Love
Generation
Prologo
Quando ero più piccola non riuscivo ad
addormentarmi se mia madre non mi leggeva una storia, e la cosa divenne una
dipendenza quando raggiunsi gli otto anni e, poiché ero stufa di storie
infantili che parlavano di principesse, rospi e lupi, lei iniziò a leggermi
un’altra storia. La sua. Era divisa in due libri massicci, scritti da lei visto
che era una scrittrice, e parlava di tante cose belle: amore, amicizia, e anche
qualche momento di caos. E quando terminò di leggerli entrambi-ormai avevo
dieci anni- mi venne solo da dire: “Che bello. Vorrei che tutte queste cose
capitassero anche a me, un giorno”.
Mamma mi sorrise e mi rimboccò le coperte,
accarezzandomi i capelli. “Certo che ti capiteranno, Sabrina. E, credimi,
quando ti succederà, nei primi momenti quasi quasi non ne sarai così
entusiasta” mi spiegò con dolcezza e nostalgia.
“E perché?”.
“Perché sarai così innamorata, confusa e
gioiosa che ti mancherà la tua vita di prima, troppo monotona al confronto
senza casini e lotte, pur di ottenere ciò che vuoi. Anzi, chi vuoi” sussurrò.
E aveva maledettamente ragione, mi dissi,
circa dieci anni dopo. La mia vita era stata sconvolta da una persona che
inizialmente credevo mi fosse indifferente e, mano a mano, iniziai a pensare
che scriverci un libro, vista la sua assurdità e totale mancanza di monotonia
in certi momenti, sarebbe stata un’ottima idea. Peccato che non fossi nata per
fare la scrittrice, bensì il medico. Mi piaceva aiutare e curare la gente in
difficoltà…
Peccato che quella malattia di cuore che mi
beccai non poteva essere curata senza l’unico rimedio: stare con lui.
“Quando sono buona sono molto
buona,
ma quando sono cattiva sono
meglio”
Mae West
Capitolo 1
Ora Capisco Perché Mamma Mi Diceva Di Non Dar Retta Agli
Sconosciuti
“Sabrina, penso proprio che lo shopping non
porti tutti i benefici che mi dici sempre” ridacchiò Titti. “In questo momento
niente auto glorificazione, compiacimento e soddisfazione, solo una gran voglia
di comprare un’ulteriore valigia… Ma pensandoci bene anche questo implicherebbe
ulteriore shopping, no?”.
“Taci, scema. Piantala di blaterare con la
tua filosofia spiccia… Anzi, aiutami…” ribattei, porgendole dei jeans e tre
camicette colorate. La mia valigia non voleva proprio saperne niente di
chiudersi, e mi ricordava lievemente una persona enorme ed obesa che ha
mangiato a dismisura e sta per vomitare, visto che alcune maglie erano così
inclinate che tendevano a cadere giù.
“E cosa dovrei fare? Un incantesimo di
riduzione?” domandò, indicando allusiva verso i vestiti che fuoriuscivano
minacciosi, facendo la finta tonta.
“No, mettere questa roba nel tuo secondo trolley
visto che è mezzo vuoto” risposi con una semplicità estrema, quasi come se lei
fosse tarda e non sapessi che aveva capito perfettamente e che cercava solo di
essere sarcastica.
Titti mi guardò, sospirando, e poi ubbidì,
rassegnata.
“Grazie, sei la migliore!” esultai, visto
che senza quella roba il trolley si chiuse.
“Lo so, approfittatrice”.
Ci guardammo e scoppiammo a ridere.
L’ultimo giorno di vacanza a Riccione era
giunto, ed io mi accingevo a preparare le valigie con riluttanza, anche se
avevo rimandato per ore ed ore quel compito. Per questo era quasi mezzanotte,
la stanza d’hotel che avevamo affittato avvolgeva me e la mia migliore amica
Titti per le ultime ore, visto che l’indomani alle dieci e un quarto avremmo
dovuto prendere il treno che ci avrebbe ricondotte a Roma.
