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Autore: edoardo811    09/09/2021    6 recensioni
Naito è un mezzosangue che ha trascorso la propria vita in fuga, senza un posto dove stare, una casa che lo accogliesse, una famiglia che lo accettasse. Questo perché non è un mezzosangue come gli altri, non è un semidio: è il figlio di un demone e di una mortale.
Rimasto da solo, consumato dal rimorso e pentito per gli errori commessi, comincerà un viaggio tra le montagne del Giappone alla ricerca dell'Elisir di lunga vita: qualcosa che mai nessuno prima è riuscito a trovare. Insieme a una vecchia conoscenza cercherà di riabilitare il suo nome e quello di tutti i mezzosangue come lui. Soli, abbandonati e spaventati. Come un tempo anche lui era.
«Chi sono i tuoi genitori?»
«Mia madre si chiamava Akane Itomi.»
«E tuo padre?»
«Non lo so… non mi ha mai parlato di lui.»

[Mitologia giapponese]
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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Le rovine di Hachiōji

 

 

«Sei un mostro, Naito, come me. Smettila di ingannare te stesso» sibilò la voce di Orochi, nella sua mente. «Combatti, Naito. COMBATTI!»

Naito si svegliò di soprassalto, per poco non gridando a perdifiato. La pigra luce del mattino batté su di lui, l’aria fredda e pungente si insinuò sotto i suoi abiti, accarezzando le ferite fasciate. Si massaggiò la testa, mugugnando infastidito, cercando di scacciare via dalla propria mente l’ennesimo incubo fatto di voci sovrapposte, grida e fiamme. Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva dormito in pace.

«Buongiorno, Naito-kun.» Naito drizzò la testa e per poco non stramazzò a terra per lo stupore. Hachidori era immersa nel fiume, con solamente il collo che spuntava dall’acqua. I suoi vestiti erano sulla riva, accanto al fuoco spento. Tutti i suoi vestiti.

«Ora capisco perché le satori vengono sempre qui.» Hachidori affondò in acqua fino alle guance con un mugugno compiaciuto, il suo naso lungo puntò verso l’alto come un ago. «L’acqua è meravigliosa.»

Naito la sentì a malapena. L’unica cosa che riusciva a fare, era pensare al fatto che lei fosse nuda a pochi metri di distanza da lui.

«Vuoi farti un bagno anche tu, Naito-kun?»

Naito sussultò. «U-Un bagno?»

Insieme?!

Gli sembrò di avere il viso intero in fiamme.

«Dai, vieni! Si sta benissimo!»

«I-Io…» Naito esitò. «Credo… credo che dovremmo ripartire…»

Non ebbe il coraggio di guardare la sua espressione. Udì un lungo sospiro esausto, poi vi fu un forte scroscio. «Noioso» si lamentò lei, uscendo dal fiume. Naito trattenne il respiro e fece ogni cosa in suo potere per non spostare lo sguardo anche solo di un millimetro verso la sua compagna di viaggio. La sentì mentre si chinava sui suoi vestiti. «Puoi guardare se vuoi, Naito-kun. Non mi arrabbio mica.»

«N-Non mi permetterei mai» bisbigliò lui.

«Come vuoi.»

Naito tenne lo sguardo puntato verso tutt’altra direzione, mentre udiva il rumore di lei che si rivestiva, anche se riuscì comunque a scorgere il colore acceso delle sue piume scurite dal bagno. «Mi puoi aiutare con questo?»

Hachidori era girata di spalle, con di nuovo indosso i pantaloni color kaki strappati, la schiena però era ancora nuda. La lunga fascia che usava come reggipetto le penzolava dalla mano alzata.

«Ti… ti serve una mano per vestirti?» domandò Naito, sorpreso.

Lei lo fissò con la coda dell’occhio, le labbra premute tra loro in una smorfia indecifrabile. Naito ci mise qualche istante prima di rendersi conto di quello che aveva appena detto e spalancò l’occhio, mortificato. «C-Cioè, i-insomma, voglio dire…»

La risata di Hachidori si levò in aria all’improvviso. «Sì, Naito-kun, mi serve una mano.»

Sentendosi ancora più imbarazzato, Naito si avvicinò a lei. Rimase ipnotizzato per un istante dalla pelle morbida, pallida e ancora bagnata della sua schiena liscia e immacolata. E nonostante avessero trascorso tutto il giorno prima correndo, e all’aperto, il suo corpo emanava un odore gradevole, come di terra umida.

Il suo sguardo, poi, scivolò sul suo avambraccio destro, ridotto ormai ad un moncherino cicatrizzato. Il suo braccio dominante, quello con cui aveva sempre combattuto e che aveva perso per colpa sua.

Gli aveva detto di non sentirsi in colpa, ma la verità era che non si sarebbe mai dato pace per quello che aveva fatto. Con lo stomaco contorto dal rimorso, prese un’estremità della fascia che Hachidori gli stava porgendo. Lei se la fece passare di fronte al petto e gli consegnò l’altra estremità. «Stringi bene Naito-kun.»

Naito ignorò il brivido che lo percorse quando le sfiorò la pelle e annodò la fascia sulla sua schiena. Tirò con forza, strappandole un grido. «Troppo!»

«S-Scusa!» Naito allentò la fascia, valutando l’idea di gettarsi nel fiume e possibilmente non riemergere più.

Hachidori si massaggiò il petto, borbottando qualcosa di incomprensibile. Si voltò verso di lui e Naito alzò lo sguardo, anche se intravide comunque la riga dei suoi seni che si tuffava sotto alla fascia. Un altro brivido lo percorse, mentre si sforzava di reggere lo sguardo di Hachidori senza tradire le sue reali emozioni. Ci fu un istante di silenzio. L’espressione della ragazza era indecifrabile, Naito invece cominciò a sentirsi a disagio, con lo stomaco che si annodava per l’imbarazzo causato dal corpo ancora seminudo di lei, con le sue piume lillà che parevano petali di un fiore profumato e bagnato.

