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Autore: FreDrachen    05/09/2021    1 recensioni
Luca aveva davvero tutto nella vita. Era una promessa del calcio, popolare tra i suoi coetanei tanto da essere invitato a ogni festa, ed era oggetto di attenzione di ogni ragazza e non.
Insomma cosa si poteva volere dalla vita quando si aveva tutto?
Basta, però un semplice attimo, un incidente lo costringerà a una sedia a rotelle, e per questo sarà abbandonato dalle persone che un tempo lo frequentavano e veneravano quasi come un Dio.
Con la vita stravolta si chiude in se stesso e si rifiuterà di frequentare la scuola. Sua madre, esasperata da questa situazione, riesce a ottenere la possibilità, dalla scuola che Luca frequenta, di lezioni pomeridiane con un tutor che avrà lo scopo di fargli recuperare il programma perso.
E chi meglio di uno dell'ultimo anno come lui può riuscire nell'impresa?
Peccato che Luca sia insofferente agli intelligentoni e non sembra affatto intenzionato a cedere.
Peccato che Akira non sia affatto intenzionato ad arrendersi di fronte al suo carattere difficile.
Due ragazzi diversi ma destinati ad essere trascinati dall'effetto farfalla che avrà il potere di cambiare per sempre le loro vite.
[Storia presente anche su Wattpad, nickname FreDrachen]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 13


Mi sdraiai sul letto sfinito.

Non mi ricordavo che la scuola fosse così massacrante.

Mi portai un braccio sopra gli occhi per riposarmi un attimo, la testa che martellava come se avessi un concerto degli Skillet racchiuso nella scatola cranica.

Nessun professore si era risparmiato a farmi capire quando adorassero la mia fantastica presenza. E anche il pomeriggio era stato peggiore dell'inferno.

Ma vaffanculo.

Tolsi il braccio e presi il cellulare. Non avevo compiti per il giorno dopo ma anziché portarmi avanti con quelli degli altri giorni, giusto per non sopperire a farli e a ridurmi all'ultimo secondo, cominciai a spulciare tra i profili social dei miei compagni e pure dei tre Nerd.

La maggior parte erano anonimi pieni di cose che sinceramente non mi facevano ne caldo ne freddo.
Quelli dei nerd erano ricchi di quei fumetti che tanto piacevano ad Akira e questo mi fece salire una certa dose di gelosia acuta. Anch'io avrei cominciato a farmi una cultura di fumetti cinesi...coreani...oh bè insomma, quello che erano.

Entrai distrattamente anche in quello di Ippolito che era pieno di foto di lui in allenamento e anche qualche scatto preso dalle partite che aveva giocato.

Tutto di quelle foto urlava con spietatezza tutto quello che avevo perso. Dovevo esserci io su quelle foto, a sorridere ai tifosi, a segnare e aggiudicare la vittoria alla squadra cin magari il goal decisivo. Ippolito era la seconda scelta che era stata selezionata se avessi rifiutato la proposta di giocare in serie A. Sinceramente parlando solo un idiota avrebbe detto di no, ma ironia della sorte era stato il destino a decidere per me.

Stronzo di un karma!

Seccato a livelli massimi passai all'account di Agnese sfruttando la menzione sotto una foto, che si perdeva tra quelle calcistiche, in cui lei avvinghiata a Ippolito aveva la lingua di quest'ultimo quasi in fondo alla gola. Sinceramente parlando mi faceva abbastanza orrore.

L'account di Agnese non era poi così tanto cambiato dalle ultime volte che l'avevo spulciato (ora che ci pensavo era da quando avevo fatto pace con Akira che non avvertivo il bisogno di spettegolare i profili altrui...almeno fino a quel giorno). Era sempre ricca di foto con lei che indossava i capi di abbigliamento più disparati ma si vedeva che li sceglieva e abinava con estrema cura. Era stata costretta dai suoi genitori a fare biotecnologie sanitarie, un verità il suo sogno era fare la stilista o la fioraia, ed ecco l'altra parte di foto che campeggiava bel profilo. Riusciva a far crescere di tutto al contrario mio che avevo provato a curare un cactus e questo, da sano e forte come un pesce, era morto stecchito in meno di due giorni. Ce ne voleva a uccidere una pianta grassa per scarsità d'acqua.