Erano state tre settimane indimenticabili,
perfette per smaltire un po’ dello stress che avevo accumulato quell’anno per
gli esami di medicina; avevamo conosciuto tante persone, dormito poco e niente
per aspettare l’alba e mangiarci un bel cornetto caldo a quell’ora, eravamo
andate a delle terme lì vicino, e ovviamente non erano mancate ore ed ore di
sano shopping. Proprio per quest’ultimo motivo, quindi, il secondo dei due
trolley era strapieno e non si chiudeva.
Io e Titti ci conoscevamo dalla prima media
e da allora eravamo inseparabili: ognuno vedeva nell’altra la sorella che non
aveva mai avuto, anzi, con il passare degli anni lei vedeva in me e nella mia
famiglia i parenti che non ha mai avuto visto che era rimasta orfana all’età di
tre anni.
Sua madre era una donna indocinese, e suo
padre un italo africano da quel che sapeva, motivo che spiegava la sua pelle un
po’ scura, olivastra, gli occhi con un bellissimo taglio orientale e i capelli
corvini. Come si fossero conosciuti per lei era un mistero, ma fatto sta che
dopo la loro morte avvenuta in un incidente automobilistico lei era stata
adottata prima da una zia, poi era andata in una sorta di casa famiglia visto
che ella era emigrata in Francia.
All’anagrafe risultava essere Clementine
Hayumi Narducci, ma per me e chi la conosceva era sempre e solo stata Titti, la
ragazza dal cuore d’oro che ora lavorava come estetista e parrucchiera per mantenersi
e che un domani avrebbe voluto studiare cinese alla facoltà di lingue, dopo
aver conservato i soldi necessari.
Quindi, dato che non aveva voluto che le
comprassi qualcosa io e si era imposta di spendere pochissimi soldi dei suoi
risparmi, aveva comprato giusto due o tre cose e non aveva problemi con la
valigia.
“Ma
ci pensi che la nostra prima vacanza insieme si è già conclusa dopo che la
agognavamo da quando avevamo sedici anni? Ci sono voluti quattro anni per
realizzare questo sogno e già è tutto finito” si lamentò poco dopo, mentre
eravamo fuori il terrazzino della stanza, al chiarore della luna.
“Beh, la nostra prima vacanza da sole
l’avremmo potuto vivere anche due anni fa, appena maggiorenni, se tu non fossi
così cocciuta” le ricordai.
“Sabri, perché non mi capisci?” chiese
esasperata, scuotendo il capo. “Lo so che tu non hai problemi economici e che
mi avresti potuto aiutare pagandomi il viaggio, ma non mi va, voglio sudarmele
le cose, non voglio approfittare della tua generosità”.
Nella nostra amicizia, l’unica pecca era
sempre stata la nostra differenza economica: sin da piccola avevo sempre
sfoggiato vestiti griffati, intimo incluso, dato che mia madre, Debora Di Bene
in Romani, è una famosa scrittrice e mio padre Andrea è un cantante, quindi non
avevo mai saputo cosa fossero le difficoltà economiche finchè non avevo
conosciuto Titti, che mi aveva aperto gli occhi e mi aveva fatto capire che il
mondo non è solo quello che vedevo con i miei occhi di bambina abbastanza
viziata e coccolata.
“Approfittare?”. Risi. “Sei pazza? Insomma,
sarebbe stato un semplice regalo, non avresti dovuto restituirmi nulla…”.
“Appunto. E poi, guarda il lato positivo,
anche se siamo riuscite ad andare in vacanza da sole dopo che ho avuto le ferie
alla veneranda età di vent’anni, ci siamo godute il viaggio il doppio visto che
l’agognavamo da secoli” rispose, sorridendomi e voltandosi verso di me.
Annuii, dicendomi che con lei discutere non
sarebbe servito a nulla. Le sorrisi a mia volta e l’abbracciai.
“Ti voglio bene, sorellina” dissi.