«Volevo chiederti scusa per ieri sera.» Fu proprio lei a rompere il silenzio per prima. «Non avrei dovuto… insomma…»

«Non devi scusarti» la interruppe Naito, sorpreso dalla sua affermazione. «È… è solo che…»

«Fingiamo che non sia mai successo.» Hachidori si chinò per prendere la camicia, distogliendo lo sguardo da lui. «Riprendiamo il viaggio e basta.»

Naito avrebbe voluto rispondere che non voleva fare così. Avrebbe voluto dire che non voleva fingere che non fosse successo nulla, che era sbagliato, ma non ci riuscì. La cosa che gli fece più male, fu il tono triste che Hachidori aveva usato.

Lasciò che finisse di vestirsi e raggiunse il fiume, per buttarsi un po’ di acqua calda sul volto e darsi una ripulita. Incrociò lo sguardo del proprio riflesso, e odiò con ogni fibra del suo essere quel ragazzo pallido e scarno che sembrava fissarlo con un sorrisetto beffardo. «Bravo, Naito. Vedo che hai imparato» gli disse, con la voce di Orochi.

Naito digrignò i denti e si alzò prima di dare un pugno sopra l’acqua come uno stupido. Vide Hachidori coprirsi il braccio mancante con il suo mantello e provò un’altra fitta di dolore.

Presero le loro cose e ricominciarono a correre.

 

***

 

Viaggiarono in silenzio. In diverse occasioni Naito valutò come scusarsi per quello che era successo la sera prima, ma non trovò mai il coraggio di parlare. D’altra parte, Hachidori nemmeno sembrava interessata a fare conversazione.

Meglio per lui, così poteva continuare a torturarsi silenziosamente, alla ricerca di quelle parole giuste da dire che era certo non sarebbero mai arrivate.

Proseguirono per un paio di ore verso sud-est, prima di fermarsi per una pausa e mettere qualcosa sotto i denti.

Dalla sua bisaccia, Hachidori tirò fuori i pesci avanzati dalla sera prima, che ormai avevano una strana tonalità. «Meglio finirli prima che si guastino» mugugnò, afferrandone uno e staccandogli la testa con un solo morso.

Naito ne prese un altro, un grosso salmone, e affondò i denti nella carne succosa. La sera prima gli era passato di nuovo l’appetito, quindi approfittò per recuperare la cena saltata. Entrambi si isolarono nei loro pensieri, il rumore dei denti che masticavano fu l’unico a riempire l’aria. Di tanto in tanto, tuttavia, Naito riuscì a scorgere Hachidori mentre gli lanciava delle occhiatine fugaci. Sembrava che anche lei volesse dirgli qualcosa, in fin dei conti.

Si fece coraggio e decise di parlare per primo: «Mi dispiace per… per quello che è successo, Hachidori. Non volevo ferirti.»

Hachidori abbassò il pesce. «Sta tranquillo, Naito-kun. È stata colpa mia. Avrei dovuto capire che… che dopo tutto quello che è successo, tu…»

«Non si tratta solo di quello.» Naito abbassò lo sguardo, ripensando a quello che Orochi gli aveva fatto dopo aver cacciato Hachidori. Sentì le viscere contorcersi per la rabbia, prima che si calmasse con un lungo sospiro. «Concentriamoci sull’elisir, per adesso. Quando lo troveremo, se ancora lo vorrai… potremo… insomma… parlarne di nuovo. Non voglio… dimenticare quello che è successo, Hachidori.»

«Nemmeno io.»

Naito sollevò la testa, accorgendosi del suo sorriso gentile, un po’ imbarazzato. «Va bene, Naito-kun. Quando troveremo l’elisir… ne riparleremo. Nemmeno io voglio dimenticare quello che c’è stato tra di noi.»

Timidamente, Naito ricambiò il suo sorriso. Non solo aveva perso Hachidori già una volta, ma aveva perso l’opportunità di essere felice assieme a lei. Non avrebbe lasciato che accadesse di nuovo. Aveva paura di quelle emozioni dentro di lui, aveva paura di quello che avrebbero potuto scatenare, ma non gli importava. Voleva… doveva fare un tentativo. Doveva accettare i suoi sentimenti, senza esserne spaventato. E forse… forse avrebbero potuto essere davvero insieme, e felici. Prima, però, dovevano trovare l’elisir.

«Pensi mai… pensi mai agli altri?» domandò Hachidori all’improvviso, interrompendo i suoi pensieri.

«Gli altri?»

«Gli altri come noi. I mezzosangue» spiegò lei, incassando la testa tra le spalle. «Pensi mai a… a dove potrebbero essere? Pensi mai a… cercarli?»

Naito abbassò lo sguardo. «Non l’ho mai fatto» ammise. «So che… ce ne sono altri, come noi. E… a volte, penso che sarebbe bello incontrarli. Ma non ho mai pensato di cercarli. Non credo nemmeno che vogliano essere trovati.»

Diede un altro morso al pesce, pensando a quello che era successo quando avevano trovato lui. Non voleva che a quei pochi mezzosangue che in qualche modo erano riusciti a sopravvivere toccasse la stessa sorte. Lui meglio di chiunque altro sapeva che avrebbero preferito essere lasciati in pace.

«Tu vorresti cercarli?» domandò ad Hachidori.

«Non saprei… penso che sarebbe bello se riuscissimo a incontrarne altri. Potremmo… unire le forze.» Hachidori si sdraiò a terra, appoggiando il gomito dietro di lei. Naito ripensò ai greci, al loro rifugio tra le colline, dove potevano sentirsi tranquilli e al sicuro.