E poi scorrendo più in giù dove non avevo avuto di scendere da dopo l'incidente trovai le foto che aveva con me. A differenza di Ippolito che le aveva cancellate tutte dalla faccia della terra come se avesse avuto paura si essere collegato a me come amico, lei le aveva conservate tutte.

Dai nostri baci, le nostre uscire con amici o intime. Ecco una dove la stavo baciando alla fine di una partita disputata come amichevole con la squadra che mi avrebbe preso a giocare. Ed eccone un'altra ai baracconi dopo che le avevo vinto un peluche di un orso gigante (a farlo stare sul bus senza molestare la gente era stata una tragedia greca).

Avvertì che inconsapevolmente gli occhi cominciavano a inumidirsi. Maledetti ricordi e maledetta Agnese che sembrava illudermi che tenesse ancora a me malgrado il suo comportamento.

E poi la vidi. Era la foto fatta a una foto cartacea, dato che quando era stata scattata venivano fatte ancora con i rullini (sembrava di essere nell'era preistorica), in cui c'eravamo io, Agnese e Ippolito all'ultimo anno di asilo. Sorridevamo soddisfatti all'obiettivo come se fossimo dei grandi avventurieri tornati vittoriosi dal loro viaggio. Ovviamente com'era quasi solito avevo dei cerotti anche in faccia, viste le mie cadute dagli alberi, Agnese aveva i pantaloni visibilmente macchiati di erba e fango mentre Ippolito, l'unico timido che sembrava voler sfuggire alla immortalazione del momento, sembrava quello messo meglio.

Eravamo un trio indivisibile, dove c'era uno c'erano subito gli altri due a dare man forte o a seguirti in una nuova avventura.

Cazzo maledette lacrime.

Perché mi tornavano in mente quei ricordi? Perché non dimenticavo o mettevo la parola fine a quei momenti passati insieme?

Non volevo capire che era tutto finito?

E mentre i sentimenti mi possedevano mi tornò alla mente il giorno che li incontrai per la prima volta.

Mi avevano cambiato di scuola all'ultimo anno di scuola materna. Mia madre mi aveva portato quasi trascinato di peso in quella nuova, un edificio enorme di color panna, ben diverso da quello che avevo frequentato fino alla settimana prima. Avevo avuto dei problemi con la maestra della vecchia scuola che mi metteva in punizione più volte al giorno per colpa di un altro bambino, il nipote di una sua vecchia collega. Fatto sta che gli faceva fare tutto quello che voleva e lui aveva deciso di prendermi di mira. Mi escludeva dai giochi con gli altri bambini e per di più se oponevo una certa resistenza andava a piagnucolare dalla maestra che era subito bella che pronta a mettermi in punizione seduto a uno dei tanti tavolini che avevamo. E per me, che era una tortura psicologica stare fermo, era il colmo. Così all'inizio dell'anno e dopo una sessione infernale da parte di mia madre a convincermi a tornare all'asilo contro le mie giustificate lamentele, decise di cambiarmi e a iscrivermi in quella che, vista dall'esterno, mi faceva salire una certa ansia da quanto era imponente e spaziosa, il che era dovuto al fatto che vi erano anche le elementari.

Stranamente timoroso, non mi scandalizzavo neanche di fronte a un film splatter con budella volanti, e avevo poco più di cinque anni, mi feci guidare da mia madre all'entrata e poi all'interno, dove constatai regnavano delle pareti bianche tempestate di innumerevoli disegni fatti da altri bambini. Di fronte all'entrata si apriva un'altra porta e sull'uscio vidi una donna dai capelli biondi dai ricci vaporosi che le incorniciavano un viso tondo con disegnato un sorriso schietto che me la rese subito simpatica.

Non appena fummo a pochi passi si fece avanti tendendo un poco le mani.

«Tu devi essere Luca. Benvenuto».

Aveva uno strano accento per nulla fastidioso, e scoprì, dopo anni, che era originaria di Roma.

Mia madre mi poggiò una mano dietro la schiena e mi invitò a fare un passo avanti verso quella che presumibilmente sarebbe diventata la mia maestra. Non opposi resistenza ma tenni bene lo sguardo puntato in basso mentre annuì.

