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Autore: GReina    17/09/2021    2 recensioni
[Miya, separati alla nascita au] [accenni sakuatsu, osasuna]
Atsumu non aveva bisogno di una famiglia. Questo era ciò che aveva continuato a ripetersi durante tutta la sua vita. Era forte, indipendente. Figlio unico da sempre e felice (forse) di esserlo.
Tutte le sue certezze crollano, tuttavia, quando improvvisamente vede il proprio volto indossato da un altro.
Genere: Commedia, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Osamu Miya, Rintarō Suna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Negazione

Uscire da quel cubicolo non fu semplice. La mascherina aveva aiutato, forse convincendolo che avere mezzo volto coperto l’avrebbe protetto. Riuscì ad arrivare alla propria camera, si chiuse dentro e ringraziò mille volte di non avere un compagno con cui dover dividere quello spazio. Si strappò più che togliersi di dosso la divisa sportiva, indossò in fretta la maglietta sformata che usava come pigiama e si rannicchiò sotto le lenzuola sperando che quelle potessero nasconderlo dal resto del mondo e dai propri pensieri.
Riemerse molto tempo dopo. Un’occhiata all’orologio del cellulare gli disse che erano le sette inoltrate del pomeriggio. Attese mezz’ora ancora. Le squadre di casa – e quindi tra queste l’Itachiyama – arrivavano la mattina e rincasavano la sera. Se gli orari erano gli stessi del giorno prima i pullman dovevano essere già partiti da tempo e con essi la sua copia, ma non volle rischiare.
Si fece l’ora di cena, e solo a quel punto Miya si fidò a lasciare camera propria. Attraversò il corridoio che l’avrebbe portato alla mensa con l’ansia nel cuore; in mente solo le domande che gli avrebbero rivolto i suoi compagni e la mascherina in volto come unica amica. Gli tremavano le gambe. Per ore non aveva fatto altro che ripetersi che quel ragazzo non era suo fratello, per ore non aveva fatto altro che tentare di convincersi che la sua vita non era stata una bugia. Alla fine c’era riuscito, e adesso temeva che le parole dei presenti nell’edificio avrebbero vanificato i suoi sforzi.
Fece il suo ingresso in mensa e subito seppe di aver avuto ragione. Mai nessuno, in tutta la sua vita, l’aveva guardato con tanto interesse. In cuor suo Atsumu aveva sempre sperato che lo facessero, eppure adesso si ritrovò a pregare per l’opposto. Il labbro gli tremò alla vista dei volti curiosi dei presenti che probabilmente non avevano fatto altro, quel giorno, che aspettare di aprire quella conversazione; una conversazione per cui Atsumu non era pronto.
Se il suo labbro tremante era nascosto dal tessuto, gli occhi però lo tradirono immediatamente inumidendosi e spalancandosi per la paura. Ogni sillaba morì in gola ai proprietari, però, quando Kita Shinsuke si alzò e ponendosi tra Atsumu e tutti gli altri autoritario disse:
“Vi sembra che si sia ripreso?” e bastò quello per far desistere tutti i presenti. L’alzatore sospirò più tranquillo e guardò riconoscente Kita quando questi si voltò per sorridergli incoraggiante. La riserva del secondo anno era una persona stupenda e – Atsumu lo sapeva – avrebbe potuto essere il suo amico più caro se solo entrambi non fossero stati così restii nell’avviare una conversazione. Immediatamente, capì che era a lui che doveva quel giorno di tranquillità, a partire dai diversi minuti che aveva passato indisturbato in bagno e per finire con le ore in stanza. Fu accanto a Kita che si sedette per consumare il proprio pasto. Lo sguardo basso e la spalla del più grande a mo’ di barriera capace di separarlo dal resto del mondo. Gli venne data la buonanotte con voci tirate, lui le ascoltò appena prima di ritirarsi.
Era riuscito a convincersi che non aveva un fratello che abitava a Tokyo di cui non aveva mai saputo l’esistenza. Con una grande forza di volontà, la sua mente era riuscita a proteggersi negando l’evidenza. Ma la realtà tornò chiara e crudele con la luce del sole.
Si mise in tenuta sportiva; indugiò con lo sguardo sulla mascherina, ma infine decise di non portarla.