Di solito, almeno. Finché non arrivava un mezzo demone a rapire ragazze che non c’entravano nulla. Con una fitta di dolore allo stomaco, tentò di allontanare quel pensiero, e si domandò se una cosa del genere, un campo, potesse esistere anche per quelli come loro. Forse, trovando l’elisir, avrebbero potuto crearlo.

«A volte mi chiedo anche se io sia l’unica figlia di mio padre» proseguì Hachidori. «Lui… mi ha detto che ci sono soltanto io, ma non gli ho mai creduto. Mi sembra impossibile che un demone millenario e conosciuto come lui possa avere solo una figlia mezzosangue, con tutti i mortali che abitano il monte Kurama e che lo venerano come un dio. Sono convinta che abbia avuto relazioni anche con altre mortali, oltre a mia madre.»

«Credi… di avere dei fratelli?»

«Non lo so. Forse. Se ci sono, mi piacerebbe incontrarli.»

Naito pensò a suo padre. Anche lui si domandò se sua madre fosse l’unica mortale ad averlo incontrato. Ne dubitò altamente. Il pensiero di poter avere anche lui dei fratelli nascosti chissà dove in Giappone fece nascere un forte senso di inquietudine dentro di lui. Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire se per caso, un giorno, ne avesse incontrato uno. Non era nemmeno sicuro di volerli davvero incontrare.

Ammesso che fossero sopravvissuti. Ōtakemaru aveva detto qualcos’altro, durante il loro incontro, riguardo gli “altri” che erano tutti morti. Che… si fosse riferito ai suoi altri figli?

Un lungo brivido gli percorse la schiena. I mortali avevano fatto ogni cosa in loro potere per ucciderlo quando ne avevano avuta l’occasione. Nel bene e nel male, lui si era salvato soltanto grazie ad Orochi. Gli doveva la vita, su questo non c’erano discussioni. Ma forse i suoi fratelli, ammesso che esistessero, non erano stati altrettanto fortunati.

«Sembra che… tu conosca bene tuo padre» cominciò a dire, osservando Hachidori. «Siete… legati?»

Lei si strinse nelle spalle. «Non direi. Ho vissuto con lui per tanto tempo, sul monte Kurama, prima di unirmi ad Orochi, ma… non l’ho mai capito davvero. Lui… era benvoluto, dagli dei, una volta. Ma poi… le cose sono cambiate. Non so perché, ma hanno cominciato a detestare anche lui. E lui non ha mai mosso un dito per cambiare le cose. È come se non gliene importasse nulla. Quando sono diventata abbastanza grande me ne sono andata. Non ha nemmeno cercato di fermarmi. Non credo mi volesse davvero attorno. Deve averlo fatto solo perché mia madre non c’era più.»

«Cosa… cosa le è successo?»

Hachidori si mordicchiò un labbro. «Mio padre mi ha detto che è morta dandomi alla luce.»

«Mi dispiace…»

«Non devi, Naito-kun.» La ragazza gli sorrise. «Però… grazie. La tua presenza mi dà conforto.»

Anche Naito sorrise. Era sollevato di vedere che non fosse arrabbiata con lui ed era felice di aver scoperto qualcosa sul suo passato. Orochi aveva insegnato loro che le loro vite, prima di incontrarlo, non contavano affatto, ma ormai non facevano più parte del suo esercito, né rispettavano più i suoi ideali.

Quasi tutti i suoi ideali.

Naito represse una smorfia. Si rese conto che nessuno dei due aveva ancora rivelato il suo vero nome all’altro. Avrebbe potuto farlo, in realtà, ma c’era qualcosa che lo frenava. Forse era per via del fatto che era stato Naito per così tanto tempo che ormai nemmeno si sentiva più Naosuke Itomi. Magari per Hachidori era lo stesso.

Ripartirono poco dopo aver finito tutti i pesci, visto che Hachidori aveva insistito per non farli guastare. Naito osservò il cielo grigio. Il sole era nascosto dalle nuvole, rendendogli impossibile capire che ora fosse. Quel tempo non gli piaceva per niente. Forse era dovuto al clima invernale, ma Naito aveva comunque una strana sensazione. Si augurò che fosse solo un abbaglio. Senza perdere ulteriore tempo, seguì la compagna in mezzo alla boscaglia.

 

***

 

Aveva creduto che, di quel passo, sarebbero arrivati a Yokohama verso sera, ma si era sbagliato. C’era ancora luce quando arrivarono ai piedi di una montagna, trovandosi di fronte un sentiero fatto di gradini di pietra che conduceva verso la cima. Accanto ad esso c’era un cartello di legno marcio, con le scritte sbiadite.

I due ragazzi si fermarono e lo sguardo di Naito scivolò sul grosso torii1 proprio all’inizio del sentiero.

«Queste… sono le rovine del castello di Hachiōji» mormorò Hachidori, avvicinandosi all’ingresso.

Naito corrucciò la fronte. «Il castello infestato?»

«Proprio quello.» Hachidori ridacchiò, accorgendosi della sua espressione. «Qual è il problema, Naito-kun? Non dirmi che credi davvero a queste storie.»

«Ho conosciuto un uomo che aveva più di quattrocento anni, oltre che mostri, demoni e perfino dei. Direi che posso crederci eccome.»

«I fantasmi non esistono, Naito-kun» ribatté lei, alzando gli occhi al cielo.

«Che mi dici delle Aoandon?»

Hachidori esitò. «Non sono veri fantasmi, sono incarnazioni della paura e del…»

«E le Yuki-Onna?»

«Spiriti delle nevi che…»

«E gli Yūrei allora? E…»

«Va bene, ho capito!» sbottò Hachidori, voltandosi verso di lui. «Facciamo il giro allora!»

A Naito venne da sorridere. «Non volevo dire questo. Sto dicendo che dovremmo fare attenzione se passiamo di qui.»