La maestra si avvicinò e istintivamente feci un passo indietro. Non davo subito confidenza agli estranei, sarebbe dovuto passare ancora molto tempo prima di lasciarmi andare e a fidarmi di lei. Il primo impatto era stato positivo, ma chi poteva dirlo che sarebbe continuato così? Nella vecchia scuola avevo sbagliato a fidarmi della mia vecchia maestra e di certo non sarei finito nello stesso sbaglio.

Lei notò subito il mio disagio, era da dire che era una persona molto istintiva, e per questo si fermò osservandomi con dolcezza, molto simile ai primi sguardi che aveva avuto quella donna all'inizio.

«Che ne dici Luca? Andiamo in classe così potrai conoscere i tuoi nuovi compagni?»

Da solo con lei? Ma che credeva? Che fossi matto? Assolutamente no.

Indietreggiai fino a portarmi dietro le gambe di mia madre, afferrandole manco fossi una piovra.

Mia madre riuscì a liberarsi gentilmente dalla mia presa e si avvicinò alla maestra, cominciando a parlarle a bassa voce. Mano a mano che mia madre andava avanti con il discorso più il volto della maestra si rabbuiava e ogni tanto mi regalava strane occhiate tristi.

Alle ultime parole annuì e mia madre tornò da me, chinandosi alla mia altezza.

«Adesso andiamo in classe Luca, vedrai che qui starai bene».

Se lo diceva la mamma le credevo. Le sorrisi prendendole la mano e mi lasciai condurre lungo un lungo corridoi su cui si aprivano porte tinte di diversi colori. Ci fermammo davanti a quella blu, posizionata opposta rispetto a quella che avevamo varcato poco prima.

Dall'interno provenivano schiamazzi di altri bambini che parevano felici, e ne ebbi la conferma quando la maestra mi condusse all'interno.

La stanza era abbastanza spaziosa e molto luminosa piena di tavolini in plastica verdi e seggioline blu.

Dentro c'era anche un'altra donna più anziana di quella che mi aveva condotto lì, con i capelli grigi e un intrico di rughe a segnarle il volto. Sinceramente quell'aura severa poco si addiceva a una maestra di scuola materna. Mi faceva pensare alla strega cattiva delle favole.

«È il nuovo arrivato suppongo». Anche la voce pareva quasi seccata.

L'altra annuì solare e mi poggiò una mano dietro la schiena per avvicinarmi.
La donna spaventosa mi osservò con sguardo critico.

Mamma diceva che per fare più bella figura su doveva sorridere e dimostrarsi cordiali. Per questo sfoderai il mio sorriso con già un dente mancante, che avevo perso cascando da un albero su cui mi ero arrampicato, e anche un altro era leggermente scheggiato.

«Ma tu guardalo. Sembra che abbia fatto a botte con qualcuno» dichiarò fissandomi malissimo.

Mi sa tanto che dovevo dire a mia madre che la tecnica del sorriso era del tutto da rivedere.

Rimasi con questo sorriso ebete stampato in faccia e la sentì dire che si era beccata uno studente ritardato. Non avevo la più pallida idea di quello che stesse dicendo. Nel mentre passavo il peso da un piede all'altro, stare fermo mi faceva soffrire tantissimo.

«La smetti di muoverti in quel modo? Mi stai facendo venire il mal di testa. Ah ti prego Matilde, lo affido a te» disse la donna acida prima di allontanarsi per andare a sbraitare contro un gruppo di bambini che si stavano lanciando le macchinine contro.

La maestra Matilde sospirò stancamente e la osservò per un po' con espressione contrariata prima di concentrandosi su di me sorridendo caldamente.

«Vieni Luca, ti presento ai tuoi compagni».

E così mi fece conoscere da ogni gruppetto che si era formato per il momento giochi. Alcuni mi fissavano curiosi altri seccati, e capì subito che questi ultimi dovevano essere i bambini prepotenti che volevano avere sotto il loro controllo gli altri.

E infine li vidi. Due bambini, una femmina e un maschio, che stavano seduti a due tavoli separati e completamente soli. Il maschio aveva i capelli rossi e gli occhi di un verde strano ed era un po' sovrappeso. In quel momento stava mangiando una merendina farcita di cioccolato e crema e per questo si stava beccando la sgridata della Bisbetica che stava cercando di dissuaderlo a fare a meno di mangiarla. Questo però non sembrava ascoltarla e finì con tranquillità la sua merenda.