“Te ne voglio anch’io” rispose, e restammo
così a guardare le stelle fino alle tre, nella speranza di vederne qualcuna
cadente ma senza successo, ora in cui ci addormentammo come se avessimo
trascorso una giornata a lavorare i campi, e continuammo il nostro indisturbato
sonnellino l’indomani nel treno, ignorando le occhiate spudorate di due ragazzi
seduti ai nostri lati.
Li evitammo, finchè non venne il momento di
scendere, a pomeriggio inoltrato.
“Permesso, permesso” protestai mentre
stavamo scendendo dal treno tra la folla, mentre tenevo Titti per mano per non
perderla.
Uno dei due si girò. “Ti faccio passare solo
se mi dai il tuo numero, dolcezza” sussurrò, facendo l’occhiolino. Era molto
alto e rasato, con vari piercing e gli occhi scurissimi.
“Ma certo” stetti al gioco, sorridendo in
stile ochetta, così lui ci fece passare.
“E il numero?” chiese poi, cacciando fuori
il telefono mentre la gente lo guardava male visto che gli impediva il
passaggio.
“Oh, si, certo! 3…4…9…” iniziai.
Lui iniziò a segnare. “Si, poi?”.
“6…1… Scemo!” risposi trionfante, ridendo
come una matta insieme a Titti, schiacciando il cinque e lasciandolo lì
inebetito per la figuraccia.
“Sei stata mitica, sister!” si congratulò
Titti.
“Hai visto come c’è rimasto?” sghignazzai.
Ci avviammo all’uscita della stazione quando
vidi un gruppo di persone che conoscevo fin troppo bene venirci incontro.
“Oh! Zio Max, Bea, Manu, Angelo!” esclamai,
lasciando perdere il trolley e correndo ad abbracciarli. Erano dei cari amici
di famiglia a cui ero affezionatissima, soprattutto a Manuele, la loro figlia
maggiore che aveva otto anni in più a me e a suo padre Massimo. “Che ci fate
qui?”.
“Siamo venuti a salutarti, tra un’ora
partiamo per cinque giorni per Atene e volevamo salutarti” spiegò Manuela, con
i lunghi capelli scuri e un sorriso dipinto in faccia mentre mi riabbracciava.
“Hai fatto la brava?” chiese minaccioso suo
fratello Angelo, la piccola peste della famiglia.
“E tu?” chiesi spavalda. “Spii ancora le
telefonate di Manu?”.
Lui mi guardò con aria di sfida, facendomi
la linguaccia.
“E’ nel suo DNA” sospirò suo padre. “Fatti
abbracciare, nipotina” aggiunse. Nonostante avesse circa 59 anni mi sembrava
sempre giovane, allegro e solare. Lo adoravo, era il mio zietto preferito.
“Allora, come stai, futura collega?” mi
chiese sua moglie Beatrice, che accennava al fatto che andassi a medicina visto
che lei era una ginecologa.
“Bene, Riccione è proprio bella e ci siamo
divertite un casino!” risposi, entusiasmata al solo ricordo.
Restammo a parlare per un po’ finchè non ci
salutammo ed andai a casa di Titti per aiutarla a sistemare i suoi bagagli.
Così quella sera arrivai a casa alle otto e
venti, stanca, sudata e affamata. Posai il gigantesco trolley e il borsone che
mi ero portata dietro e bussai al cancello della villetta in cui abitavo, ma
dalle voci che udivo capii che i miei erano in giardino con i nostri amici di
famiglia.
“Chi è?” disse la voce di mio padre.
“I ladri” risposi sarcastica, e lo sentii
ridere. “Entra piccola!”.
Piccola, sigh. Per papà
sarei sempre rimasta una bambina bisognosa di coccole e affetto, è come se
fossi rimasta a dodici anni per lui, ma è inutile dire che è l’unico uomo sulla
faccia della terra che non mi abbia mai delusa. Sono sempre stata la sua cocca,
e fiera di esserlo.
Varcai la soglia del cancello, e vidi la
porta di casa spalancarsi. Mia madre, identica a me con i capelli castani e
mossi e gli occhi dello stesso colore pieni di entusiasmo, mi salutò con la
mano.