Andava tutto bene. Gli sarebbe bastato evitarlo.
Fece una magra colazione – causa il suo stomaco chiuso – ed in coppia con Kita prese a riscaldarsi. Giocò come sempre mettendoci tutta l’anima, concentrando le proprie azioni e i propri pensieri sulla palla e su quella soltanto. Shinsuke sempre al suo fianco in un rispettoso silenzio cui solo lui sarebbe mai stato capace di mantenere. Atsumu non seppe se fu una coincidenza o un’insistenza del suo coach, tuttavia fu solo nel tardo pomeriggio che la sua squadra, infine, si ritrovò dietro la rete dell’Itachiyama. Miya fissò avido davanti a sé tentando di non mettere mai a fuoco il numero undici dalla maglia sgargiante. Deglutì più di quanto non avesse mai fatto in vita sua e allo stesso modo si morse le labbra in ansia. Giocò una partita pessima, ma nessuno lo biasimò per questo. Persero il primo set, e fu allora che non poté più evitare il confronto.
“Non parlarmi!!” urlò ad Osamu che gli si stava avvicinando senza neanche degnarsi di voltarsi ad affrontarlo. Abbassò il capo ancora un po’, poi sempre forte esclamò ancora: “Non voglio nemmeno guardarti. Sparisci!” aveva gli occhi chiusi, a quel punto, così seppe che il secondo Miya l’aveva ascoltato solo quando fu Kita a sussurrarglielo. Atsumu si guardò intorno: della testa castana identica alla sua non vi era traccia. In cambio, alcuni sguardi malevoli lo stavano guardando risentiti. L’alzatore li ignorò, tornò in campo e si impose di vincere il secondo set.
Il giorno successivo andò esattamente nello stesso modo, ma in quello ancora dopo le cose iniziarono a complicarsi. Se inizialmente tutti i ragazzi gli erano stati alla larga, con il susseguirsi delle ore sempre più persone quel quinto giorno di ritiro iniziarono a prendersi diverse libertà.
“Come fai a continuare a dire che non siete imparentati?” gli disse un ragazzo del Nekoma.
“Avete lo stesso cognome e siete nati lo stesso giorno!” uno del Nohebi.
“Siete identici in tutto.” un altro del Sarukawa. Atsumu non era stupido. Non c’era bisogno che quegli estranei gli sbattessero in faccia qualcosa di già così tremendamente ovvio. Eppure non voleva, non poteva crederci.
Il suo limite di sopportazione lo raggiunse dopo una settimana. Una sera raccolse in fretta giacca e portafogli pronto per una gita notturna non autorizzata. Era quasi alla porta quando una voce che conosceva bene attirò la sua attenzione: era Suna.
“Dove vai?” gli chiese. Atsumu indugiò. Lui e Rintaro non si potevano definire prettamente amici, eppure era quello con cui si sentiva più affine all’interno della squadra.
“Ho bisogno di spazio.”
“Sono le dieci passate, Miya! Non puoi uscire così.” l’alzatore sospirò forte, poi si passò una mano sul volto con fare stanco.
“Non ti ho mai chiesto niente, Sunarin.” gli disse senza dover fingere la propria disperazione “Adesso devi solo fingere di non avermi visto, tutto qui!” tentò di convincerlo “Ne ho bisogno.” gli fece ancora. Suna lo studiò per qualche secondo, infine annuì. Atsumu gli sorrise riconoscente, poi si lasciò il complesso sportivo alle spalle.
Non aveva una meta. Voleva solo allontanarsi. Non sarebbe stato via tanto a lungo, né avrebbe causato problemi. Se non per amor dei suoi responsabili, almeno perché non voleva che suo padre venisse contattato. Non gli aveva detto di Osamu. E perché avrebbe dovuto? Farlo avrebbe significato ammettere la realtà, e lui non era pronto. Forse, se solo Atsumu fosse stato una persona normale, chiamare il genitore sarebbe stato il suo primo pensiero; avrebbe urlato e sbraitato pretendendo risposte. La verità era che non sapeva cosa suo padre avrebbe potuto dirgli e non aveva fretta di scoprirlo.