«Lui è Ippolito» me lo presentò la maestra Matilde, al che lo fissai con più attenzione. Aveva il contorno della bocca sporco di cioccolato così pure le mani che si stava leccando. Alla Bisbetica stava venendo un mezzo infarto a sbraitargli contro.

Sentì le voci degli altri bambini che mormoravano commenti nei confronti di Ippolito. La parola più pronunciata era Ciccione oppure si sfociava a Palla di lardo e ancora Moby Dick.

Gli altri erano tutti degli stupidi.

Scostai l'attenzione da Ippolito mentre fu scortato dalla maestra in bagno per darsi una ripulita e mi focalizzai sulla bambina.

Aveva i capelli neri raccolti in due treccine morbide e gli occhi marroni nascosti dietro a un paio di occhiali dalle lenti spesse. Era vestita con una maglia con Pikachu e i pantaloni di tuta blu. Il suo sguardo era concentrato su dei soldatini sparsi sul tavolo. Scorsi i classici verdi vestiti da militari e anche indiani e cowboy.

Era assolta nei suoi pensieri mentre creava le basi per i vari soldatini.

La maestra Matilde mi fece avvicinare al tavolino e solo quando fummo a pochissima distanza la bambina sussultò per la sorpresa e alzò lo sguardo verso di noi.

«Agnese, vorrei presentarti Luca. È un nuovo compagno di classe. Volevo affiancartelo in modo che tu possa aiutarlo a integrarsi».

Farsi aiutare da una che veniva trattata come un'eremita non era proprio il massimo e lo stesso doveva pensarlo Agnese perché stava fissando la maestra con uno sguardo eloquente.

Ma per lei non ci furono scuse. Mi lasciò in compagnia di quella bambina per andare a risolvere una scaramuccia tra altri due bambini per un giocattolo.

«Ti piacciono i soldatini?» mi chiese a bruciapelo  la vocina sottile di Agnese quasi timorosa. Pensava sul serio che non mi piacessero? Davvero esisteva gente cosi? Di tutta risposta mi ritrovai ad annuire con vigore.

Lei mi fece un ampio sorriso, le mancava già un dentino. Spostò la seggiolina su cui era seduta, anche se non era necessario, e mi invitò a sedermi su quella al suo fianco, proprio di fronte al gruppetto di indiani.
Seguì il suo consiglio e cominciai ad aiutarla a mettere in piedi i vari soldatini.

«Io farò i soldati buoni, pronti a difendere le persone» dichiarò lei appropriandosi di tutti i soldatini verdi.

La mia scelta allora doveva ricadere o sui cowboy oppure sugli indiani. Feci per prendere i cowboy quando Agnese mi bloccò.

«Vuoi fare i cattivi?»

Sbattei un po'  le palpebre confuso.

«Non lo sono gli indiani?» domandai ingenuamente al che lei alzò gli occhi al cielo.

«Non lo sai? La mia mamma mi ha detto che i cowboy uccidevano gli indiani per rubare la loro terra e le loro case».

«Ah» dissi semplicemente, non riuscendo a capire molto. Erano dei pezzi di plastica vestito in modo diverso, ma rimanevano sempre plastica. Non volendo litigare con la mia nuova, e fino a quel momento  unica, amica presi gli indiani e cominciammo a giocare.

Avevo sempre pensato che le bambine fossero per la maggior parte delle frignone che passavano il tempo a pettinare le bambole o a fare giochi noiosi come preparare un finto cibo o peggio utilizzare erba e fango (bleah!).  Agnese aveva completamente scardinato questa mia idea così altamente stereotipata. Simulammo una guerra tra i nostri soldatini. Lei vinse ma per poco, ovviamente l'avevo fatta vincere perché era una bambina. Mamma diceva sempre che era un gesto cavalleresco e più che giusto.

Lei dovette essersene accorta perché mi fissò malissimo.

«Gioca bene oppure non potremo essere amici».

Quella bambina aveva il suo perché alla fine.

Riassemblammo i nostri eserciti e stavolta non mi risparmiai.