“Finalmente sei tornata!” urlò.
“Che peccato, sarei voluta rimanere lì”
finsi, prima di vedere il mio dolce fratellino sedicenne, Gabriele, comparire
dietro le sue spalle insieme a papà e sorridermi.
“Ciao!” esclamò, venendomi incontro ed
abbracciandomi. Come io sono la copia di mamma esteticamente, lui lo è di papà:
capelli lisci castani, occhi castano miele, proprio come me, e alto già un
metro e settantotto.
Ricambiai la stretta, poi si offrì di
portare su le mie valige e così mi dedicai a salutare i miei vecchi.
“Come sei abbronzata!” disse mamma.
“Vieni in giardino, ci sono zia Eva e zio
Giuseppe e Paris e Daniele” dichiarò papà, così li seguii, anche se il primo
istinto sarebbe stato quello di andare nella mia camera e farmi una bella
doccia e indossare qualcosa di più fresco dei miei jeans. Sorrisi nel vedere il
mio scooter già fuori al garage, messo probabilmente come segno di benvenuto
poco prima,quando li avevo chiamati per dirgli del mio arrivo, e i miei
pensieri già erano rivolti al giorno dopo, su cui ci sarei salita e avrei fatto
una bella scorrazzata per Roma.
“Sabri!” urlò mia cugina Vittoria, figlia di
zia Eva, la cugina di mamma, e Zio Giuseppe.
“Ciao Vitt, ciao gente” salutai sorridente, salutando
tutti.
Presi posto tra Vittoria e Belle, la
sedicenne figlia di Paris, la manager di mia madre e del suo migliore amico, e
mi versai un bicchiere di limonata dalla
bottiglia che c’era sul tavolino.
“Allora, nomi e cognomi” disse zio Giuseppe,
con il suo intramontabile sorriso solare, guardandomi intensamente.
“Cosa?” domandai senza capire, e Roberto, il
gemello di Vittoria, ghignò.
“Nomi e cognomi” ripetè lui.
“Ma di chi?”.
“Dei tipi che ti hanno corteggiato in
vacanza e che tu, da brava nipote quale sei, hai respinto” spiegò
maliziosamente, prima che tutti scoppiassero a ridere.
Solo papà non sembrava divertito più di
tanto, e mamma scosse il capo, rassegnata. Evidentemente lui pendeva dalle mie
labbra per la risposta.
“Zio, scusami me ne sono così tanti che non
li ricordo tutti” ribattei, e papà quasi sbiancò.
“Andrea, ma la smetti? Era una battuta e
anche se fosse, ti ricordo che lo scorso 25 marzo tua figlia ha compiuto
vent’anni” gli ricordò mamma, ma lui fece finta di nulla.
“Papà, lo sai che il mio fidanzato sarai
sempre e solo tu” gli dissi, e lui mi sorrise, sospirando. Nonostante l’età,
papà restava sempre un bell’uomo, affascinante e poi, vabbè, famoso, anche se
stava per incidere l’ultimo cd con il suo gruppo, i Gold Boyz, di cui anche zio
Giuseppe faceva parte. Sin da piccola io e mio fratello abbiamo sempre subito
un po’ il fatto di avere dei genitori famosi, il mondo esterno si aspettava
chissà che cosa da noi, magari che io seguissi le orme di mia madre o che
diventassi una cantante, ma avevo preferito studiare medicina visto che non
avevo nessun particolare talento artistico.
“Oddio, e stacchiamolo questo cordone
ombelicale/paternale!” esclamò zia Eva, e tutti ridemmo.
Vittoria, che dimostrava molto di più dei
suoi sedici anni, mi diede delle gran pacche sulle spalle e mia madre spinse
lievemente mio padre che sembrava imbronciato.
“Tesoro, noi andiamo a prenderci un gelato,
vuoi venire? Abbiamo qualche novità da dirti” mi domandò mia madre poco dopo,
mentre si accingeva a salire sopra per prepararsi.