Atsumu non aveva mai avuto bisogno di una famiglia. Si era ripetuto quella frase ancora e ancora: l’aveva fatto mentre giocava al parco lanciando la palla in solitudine contro il muro; durante le notti di tempesta, solo e impaurito nella sua stanza; durante i propri compleanni festeggiati in pochi minuti con l’unica compagnia di Chojiro; ed ancora al suo diploma delle medie, guardando i suoi compagni pieni di soggetti che li attorniavano nelle fotografie al contrario del suo tetro ed isolato sfondo.
Atsumu si era ripetuto quella frase ancora e ancora, ma Atsumu era umano, ed almeno con se stesso poteva ammettere a quale pensiero andasse il merito di averlo fatto sopravvivere: il pensiero che suo padre stesse mentendo, il pensiero che sua madre fosse stata costretta a lasciarlo, che sua madre lo stesse ancora cercando.
L’esistenza di Osamu cambiava tutto. L’esistenza di Osamu rendeva vere le parole di suo padre. L’esistenza di Osamu diceva che Atsumu non era stato voluto.
“Il colore degli occhi è diverso, ma la forma è identica!”, “Quanto sei alto? Osamu è un metro e ottantatré!”, “Dei capelli solo il ciuffo è diverso!”
No.
No.
No.
Atsumu si rifiutava di riconoscerlo. Osamu non era suo fratello. Loro non erano uguali.
Quando infine rientrò nell’edificio che ospitava la squadra, fece attenzione ed in silenzio raggiunse la propria camera. Sussultò, e non poco, quando dal letto di destra una figura accese la lampada del comodino.
“Sunarin!” esclamò l’alzatore portandosi una mano al cuore “Che cazzo ci fai qui?”
“Ho detto a Ginjima che avrei dormito in camera con te. Ora va meglio?” Atsumu lo guardò di sbieco domandandosi se quella non fosse una tattica per bere gossip direttamente dalla fonte primaria.
“Credevi che ti avrei lasciato uscire di notte da solo per poi andare a letto tranquillo?” gli chiese poi visto il suo mutismo. Miya spostò il peso da un piede all’altro.
“Non volevo farti preoccupare…”
“Ma ne avevi bisogno.” concluse il compagno per lui. L’alzatore annuì. Fu a quel punto che Suna si alzò e, raggiungendolo, chiese ancora:
“Che cos’hai qui?” gli sfilò il pacchetto che reggeva dalle mani. Atsumu era entrato in quel minimarket aperto ventiquattro ore su ventiquattro senza pensarci, ed aveva comprato quel che gli serviva ancora più automaticamente.
“È tinta per capelli?” Miya non rispose, ma la confezione – d’altronde – parlava da sola. Temeva che l’avrebbe giudicato; temeva che Rintaro avrebbe riso di lui e della sua malsana illusione che un po’ di biondo potesse cambiare le cose. Stravolse le sue aspettative, invece, e sorridendogli incoraggiante gli fece cenno verso il bagno.
“Ti aiuto a colorarli.” Atsumu si chiese se potesse definire il centrale un amico, e sorridendo – almeno per quella notte – si rispose di sì.
 
 
 
Osamu era certo che avrebbe ucciso qualcuno prima che quel campo estivo potesse finire.
Aveva un fratello gemello. Quello era un fatto con cui era venuto a patti il giorno stesso in cui si era specchiato nel volto dell’alzatore dell’Inarizaki, ma dire che per era stato facile accettarlo sarebbe stata una bugia. Le sue domande, una volta appurata la parentela, erano subito corse a sua madre: l’aveva cresciuto da sola districandosi con difficoltà tra famiglia e lavoro. Gli aveva sempre detto che suo padre era morto quando lui era piccolo e che loro due se la sarebbero cavata da soli. Osamu non aveva mai fatto domande per paura di ferirla, eppure adesso l’unica cosa che gli riusciva era quella di biasimarla. Non conosceva le circostanze nelle quali lui e suo fratello erano stati separati, ma era già più che certo che non potessero essere usate come giustificazione.