Hachidori gli lanciò un’occhiataccia infastidita. «Lo so che dobbiamo fare attenzione. Yokohama è proprio dietro questa montagna. Siamo quasi arrivati, non possiamo abbassare la guardia proprio ora.»

Naito tese un braccio verso il sentiero. «Bene. Dopo di te allora.»

La sua compagna di viaggio grugnì, poi cominciò a salire i gradini stizzita. Naito si mordicchiò un labbro per non ridere, poi cominciò a seguirla. Un tintinnio gli fece abbassare la testa. Aveva appena calpestato una spessa catena arrugginita, celata tra le foglie. Corrucciò la fronte e fece vagare lo sguardo attorno a sé, mentre raggiungeva Hachidori, ormai distante.

Di quel luogo restavano soltanto alcune mura sepolte dai cespugli e dalle foglie cadute, costruite lungo il monte in modo da creare una fortezza inespugnabile sopra la montagna. Qualcosa che avrebbe potuto davvero funzionare, se solo all’epoca della sua caduta non avessero lasciato a malapena poco più di mille uomini per difendersi dall’attacco di un esercito di quindicimila.

Era stato un massacro, il castello era stato raso al suolo poco tempo dopo e adesso circolavano leggende sul fatto che i soldati uccisi ancora vagassero da quelle parti, come spiriti in pena memori di una battaglia che avevano perso e che non avevano mai avuto speranze di vincere.

Non videro alcun fantasma, tra la vegetazione. In compenso, videro delle ragnatele. All’inizio erano sembrate solo mucchi di neve, ma poi Naito si era reso conto che la neve non poteva avvolgere interi alberi in quel modo.

Non ne avevano vista nessuna ai piedi del monte, ma più si avvicinavano alla cima e più queste aumentavano. Da poche e sporadiche passarono quasi al ricoprire tutta l’area attorno al sentiero, appese ai rami come panni sbrindellati. Naito strinse la presa sul manico della wakizashi, scambiandosi uno sguardo con Hachidori. Avrebbero dovuto fare davvero attenzione.

Arrivarono in cima, trovandosi di fronte le rovine del castello. C’erano monumenti e lapidi in memoria dei soldati, consumati dal tempo e dalle intemperie, coperti di muschio e, di nuovo, ragnatele. Gli spiazzali con sprazzi di erbacce giallognole erano intervallati da mura e gradinate di pietra diroccate. C’erano altri cartelli, altri segnali, indicazioni, ma era tutto sbiadito, come se chiunque ce li avesse messi non tornasse lì da tanto tempo.

Una recinzione di legno era stata costruita attorno alla base della montagna, da lassù potevano vederla bene, ma proprio come il cartello che avevano trovato all’ingresso, era marcita. Oltre la recinzione, potevano scorgere in lontananza la cittadina di Hachiōji, seguita dalla figura ben più mastodontica di Tokyo, che malgrado la distanza appariva come una valle immensa di macchie colorate. Sul lato opposto, invece, il monte Fuji svettava fino ad arrivare alle nuvole, sovrastando ogni cosa con la sua possente figura.

Procedettero in silenzio. Le rovine emanavano un’aria di desolazione e disperazione. Non c’erano spettri, eppure la sensazione che lì ci fosse stata una guerra impossibile da vincere era quasi tangibile nell’aria. Ogni lapide, ogni mura diroccata, ogni erbaccia raccontava la storia di quello che era successo lassù.

Attraversarono un ampio spiazzale di erba rada, intervallato da pietroni squadrati conficcati nel terreno, forse ciò che rimaneva di alcune fondamenta. Naito fece attenzione a non calpestare nessuna di quelle ragnatele sparpagliate un po’ ovunque. Sembravano alquanto appiccicose. Ed erano tante, tantissime.

«Occhi aperti, Naito-kun.»

Naito posò lo sguardo su Hachidori, che sussultò, distogliendo lo sguardo frettolosa. «C-Cioè… h-hai capito cosa voglio dire… superiamo questo posto in fretta.» Sembrava tesa, nonostante la sicurezza mostrata poco prima. E Naito non la biasimò, tutte quelle ragnatele non promettevano nulla di buono.

Erano quasi arrivati al fondo dello spiazzale quando qualcosa si mosse tra la vegetazione limitrofa. I due compagni sguainarono le armi, ma un sibilo proveniente alle loro spalle fece voltare Naito. Mulinò la katana, che si infranse contro una manciata di kunai, deviandoli.

«Gentile da parte vostra spostarvi assieme» disse una voce ormai familiare. «Renderà la vostra cattura molto più veloce.»

Delle ombre apparvero tra le rovine del castello, spostandosi proprio come gli spettri che tanto lo avevano impensierito, circondandoli su ogni fronte. Erano almeno una ventina. Tra di loro, Naito individuò con una smorfia la lunga chioma nera di Meishu. Quando fu abbastanza vicina, notò anche che c’era qualcosa di diverso in lei: era più trasandata dell’ultima volta, percossa perfino.

La sua frangetta ordinata non era più così ordinata, sulla sua guancia destra c’era sempre lo sfregio lasciato da Hachidori, ma non era tutto: anche sulla sinistra aveva dei segni, due profondi solchi, sottili ma ben visibili e soprattutto precisi, come se le fossero stati inflitti con cura, senza che lei si opponesse.

«Non ti sei ancora stancata di fallire, Meishu?» La voce di Hachidori era carica di collera. «Vattene, prima che massacriamo te e le tue amiche. Non siete riuscite a catturarci da soli, cosa vi fa credere di poterci prendere insieme?»

Meishu strinse i denti. Vederla senza quel sorrisetto provocatorio fu strano per Naito. E ancora più strano, fu accorgersi della sua reale espressione. Non sembrava arrabbiata, ma più angosciata. Come se sapesse di trovarsi in una situazione scomoda.