“No, grazie, sono esausta, mi sa che andrò a
farmi una doccia lunga tre ore e poi andrò a dormire” risposi. “Me le direte
domani queste novità, ok?”.
“Va bene”.
Così lei e papà salirono, invece Gabriele
scese, nel suo migliore look estivo con bermuda bianchi, scarpe da ginnastica e
maglia azzurra a mezze maniche. “Belle, puoi venire un secondo? Devo parlarti”
domandò, e la ragazza, con il suo solito ondeggiare elegantemente invece di
camminare, scuotendo i lunghi capelli biondi, annuì, sorridendo e
avvicinandosi. Li vidi parlare, finchè lei non lo guardò scioccata e alterata
e… Puff!, lo schiaffeggiò sulla guancia destra, riempiendolo d’insulti.
“Belle!” la chiamò la madre.
“Stronzo spione cafone, non azzardarti mai
più, mi hai capito?” urlò lei ancora rivolta a mio fratello, infischiandosene
della madre, alzandosi sulle punte per sovrastarlo ma senza successo.
Gabriele la guardava incredulo, con la mano
posata sulla guancia schiaffeggiata, e la vide uscire dal giardino come una
furia mentre prendeva le chiavi del motorino e dire ai genitori che sarebbe
tornata più tardi a casa.
“Cosa le hai detto?” domandò sospettoso suo
padre Daniele, avvicinandosi.
“Che ho saputo con chi esce e che non mi
piace. E’ un teppista tatuato che spesso spaccia droga a Piazza Di Spagna!”
rispose lui, decidendo di fare la spia per vendicarsi, con il volto acceso di
nonsochè.
Daniele sbiancò all’istante, ma sua moglie
tentò di gestire meglio la situazione, mentre zia Eva e zio Giuseppe guardavano
sospettosi i loro gemelli, evidentemente chiedendosi se anche loro avessero a
che fare con simili coetanei. Peccato che uno di loro gliene avrebbe date di
preoccupazioni, solo qualche settimana più tardi.
Feci da spettatore a vari momenti caos, che
raggiunsero il culmine nel momento in cui Daniele decise di scovare sua figlia
e portarla a casa, finchè non se ne andarono tutti, lasciandomi finalmente un
po’ di meritata privacy, così salii in camera mia, aprii la valigia, presi un
telo da bagno bianco, la biancheria pulita e, visto che i miei pigiami erano
sporchi, presi una maglia extra large di papà per farla fungere da camicia da
notte e mi diressi nel mio piccolo paradiso personale, la dependance della
villa.
Quella parte della casa era diventata il mio
rifugio da quando andavo all’università, visto che ogni volta che avevo da
studiare per un esame me ne stavo lì dentro a studiare e spesso non uscivo per
giorni e per giorni, dopo aver riempito il frigo di cibo e portato qualche
indumento.
Per cui vi entrai e subito mi fiondai nella
doccia per chissà quanto tempo, rilassandomi sotto il getto d’acqua tiepida.
Una volta uscita mi frizionai i capelli
bagnati con l’asciugamano, li pettinai e circondai il mio corpo ancora
gocciolante con il telone. Poi indossai quella sorta di camicia da notte e
accesi il phon per asciugare i capelli, e andai avanti per un po’ prima di
ricordarmi di non aver preso la spuma, ingrediente ultra necessario per far
venire bene quell’intreccio di capelli mossi e crespi che mi ritrovo, regalo
del DNA di mia madre.
“Uffa” brontolai, posai il phon e uscì dal
bagno. Il solo pensiero di dover tornare nella villa e prendere la spuma nel
trolley mi seccava, anche perché di sicuro il tocco rinfrescante della doccia
sarebbe svanito e mi sarei ritrovata di nuovo tutta sudata.
Ero nel piccolo corridoio laterale
all’ingresso quando sentii delle chiavi nella toppa della porta. Esitai,
dicendomi che probabilmente era Gabriele che voleva isolarsi dopo il pasticcio
combinato con Belle, e stavo per entrare nell’ingresso quando, da dietro lo
stipite, sentii un “Finalmente!” detto da una voce maschile che non conoscevo.