Batterla non fu difficile però non mi ero mai divertito prima di allora. Forse perché i miei amici e compagni dell'altra scuola erano dei veri pappamolle, quelli a cui se nominavi soldati o pistole giocattolo inorridivano manco avessi detto che era apparso un mostro abominevole.

Bah!

Invece con Agnese riuscivo a liberarmi da queste limitazioni, ero certo che se le avessi proposto di giocare con le pistoline mi avrebbe senza dubbio risposto a favore.

«Giochiamo con le macchinine?» propose Agnese, mettendo da parte i soldatini, dopo la sua sonora sconfitta, mi sa tanto che mal le sopportava, e andò a recuperare qualche modellino di macchina e qualche camioncino.

In quel momento rientrarono Ippolito e l'altra maestra di ritorno dal bagno (ma dov'era, dall'altro capo del mondo?). Ippolito aveva il viso pulito ma la stessa cosa non si poteva dire del grembiule che pareva aver combattuto un'epica battaglia con  il cioccolato. Sua madre ne sarebbe stata senz'altro felice.

La maestra più anziana, che scoprì dopo si chiamava Tiziana, mormorò qualcosa a bassa voce alla maestra Matilde, un qualcosa con cui non andava d'accordo visto lo sguardo adombrato.

Ippolito era fermo lì di fianco, abbastanza però lontano dall'ascoltare le voci delle due donne.

Lo fissai con pura e semplice ingenuità, cercando di capire il motivo per cui anche lui veniva trattato come un appestato. Agnese sicuramente per via  dei suoi gusti nei giochi fin troppo sopraffini per la gente comune, ma Ippolito?

A prima vista non sembrava questo granché, ma forse conoscendolo avrebbe mostrato un qualcosa in più che a prima vista sfuggiva.

La conversazione tra le due maestre fu in nulla di fatto perché la maestra Tiziana, quella che mi intimidiva in po' di più, alzò gli occhi al cielo come se anziché parlare con una collega lo stesse facendo con il muro e volse lo sguardo verso il nostro tavolo.

I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio e mi incuté ancora più timore. Agnese la ignorò palesemente continuando a mettere a posto le macchinine.

«Sempre a giocare con questi giochi da maschio Agnese? Perché non vai a giocare con le bambole con le tue compagne?»

Agnese non rispose e continuò a fare quello che faceva.

«Mi stai ascoltando o no Agnese? Solo perché sei raccomandata con la mia collega non significa che puoi fare quello che ti pare».

Aspe', quindi Agnese era strettamente correlata con la maestra Matilde? E in che modo? Non è che mi sarei ritrovato in una situazione simile a quella dell'altra scuola?

La maestra Tiziana si avvicinò al nostro tavolo e di tutta risposta strappò dalla mano di Agnese la macchinina.

«Va a giocare con giochi più giusti, Agnese» disse con voce repentina.

Ma chi si credeva di essere a decidere con cosa poteva giocare un bambino oppure no?

Se a un bambino piacevano le bambole che ci giocasse. Se a una bambina piacevano più i soldatini e macchinine chi poteva vietarglielo? Non di certo quella donna che pareva un gufo ammuffito.

Prima che potessi intervenire e recuperare la macchinina entrò in gioco la maestra Matilde.

«Non é il caso di...» cercò di dire la l'altra maestra la interruppe bruscamente.

«Solo perché é tua nipote non significa che possa fare cose sbagliate».

Nipote? Il primo pensiero fu che la maestra Matilde fosse sua nonna, una di circa ventisette anni. Ma subito dopo mi sentì un completo idiota.

In effetti si assomigliavano...meno di zero!

Agnese sembrava più simile a Mercoledì della famiglia Adams (ed era un complimento), mentre la maestra aveva i capelli biondi riccioli e l'aria solare come se il mondo fosse tutto unicorni e  arcobaleni. Praticamente erano come il giorno e la notte. Ma non dicevano che i nipoti prendevano principalmente dagli zii? Chi l'aveva detto doveva rivedere non poco la sua teoria.

«Sbagliate dici? Sono bambini. Non c'è nulla di tutto ciò nei loro giochi».

La maestra Tiziana la fissò come se avesse detto chissà che eresia.

«Bah! É completamente inutile discutere ancora con te. Tanto mi sembra di parlare con il muro».