“Com’è finito Atsumu a vivere a Hyogo? Perché non siamo cresciuti insieme?” aveva preso a domandarsi subito dopo la fuga del palleggiatore verso i bagni “Come ha potuto la mamma permettere che crescesse senza genitori? Io sono davvero il suo figlio biologico o mi ha preso da un orfanotrofio lasciando lì metà di me?” tutti quei pensieri lo stavano facendo impazzire. In un battito di ciglia il suo mondo era stato capovolto, e la cosa peggiore era che nessuno sembrava capirlo. Chiacchieravano sorpresi ed eccitati, invece. D’altronde non capita tutti i giorni di assistere alla riunione di due gemelli separati alla nascita.
Li fece tacere tutti con poche parole fredde e si allontanò per cercare Atsumu, ma quando non lo trovò immediatamente capì di doverlo lasciare solo. Anche lui, d’altronde, sentiva di aver bisogno di spazio.
 
I giorni successivi trascorsero tra sguardi lanciati di sottecchi e sussurri non troppo velati. Tutti erano più che impazienti di seguire l’evolversi della loro storia, ma ben presto chi lo conosceva capì di non dover sollevare l’argomento. I suoi amici gli diedero tempo e spazio, e lui li usò per osservare Atsumu.
Ed ecco, a un tratto, che un impellente impulso omicida iniziò a impadronirsi di lui.
“Che stronzo.” gli era stato detto da una riserva della sua squadra con cui non aveva mai veramente parlato subito dopo che Miya gli aveva urlato di sparire. Osamu si voltò come una furia verso il ragazzo che l’aveva seguito nella sua ritirata e – probabilmente credendo che la sua rabbia fosse rivolta ad Atsumu – continuò: “Non prendertela! Scommetto che non gli va giù il fatto di dover dividere l’attenzione con te.” ghignò. In un angolo del proprio cervello, Osamu riuscì a rendersi conto che forse quelle parole potessero essere state dette per farlo sentire meglio, eppure avevano fatto l’esatto opposto.
Come osava, quel ragazzo, insultare Atsumu? Come osava pretendere di sapere cosa gli passasse per la testa in quel momento tanto delicato della sua vita? Nessuno lo sapeva. Nemmeno Osamu. Ma se proprio qualcuno poteva sentirsi in diritto di avanzare delle ipotesi, quello era lui e lui soltanto. Nessun’altro si era e si sarebbe mai ritrovato nella loro situazione.
“Prova anche solo a pensare di insultare di nuovo mio fratello e dovrai vedertela con me.” quelle parole, ringhiate con rabbia in un sussurro roco, fecero gelare il suo interlocutore, che deglutì e smise di seguire Osamu.
Atsumu aveva bisogno di tempo e spazio, e lui glieli avrebbe dati.
 
Osamu capì di aver fatto bene una settimana dopo quel giorno. Si era trascinato come sempre fino a scuola e da lì preso l’autobus insieme a tutta la squadra. Sebbene fosse passato molto dalla grande rivelazione, le chiacchiere ancora non si erano estinte, e – anzi – in alcuni casi erano persino cresciute. Lo schiacciatore poteva dire per certo che si trattasse di lui e suo fratello perché la gente bisbigliava e si bloccava non appena lo vedeva. Quel giorno tutti sembravano più eccitati del solito, ed Osamu ne capì la ragione non appena vide Atsumu.
Si bloccò. Non tanto per la sorpresa che aveva in testa quanto per il fatto che gli si stava avvicinando. Lui e l’Itachiyama erano appena scesi dall’autobus, tanto che ancora non avevano neanche fatto in tempo ad entrare in palestra. Atsumu indossava gli abiti sportivi, eppure era chiaro che non avesse fatto attività.
Rimasero qualche secondo in silenzio non appena l’alzatore lo raggiunse. Osamu non commentò nulla sui capelli; invece, attese che fosse l’altro a parlare, timoroso che ogni suo preventivo intervento potesse farlo scappare.
“Andiamo a sederci da qualche parte?” gli chiese, e subito Osamu annuì.
“Dove preferisci?” l’altro scrollò le spalle, ma subito dopo iniziò a fare strada.
Si sedettero uno di fianco all’altro su un muretto all’ombra, sul retro dell’edificio, e lì stettero in silenziosa contemplazione per qualche secondo. Fu Atsumu, di nuovo, a parlare per primo:
“L’hai già detto a qualcuno?” le sue parole erano state flebili, quindi Osamu fu costretto a voltarsi e a chiedere:
“Come?” Atsumu si schiarì la gola.