«Non vogliamo combattere, Meishu» si intromise lui. Posò una mano sul braccio di Hachidori, che aveva estratto la sua wakizashi, e la invitò ad abbassarla. «Vogliamo fare ammenda. Siamo stanchi di fuggire e di lottare per la nostra vita. Anche noi meritiamo di poter vivere in pace.»

«Vivere in pace?! Dopo aver servito Yamata no Orochi?! L’unica cosa che voi sporchi mezzosangue meritate è la morte!»

«Meishu, ascoltami…»

«Non ho alcuna intenzione di ascoltarti, Naosuke Itomi.»

Hachidori sussultò, mentre Naito spalancava l’occhio.

Meishu ritrovò il suo ghigno provocatorio. «Ma come, non hai detto il tuo vero nome alla tua amichetta? Non ti fidavi abbastanza di lei, Naosuke?»

Naito strinse i pugni, accorgendosi dello sguardo di Hachidori che si posava su di lui. Non si voltò verso di lei, rimase concentrato unicamente su quella vipera che si trovava di fronte a loro e che gli puntò addosso il tantō. «Uccideteli.»

Le kunoichi scattarono, altri kunai sfrecciarono nell’aria. Naito li deviò di nuovo con la katana e serrò le labbra. Quella non ci voleva proprio. Non voleva combattere di nuovo contro di loro, specialmente non con Hachidori che sembrava davvero pronta ad ucciderle tutte. Fare ammenda con le mani sporche di ulteriore sangue sarebbe stato ancora più difficile.

Un istante prima che le donne li raggiungessero, un fortissimo ruggito fece arricciare la pelle di Naito. Si voltò verso la vegetazione, da cui era provenuto quel fruscio poco prima dell’arrivo di Meishu. Gli alberi si piegarono all’improvviso come fuscelli, alcuni crollarono perfino; un’ombra enorme si stagliò in mezzo alla boscaglia, prima di spiccare un gigantesco balzo e atterrare di fronte a loro con così tanta forza da far tremare il terreno.

All’improvviso, tutte quelle ragnatele trovarono un significato. E Naito si diede dell’idiota per non averci pensato prima. Quel luogo non era infestato dai fantasmi. Era infestato da molto peggio.

Un ragno gigantesco, con la pelle marrone striata di macchie nere e un terrificante muso umanoide, bianco come la neve. Fece vagare un paio di enormi occhi gialli e acquosi su tutti loro. Uno tsuchigumo.

Naito sentì Hachidori indietreggiare, sfiorandogli la spalla, mentre le kunoichi rimasero paralizzate per qualche istante. Meishu non mosse un muscolo, forse per lo stupore, forse per la paura.

Prima ancora che chiunque di loro potesse fare qualsiasi cosa, lo tsuchigumo si voltò e spruzzò delle ragnatele verso alcune delle donne, che non riuscirono a scansarsi in tempo. Gridarono terrorizzate mentre venivano imprigionate da quella trappola mortale. 

Subito dopo fu il caos. Il ragno cominciò a saltare e ad attaccare all’impazzata tutti i presenti, le urla delle donne si mischiarono tra di loro, in mezzo ad esse Naito riuscì a distinguere quelle di Meishu, che tentava di riportare l’ordine. Sollevò la katana, pronto a combattere, ma la mano artigliata di Hachidori si strinse attorno al suo braccio con forza, strappandogli un gemito sorpreso. «Andiamo via!»

Hachidori cominciò a correre, trascinandoselo dietro. Naito la seguì sbigottito, lanciando diverse occhiate verso la battaglia a senso unico che incombeva tra le kunoichi e lo tsuchigumo. Almeno una mezza dozzina di donne giaceva a terra immobile e lo stesso numero era stato intrappolato in delle ragnatele. Meishu provò a saltare tra le zampe del ragno e a contrattaccare, ma il suo pugnale e i suoi artigli avvelenati non parvero nemmeno scalfire la pelle dura dello tsuchigumo. Gridò altri ordini alle sue compagne, ma nessuna di loro sembrò ascoltarla.

Quando Naito e Hachidori raggiunsero il bosco, lasciandosi le rovine alle spalle, un urlo disperato provenne da Meishu. Quello fu il momento in cui lui si riscosse. «Non possiamo abbandonarle!» esclamò, smettendo di correre all’improvviso.

«Che cosa?!» Hachidori si fermò. «Vuoi davvero aiutarle?! Volevano ucciderci!»

«Se le aiutiamo capiranno che non siamo malvagi!»

«Ma sei pazzo?! Andiamocene!»

Naito scosse la testa. «Abbandonarle sarebbe come ucciderle.»

«Non è colpa nostra se quel bestione è sbucato fuori! Se fosse successo a noi loro non ci avrebbero aiutati!»

«Noi non siamo loro. Dobbiamo essere meglio di così.»

«Ma…»

«Un samurai è gentile anche coi propri nemici.» Naito sollevò la katana, determinato, mentre ricordava quegli stessi versi del Bushido che lei gli aveva letto. «Se vuoi andare avanti, Hachidori, fa pure. Io torno indietro.»

Hachidori non sembrava affatto convinta. Una parte di Naito sperava che lei lo seguisse. Un’altra, invece, non l’avrebbe biasimata se avesse scelto di non aiutare le kunoichi. Il Clan Tsubaki non era certo stato clemente con loro, forse a ragione, o forse no, ma in quel momento non aveva importanza.

«Ci vediamo alle Tribune» disse ancora Naito, prima di scattare verso la direzione da cui erano appena arrivati. Sentì Hachidori chiamarlo, ma non si voltò. Sperò soltanto di riuscire ad arrivare in tempo. Nella sua mente balenarono i volti di Orochi e suo padre. Se avessero scoperto quello che stava cercando di fare, lo avrebbero disprezzato con ogni fibra dei loro esseri. Strinse i denti, scacciando quei pensieri. Di loro non gli importava nulla: avrebbe salvato le kunoichi a qualsiasi costo.

