maniche.

“Come fai a…?” domandai incredula.

Lo sconosciuto rise. “I giornali parlano di te da quando eri una neonata, non puoi pretendere di restare ignota a tutti dopo vent’anni” mi ricordò.

Lo guardai torva, socchiudendo gli occhi. Sapeva pure la mia età, perfetto, e agari sapeva anche quando e quale era stata la mia prima parola – lì ammisi di non saperla nemmeno io- e quando avessi preso all’ultimo esame- 29, quello si che lo ricordavo bene dopo un mese di segregazione in casa. “Ma resta il fatto che per me sei un totale sconosciuto che si è intrufolato nella mia dependance con delle chiavi di sicuro rubate” ribattei furente.

“Sul serio non sai chi sono?” domandò scettico.

“Si, scusa se non ho letto l’ultimo numero di “Cosmopolita”. Perché dovrei spere chi sei? Magari un truffatore? Un ladro?” sbottai, quando in realtà avevo una grossa paura nel trovarmi davanti uno sconosciuto- sebbene carino e affascinante, dovevo ammetterlo- nella dependance di casa mia.

“Sono semplicemente Cristian,  colui che ha affittato questa dependance fino a giugno prossimo e che prende ripetizioni di inglese da tua madre da una settimana” rispose. “Possibile che non ne sai nulla?” chiese ancora.

Per un secondo inveii mentalmente contro mia madre e la sua laura in inglese e spagnolo.

“No, non ne so nulla! Ma non mi fido, sai? Mia madre mi avrebbe avvertito se un estraneo sarebbe piombato a casa nostra alle nove e mezzo di sera…”.

“E’ colpa mia, sarei dovuto venire nel pomeriggio di domani ma ce l’ho fatta a venire prima” spiegò.

E poi capii. Ecco la novità di cui mi parlava mamma!

“Se vuoi ti faccio vedere il contratto d’affitto e ti fidi” aggiunse.

“Si, fammelo vedere” imposi sfacciatamente. Mi guardò sempre più incredulo- o forse era solo per il mio goffo rifugio dietro la porta- prima di frugarsi nella tasche ed estrarre un  foglio.

“Se vieni a prendertelo…” disse, sventolandolo.

“Certo che no, non mi faccio vedere mezza nuda da un estraneo maleducato che non informa della sua venuta” dissi acida.

“Immagino che invece questa regola non valga per i capelli” ribattè, divertito, indicando la paglia scura che ormai mi ritrovavo in testa al posto della chioma, su cui un’aquila avrebbe potuto comodamente farci un bel nido.

Feci un’espressione rabbiosa e lui parve abbassare la cresta, avvicinandosi e porgendomelo. Lo lessi e a malincuore vidi la firma di mio padre.

Sbuffai. “Fidarsi è bene, non fidarsi è dieci volte meglio” ribadii per riprendermi dalla figuraccia.

Lui sorrise sarcastico ed annuì. “Certo, ma questa volta era superfluo”.

“Dipende dai punti di vista. E poi non capisco come i miei ti abbiano potuto affittare la dependance, io ci studio per gli esami, sai?” dissi.

“Ed io ci lavorerò” ribattè.

“Ci mancava solo il coinquilino antipatico qui” sbuffai.

“Grazie per l’accoglienza, vieni quando vuoi a  trovarmi, mi raccomando, ci prendiamo un caffè insieme”.

“Stai sicuro che mi porterò dietro una bella dose di veleno” dissi tra i denti.

“Prego?” chiese con aria innocente.

“Hai capito perfettamente. Ora se vuoi scusarmi me ne vado, ci vediamo a giugno per i saluti” dissi.

Levò un sopracciglio, ma continuava a sembrare divertito. “Ok, ciao”.

“Ti giri?”.

“Come?”.

“Girati! Non voglio che tu mi veda ulteriormente…”.

“Guarda che uscendo la gente ti vedrà dalla strada, preferisci farti vedere da una marea di loro piuttosto che da un solo sconosciuto?”.

“Certo. Ed ora ubbidisci” gli imposi seccata.

“Dimmi quelle due paroline magiche e farò ciò che dici” impose  a sua volta.

“Tu sei pazzo” decretai, guardandolo come se fosse un tipo da manicomio.

“Un pazzo che non si gira se non dici “Per favore”…”.

Stava continuando a blaterare ma lo interruppi, gridando come una forsennata.

“Cosa c’è?” chiese. Indicai alle sue spalle, con un’espressione impaurita.

“Un ragno gigante! Oddio, io ho la fobia dei ragni…” piagnucolai. “Ogni volta che en vedo uno non dormo per una settimana! Aiutami! Scaccialo!” strillai, a tal punto di farlo divenire preoccupato.

Si girò per controllare ed io, con una velocità mai usata prima, me ne sgaiattolai dalla porta. “Te l’ho fatta!” gridai esultante, e quando mi voltai nella notte vidi che mi stava guardando, affacciandosi dalla porta, tra il frustrato e l’ammirato.

Continua....

Un po’ di Anticipazioni…

La guardai incredula e scossi il capo. “No, io non faccio amicizia con i guardoni…” dissi decisa, e a quelle parole mamma mi guardò scossa.

 °*°*°*°*°*°*

“Voleva obbligarti a fare qualcosa?”. Ormai papà pendeva dalle mie labbra  e stringeva la pezza di pelle con cui stava lucidando l’auto.

 °*°*°*°*°*°*

Ci fu un minuto di silenzio, poi Stella parve rianimarsi. “Comunque, ti dispiace se porto l’invito di Ilaria a Cristian?” aggiunse.

 

 Spazio Autrice: 

 
Ciao a tutti!

Beh, chi ha seguito “Confessions of a Teenage Drama Queen” e “Confessions of a Future Bride” ha capito che questa fic è il loro continuo, solo che tratta dei figli dei personaggi di queste due storie. Ma chi non l’ha lette ed è arrivato fin qui, tranquilli, quelle cose poche che ci sono da sapere le indicherò io quando sarà il momento, per ora può essere seguita come una storia senza precedenti, anche perchè narrando Sbrina spiega le cose sapute grazie alle precedenti storie come il mestiere dei genitori ecc…

Ci sono molto affezionata anche a questa storia, e, come si dice, non c’è due senza tre. Poi la pianterò, promesso! xD

Cosa dirvi, se un po’ vi ha incuriositi questo primo capitolo e volete continuare a vedere cosa combineranno Sabrina e gli altri, ora che questo Cristian è piombato in casa loro, non vi resta che farmelo sapere con una piccola recensioncina ina ina ina ^^…

Un bacione,

la vostra milly92.

  
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