“Hai detto a qualcuno di me, a casa?” Osamu lo osservò per un attimo mentre il biondo continuava imperterrito a fissare dritto davanti a sé.
“No.” rispose infine, al che Atsumu si voltò a guardarlo. Lui sorrise mesto. Avrebbe tanto voluto chiedere spiegazioni a sua madre, ma se da una parte la curiosità lo spingeva a farlo, dall’altra la paura lo frenava. “Mi sembrava giusto prima parlarne con te.” gli disse con sincerità ciò che maggiormente, comunque, l’aveva bloccato. L’alzatore abbassò lo sguardo ma sorrise riconoscente.
“Tu?” chiese a quel punto il castano. Atsumu sbuffò una risata.
“Neanche una parola.” sospirarono entrambi.
Il silenzio scese ancora una volta tra di loro, ma senza essere accompagnato dall’imbarazzo. Semplicemente, entrambi i gemelli avevano bisogno di tempo, e fortunatamente per loro potevano usarne quanto ne volevano.
“Non ho mai conosciuto mia madre…” riprese a un certo punto il ragazzo di Hyogo. Si voltò verso Osamu che poté appurare quanto lucidi e terrorizzati fossero gli occhi castani del fratello. “Tu sei cresciuto con lei?” lo schiacciatore fu pervaso da un immotivato senso di colpa. Sapeva che non era lui quello da biasimare per la vita dell’altro, eppure continuava a chiedersi: “Perché io ho potuto vivere con un genitore e lui no?”
Annuì, e Atsumu sospirò tremante. Il castano deglutì ed indugiò molto, ma infine riuscì a chiedere:
“Tu, invece…?”
“Sono cresciuto con mio padre.” Osamu spalancò gli occhi.
“Padre?” pensò. Ancora una volta le proprie certezze che crollavano.
“T-ti” balbettò “ti ha… adottato?” tentò di chiedere. Atsumu sollevò il capo di scatto, ma dopo un’iniziale sorpresa rise, più isterico che divertito.
“A questo punto non ne ho idea!” anche Osamu si ritrovò a ridere. Se fossero stati in compagnia, probabilmente li avrebbero ritenuti pazzi.
“Mamma mi ha sempre detto che mio padre è morto quando io ero piccolo.”
“Papà che la mamma ci ha abbandonati.”
Di nuovo silenzio; entrambi con le stesse domande in testa:
“Qual è la verità? Perché ci hanno mentito?”
E allo stesso modo, entrambi consapevoli dell’unica soluzione possibile: chiederlo a loro.
Però no, non erano pronti. Avevano quindici anni ed avevano appena scoperto entrambi di avere un fratello. Era su quello che si sarebbero concentrati per il momento.
Parlarono per un po’. Dapprima con cautela, poi toccando tasti sempre più delicati. E fu raccontando un aneddoto vissuto insieme a sua madre, infine, che Osamu commise il primo errore. Atsumu si alzò di scatto.
“Scusa.” esclamò con voce tremula senza guardarlo in faccia. “Credevo di farcela, ma non è così.” fece per scappare via, quindi Osamu agì d’istinto e alzandosi a sua volta chiamò a gran voce:
“Tsumu!” il biondo si bloccò. Stavano entrambi respirando sonoramente, adesso, con la testa invasa da vecchi ricordi tornati a galla. Il palleggiatore si voltò.
“Come mi hai chiamato?” chiese in un sussurro, tanto che se Osamu non si fosse aspettato quella domanda probabilmente non l’avrebbe sentito. Deglutì.
Tsumu… era così che ti chiamavo… vero?” gli occhi di entrambi si fecero lucidi, poi un paio di lacrime sfuggirono al controllo di quello di Hyogo.
“Samu…” sussurrò quasi incredulo “Credevo fosse solo un amico immaginario che mi ero inventato da piccolo.” Osamu sorrise, adesso anche lui con le guance rigate. Se non altro, adesso sapevano di aver vissuto i primissimi anni di vita insieme.
Tornarono a sedersi, si presero qualche attimo per riprendersi, poi continuarono a parlare.
   
 
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