Ritornò nello spiazzale ed individuò Meishu mentre tentava di rialzarsi sui gomiti e lo tsuchigumo che la braccava ad una decina di metri di distanza, pronto per il colpo di grazia. Naito rinfoderò la katana e accelerò il passo, mentre il ragno spiccava un altro balzo.

Non si accorsero di lui. Rapido come un’ombra, saltò addosso alla donna, scansandola un istante prima che il ragno si avventasse su di lei. Rotolarono a terra, in un miscuglio di grida e versi di dolore mentre le loro schiene ruzzolavano sul terreno dissestato.

Al termine della corsa, si ritrovarono uno sopra l’altra. «Stai bene?» chiese lui, afferrandola per le spalle.

Meishu schiuse le labbra, rimanendo in silenzio, osservandolo come se fosse stato un’allucinazione. Naito incrociò il suo sguardo. Non sembrava ferita gravemente, solo molto scossa. Il ruggito frustrato del ragno li fece voltare entrambi.

«Alzati!» esclamò Naito, afferrando la mano di Meishu e aiutandola a rimettersi in piedi.

«Ma… che stai facendo?» domandò la donna, con un filo di voce.

Naito spostò l’attenzione sul ragno che li stava per caricare e sguainò di nuovo la katana. «Secondo te?! Attenta!» Spinse via Meishu prima che la zampa dello tsuchigumo li schiacciasse entrambi, poi dimenò la katana, abbattendogliela contro. Non la perforò, ma il colpo fu tale che il ragno emise uno strano verso, forse di dolore.

Puntò quegli occhi giganteschi e raccapriccianti su di lui, dimenticandosi di Meishu, per fortuna, o per sfortuna, non poteva ancora dirlo con certezza. Naito cominciò a correre e il ragno lo inseguì, sparando ragnatele e pestando le zampe furibondo nel tentativo di schiacciarlo. «Aiuta le tue compagne!» urlò a Meishu, rimasta da qualche parte imprecisata alle loro spalle.

Una zampa si schiantò a terra, nel punto in cui Naito si era trovato un istante prima. Rotolò a terra e si alzò, mulinando la spada, questa volta colpendo una giuntura della zampa e mozzandogliela. Il ragno si inarcò, emettendo un verso straziante, ma Naito sapeva di averlo soltanto fatto infuriare. Il peggio doveva ancora venire.

Lo tsuchigumo non gli diede un attimo di tregua. Naito digrignò i denti, mentre passava da un lato all’altro dello spiazzale nel tentativo di non lasciarsi sovrastare dalla creatura. Una pioggia di ragnatele lo investì, ma riuscì a schivarle o ad affettarle con la spada. Per lui quelle non erano un problema; il problema vero erano quelle zampe indistruttibili.

Non passò molto prima che il ragno capisse come affrontarlo. Gli tsuchigumo erano creature intelligenti, capaci di adattarsi in fretta. Quello sapeva che la spada era pericolosa e attaccava veloce, schiantando le enormi zampe su di lui e ritirandole subito dopo, senza dargli il tempo di contrattaccare. Di tanto in tanto, Naito riusciva a mettere a segno un colpo, ma mai abbastanza forte da mutilarlo ancora.

Se non altro, era riuscito ad allontanarlo dalle kunoichi. Arrischiò alcune occhiate verso Meishu, accorgendosi di come stesse soccorrendo le sue compagne rimaste intrappolate tra le ragnatele. Non sapeva se sperare che loro lo aiutassero oppure no. L’unica cosa che sperava, era che avessero capito che lui non era più lo stesso mostro a cui avevano dato la caccia anni prima. Non era più il braccio destro di Orochi.  

Un’ombra lo sovrastò completamente. Si accorse troppo tardi della zampa dello tsuchigumo che arrivò di lato, colpendolo al fianco. Gridò, mentre veniva scaraventato via come un insetto. La katana gli sfuggì dalle mani mentre si schiantava con la schiena su uno dei pietroni. Le ferite inflitte da suo padre si rianimarono in un tutt’uno, lacerandolo di dolore. Fu come se l’intero corpo gli si fosse incendiato all’improvviso. Boccheggiò, tentando di rialzarsi, e osservò la figura imponente del ragno che si avventava su di lui.

Strinse i denti, maledicendosi per la sua idiozia. Si preparò a scattare, sperando che il corpo riuscisse a reggere lo sforzo, quando qualcosa perforò l’aria. Un kunai si conficcò nell’occhio del mostro, che si inarcò di nuovo con uno strillo straziante.

Hachidori balenò in mezzo al cielo come un lampo lillà. «Sei sempre il solito, Naito-kun!» esclamò inviperita. Corse attorno al ragno, tempestandolo di kunai finché non ottenne la sua attenzione. Le spruzzò alcune ragnatele, ma Hachidori le schivò avvitandosi nell’aria. «Sempre a doverti far salvare da me!»

Nonostante il suo tono infastidito, a Naito venne da sorridere, felice del fatto che fosse tornata ad aiutarlo. Si rimise in piedi e sguainò la wakizashi, per poi unirsi alla sua amica. Con un occhio in meno ed un avversario da battere in più, lo tsuchigumo sembrò entrare in crisi, specialmente perché i due mezzosangue erano rapidi, attaccavano da ogni direzione e soprattutto in maniera sincronizzata proprio come quando erano nell’esercito di Orochi.

Anche se era passato moltissimo tempo dall’ultima volta che avevano affrontato insieme una minaccia, nessuno dei due aveva scordato l’alchimia naturale che avevano sviluppato. Hachidori saettò tra le zampe posteriori del ragno rapida e aggraziata, con salti così leggiadri da far credere di saper davvero volare come un tengu. Naito attaccò quelle anteriori, abbattendo la spada con forza nel tentativo di mutilarne altre.