Mi sentii tremare per la paura. Un ladro! Un
secondo… I ladri non hanno le chiavi!
Vidi un uomo di nemmeno trent’ anni entrare,
posare delle valige e poi accendere la luce.
Cosa fare? Stavo morendo di paura, chi era
quello sconosciuto?
“Mi scusi, ha preso casa mia per un hotel?
Chi le ha dato le chiavi?” domandai con molto più coraggio di quanto avessi,
uscendo dall’ombra e facendolo sobbalzare.
Lui mi guardò e istintivamente il suo
sguardo si posò sulle mie gambe scoperte. Arrossii, ricordando la maglia che
fungeva da camicia da notte e in che condizioni fossero i miei capelli e
istintivamente mi coprii di nuovo dietro lo stipite della porta.
E l’uomo, sapete cosa fece? Rise.
“Tu devi essere Sabrina Romani” dedusse.
Alzai lo sguardo, stranita, cercando di
vedere se lo conoscevo. Era molto alto e magro, con un viso dalla mascella un
po’ quadrata, i capelli castano scuro un po’ ribelli e lunghi e gli occhi color
miele che mi guardavano curiosi. Ma sembrava fosse appena tornato dal mare
visti i bermuda di jeans e la camicia bianca a mezze maniche.
“Come fai a…?” domandai incredula.
Lo sconosciuto rise. “I giornali parlano di
te da quando eri una neonata, non puoi pretendere di restare ignota a tutti
dopo vent’anni” mi ricordò.
Lo guardai torva, socchiudendo gli occhi.
Sapeva pure la mia età, perfetto, e agari sapeva anche quando e quale era stata
la mia prima parola – lì ammisi di non saperla nemmeno io- e quando avessi
preso all’ultimo esame- 29, quello si che lo ricordavo bene dopo un mese di
segregazione in casa. “Ma resta il fatto che per me sei un totale sconosciuto
che si è intrufolato nella mia dependance con delle chiavi di sicuro rubate”
ribattei furente.
“Sul serio non sai chi sono?” domandò
scettico.
“Si, scusa se non ho letto l’ultimo numero
di “Cosmopolita”. Perché dovrei spere chi sei? Magari un truffatore? Un ladro?”
sbottai, quando in realtà avevo una grossa paura nel trovarmi davanti uno
sconosciuto- sebbene carino e affascinante, dovevo ammetterlo- nella dependance
di casa mia.
“Sono semplicemente Cristian, colui che ha affittato questa dependance fino
a giugno prossimo e che prende ripetizioni di inglese da tua madre da una
settimana” rispose. “Possibile che non ne sai nulla?” chiese ancora.
Per un secondo inveii mentalmente contro mia
madre e la sua laura in inglese e spagnolo.
“No, non ne so nulla! Ma non mi fido, sai?
Mia madre mi avrebbe avvertito se un estraneo sarebbe piombato a casa nostra
alle nove e mezzo di sera…”.
“E’ colpa mia, sarei dovuto venire nel
pomeriggio di domani ma ce l’ho fatta a venire prima” spiegò.
E poi capii. Ecco la novità di cui mi parlava
mamma!
“Se vuoi ti faccio vedere il contratto
d’affitto e ti fidi” aggiunse.
“Si, fammelo vedere” imposi sfacciatamente.
Mi guardò sempre più incredulo- o forse era solo per il mio goffo rifugio
dietro la porta- prima di frugarsi nella tasche ed estrarre un foglio.
“Se vieni a prendertelo…” disse,
sventolandolo.
“Certo che no, non mi faccio vedere mezza
nuda da un estraneo maleducato che non informa della sua venuta” dissi acida.
“Immagino che invece questa regola non valga
per i capelli” ribattè, divertito, indicando la paglia scura che ormai mi
ritrovavo in testa al posto della chioma, su cui un’aquila avrebbe potuto
comodamente farci un bel nido.