E si allontanò liberandoci finalmente dalla sua presenza.

La maestra Matilde sospirò rassegnata, come se avesse avuto a che fare con un caso umano irrecuperabile. In effetti il pensiero bigotta e all'antica dell'altra era senza dubbio difficile da sdradicare dalla sua piccola mente ristretta.

Nella mia iperattività di bambino dimenticai quasi subito quello scambio di battute, accorgendomi solo in quell'istante che la maestra non aveva restituito la macchinina ad Agnese.

Mi alzai da posto e andai dietro alla maestra Tiziana intenta a gettare con malagrazia la macchinina tra altri giocattoli.

Mi ci tuffai contro e la recuperai al volo. Sicuramente se non fossi intervenuto si sarebbe potuto rompere uno specchietto. Ma nella mia impresa eroica andai a urtare contro le gambe della maestra anche mi fissò con fare alterato.

Ma quanto era irascibile? Si doveva proprio prendere una camomilla.

«Ma si può sapere che cosa ti é preso?» mi sgridò al che sussultai. Alla maestra Tiziana si frappose la figura della maestra dell'altro asilo, e per questo cominciai a tremare.

Non volevo passare di nuovo la maggior parte dei momenti in castigo senza giocare con nessuno, non ora che avevo trovato una bambina che aveva i miei stessi gusti.

«Ridammi quella macchinina».

Mi resi conto solo in quel momento che stringevo il gioco cin tale forza da farmi venire le nocche bianche. D'istinto strinsi ancora di più la presa e lei non la parve prendere bene. Al contrario, mi fissò con sguardo ancora più minaccioso.

«Hai sentito quello che ho detto oppure hai problemi di udito?»

Si vedeva che aveva davvero scarso tatto ad avere a che fare con i bambini. Per fortuna scoprì, anni dopo, che aveva smesso di fare quel lavoro per dedicarsi a uno d'ufficio (mi dispiaceva non poco per i suoi colleghi) per poi finire agli arresti domiciliari per omicidio stradale.

Ma in quel momento ero io e tutti gli altri che dovevamo avere a che fare con quell'arpia assatanata.

«No» mormorai cercando di raccogliere tutto il mio coraggio. Non era giusto che privasse Agnese della macchina che aveva scelto.

Gli occhi della maestra dardeggiavano di rabbia repressa, acutita dalla mia debole opposizione. Fece per replicare quando fissò dietro di me esattamente dove stava la maestra Matilde.

Non mi voltai ma intuì dalla reazione dell'altra che la Fata bionda, così cominciai a chiamare la maestra Matilde, le aveva rifilato chissà che occhiata perché questa girò i tacchi lasciandomi in piedi come un fesso con ancora la macchinina che subito mi affrettai a consegnare ad Agnese che mi aveva aspettato tranquillamente a quello che sarebbe diventato il nostro tavolo.

Ripresi posto e fu allora che notai che Ippolito ci stava osservando intensamente.

Non ci pensai due volte a dire: «Perché non vieni a giocare con noi?»

Lui aveva sorriso timidamente e si era avvicinato con timore quasi avesse paura che lo beffeggiassimo dicendogli che era tutto uno scherzo.

Tuttavia si sciolse un po' non appena lo invitai a scegliersi una macchinina.

Da quel giorno nacque quella che credevamo sarebbe stata un'amicizia che sarebbe durata fino al giorno dopo l'eternità.

Inutile dire che non eravamo altro che degli ingenui.

Sopraffatto dai ricordi, dai bei momenti che avevamo passato insieme gettai il telefono di lato e quasi cadde dal letto.
Mi portai il braccio davanti alla bocca per soffocare ogni suono che avrebbe emesso la mia bocca.

Mio padre diceva che un vero uomo non doveva dimostrare alcuna debolezza, men che meno doveva piangere.

Ma in quel momento, solo con i miei ricordi e lontano da occhi indiscreti, mi lasciai andare a un debole pianto.
 

Angolo autrice:

Hola :D
Eccoci al capitolo 13 :3 un capitolo tranquillo ma che ho avvertito il bisogno di scrivere 😍
Spero vi sia piaciuto ❤️

Ringrazio tutti voi che seguite la storia 😍

A presto con il capitolo 14 😎
FreDrachen

 

   
 
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