Lo tsuchigumo muggì frustrato e provò a schiacciarli entrambi, ma senza successo. Ogni suo attacco a vuoto veniva ricambiato con un taglio, ma non era abbastanza per abbatterlo.

«La pancia, Naito-kun!» gridò Hachidori, poco prima di saltare per evitare un altro attacco. Si capovolse nell’aria e atterrò sulle zampe, sopra ad un’altra roccia. Puntò la spada verso il ragno. «La pancia è l’unico punto debole!»

Naito annuì e scattò. Corse sotto al corpo del ragno, ma quello saltò non appena si avvicinò, portandosi a distanza di sicurezza e facendo un lungo verso roco, quasi di scherno. Anche lui conosceva il proprio punto debole: non avrebbe permesso che si avvicinassero così facilmente. Avrebbero dovuto trovare la giusta apertura per colpire.

Altri kunai fendettero l’aria, scontrandosi con la pelle del ragno, alcuni penetrandola, facendolo mugugnare ancora. Meishu e le sue compagne corsero in cerchio, circondando lo tsuchigumo e tempestandolo con i loro pugnali da lancio.

«Non so cosa tu abbia in mente, Naosuke Itomi» esclamò proprio la leader, correndo verso il fianco destro del ragno, i capelli che sferzavano dietro di lei come fruste, le neko-te pronte a cavare occhi e il tantō stretto nel pugno. «Ma sarà meglio che funzioni!»

«Smettila di chiamarlo così!» tuonò Hachidori, adirata, per poi fiondarsi anche lei sullo tsuchigumo, sul fianco sinistro.

«Io lo chiamo come mi pare!»

«Voglio vedere come farai dopo che ti avrò strappato la lingua!»

«Potreste litigare più tardi?!» urlò Naito, mentre caricava frontalmente.

«Ha cominciato lei!» risposero all’unisono.

L’unico occhio di Naito incrociò l’unico dello tsuchigumo, che emise un lungo gorgoglio, sotto la pioggia di kunai. Quando i tre furono abbastanza vicini, quello spiccò un balzo oltre le loro teste per allontanarsi: proprio quello che Naito si era aspettato.

Si fermò di scatto, piantando i piedi a terra, e si voltò, sfrecciando verso il punto in cui il ragno sarebbe atterrato. Saltò, atterrando sopra un’altra pietra, e prese lo slancio. Mentre la creatura atterrava, Naito raggiunse la pancia scoperta, puntando la wakizashi con un urlo furibondo. Penetrò la carne grassa, priva di protezioni, e un verso straziante si sollevò dal ragno, così potente da riecheggiare in tutte le rovine.

Quella bestiaccia si schiantò rovinosamente a terra, emettendo un altro strillo strozzato. Naito saltò via prima di fare la sua stessa fine, atterrando in ginocchio ad una manciata di metri di distanza.

Lo tsuchigumo rimase sul suolo, a dimenare le zampe ferite, in preda alle convulsioni. Poi, smise di lottare. Le zampe si accasciarono, così come il muso, mentre il sangue continuava a scendere a fiotti dallo squarcio che Naito aveva aperto sulla sua pancia. Cominciò a sciogliersi in una pozzanghera di liquame nero e un silenzio irreale scese di nuovo tra i resti di quel castello.

Naito rimase fermo, con l’adrenalina che ancora scorreva a mille nel suo sangue, il respiro pesante e il cuore che batteva all’impazzata nel petto.

Una mano si posò sulla sua spalla. Si voltò di scatto e tutta la tensione sfumò da dentro di lui, mentre si accorgeva del sorriso di Hachidori. «Ben fatto, Naito-kun.»

Il ragazzo ricambiò il suo sorriso, rialzandosi in piedi. Stava per dirle lo stesso, quando un rumore di passi li fece voltare entrambi. Le kunoichi li avevano di nuovo circondati, con le armi ancora sguainate. Naito sussultò per la sorpresa, mentre Hachidori allontanava la mano dalla sua spalla con un gesto secco. «Che state facendo?!» sibilò. «Volete davvero combattere ancora, dopo che vi abbiamo salvate?!»

Nessuna risposta. Tra le donne, Naito individuò Meishu, che lo stava osservando con espressione indecifrabile. Il ragazzo sollevò un braccio di fronte ad Hachidori, che aveva di nuovo sollevato la wakizashi. «Ferma» disse, mentre faceva vagare lo sguardo sulle kunoichi. Non erano nemmeno la metà di quelle che erano poco prima, a causa di quello tsuchigumo, e sembravano tutte quante ancora scosse da quello che era appena successo, Meishu in particolare.

«Non siamo più i soldati di Orochi a cui state dando la caccia, Meishu» cominciò a dire, severo. «Non vi avremmo salvate, altrimenti. Vogliamo… essere meglio di così.»

Le labbra di Meishu divennero una riga impercettibile. Non sembrava affatto disposta ad ascoltarli. Naito sentì Hachidori irrigidirsi, mentre le kunoichi continuavano ad avvicinarsi, pronte ad attaccare al segnale della leader.

«Naito…» cominciò Hachidori, con un sussurro. «… non possiamo…»

Meishu sollevò un braccio all’improvviso, interrompendo sia lei che l’avanzata delle sue compagne. Per tutto il tempo, non staccò gli occhi da quello di Naito. «Abbassate le armi» ordinò, mentre il braccio le ricadeva lungo il fianco. «Ce ne andiamo.»

Un susseguirsi di mormorii sorpresi si sollevò in aria. «Ma Meishu…» disse una di loro, con voce agitata. «… Tamashī ha detto…»

«Lo so cos’ha detto Tamashī» la interruppe Meishu, con una strana smorfia. «E non ha importanza. Se non fosse stato per lui, non sarei viva. E nemmeno voi. Gli dobbiamo tutte la vita.»