Feci un’espressione rabbiosa e lui parve
abbassare la cresta, avvicinandosi e porgendomelo. Lo lessi e a malincuore vidi
la firma di mio padre.
Sbuffai. “Fidarsi è bene, non fidarsi è
dieci volte meglio” ribadii per riprendermi dalla figuraccia.
Lui sorrise sarcastico ed annuì. “Certo, ma
questa volta era superfluo”.
“Dipende dai punti di vista. E poi non capisco
come i miei ti abbiano potuto affittare la dependance, io ci studio per gli
esami, sai?” dissi.
“Ed io ci lavorerò” ribattè.
“Ci mancava solo il coinquilino antipatico
qui” sbuffai.
“Grazie per l’accoglienza, vieni quando vuoi
a trovarmi, mi raccomando, ci prendiamo
un caffè insieme”.
“Stai sicuro che mi porterò dietro una bella
dose di veleno” dissi tra i denti.
“Prego?” chiese con aria innocente.
“Hai capito perfettamente. Ora se vuoi
scusarmi me ne vado, ci vediamo a giugno per i saluti” dissi.
Levò un sopracciglio, ma continuava a
sembrare divertito. “Ok, ciao”.
“Ti giri?”.
“Come?”.
“Girati! Non voglio che tu mi veda
ulteriormente…”.
“Guarda che uscendo la gente ti vedrà dalla
strada, preferisci farti vedere da una marea di loro piuttosto che da un solo
sconosciuto?”.
“Certo. Ed ora ubbidisci” gli imposi
seccata.
“Dimmi quelle due paroline magiche e farò
ciò che dici” impose a sua volta.
“Tu sei pazzo” decretai, guardandolo come se
fosse un tipo da manicomio.
“Un pazzo che non si gira se non dici “Per
favore”…”.
Stava continuando a blaterare ma lo
interruppi, gridando come una forsennata.
“Cosa c’è?” chiese. Indicai alle sue spalle,
con un’espressione impaurita.
“Un ragno gigante! Oddio, io ho la fobia dei
ragni…” piagnucolai. “Ogni volta che en vedo uno non dormo per una settimana!
Aiutami! Scaccialo!” strillai, a tal punto di farlo divenire preoccupato.
Si girò per controllare ed io, con una velocità mai usata prima, me ne sgaiattolai dalla porta. “Te l’ho fatta!” gridai esultante, e quando mi voltai nella notte vidi che mi stava guardando, affacciandosi dalla porta, tra il frustrato e l’ammirato.
Continua....
Un po’
di Anticipazioni…
La guardai incredula e scossi il capo. “No,
io non faccio amicizia con i guardoni…” dissi decisa, e a quelle parole mamma
mi guardò scossa.
“Voleva obbligarti a fare qualcosa?”. Ormai
papà pendeva dalle mie labbra e
stringeva la pezza di pelle con cui stava lucidando l’auto.
Ci fu un minuto di silenzio, poi Stella
parve rianimarsi. “Comunque, ti dispiace se porto l’invito di Ilaria a
Cristian?” aggiunse.
Ciao a tutti!
Beh, chi ha seguito “Confessions of a Teenage
Drama Queen” e “Confessions of a Future Bride” ha capito che questa fic è il
loro continuo, solo che tratta dei figli dei personaggi di queste due storie.
Ma chi non l’ha lette ed è arrivato fin qui, tranquilli, quelle cose poche che
ci sono da sapere le indicherò io quando sarà il momento, per ora può essere
seguita come una storia senza precedenti, anche perchè narrando Sbrina spiega
le cose sapute grazie alle precedenti storie come il mestiere dei genitori ecc…
Ci sono molto affezionata anche a questa
storia, e, come si dice, non c’è due senza tre. Poi la pianterò, promesso! xD
Cosa dirvi, se un po’ vi ha incuriositi
questo primo capitolo e volete continuare a vedere cosa combineranno Sabrina e
gli altri, ora che questo Cristian è piombato in casa loro, non vi resta che
farmelo sapere con una piccola recensioncina ina ina ina ^^…
Un bacione,
la vostra milly92.