Altri sussulti. Naito sentì i propri nervi sciogliersi, sorpreso e anche sollevato, mentre il volto di Meishu si velava di un’ombra cupa e le sue compagne abbassavano le armi una per una, chi più riluttante e chi meno.

«Non pensare di essere al sicuro adesso, Naosuke» disse ancora Meishu, con voce roca. «Hai salvato me, ma questo alle mie compagne non importerà. Verranno comunque a cercarvi. Per quanto ne sappiamo, il vostro potrebbe essere un imbroglio.»

«Che cosa?!» sbottò Hachidori, raschiando i piedi sul suolo per la rabbia. «Che razza di imbroglio…»

«Non c’è nessun imbroglio, Meishu» la interruppe Naito, frapponendosi tra loro due prima che venissero dette parole di troppo. «Vogliamo davvero cambiare. Siamo stanchi di fuggire e di combattere.»

Meishu scosse la testa. Ora, sembrava soltanto triste. «Non spetta a me giudicarlo. Ho ricevuto l’ordine di catturarvi vivi o morti, non di ascoltare la vostra storia. Sto rinunciando ad ogni cosa lasciandovi andare via, perché vi devo… vi dobbiamo la vita. Vi consiglio di approfittarne e di far perdere le vostre tracce.»

«Meishu, ascolta…»

«Andiamocene» lo ignorò la donna, indicando alle compagne di allontanarsi con un cenno del mento. Naito rimase immobile, con le labbra schiuse, mentre le kunoichi cominciavano ad indietreggiare, tutte loro con lo sguardo puntato su di lui e su Hachidori. Meishu li osservò un’ultima volta con una strana espressione, concentrandosi soprattutto su Naito. Chinò la testa, in un gesto rapido e quasi impercettibile, dopodiché seguì le sue compagne e si ritirò tra i resti del castello di Hachiōji.

Per la seconda volta, il silenzio scese tra le rovine. Naito rimase immobile, ad osservare il punto in cui la chioma ebano di Meishu era scomparsa. Non era andata come aveva previsto, affatto. Sembrava perfino che, salvando le kunoichi, avesse creato un problema anche più grosso di quello in cui già si trovava. Hachidori lo ridestò dai propri pensieri, afferrandogli di nuovo il braccio. «Faremmo meglio ad andare anche noi, Naito-kun» mormorò, con voce incolore.

Naito assottigliò le labbra e annuì. Nonostante tutto, il pensiero di aver salvato delle vite, a discapito di chi fossero e di quello che gli avevano detto, lo fece sentire meglio, proprio com’era successo con quel bambino. Ancora una volta, pensò alle espressioni deluse o perfino schifate che Orochi e suo padre avrebbero fatto, vedendolo.

E, ancora una volta, a Naito non importò. Mentre si allontanavano, arrischiò un’occhiata verso di Hachidori, che pareva dubbiosa tanto quanto lui. Un piccolo sorriso nacque sul suo volto. «Grazie… per essere tornata» disse.

«Non devi ringraziarmi» rispose Hachidori, prima di voltarsi imbarazzata e farfugliare: «Non… non ti avrei mai abbandonato, Naito-kun.»

Naito distese il sorriso e posò la mano sulla spalla di Hachidori, che fece un’espressione sorpresa. Un forte calore nel petto lo assalì, mentre incrociava quegli occhi verdi che per lui ormai erano divenuti un rifugio sicuro, un punto di riferimento.

Hachidori gli sorrise e si avvicinò a lui, sfiorandogli il fianco. Una nuova sensazione si fece largo dentro di Naito, mentre proseguiva accanto alla sua compagna di viaggio: una sensazione di benessere che solo in rare occasioni aveva provato prima di allora. Un sentimento dovuto al fatto che, per una volta, si sentiva certo di aver fatto la cosa giusta.

Forse non aveva ottenuto quello che sperava, ma non poteva dire di starsene andando a mani vuote.

 

 

 

 

I torii sono quelle strutture che si vedono spesso nei media giapponesi. Vengono considerati come dei “portali” che danno accesso ad un santuario o comunque un luogo sacro. Ne troveremo molti altri nel corso della storia. https://it.wikipedia.org/wiki/Torii

 

 

 

 

Salve gente, voglio solo fare due precisazioni sulle rovine di Hachioiji. Dunque, esistono davvero, ovviamente, e sono un'attrazione turistica delle parti della cittadina di Hachioiji, per l'appunto. La storia è scritta nel capitolo, erano una fortezza che è stata distrutta in una battaglia completamente a senso unico, al giorno d'oggi le rovine sono lì, e sono visitabili. Non sono abbandonate come nella mia storia, insomma. Diciamo che, essendo noi nel futuro, ho pensato che magari, sì, ecco, fossero rimaste incustodite per un po' e poi chiuse al pubblico (la catena che calpesta Naito all'inizio del sentiero) che quindi quel simpatico ragnone abbia deciso di farne la sua dimora, con la Foschia che mascherava le ragnatele come neve, e così via.
Non ho messo note sullo tsuchigumo, e sulle altre creature che sono menzionate perché il primo viene spiegato nel capitolo, mentre le altre erano solo "comparsate" che non appariranno nella storia, ma volevo comunque mettere i loro nomi perché informandomi su di loro ne sono rimasto affascinato. Ok, premessa inutile finita, scusate la rottura di scatole. Comunque, per citare la mia amica Nanamin, ancora una volta Meishu parte alla velocità della luceeeeeee

Ringrazio, ovviamente, come sempre, Nanamin, Roland, Farkas e Fenris per le loro recensioni e il loro supporto importantissimo! Grazie davvero di cuore, e alla prossima!
   
 
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